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    " EVITARE LE EMOZIONI, VIVERE LE EMOZIONI"

 

Scheda Libro

Autore: Antonino Ferro

Casa editrice: Raffaello Cortina Editore

Anno di pubblicazione: 2007

ISBN: 978-88-6030-120-8

Prezzo: 21 €

 

In occasione dell'uscita dell'ultimo libro di Antonino Ferro, riproponiamo l'intervista da lui rilasciata a Luciana Sica ed uscita su "Repubblica" del giorno 8.11.2007.

 

                Se si cancellano le emozioni
di Luciana Sica

Spesso avvertiamo un malessere diffuso, un´angoscia che non sappiamo nominare
Nella stanza d´analisi il risveglio della vita emotiva procura gioia ma anche molto dolore
 


«Non ci sono emozioni positive e negative, sono tutte musica della vita. Possono però anche essere la fonte di tanti nostri guai, se non sappiamo riconoscerle, se qualcuno non ci aiuta a farlo. Secondo me, ma anche secondo altri, oggi l´analisi si fa soprattutto per essere in grado di viverle, le emozioni. Negli anni si è passati da una analisi dei contenuti infantili, o anche delle cosiddette parti scisse, a un´analisi che si occupa principalmente della strumentazione per trasformare gli stati protoemotivi più arcaici, confusivi e disaggregati in emozioni riconoscibili, nominabili, contenibili, vivibili». A dirlo in questa intervista è Antonino Ferro, sessantenne, "didatta" della Società psicoanalitica italiana, editor per l´Europa dell´International Journal of Psychoanalysis. Il suo nuovo libro s´intitola "Evitare le emozioni, vivere le emozioni" (Cortina, pagg. 224, euro 21).
Se per Cartesio appartenevano all´"esprit des bêtes", allo spirito degli animali, è con Darwin che le emozioni si ancorano alla biologia e acquistano un significato adattativo: servono cioè a comunicare "qualcosa". Oggi sono diventate molto di più, paradossalmente in un´epoca dominata dalle tecnologie che così poco spazio consentono all´espressione dei sentimenti. Da sempre materiale incandescente, rovente lastra di fuoco che mette a dura prova il regno più ghiacciato del Logos, il Pantheon delle emozioni è ormai il luogo in cui si incrociano le menti più brillanti di saperi anche molto diversi. Sono state le neuroscienze a collocarle al centro dei meccanismi di funzionamento della mente - si chiama "Emotional Brain" il caposaldo firmato da LeDoux, ma si potrebbero almeno citare le ricerche di Kandel, Damasio, Edelman... Senza dimenticare, naturalmente, che da Freud in poi hanno rappresentato lo "specifico" del pensiero psicoanalitico e della sua clinica. Ma forse con qualche precisazione.
Dottor Ferro, che intende la psicoanalisi contemporanea per emozioni? Il linguaggio comune, come accade spesso in questi casi, non rischia di essere impreciso o addirittura fuorviante?
«Le racconto una mia esperienza personale, un aneddoto. L´anno scorso, per una conferenza, mi è capitato di dover prendere un treno da New York a Washington. Ora, negli Stati Uniti, i treni si prendono come in qualsiasi altra parte del mondo, ma per me era la prima volta e all´improvviso mi ha assalito un umore pessimo, mi sentivo terribilmente angosciato, turbato, malmostoso, non sapevo che diavolo avessi... Continuavo a chiedermi "come si prende? come si prende quel treno?". Chiamai allora una carissima amica, una collega, per provare a calmarmi. Lei mi disse quattro parole: Quel treno per Yuma... Se lo ricorderà quel film western degli anni Cinquanta dove un agricoltore si trova a scortare in Arizona un feroce bandito, in un viaggio pieno di insidie...».
C´è il remake di quel film... E allora, com´è andata?
«È andata che la semplice citazione di quel film annidato nei ricordi d´infanzia è stata sufficiente a trasformare in un´immagine quella mia terribile ansia, a condensare quello stato d´animo confuso, quello stato emotivo persecutorio che rimandava a quanto sarebbe accaduto di lì a poco, di come sarebbe andato il mio lavoro, riconoscendone la radice per l´appunto infantile. Allora il malumore si è come sgonfiato, e quel trenino me lo sono davvero goduto, è stato uno dei più bei viaggi che abbia mai fatto».
Torniamo alla domanda iniziale?
«Sì, voglio dire questo: l´aspetto più specifico dell´emozione in psicoanalisi è la necessità che venga raccolta e descritta da qualcun altro, da un´altra mente. Fino a quando non impariamo a farlo da soli, se l´onda emotiva è troppo intensa e non sufficientemente elaborata, direi raffinata, c´è bisogno di un "altro" che riesca a cogliere questo stato diffuso di malessere, il suo carattere essenzialmente persecutorio, e a trasformarlo in un´immagine affettiva, dotata di senso. A quel punto è possibile provare il piacere di vivere quella determinata emozione».
Se uno dice "mi sento terribilmente triste", sta esprimendo un suo stato d´animo. Ma la dinamica dell´emozione non tende a sfuggire alla coscienza?
«È così, molto spesso. Mettiamo che uno dica "la gelosia mi rende rabbioso": ha già fatto da solo un processo di alfabetizzazione dell´emozione, è capace di descriverla e di darle un nome, e può tentare quindi di modificarla. Ma più spesso a noi manca il sillabario emotivo, avvertiamo un malessere diffuso, un´angoscia che non siamo in grado di nominare, soffriamo di una forma di dislessia rispetto all´emozione, non riusciamo a compiere quel passo importante che è appunto nominarla. In quel caso siamo in preda di stati protoemotivi indifferenziati con il rischio di fare ricorso a meccanismi evacuativi molto arcaici».
Qui c´è bisogno di usare un altro lessico. Di che sta parlando, fuori dello slang psicoanalitico?
«Immaginiamo che le protoemozioni siano delle punte di spillo, o anche dei pezzi di gnomi terrificanti che si agitano dentro di noi. Posso trasformare questi stati confusi della mente in emozioni, chiamarli magari paura, collera, delusione. Oppure posso evacuare quelle punte di spillo nel tubo del gas e allora passerò la notte a controllare se ho spento il rubinetto del gas oppure no, con una modalità vistosamente ossessiva. O posso anche evacuare quegli orribili gnomi in un animale e allora insorgerà una fobia di quel determinato animale o magari in una parte del mio corpo, e allora diventerò ipocondriaco. Ma qui siamo ancora nel campo delle nevrosi, di difese anche riuscite che ci consentono di vivere».
Può succedere di peggio?
«Certo, perché quando invece evacuo le mie protoemozioni su un altro, quell´altro diventerà mio nemico. E se faccio la stessa operazione su tutti gli altri, mi sentirò minacciato da chiunque, entrerò in un classico stato di paranoia. Sono le evacuazioni massicce a trasformare una persona apparentemente controllata in un protagonista di cronaca nera, a fornire una chiave di lettura ai deliri di ogni epoca».
La nostra epoca incoraggia a esprimere le emozioni?
«Tutt´altro. Non incoraggia né a metabolizzarle né tanto meno a esprimerle, perdendosi sempre più l´importanza della relazione, decisiva per la vitalità delle emozioni».
Che idea si fa, nella stanza d´analisi, quando le capita un paziente che sembra ricoperto da uno strato di ghiaccio?
«Penso che solo letargizzando le sue emozioni sia riuscito a sopravvivere ad esperienze, spesso anche tragiche. Ed è affascinante assistere al "risveglio" della vita emotiva, un momento di estrema gioia ma anche molto doloroso. Ricordo il caso di una mia paziente, una giovane donna che per la prima volta sentiva sciogliere quel ghiaccio. Piangeva e rideva. Tra le lacrime e il riso che la illuminava: "piove con il sole" mi diceva».

 

 
 
 
 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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