«Non ci sono emozioni positive e negative, sono tutte musica della
vita. Possono però anche essere la fonte di tanti nostri guai, se non
sappiamo riconoscerle, se qualcuno non ci aiuta a farlo. Secondo me,
ma anche secondo altri, oggi l´analisi si fa soprattutto per essere in
grado di viverle, le emozioni. Negli anni si è passati da una analisi
dei contenuti infantili, o anche delle cosiddette parti scisse, a
un´analisi che si occupa principalmente della strumentazione per
trasformare gli stati protoemotivi più arcaici, confusivi e
disaggregati in emozioni riconoscibili, nominabili, contenibili,
vivibili». A dirlo in questa intervista è Antonino Ferro, sessantenne,
"didatta" della Società psicoanalitica italiana, editor per l´Europa
dell´International Journal of Psychoanalysis. Il suo nuovo libro
s´intitola "Evitare le emozioni, vivere le emozioni" (Cortina, pagg.
224, euro 21).
Se per Cartesio appartenevano all´"esprit des bêtes", allo spirito
degli animali, è con Darwin che le emozioni si ancorano alla biologia
e acquistano un significato adattativo: servono cioè a comunicare
"qualcosa". Oggi sono diventate molto di più, paradossalmente in
un´epoca dominata dalle tecnologie che così poco spazio consentono
all´espressione dei sentimenti. Da sempre materiale incandescente,
rovente lastra di fuoco che mette a dura prova il regno più ghiacciato
del Logos, il Pantheon delle emozioni è ormai il luogo in cui si
incrociano le menti più brillanti di saperi anche molto diversi. Sono
state le neuroscienze a collocarle al centro dei meccanismi di
funzionamento della mente - si chiama "Emotional Brain" il caposaldo
firmato da LeDoux, ma si potrebbero almeno citare le ricerche di
Kandel, Damasio, Edelman... Senza dimenticare, naturalmente, che da
Freud in poi hanno rappresentato lo "specifico" del pensiero
psicoanalitico e della sua clinica. Ma forse con qualche precisazione.
Dottor Ferro, che intende la psicoanalisi contemporanea per emozioni?
Il linguaggio comune, come accade spesso in questi casi, non rischia
di essere impreciso o addirittura fuorviante?
«Le racconto una mia esperienza personale, un aneddoto. L´anno scorso,
per una conferenza, mi è capitato di dover prendere un treno da New
York a Washington. Ora, negli Stati Uniti, i treni si prendono come in
qualsiasi altra parte del mondo, ma per me era la prima volta e
all´improvviso mi ha assalito un umore pessimo, mi sentivo
terribilmente angosciato, turbato, malmostoso, non sapevo che diavolo
avessi... Continuavo a chiedermi "come si prende? come si prende quel
treno?". Chiamai allora una carissima amica, una collega, per provare
a calmarmi. Lei mi disse quattro parole: Quel treno per Yuma... Se lo
ricorderà quel film western degli anni Cinquanta dove un agricoltore
si trova a scortare in Arizona un feroce bandito, in un viaggio pieno
di insidie...».
C´è il remake di quel film... E allora, com´è andata?
«È andata che la semplice citazione di quel film annidato nei ricordi
d´infanzia è stata sufficiente a trasformare in un´immagine quella mia
terribile ansia, a condensare quello stato d´animo confuso, quello
stato emotivo persecutorio che rimandava a quanto sarebbe accaduto di
lì a poco, di come sarebbe andato il mio lavoro, riconoscendone la
radice per l´appunto infantile. Allora il malumore si è come
sgonfiato, e quel trenino me lo sono davvero goduto, è stato uno dei
più bei viaggi che abbia mai fatto».
Torniamo alla domanda iniziale?
«Sì, voglio dire questo: l´aspetto più specifico dell´emozione in
psicoanalisi è la necessità che venga raccolta e descritta da qualcun
altro, da un´altra mente. Fino a quando non impariamo a farlo da soli,
se l´onda emotiva è troppo intensa e non sufficientemente elaborata,
direi raffinata, c´è bisogno di un "altro" che riesca a cogliere
questo stato diffuso di malessere, il suo carattere essenzialmente
persecutorio, e a trasformarlo in un´immagine affettiva, dotata di
senso. A quel punto è possibile provare il piacere di vivere quella
determinata emozione».
Se uno dice "mi sento terribilmente triste", sta esprimendo un suo
stato d´animo. Ma la dinamica dell´emozione non tende a sfuggire alla
coscienza?
«È così, molto spesso. Mettiamo che uno dica "la gelosia mi rende
rabbioso": ha già fatto da solo un processo di alfabetizzazione
dell´emozione, è capace di descriverla e di darle un nome, e può
tentare quindi di modificarla. Ma più spesso a noi manca il sillabario
emotivo, avvertiamo un malessere diffuso, un´angoscia che non siamo in
grado di nominare, soffriamo di una forma di dislessia rispetto
all´emozione, non riusciamo a compiere quel passo importante che è
appunto nominarla. In quel caso siamo in preda di stati protoemotivi
indifferenziati con il rischio di fare ricorso a meccanismi evacuativi
molto arcaici».
Qui c´è bisogno di usare un altro lessico. Di che sta parlando, fuori
dello slang psicoanalitico?
«Immaginiamo che le protoemozioni siano delle punte di spillo, o anche
dei pezzi di gnomi terrificanti che si agitano dentro di noi. Posso
trasformare questi stati confusi della mente in emozioni, chiamarli
magari paura, collera, delusione. Oppure posso evacuare quelle punte
di spillo nel tubo del gas e allora passerò la notte a controllare se
ho spento il rubinetto del gas oppure no, con una modalità
vistosamente ossessiva. O posso anche evacuare quegli orribili gnomi
in un animale e allora insorgerà una fobia di quel determinato animale
o magari in una parte del mio corpo, e allora diventerò ipocondriaco.
Ma qui siamo ancora nel campo delle nevrosi, di difese anche riuscite
che ci consentono di vivere».
Può succedere di peggio?
«Certo, perché quando invece evacuo le mie protoemozioni su un altro,
quell´altro diventerà mio nemico. E se faccio la stessa operazione su
tutti gli altri, mi sentirò minacciato da chiunque, entrerò in un
classico stato di paranoia. Sono le evacuazioni massicce a trasformare
una persona apparentemente controllata in un protagonista di cronaca
nera, a fornire una chiave di lettura ai deliri di ogni epoca».
La nostra epoca incoraggia a esprimere le emozioni?
«Tutt´altro. Non incoraggia né a metabolizzarle né tanto meno a
esprimerle, perdendosi sempre più l´importanza della relazione,
decisiva per la vitalità delle emozioni».
Che idea si fa, nella stanza d´analisi, quando le capita un paziente
che sembra ricoperto da uno strato di ghiaccio?
«Penso che solo letargizzando le sue emozioni sia riuscito a
sopravvivere ad esperienze, spesso anche tragiche. Ed è affascinante
assistere al "risveglio" della vita emotiva, un momento di estrema
gioia ma anche molto doloroso. Ricordo il caso di una mia paziente,
una giovane donna che per la prima volta sentiva sciogliere quel
ghiaccio. Piangeva e rideva. Tra le lacrime e il riso che la
illuminava: "piove con il sole" mi diceva».
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