FRENIS zero | ||||||||||||||||||||||||||||
Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte | ||||||||||||||||||||||||||||
Venezia è città che già di per sé custodisce secoli di memorie, collettive ed individuali, nei suoi archivi, nei suoi monumenti, nella parola vissuta dei suoi (sempre più scarsi) abitanti. L'edizione 2007 della Biennale Arte mi è sembrata offrire, tra i suoi percorsi di lettura più affascinanti, quello dell'arte come testimonianza di memorie storiche, individuali e collettive, in rapporto alla temporalità connessa alla creazione artistica. Persino la scelta di organizzare mostre concomitanti, come ad esempio "ARTEMPO. Where Time Becomes Art" (a Palazzo Fortuny), sembra aver mirato a facilitare un dialogo attorno al ricordare nella sua duplice dimensione psicologica (memoria come costruzione dell'identità individuale) e storica (relativa all'identità collettiva). In particolare, la mostra a Palazzo Fortuny sembra stimolare nello spettatore spunti di riflessione sulla temporalità e la sua costruzione a partire dai caratteri del manufatto artistico e della sua contestualizzazione, temporalità che fornisce un fondamento per la lettura dell'opera d'arte come testimonianza del percorso dell'artista attraverso le proprie memorie, nella duplice dimensione del simbolo individuale e del collettivo. Pertanto, nel presente scritto, prenderò spunto soprattutto da opere e da suggestioni tratte dalla mostra "Artempo" per esplorare la temporalità nel suo rapporto con la creazione artistica, mentre mi riferirò soprattutto a ciò che ho visto nei percorsi della Biennale Arte (ed in particolar modo all'Arsenale) per organizzare un discorso sull'arte come testimonianza di una temporalità collettiva, in cui l'artista diventa interprete di memorie inscritte nella storia della società a cui appartiene. "Artempo" propone una sfida illusionistica allo spettatore: proporre opere d'arte contemporanea che dialogano col contesto degli ambienti e delle collezioni originarie del palazzo. <<Il tempo impiegato nella creazione delle opere della mostra Artetempo>> scrive nel catalogo Jean-Hubert Martin <<è di vari tipi: alcune opere appartengono infatti alla modernità, altre provengono da epoche o culture diverse>>. E Axel Vervoordt (il proprietario di molte opere d'arte in esposizione) afferma che <<Artempo parla dell'intemporale: l'assenza del tempo, la sensazione del vuoto e il vuoto come fonte di ogni cosa, l'opera d'arte che appartiene a tutti i tempi>>. Quindi interrogarsi sul tempo della vita e della creazione artistica diventa un passaggio ineludibile per l'artista alla ricerca di una personale identità umana.
Heinz -Norbert Jocks nel suo saggio "In riva al tempo. Saggio sulla nostra idea di temporalità" (incluso nel catalogo della mostra ) esordisce con la constatazione che il tempo <<non possiede la solidità di un albero. E non ha alcunché di materiale. Né scorre in silenzio come un fiume. Eppure ci serviamo spesso di questa immagine per illustrare il concetto di tempo. vai alla video-installazione di Kimsooja "A Laundry Woman - Yamuna River, India" (2000) Ogni volta che ci chiediamo cosa sia a mettere in moto il tempo, ci stiamo in realtà domandando perché esso sia invisibile, perché sia immateriale e perché eserciti un influsso così duraturo sulle cose. Cos'è il tempo?>> E se il tempo, il suo passaggio è riconoscibile a posteriori, dall'impronta che lascia sulle cose, <<difficile è il pieno dispiegarsi dell'essere nell'adesso>> scrive Jocks, citando anche il concetto di Ernst Bloch di "oscurità dell'attimo vissuto".
E' possibile opporsi al sentimento di disfacimento, di distruzione che il tempo esercita sulle opere dell'uomo con un senso di resa 'depressiva' che sconfina nel terrore per il fluire del tempo, per l'imprevedibile e per l'ignoto, costruendo i propri giorni sul modello della 'routine' e della sclerotizzazione del ricordo, della nostalgia per il passato. Il sentimento della 'vanitas' che sembra aver ritrovato spazio nell'arte contemporanea, spesso solo come citazione di atteggiamenti culturali tipici dell'uomo del XVI-XVII secolo, riflette questo ripiegamento dell'artista su un'estetica del già sentito, del già vissuto in altri tempi, del ritorno alla citazione. E' un senso di manieristica uniformità del tempo che pervade la creazione artistica che, anzichè farsi ansiosa proiezione verso l'ineffabile e l'imponderabile del futuro, diventa riesumazione di 'topoi' dal passato.
E' possibile però che lo stesso 'topos', quello della 'vanitas', venga rielaborato dall'artista in tutt'altro senso. Ad es. in "Shitting Philosopher" (2007) di Angelo Filomeno (esposto all'Arsenale)
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Anche l'iteratività
con cui i partecipanti all'installazione di Yang Zhenzhong "I will die"
(2000-2005), esposta all'Arsenale, recitano in varie lingue la frase <<Io
morirò>> sembra riferirsi ad una dimensione appiattita della temporalità, in
cui l'arte sembra trovare dei "presta voce" per affermare la 'vanitas',
il sentimento dell'assoluta
finitezza della vita umana. clicca qui per visualizzare il videoclip di "I will die" di Yang Zhenzhong La 'vanitas', simboleggiata dal teschio, è presente nella installazione di Isa Genzken "Oil"(al padiglione tedesco ai Giardini). L'opera ci propone un tempo privato, fatto di memorie individuali, racchiuse in uno spazio privato che assomiglia ad una stanza caoticamente arredata in cui valige accatastate, cappi appesi al soffitto con astronauti lievitanti a mezz'aria, si mescolano a statuette da premio Oscar ed a maschere che alludono alla cultura veneziana. Ma la dimensione sociale e collettiva dell'opera non è poi così inaccessibile: "Oil" sta a significare 'petrolio', quella materia prima che è al centro di tutti i conflitti di potere del mondo attuale, che condiziona pesantemente il clima, le economie, in breve il destino prossimo del nostro pianeta.
Così Eva Karcher descrive l'installazione della Genzken: <<"Oil", the word, floats in the high studio space (...) , but also as a life-size astronaut doll, which wears a white NASA spacesuit and has a black, faceless skull. The American flag is stuck as a logo on its shoulder; on its back is an oxygen tank. Right next to the surreal angel of progress, a silver death skull rests on a narrow column. Bulgy blue bloodshot eyes penetratingly gaze like daggers from under a richly embroidered, pearl encrusted golden brocade mask>>. Ma il desiderio dell'artista di annullare il ruolo del tempo come scultore-distruttore dell'opera d'arte può assumere caratteri più intimamente connessi alla corporeità. Come nelle opere di Irena Juzova (al Padiglione Ceco nei Giardini) che hanno per oggetto il calco del corpo dell'artista.
Ma il richiamo ad una temporalità che, anziché chiudersi nella fissazione della forma una volta per tutte oppure nella fissità dei suoi antecedenti simbolici, si apra al futuro non può che lasciar spazio al tema della speranza, che trova nell'installazione di Julia Milner (al Padiglione Russo ai Giardini) il suo fulcro tematico. "Click I Hope" è la creazione di un gioco basato sul comportamento di partecipanti cibernetici, una forma di 'net art' basata sulle tecnologie del 'Web 2.0. L'installazione di Milner consta di un display LED posizionato sulla facciata del padiglione russo , di una connessione e di un indirizzo internet ( www.clickhope.com ) e di uno schermo tipo 'touch screen', toccando il quale qualsiasi visitatore della Biennale può partecipare al 'gioco'. clicca qui per il videoclip di "Click I Hope" di Julia Milner Al polo opposto della temporalità appiattita e paralizzata troviamo l'assoluta assenza di strutturazione dell'esperienza del tempo, la sua caoticità che può intaccare complessivamente l'organizzazione spazio-temporale della vita. "Atopia" ed "acronia" diventano inscindibili. A questa condizione sembrano alludere le installazioni di Shih Chieh Huang accolte in "Atopia" al Padiglione di Taiwan (Palazzo delle Prigioni, San Marco). clicca qui per visualizzare il videoclip di "RTI-#2" di Shih Chieh Huang (compreso in "Atopia", al Padiglione di Taiwan) La temporalità vissuta nelle vicissitudini del corpo come base per lo strutturarsi della memoria autobiografica e dell'identità individuale: sembra questo il centro delle opere esposte di Valie Export, artista austriaca nata nel 1940. La corporeità è fatta di vocalità (al centro della sua opera "Glottis"[2007], un'istallazione realizzata per mezzo di un laringoscopio) e di sensorialità (al centro di "Remote, remote... Passagen"[1973-2007]). Così scrive la Export: <<The glottis, the vocal cords, are symbols of the voice they divide two phenomena the voice inside, the breath and the voice outside the phenomenon of vocalization of speech formation. The echo of the hidden vocal cords speaks through the visible lips of the mouth Turbulences of breath formulate the expulsion of air that opens the glottis tears it apart bursts throughout it TURBULENCES that cut into the vocal cords that score the banks of the vocal orifice.>>
La temporalità sembra venir rappresentata in modi affatto diversi ed individuali a seconda degli artisti: diventa icona che spazializza un certo periodo della propria vita (come in "Diarios"[1994-2005] di Guillermo Kuitca), trama di fili sottili e preziosi attraverso cui arricchire il tessuto della propria storia individuale (come in "Dusas I"[2007] di El Anatsui), oppure sistema autoreferenziale che si chiude all'esterno in forma di un cerchio difeso da filo spinato (come in "Wall Drawing"[2006] di Adel Abdessemed).
E veniamo ora alle opere che riflettono i temi della memoria collettiva e dei suoi traumi. Leon Ferrari, in "Huesos" (2006) ed in "Hongo Nuclear" (2007) (entrambe le opere all'Arsenale), sembra tradurre in forme plastiche figurazioni simboliche di 'incubi' collettivi del XX e XXI secolo. Il fungo atomico di Hiroshima, ma anche un ossario che forma una piramide alludono alla distruttività ed al disagio delle civiltà, mentre il Cristo crocifisso ad un aereo da guerra in picchiata sembra appartenere alla sua vena satirica nei confronti dell'uso che i regimi fanno del sentimento religioso.
Tomer Ganihar (nato a Tel Aviv nel 1970) nelle sue foto della serie "Hospital Party" (2006)(all'Arsenale) sembra voler suscitare nello spettatore un senso di disorientamento: le sue foto di esercitazioni militari ci rimandano il dramma collettivo del conflitto israelo-palestinese, ma ci lasciano anche un senso di ambiguità circa il limite tra fiction e realtà storica. Quel soldato seduto sulla lettiga ha alle spalle un manichino oppure un bambino vero? E le lacrime del soldato ("The Tear" è il titolo di questa foto) sono 'vere', ossia frutto di un'emozione, o 'fittizie'?
L'esilio e le guerre: nel percorso dell'Arsenale si fanno pregnanti le associazioni tra questi due temi della storia recente dell'umanità. E così l'opera di Adel Abdessemed (nato in Algeria nel 1971) "Exil" (1996-2007) viene a puntellare l'iter espositivo in snodi significativi, come quando essa precede l'opera di Emily Prince (nata negli USA nel 1981) "American Servicemen and Women who have died in Iraq and Afghanistan" (2004-2007). Un'immensa parete è costellata delle foto dei caduti nelle due guerre ed un catalogo di loro ritratti, corredati di scarni cenni biografici, forma un impressionante archivio della memoria.
Allora, per concludere, ancora un'immagine ed un suono da portare a casa tra le percezioni incontrate a Venezia in queste settimane. L'immagine, che ci avvicina al sentimento del tempo come divenire del corpo e dell'identità, è quella dell'installazione di Anish Kapoor (nella mostra "Artetempo") "At the Edge of the World" (1998) in cui uno specchio , a seconda del percorso (il tempo) che fa lo spettatore, rimanda un'immagine riflessa che da realistica si distorce e viceversa. <<L'idea >> come scrive l'artista <<è quella di creare un oggetto che non è un oggetto, creare un buco nello spazio, qualcosa che in pratica non esiste. La straordinaria apparizione, amata e temuta, di un pezzo di vuoto - finito e infinito al tempo stesso - riattiva ancor di più il contatto simbolico tra dentro e fuori, terra e cielo, maschile e femminile, attivo e passivo, concettuale e fisico, rianimando così il processo di conoscenza>>. Il suono è quello di "Horloge parlante" (2005) di Christian Boltanski: una voce robottizzata, disumanizzata, che scandisce l'inelluttabilità del passaggio del tempo. | ||||||||||||||||||||||||||||
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