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 Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte  

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  "UN ARSENALE DI MEMORIA"

 

 

 

  Un percorso attraverso le "memorie" ed i suoi traumi collettivi all'interno della Biennale Arte di Venezia 2007 ed alcune mostre concomitanti.

 

di Giuseppe Leo

 

       Venezia è città che già di per sé custodisce secoli di memorie, collettive ed individuali, nei suoi archivi, nei suoi monumenti, nella parola vissuta dei suoi (sempre più scarsi) abitanti. L'edizione 2007 della Biennale Arte  mi è sembrata offrire, tra i suoi percorsi di lettura più affascinanti, quello  dell'arte come testimonianza di memorie storiche, individuali e collettive, in rapporto alla temporalità connessa alla creazione artistica. Persino la scelta di organizzare mostre concomitanti, come ad esempio "ARTEMPO. Where Time Becomes Art" (a Palazzo Fortuny), sembra aver mirato a facilitare un dialogo attorno al ricordare nella sua duplice dimensione psicologica (memoria come costruzione dell'identità individuale) e storica (relativa all'identità collettiva). In particolare, la mostra a Palazzo Fortuny sembra stimolare nello spettatore spunti di riflessione sulla temporalità e la sua costruzione a partire dai caratteri del manufatto artistico e della sua contestualizzazione, temporalità che fornisce un fondamento per la lettura dell'opera d'arte come testimonianza del percorso dell'artista attraverso le proprie memorie, nella duplice dimensione del simbolo individuale e del collettivo. Pertanto, nel presente scritto, prenderò spunto soprattutto da opere e da suggestioni tratte dalla mostra "Artempo" per esplorare la temporalità nel suo rapporto con la creazione artistica, mentre mi riferirò soprattutto a ciò che ho visto nei percorsi della Biennale Arte (ed in particolar modo all'Arsenale) per organizzare un discorso sull'arte come testimonianza di una temporalità collettiva, in cui l'artista diventa interprete di memorie inscritte nella storia della società a cui appartiene.

 "Artempo" propone una sfida illusionistica allo spettatore: proporre opere d'arte contemporanea che dialogano col contesto degli ambienti e delle collezioni originarie del palazzo. <<Il tempo impiegato nella creazione delle opere della mostra Artetempo>> scrive nel catalogo Jean-Hubert Martin <<è di vari tipi: alcune opere appartengono infatti alla modernità, altre provengono da epoche o culture diverse>>. E Axel Vervoordt (il proprietario di molte opere d'arte in esposizione) afferma che <<Artempo parla dell'intemporale: l'assenza del tempo, la sensazione del vuoto e il vuoto come fonte di ogni cosa, l'opera d'arte che appartiene a tutti i tempi>>. Quindi interrogarsi sul tempo della vita e della creazione artistica diventa un passaggio ineludibile per l'artista alla ricerca di una personale identità umana.

   

     Heinz -Norbert Jocks nel suo saggio "In riva al tempo. Saggio sulla nostra idea di temporalità" (incluso  nel catalogo della mostra ) esordisce con la constatazione che il tempo <<non possiede la solidità di un albero. E non ha alcunché di materiale. Né scorre in silenzio come un fiume. Eppure ci serviamo spesso di questa immagine per illustrare il concetto di tempo.                            

vai alla video-installazione di Kimsooja "A Laundry Woman - Yamuna River, India" (2000)

Ogni volta che ci chiediamo cosa sia a mettere in moto il tempo, ci stiamo in realtà domandando perché esso sia invisibile, perché sia immateriale e perché eserciti un influsso così duraturo sulle cose. Cos'è il tempo?>> E se il tempo, il suo passaggio è riconoscibile a posteriori, dall'impronta che lascia sulle cose, <<difficile è il pieno dispiegarsi dell'essere nell'adesso>> scrive Jocks, citando anche il concetto di Ernst Bloch di "oscurità dell'attimo vissuto".


Ma nella esperienza della creazione artistica, il tempo è un grande scultore. <<La sua forza creatrice entra in azione solo dopo che si è conclusa l'opera dell'uomo>> scrive Jocks. <<Sbaglieremmo di grosso a credere di poter avere il pieno controllo sugli oggetti che foggiamo>>. Il tempo che viene inaugurato a partire dall'istante in cui l'ultima pennellata conclude il quadro, o in cui l'ultimo tocco dello scultore completa la statua, è il tempo che plasma l'opera d'arte. Di ciò che l'uomo ha creato non rimangono che tracce, che sono destinate a svanire. <<Tracce che altro non esprimono se non la presenza di un'assenza>> conclude Jocks.

E' possibile opporsi al sentimento di disfacimento, di distruzione che il tempo esercita sulle opere dell'uomo con un senso di resa 'depressiva' che sconfina nel terrore per il fluire del tempo, per l'imprevedibile e per l'ignoto, costruendo i propri giorni sul modello della 'routine' e della sclerotizzazione del ricordo, della nostalgia per il passato.

Il sentimento della 'vanitas' che sembra aver ritrovato spazio nell'arte contemporanea, spesso solo come citazione di atteggiamenti culturali tipici dell'uomo del XVI-XVII secolo, riflette questo ripiegamento dell'artista su un'estetica del già sentito, del già vissuto in altri tempi, del ritorno alla citazione. E' un senso di manieristica uniformità del tempo che pervade la creazione artistica che, anzichè farsi ansiosa proiezione verso l'ineffabile e l'imponderabile del futuro, diventa riesumazione di 'topoi' dal passato.

Nato e cresciuto in Corea, Hyungkoo Lee sperimentò 'il complesso del maschio asiatico sottodimensionato' quando studiò negli Stati Uniti. Come asiatico, avendo interiorizzato la nozione di superiorità del maschio, era destinato a sentirsi frustrato quando venne a trovarsi faccia a faccia con la sua controparte caucasica 'più grande ed alta'. Lee cominciò a creare la serie The Objectuals a partire dal 1999 utilizzando materiali umili come bottigliette di plastica piene d'acqua (...) per ingrandire visivamente parti del suo corpo. Specialmente Helmets, una serie in corso, combina il suo interesse per la fisiognomica con strumenti ottici per esagerare e distorcere i tratti del viso. Questi oggetti, che si possono chiamare 'dispositivi di auto-soddisfacimento', funzionano come strumenti pseudo-medicali per la chirurgia plastica così come per la terapia psicologica del 'complesso' dell'artista. Hyungkoo Lee estende i suoi interessi ai corpi fittizi di personaggi dei cartoni animati, inventando i loro scheletri fossili in un modo quasi archeologico. 'Esplorando ipotetiche possibilità anatomiche senza un'evidenza esistenziale', Lee trasforma il fittizio in storia attraverso i suoi studi e le sue immaginazioni anatomiche. Ne risulta la "Animatus series", attribuita alla tradizione della Pop Art, che può essere considerata come l'epitome della simulazione nel fornire plausibili riferimenti fisici e nomenclature zoologiche a personaggi inventati. I familiari cartoni hollywoodiani (come ad es., Tom e Jerry), presi in un momento critico, creano scene drammatiche sotto forma di scheletri fossili paleontologici.

(testo tratto dal comunicato stampa di presentazione)

Foto: Hyungkoo Lee, "Animatus series", Korean Pavilion, Giardini della Biennale Arte 2007.  

 

 

 

E' possibile però che lo stesso 'topos', quello della 'vanitas', venga rielaborato dall'artista in tutt'altro senso. Ad es. in "Shitting Philosopher" (2007) di Angelo Filomeno (esposto all'Arsenale)


oppure nella serie "Happy Together" di Jan Christian Braun, le raffigurazioni simboliche della caducità assumono un tono beffardo o ironico.

 

Jan Christian Braun nella sua serie "Happy together" espone all'Arsenale le foto di 'decorazioni' tombali statunitensi installate in occasione di anniversari dei cari estinti.

  Anche l'iteratività con cui i partecipanti all'installazione di Yang Zhenzhong "I will die" (2000-2005), esposta all'Arsenale, recitano in varie lingue la frase <<Io morirò>> sembra riferirsi ad una dimensione appiattita della temporalità, in cui l'arte sembra trovare dei "presta voce" per affermare la 'vanitas', il sentimento dell'assoluta finitezza della vita umana.

 clicca qui per visualizzare il videoclip di "I will die" di Yang Zhenzhong

La 'vanitas', simboleggiata dal teschio, è presente nella installazione di Isa Genzken "Oil"(al padiglione tedesco ai Giardini). L'opera ci propone un tempo privato, fatto di memorie individuali, racchiuse in uno spazio privato che assomiglia ad una stanza caoticamente arredata in cui valige accatastate, cappi appesi al soffitto con astronauti lievitanti a mezz'aria, si mescolano a statuette da premio Oscar ed a maschere che alludono alla cultura veneziana. Ma la dimensione sociale e collettiva dell'opera non è poi così inaccessibile: "Oil" sta a significare 'petrolio', quella materia prima che è al centro di tutti i conflitti di potere del mondo attuale, che condiziona pesantemente il clima, le economie, in breve il destino prossimo del nostro pianeta.

 

Così Eva Karcher descrive l'installazione della Genzken: <<"Oil", the word, floats in the high studio space (...) , but also as a life-size astronaut doll, which wears a white NASA spacesuit and has a black, faceless skull. The American flag is stuck as a logo on its shoulder; on its back is an oxygen tank. Right next to the surreal angel of progress, a silver death skull rests on a narrow column. Bulgy blue bloodshot eyes penetratingly gaze like daggers from under a richly embroidered, pearl encrusted golden brocade mask>>.

Ma il desiderio dell'artista di annullare il ruolo del tempo come scultore-distruttore dell'opera d'arte può assumere caratteri più intimamente connessi alla  corporeità. Come nelle opere di Irena Juzova (al Padiglione Ceco nei Giardini) che hanno per oggetto il calco del corpo dell'artista.

Irena Juzova mette il proprio corpo in mostra, non come qualcosa di attraente sessualmente, ma come un prodotto industriale. Nella sua resa, il corpo è privato di qualsiasi senso estetico o di qualsiasi motivazione psicologica. La perdita di ogni connotazione tradizionale del corpo come soggetto di relazioni sessuali e sociali viene bilanciata dallo sforzo dell'artista di connettere (e di confrontare) il momento dell'esposizione del proprio corpo con la rappresentazione visiva del potere-funzione del nudo, che tende a manipolare gli esseri umani proprio come manipola le opere d'arte. Questo sforzo di auto-presentazione è un tentativo di spogliare il corpo di certi motivi che sono stati facilmente usurpati dalla comunicazione di massa e dalle forze del mercato a favore di emozioni e di istinti per mezzo dei quali questa forma di potere ottiene la sua vittoria sull'arte. In questo senso la presentazione dell'impronta del corpo di qualcuno nel contesto di una boutique di lusso, fatta di arredamenti prefabbricati di carta, è un atto di distacco, di ricerca come anche di critica.

 

(testo tratto dalla presentazione dell'opera da parte di Tomas Vlcek)

   

 

 

Ma il richiamo ad una temporalità che, anziché chiudersi nella fissazione della forma una volta per tutte oppure nella fissità dei suoi antecedenti simbolici, si apra al futuro non può che lasciar spazio al tema della speranza, che trova nell'installazione di Julia Milner (al Padiglione Russo ai Giardini) il suo fulcro tematico. "Click I Hope" è la creazione di un gioco basato sul comportamento di partecipanti cibernetici, una forma di 'net art' basata sulle tecnologie del 'Web 2.0. L'installazione di Milner consta di un display LED posizionato sulla facciata del padiglione russo , di una connessione e di un indirizzo internet ( www.clickhope.com ) e di uno schermo tipo 'touch screen', toccando il quale qualsiasi visitatore della Biennale può partecipare al 'gioco'. 

clicca qui per il videoclip di "Click I Hope" di Julia Milner

Al polo opposto della temporalità appiattita e paralizzata troviamo l'assoluta assenza di strutturazione dell'esperienza del tempo, la sua caoticità che può intaccare complessivamente l'organizzazione spazio-temporale della vita. "Atopia" ed "acronia" diventano inscindibili. A questa condizione sembrano alludere le installazioni di Shih Chieh Huang accolte in "Atopia" al Padiglione di Taiwan (Palazzo delle Prigioni, San Marco).

clicca qui per visualizzare il videoclip di "RTI-#2" di Shih Chieh Huang (compreso in "Atopia", al Padiglione di Taiwan)

La temporalità vissuta nelle vicissitudini del corpo come base per lo strutturarsi  della memoria autobiografica e dell'identità individuale: sembra questo il centro delle opere esposte di Valie Export, artista austriaca nata nel 1940. La corporeità è fatta di vocalità (al centro della sua opera "Glottis"[2007], un'istallazione realizzata per mezzo di un laringoscopio) e di sensorialità (al centro di "Remote, remote... Passagen"[1973-2007]). Così scrive la Export:

<<The glottis, the vocal cords, are symbols of the voice

they divide two phenomena

the voice inside, the breath

and the voice outside

the phenomenon of vocalization

of speech formation.

The echo of the hidden vocal cords

speaks through the visible lips of the mouth

Turbulences of breath

formulate the expulsion of air

that opens the glottis tears it apart

bursts throughout it

TURBULENCES that cut into the vocal cords

that score the banks of the vocal orifice.>>

 

vai al videoclip di "Glottis" (2007) di Valie Export vai al videoclip di "Remote, remote....passagen"(1973-2007) di Valie Export 
   

La temporalità sembra venir rappresentata in modi affatto diversi ed individuali a seconda degli artisti: diventa icona che spazializza un certo periodo della propria vita (come in "Diarios"[1994-2005] di Guillermo Kuitca), trama di fili sottili e preziosi attraverso cui arricchire il tessuto della propria storia individuale (come in "Dusas I"[2007] di El Anatsui), oppure sistema autoreferenziale che si chiude all'esterno in forma di un cerchio difeso da    filo spinato (come in "Wall Drawing"[2006] di Adel Abdessemed).

vai al videoclip di "Diarios" (1994-2005) di Guillermo Kuitca (nato a Buenos Aires nel 1961)  vai al videoclip del percorso espositivo da "Dusas I"(200/) di El Anatsui (nato in Ghana nel 1944) a "Wall Drawing"(2006) di Adel Abdessemed (nato in Aleria nel 1971)
   

 

E veniamo ora alle opere che riflettono i temi della memoria collettiva e dei suoi traumi.

Leon Ferrari, in "Huesos" (2006) ed in "Hongo Nuclear" (2007) (entrambe le opere all'Arsenale), sembra tradurre in forme plastiche figurazioni simboliche di 'incubi' collettivi del XX e XXI secolo. Il fungo atomico di Hiroshima, ma anche un ossario che forma una piramide alludono alla distruttività ed al disagio delle civiltà, mentre il Cristo crocifisso ad un aereo da guerra in picchiata sembra appartenere alla sua vena satirica nei confronti dell'uso che i regimi fanno del sentimento religioso.

 
 

Leon Ferrari (nato in Argentina nel 1920): "Huesos" (2006) e "Hongo Nuclear" (2007)

 

Tomer Ganihar (nato a Tel Aviv nel 1970) nelle sue foto della serie "Hospital Party" (2006)(all'Arsenale) sembra voler suscitare nello spettatore un senso di disorientamento: le sue foto di esercitazioni militari ci rimandano il dramma collettivo del conflitto israelo-palestinese, ma ci lasciano anche un senso di ambiguità circa il limite tra fiction e realtà storica. Quel soldato seduto sulla lettiga ha alle spalle un manichino oppure un bambino vero? E le lacrime del soldato ("The Tear" è il titolo di questa foto) sono 'vere', ossia frutto di un'emozione, o 'fittizie'?

 
 

Tomer Ganihar (n. a Tel Aviv nel 1970): "The Tear" (2006), dalla serie "Hospital Party".

 

L'esilio e le guerre: nel percorso dell'Arsenale si fanno pregnanti  le associazioni tra questi due temi della storia recente dell'umanità. E così l'opera di Adel Abdessemed (nato in Algeria nel 1971) "Exil" (1996-2007) viene a puntellare l'iter espositivo in snodi significativi, come quando essa precede l'opera di Emily Prince (nata negli USA nel 1981) "American Servicemen and Women who have died in Iraq and Afghanistan" (2004-2007). Un'immensa parete è costellata delle foto dei caduti nelle due guerre ed un catalogo di loro ritratti, corredati di scarni cenni biografici, forma un impressionante archivio della memoria.

 
vai al videoclip del percorso della mostra da "Exil" di Adel Abdessemed a "American Servicemen and Women who have died in Iraq and Afghanistan" di Emily Prince   
 

E come non stabilire altre connessioni, altre associazioni tra il culto laico della memoria delle guerre balcaniche (a cui fanno riferimento le opere di Paolo Canevari "Bouncing Skull" [2007] e di Zoran Naskovski "War Frames"[1999-2000]) e quello di chi è sopravvissuto alle persecuzioni delle dittature sud-americane (a cui si riferisce José Alejandro Restrepo in "Video Veronica"[2000-2003])?

 

Zoran Naskovski (nato in Serbia nel 1960), "War Frames" (1999-2000).

clicca qui per il videoclip dell'opera di Paolo Canevari "Bouncing Skull" (2007)  clicca qui per il videoclip di "Video Veronica" (2000-2003) di José Alejandro Restrepo (nato in Colombia nel 1959) 

Allora, per concludere, ancora un'immagine ed un suono da portare a casa tra le percezioni  incontrate a Venezia in queste settimane.

L'immagine, che ci avvicina al sentimento del tempo come divenire del corpo e dell'identità, è quella dell'installazione di Anish Kapoor (nella mostra "Artetempo") "At the Edge of the World" (1998) in cui uno specchio , a seconda del percorso (il tempo) che fa lo spettatore, rimanda un'immagine riflessa che da realistica si distorce e viceversa. <<L'idea >> come scrive l'artista <<è quella di creare un oggetto che non è un oggetto, creare  un buco nello spazio, qualcosa che in pratica non esiste. La straordinaria apparizione, amata e temuta, di un pezzo di vuoto - finito e infinito al tempo stesso - riattiva ancor di più il contatto simbolico tra dentro e fuori, terra e cielo, maschile e femminile, attivo e passivo, concettuale e fisico, rianimando così il processo di conoscenza>>.

Il suono è quello di "Horloge parlante" (2005) di Christian Boltanski: una voce robottizzata, disumanizzata, che scandisce l'inelluttabilità del passaggio del tempo.

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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