|
"Il pulviscolo
di Giotto. Saggi psicoanalitici sullo scorrere del tempo" di
Armando B. Ferrari
|
Armando B. Ferrari, "Il Pulviscolo di Giotto. Saggi psicoanalitici
sullo scorrere del tempo", Franco Angeli, Milano, 2005, pagg.
208, euro 17,50. |
Dalla
Prefazione di Pietro Bria
"Sul
tempo e sul morire in analisi"
|
|
Si ringrazia sentitamente l'editore Franco Angeli,
nonché i Proff. Armando B. Ferrari e Pietro Bria per aver
acconsentito alla pubblicazione su "Frenis Zero" di questo
testo.
|
Nel
settembre 1997 un violento terremoto danneggiò gravemente
Assisi, provocando il crollo della volta della Basilica
Superiore di San Francesco che ospita la celebre serie degli
affreschi di Giotto. Gran parte degli affreschi fu
letteralmente polverizzata e solo un paziente lavoro di
restauro a partire da piccoli frammenti recuperati è riuscito
a ricostruire e a ridare vita a una parte di essi. Questo
evento straordinario che coniuga al tempo stesso catastrofe e
trasformazione creativa è diventato la metafora viva che sta
al cuore di quest’ultimo lavoro di Armando Ferrari che, come
i grandi pensatori in psicoanalisi, è arrivato a un certo
punto della sua vita a interrogarsi sul tempo e sulla morte o,
per usare una felice espressione dello stesso Autore, su come
“vivere il morire”. Questo volume ci offre l’opportunità
di una grande esplorazione clinica nel mondo dell’analisi,
soprattutto quando quest’ultima viene a contatto con
l’esperienza dei pazienti terminali, “segnati cioè da una
prognosi che rende impellente il drammatico processo del
morire in un tempo talvolta molto breve”. Ma è anche una
grande lezione di metodo perché è vero che elaborare la
catastrofe corporea cui si trova improvvisamente immerso il
paziente terminale o quello in preda ad una crisi di panico ci
riporta alle origini stesse del pensiero, quando esso si
struttura a contatto con l’esperienza marasmatica del corpo.
Nasce qui e da qui si dipana quel potente dispositivo teorico
dell’Oggetto Originario Concreto (OOC), che per Ferrari si
colloca all’“alba del pensiero” ed è costituito “da
un corpo in senso fisico, dalle sparse sensazioni che da
questo corpo provengono e da un apparato che percepisce e
annota”. La sua progressiva “eclissi” sarà necessaria
per far ”spazio” e “tempo” a quell’attività
relazionale che è costitutiva del pensare e che ha come scopo
primario quello di contenere e di dare significato alle
continue pressioni sensoriali ed emotive che si lasciano
catturare da una mente in formazione. Tale percorso offrirà
al 8 la sensazione, in sé in-pensabile, un campo di
pensabilità e di dicibilità che si sviluppa raggiungendo
livelli di sempre maggiore complessità e astrazione. La mente
si trova, così, primitivamente orientata lungo un duplice
asse: quello verticale, che si sviluppa tra la fisicità del
corpo che emana sensazioni come presenza attiva geneticamente
determinata (Uno) e un’attività psichica che registra e
discrimina, messa in funzione dalla presenza della madre o di
chi per lei (Bino) e quello orizzontale, che la vede
proiettata verso il mondo esterno costituito dal contesto
familiare, culturale e sociale che funziona da stimolo
evolutivo per l’integrazione tra corpo e mente. In
L’eclissi del corpo (1992) Ferrari ha descritto
magistralmente – e in continua interazione con
l’esperienza clinica – questo processo originario, per il
quale, in modo affatto paradossale, “la mente, generata dal
corpo, ha il corpo come suo primario e principale oggetto di
attenzione”. “La preoccupazione del neonato – egli
afferma – non è quella di giudicare la madre che lo
accudisce (o chi per lei) ma quella di organizzare le proprie
sensazioni ed emozioni provenienti dalla sua stessa corporeità
posta in contatto con il mondo esterno con quelle provenienti
dall’interno dell’organismo”. In La seconda sfida (1994)
ha offerto di questo dispositivo una originale applicazione
sottoponendo ad analisi la “catastrofe” adolescenziale che
si appoggia sulle trasformazioni del corpo che annunciano
l’ingresso nella pubertà. È qui che si rinnova – in
senso inverso – la sfida per la quale il corpo chiede alla
mente di essere accolto e di essere, per così dire,
“ri-pensato” in vista di una possibile e unitaria identità
psico-fisica che assume per la prima volta l’irreversibilità
della dimensione temporale. “Il tempo – afferma Ferrari
riferendosi alla latenza – irrompe nel paesaggio infantile
dell’eterno presente e storicizza l’esperienza. E la morte
cessa di essere intesa come incidente di percorso o evento
catastrofico che interrompe il fluire del tempo diventando, la
si accetti o no, la naturale conclusione d’ogni vita”.
Anche il corpo che ci viene presentato in queste pagine è
all’origine di una esperienza di “catastrofe”. È il
caso degli individui cosiddetti “in fase terminale”, che
diventano analizzandi speciali in cui la malattia e la
consapevolezza di un limite stabilito propongono
all’individuo una nuova condizione: quella del corpo che va
inesorabilmente verso la morte. Qui la morte non viene più e
solo scoperta come fatto storico che si può proiettare nel
futuro, ma si pone in termini concreti nella sua tremenda
attualità che invade tutto lo spazio-tempo dell’esperienza
con una sorta di onnipotenza negativa solo strutturalmente
affine all’esperienza infantile. “L’analizzando – ci
dice Ferrari – si deve, così, confrontare con una corporeità
che annuncia la propria fine e si trova nelle condizioni di
dover fare una seconda scoperta del tempo: quello che
introduce al morire”. È qui che la funzione analitica può
aiutare a favorire la ricomposizione armonica della relazione
tra corpo e mente che l’esperienza di malattia 9 ha
seriamente messo in crisi, con l’obiettivo di “cercare
modi e forme che permettano una vita accettabile fino al
momento della sua scomparsa e di far sì che la morte diventi
e sia del tutto, e unicamente, l’ultimo istante di vita”.
L’individuo – aggiunge Ferrari – può così attingere al
suo potenziale creativo sotto la spinta drammatica di certi
avvenimenti e affrontare il morire “imparando a vivere”:
un processo “che sembra facilitato se l’Uno e il Bino sono
in relazione armonica o se, almeno, vivono in una
conflittualità tollerabile”. In assenza di tale
integrazione è aperta la strada per sviluppi patologici che
si muovono all’insegna dell’onnipotenza e
dell’onniscienza e comportano la negazione del corpo,
provocando “un drammatico divorzio nel sistema che diviene
estremamente pericoloso per l’individuo”. Si sviluppa, così,
nel cuore del volume e in questo “settino” speciale, una
grande avventura analitica che coinvolge analista e paziente,
cui Ferrari offre la sua presenza commossa e partecipe che da
questo punto di osservazione riesce a diffondersi all’intera
opera anche quando egli arriva a guidare e a sorvegliare
amorosamente e con rispetto il lavoro dei suoi allievi,
percorsi analitici in supervisione o a fare da testimone
all’analisi (che è autoanalisi) di colleghi analisti che
hanno chiesto il suo aiuto (evento, devo dire, piuttosto raro
nella letteratura psicoanalitica). Si vede bene come per
Ferrari il dialogo analitico è il luogo sofferto di
un’esperienza condivisa ma, in questo libro in modo
particolare e a contatto con i vissuti catastrofici dei
pazienti, diventa anche occasione per una rimeditazione sui
fondamenti stessi della cura. È qui che la sua riflessione
presenta interessanti risvolti epistemologici, i quali toccano
il problema del tempo e anche quello dell’infinito. In
effetti organizzare la catastrofe sensoriale che è gravida di
infinito e rimanda ai livelli “simmetrici” e
“inconsci” dell’esperienza emotiva, per dirla in termini
matteblanchiani, rappresenta per il pensiero la materia prima
su cui esso sviluppa la sua attività discriminativa e, forse,
trova la sua giustificazione primaria come suggeriva
Wittgenstein: un compito che, proprio per la natura infinita
dell’esperienza che lo sostiene, è destinato a rimanere
inevitabilmente insaturo. In un lavoro scritto qualche anno fa
sul concetto di catastrofe e di trasformazione in Bion (che
rileggevo in termini matteblanchiani) ho riportato questa
funzione alle origini stesse della geometria per come ci sono
state tramandate da Erodoto che le collega alla necessità
avvertita dagli antichi Egizi di ridisegnare i confini dei
campi (veri e propri “terreni” di identità) in risposta
alle periodiche inondazioni del Nilo. Stimolato da questa
metafora sto pensando che l’atmosfera che qui Ferrari
respira è chiaramente la stessa che aveva portato Bion a
stabilire un’equazione tra la funzione del pensare e
apprendere dall’esperienza, dove “apprendere” implica
funzioni di captazione e di “dispiegamento” in un
continuum spazio-temporale. E con sorprendente analogia il
percorso segui 10 to da Ferrari è quello stesso che porta
Bion in Attenzione e interpretazione, uno dei suoi contributi
più creativi, ad utilizzare il suo modello
“trasformativo” della mente per esplorare l’area del
cambiamento catastrofico, dove l’esperienza emotiva infinita
irrompe, come un uragano, provocando un vero e proprio
scompiglio delle strutture spazio-temporali, che non riescono
più a svolgere la loro funzione di contenimento. E qui i due
pensatori si incontrano nella preoccupazione comune di trovare
le vie – che sono spazi, tempi e contesti adeguati – per
organizzare la “catastrofe” emotiva, soprattutto quella
originaria e meno controllabile che proviene dal corpo, cui
siamo, in quanto umani, inevitabilmente esposti. Qui si
colloca anche l’importante funzione svolta dal mito. Alle
origini della umanità e nella storia personale di ogni uomo
il mito appare a Ferrari – e la sua originale riflessione
occupa l’intero capitolo 3 – come un fondamentale
organizzatore di senso che emerge dall’oceano confuso delle
sensazioni e dei vissuti e dà forma primordiale al pensiero:
“tenuissima luce la cui presenza potrebbe essere indicatrice
di una nuova alba” come è quella che si condensa
dolorosamente nelle parole e nelle forme frammentate
dell’esperienza psicotica: relitti galleggianti che
richiedono di essere inseriti in una struttura narrativa, in
un discorso sensato. Paradigmatico al riguardo il
“frammento” clinico dell’uomo con l’impermeabile color
paglia riportato da Ferrari: “Si abbandonava sul divano
fissando immobile la parete bianca che aveva di fronte. Non
una sola parola nonostante le mie continue sollecitazioni. Poi
articolò alcuni suoni nei quali era possibile riconoscere la
parole “bianco… veleno” e pianse a lungo. Mi era
impossibile afferrare frantumi di un mondo sommerso che
sembravano appartenere ad aspetti indistinti ma che
denunciavano una forza potenziale di aggregazione che si
manifestava nell’uso di un alfabeto che ha poi proposto un
linguaggio atto ad un possibile dialogo”. Siamo così
riportati alla metafora iniziale del pulviscolo, dove si
dispiega nell’arte del restauro quella tecnica del frammento
che, come un potente magnete o “attrattore”, produce senso
catturando relazioni o immagini alla ricerca di una storia
possibile o perduta. E al tempo stesso sembra prendere nuova
vita quel “paradigma indiziario” che continua a svolgere,
sin dalle origini, un importante ruolo nella indagine
psicoanalitica. È a questo punto che Ferrari – a contatto
con le angosce catastrofiche dei pazienti terminali in analisi
– ci offre anche un modello di cura che io trovo non abbia
solo un valore terapeutico specifico per i casi in esame
quanto, più fondamentalmente, quello di una meditazione sul
tempo e sul lutto che include anche la consapevolezza del
tempo che ci resta da vivere. “L’aspetto che qualifica
questa mia proposta di lavoro clinico – egli afferma –
consiste nel modo e nella forma con cui viene trattato nella
relazione analitica il tema delle coordinate
spazio-temporali”. Ciò appare problematico 11 negli stati
marasmatici, dove sembra prevalere proprio l’assenza di
tempo. Ma se il tempo sembra contrarsi sino a scomparire
bisogna allora dilatarlo oltre i suoi confini, dando una
direzione e un ritmo al “qui e ora”. E ciò si ottiene,
secondo Ferrari, “frazionando il tempo in unità sempre più
piccole e riempiendo, per così dire, tali frammenti di tempo
di “infinite” possibilità di vita, il che significa da
una parte sopportare la percezione di “non avere più
tempo” (o di avere “solo domani”) ma anche, sotto
l’incalzare della malattia, imparare a vivere il tempo che
si ha a disposizione e quindi a “vivere il morire””.
“Per il malato terminale non c’è domani ma non è ancora
domani, c’è il momento e nient’altro che questo momento.
Se si riesce a dividere il tempo nei vari momenti che lo
compongono, lo si rende vivibile perché ad ogni istante c’è
vita e ci si può quindi preparare a morire solo quando verrà
la morte”. Ne nasce quindi un tempo “che si costruisce sul
fare, sul vivere, sull’essere dentro ogni frammento di
esperienza, privo ormai della possibilità di nutrirsi di
speranze o di promesse”. Ho trovato queste pagine, che si
riferiscono a una modalità di lavorare e di sentire nell’hic
et nunc dell’analisi, straordinarie e commoventi. Credo
anche che questa sorta di “analisi infinitesimale” che
“assolutizza il tempo frantumandolo e dilatandolo in modo
tale che ogni momento contenga in sé tutto il tempo
vivibile” e che parte dal sentimento della fine e della
finitezza, riesca anche a dare un senso nuovo all’esperienza
e al ruolo dell’infinito nella nostra vita. Matte Blanco ha
ridato significato psicologico all’infinito, radicandolo
nelle profondità dell’esperienza emotiva e dichiarandone
l’isomorfismo con le strutture dell’inconscio freudiano. E
Luciana Bon de Matte ha anche parlato, a partire
dall’esperienza adolescenziale, di “utilizzazione del
simmetrico” e, quindi, dei processi di infinitizzazione
tipici del mondo infantile come risorsa per far fronte ai
nuovi limiti imposti dalla realtà. Qui mi sembra che Ferrari,
di fronte al sentimento di una vita invasa dal dolore e quindi
ferita nella sua progettualità che tenderebbe ad estendersi
infinitamente nel tempo, proponga, come risorsa di ogni essere
umano, quella di investire il presente attraverso una sorta di
“infinito intensivo” in cui ogni frammento di tempo
diventa tutto il tempo, ogni frammento di vita diventa
pienezza di vita, realizzando quell’impossibilità di
incontro con la morte di cui parlava il grande Epicuro. Credo,
inoltre, che questa intuizione, che nasce dalla clinica
psicoanalitica arrivi ad illuminare in modo nuovo
l’esperienza del lutto, indicando vie preziose per la sua
elaborazione soprattutto quando quest’ultima si rivela
difficoltosa o, addirittura, impossibile. Vorrei concludere
questa mia breve presentazione ricambiando quanto ho ricevuto
da questo prezioso volume, e lo farò riferendomi alla musica,
che non trova posto in queste esperienze ma che, come afferma
Lévi-Strauss, sembra 12 non aver “bisogno del tempo se non
per infliggergli una smentita”. Credo anche che la musica
per il suo legame privilegiato con gli affetti umani e,
quindi, con l’infinito, possa aiutarci ad elaborare il
dolore che è legato alla perdita. “La musica – ha
affermato il maestro Sinopoli – è forse il momento in cui
l’uomo raggiunge con i suoi sensi e con il suo intelletto i
confini estremi della materia: ciò che è impossibile
misurare, quantificare, toccare. La musica è quantità,
misura nel periodo in cui viene scritta o nell’attimo in cui
lo strumento, stimolato dal musicista, la produce. Qui si
compie un salto misterioso: quello che noi ascoltiamo è
immateriale e nell’attimo in cui lo percepiamo sparisce per
diventare memoria. La musica è il segno più sublime della
nostra transitorietà”. Sta proprio qui il suo miracolo che
ci permette di vivere l’infinito ma è anche risorsa
essenziale che favorisce l’armonia tra Uno e Bino – per
dirla in termini ferrariani – che è anche affidarsi alla
“natura” quando il corpo sembra abbandonarci
definitivamente.
|
|
|
|
| |