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Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività

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   "MUSICA MAESTRO!"

" Il maestro e il pastore. Psicoanalisi e fede".

di Zita Burtet

 

 

 

                                             

      

 

 

 

Il carteggio che intercorre tra Freud ed il Pastore Oskar Pfister va dal 18 gennaio 1909 al 12 dicembre 1939 e si conclude con la lettera che il Pastore scrisse alla moglie di Freud dopo la morte del Maestro avvenuta il 23 settembre 1939 poco prima della mezzanotte.

Per 30 anni i due amici avevano continuato a scambiarsi pensieri, critiche ed affetti.

Il Pastore così scrive alla moglie del Maestro, Marta (è il 12 dicembre 1939):

 

“Negli ultimi anni ho pensato spesso a un passaggio commovente di una lettera del 6 marzo 1910. Credo sia mio dovere riferirGlielo. Il passo diceva: - Non riesco a immaginare che sia davvero gradevole vivere senza lavorare, per me fantasticare e lavorare coincidono, non mi diverto in nessun altro modo. Sarebbe una ricetta per la felicità, se non ci fosse l’orribile pensiero che la produttività dipende interamente da una disposizione della sensibilità. Che cosa si può mai fare in una giornata o in un periodo in cui i pensieri si rifiutano di farsi avanti o le parole non vogliono allinearsi? E’ una possibilità che dà i brividi. Per questo, pur accettando integralmente il destino, come si conviene ad un onest’uomo, ho tuttavia una preghiera segretissima: purché non venga una lunga malattia, una miseria fisica che paralizzi le capacità produttive. Almeno morire con le armi indosso, come dice re Macbeth. –Ebbene, il desiderio di freschezza intellettuale, di una morte con le armi regali si è realizzato.”

 

Molti ignorano che Freud avesse per amico e collaboratore il Pastore Oskar Pfister di Zurigo e che la loro corrispondenza e discreta amicizia sia durata fino al termine della vita di Freud, mantenendo vivo in Freud l’interesse per il fatto religioso e nel Pastore l’interesse per la psicoanalisi.

Nella prima lettera, il 18 gennaio 1909, Freud così scrive ad O. Pfister:

 

 “ Siamo soliti rimproverare alla psicoanalisi, un po’ per celia, ma anche con la più grande serietà, che essa ha bisogno di uno stato normale per essere applicata, e che nelle anomalie organizzate della vita psichica essa trova il suo limite, sicché, propriamente, l’optimum dei suoi presupposti lo si ha quando essa non serve, cioè nelle persone sane; ora dovrei pensare che questo optimum sia realizzato nelle condizioni in cui Lei opera.

 

All’interno della corrispondenza spesso una piacevole scherzosa ironia, sempre rispettosa, permetteva ad entrambi gli amici di affrontarsi con chiarezza e vivacità su temi che, tra scienziato e pastore, tra psicoanalisi e fede,  permettevano loro di confrontarsi, senza temere le differenze reciproche,  richiedendo l’uno la critica dell’altro.

Freud spesso si rivolge a Pfister con quella confidenza che solo un Pastore di Anime, per la sua vocazione di uomo di fede, può indurre nell’interlocutore.

Il 9 febbraio 1909 così scrive Freud a Pfister, è la seconda lettera dall’inizio dell’epistolario:

 

Sono rimasto colpito nel rendermi conto che non avevo pensato all’aiuto straordinario che il metodo psicoanalitico può fornire alla cura delle anime, ma questo è certo successo perché un malvagio eretico come me è troppo lontano da questa sfera d’idee. Oso esprimere la speranza che il Suo interesse non appassirà, anche quando alla prima fase di splendidi successi terrà dietro la seconda fase, ben nota, in cui sono piuttosto le difficoltà a prendere il sopravvento. E’ dopo averle superate che si approda a un sentimento di tranquilla sicurezza.

 

Il pastore Pfister rivelava forse a Freud, qualcosa di se stesso che il Maestro non aveva ancora scoperto o che forse teneva gelosamente celato nel suo cuore di ebreo? Quanto autenticamente religioso fosse lo spirito di ricerca che gli faceva mettere la scienza, la ricerca inesausta della verità, in contrapposizione alla religione praticata ciecamente? Poiché la scienza di cui parla Freud, non è la sola scienza positiva: è ogni sapere che mira unicamente alla verità, e la psicoanalisi era la via maestra che Freud aveva scoperto per l’indagine della verità dell’essere umano a partire da sé stesso sempre e primariamente.

Freud  non smise mai di interrogarsi di persona, di analizzare i suoi sogni e il ‘controtransfert’ nel ‘setting’: la risonanza nel proprio inconscio dell’inconscio dell’altro. Mai nei suoi scritti la scelta delle parole e della loro reciproca collocazione linguistica, è lasciata al caso. Ciò che Freud ascoltava nell’ascolto dei suoi pazienti era anche ciò che ogni destino incontrato andava ad evocare nella profondità della sua psiche.

Egli auspicava che la psicoanalisi venisse unicamente usata per liberare l’uomo dalle sue sofferenze. 

Ernest Jones, amico fedele, psicoanalista e biografo di Sigmund Freud scrive a proposito del carattere del Maestro:

 

Fin dal 1909 Freud aveva scritto: << La sete di sapere sembra inseparabile da una curiosità sessuale>>. Questa curiosità è di solito stimolata dalla comparsa di un fratello rivale che soppianta il bambino nell’attenzione e un po’ anche nell’amore della madre. Freud non aveva mai cessato di rimproverarsi per aver determinato, con i suoi sentimenti ostili, la prematura morte del fratellino Julius… Solo nella conquista della verità si poteva trovare quella sicurezza, che solo il possesso della propria madre può dare... Superare le barriere proibite richiedeva però, non solo volontà, ma strenuo coraggio. Questo indomito coraggio fu la dote più sublime di Freud e la più preziosa…” 

 

Nel 1915, in una lettera indirizzata a Putnam, dopo averne letto il lavoro, Motivi umani, Freud scrive:

 

Lei sa naturalmente quanto poco ci si deva aspettare dalle argomentazioni. Aggiungerò che non ho nessuna paura dell’Onnipotente; se mai dovessimo incontrarci avrei più rimproveri da muovere io a Lui che Egli a me. Gli chiederei perché non mi ha dato migliori prerogative intellettuali, mentre Egli non potrebbe rimproverarmi di non aver fatto il miglior uso possibile del mio presunto (cioè con l’assenza di fattori condizionanti) libero arbitrio…

 

Freud dichiarava di essersi sempre tenuto lontano dalla religione  ebraica come dalle altre religioni:

 

…esse hanno ai miei occhi una grande importanza in quanto oggetto di ricerca scientifica, ma non condivido i sentimenti dei fedeli. Per contro mi sono sempre sentito solidale col mio popolo e ho sempre incoraggiato i miei figli a fare lo stesso”.

 

Subito aggiungeva, lasciando l’enigma aperto all’interlocutore:

 

Noi tutti abbiamo conservato la qualità di ebrei…”.

 

Scrive Octave Mannoni  in Freud (1982):

 

“…  Freud rimase fedelissimo alla tradizione ebraica nella vita personale e familiare, egli stesso attribuiva l’indipendenza di giudizio, la saldezza del suo carattere e l’indifferenza all’opposizione al suo essere ebreo ed alle esperienze di 'persecuzione', sia pure moderata vissute all’università. La scoperta della psicoanalisi sicuramente trova gli elementi portanti, i cardini del suo fondamento nell’identità ebraica di Freud che egli indagò inesorabilmente e rafforzò  rimanendovi fedele, studiando ed interrogandosi sul Testo Sacro della Bibbia fino al termine della sua vita…”.

 

 R. Cheloni, nel suo scritto ancora inedito, "Fondamenti teorici dell’Identità" (esposto nell’aprile 2006 presso la sede dell’Ateneo di Treviso), porta (Par. 3) quale «(Un) luogo di verifica dell’Identità: la tradizione ebraica: FATTO ESTETICO (“culturale”) che lenisce l’angoscia della memoria, legando identità e bellezza…,  L’ESSERE SOGGETTI ad un’unica Legge», sottolineando come l’ebreo, fin da bambino, venga radicato nella propria cultura e tradizione religiosa:

 

 “…Il bambino ebreo andava al 'cheder' a cinque (anni), iniziando immediatamente a studiare il  'Chumash' (il Pentateuco) imparando pressoché a memoria il testo (ed il commento di Rashi); già a dieci anni, affrontando il trattato di 'Qiddushin' (le leggi del matrimonio), passava allo studio della letteratura talmudica della 'Ghemarà' (il che implicava un approccio metodologico al testo, pur condotto per collegare il testo biblico ai riferimenti dei dibattiti talmudici…)”

 

Nel libro di Giobbe Freud andò alla ricerca dell’enigma del dolore e della colpa degli innocenti ( 1936-1938, "Compendio di psicoanalisi", "Analisi terminabile e interminabile", "La scissione dell’io nel processo di difesa").

Non smise mai di interrogarsi sulla figura di Mosè per scoprirne le origini storiche e di qui il fondamento della religione ebraica.

Scrive ancora O. Mannoni (“Freud” 1982):

 

“… nell’uccisione di Mosè, padre simbolico della stirpe, e nel senso di colpa  che ne seguì Freud individua il fondamento di un nuovo ordine sociale, non si tratta più d’una trasformazione dell’umanità in genere, ma della storia dei popoli ebreo e cristiano”.

 

La decisa distinzione dei popoli ebreo e cristiano dagli altri popoli sottende la ricerca psicoanalitica in quanto essa si interroga ed indaga su come avvenga e cosa comporti, nella psiche dell’essere umano, la trasmissione del pensiero dei padri attraverso lingua, storia, tradizione, religione, l’intero sostrato culturale-antropologico degli antenati.

Roberto Cheloni in “Introduzione al Transgenerazionale”, ne rileva appieno l’ineludibile traccia persino nelle modificazioni biochimiche del cervello.

Tale distinzione nell’identità dei popoli ebreo e cristiano dagli altri popoli mette in luce anche quanto Freud, nel considerare determinante il valore della religione per la formazione di un popolo, fosse attento ed interessato al Cristianesimo di cui nel Pastore Pfister aveva incontrato un rappresentante sensibile ed amante della psicoanalisi.

Freud lo considerò il primo psicoanalista senza titolo di laurea in medicina, egli infatti sosteneva con convinzione che non era necessaria la laurea in medicina per esercitare la psicoanalisi che definiva un mestiere impossibile al pari di quello degli educatori ("Totem e Tabù" 1913, "Mosè e il Monoteismo" 1939, "Compendio di Psicoanalisi" 1938, "Analisi terminabile e interminabile" 1937).

Lo stesso umorismo di Freud, la fedeltà agli affetti famigliari, l’importanza attribuita alla tradizione fanno di Freud un ebreo non rigido, ma fedele alla legge. In uno scritto del 1912, “Raccomandazioni al Medico”, Freud così scriveva:

 

“…Non insisterò mai troppo consigliando i miei colleghi di conformarsi, nel trattamento psicoanalitico, all’atteggiamento del chirurgo, che si svincola da ogni sentimento, persino dalla simpatia umana, per concentrare tutte le sue energie psichiche sull’unico scopo di eseguire l’intervento con la maggior perizia possibile. Allo stato attuale, il sentimento più pericoloso per uno psicoanalista è l’ambizione terapeutica da conseguire…Ciò non soltanto lo metterà in uno stato psichico sfavorevole al suo lavoro, ma lo renderà impotente di fronte a talune resistenze del paziente la cui guarigione, come è noto, dipende innanzi tutto dall’interazione delle forze operanti in lui. A giustificazione di questa freddezza emotiva da parte dell’analista si può dire che essa crea le condizioni più favorevoli per entrambe le parti: il medico consegue una desiderabile protezione della sua propria vita emotiva mentre il paziente potrà beneficiare del massimo aiuto che gli si possa dare oggi. Un chirurgo dei tempi andati (Ambroise Paré ) aveva preso questo motto: ”Je le pensai, Dieu le guérit”. L’analista dovrebbe sentirsi pago di qualcosa di simile.

 

Apriamo una breve parentesi su questo medico francese, per capire meglio il pensiero di Freud.

[nato nel 1509 o 1510 a Laval, in Francia, fece il suo apprendistato nella bottega di un barbiere a 13 anni, a 19 era già nell’ospedale Hòtel–Dieu a Parigi, ma non si laureò mai. Divenne un grande chirurgo nei campi di battaglia e fu nominato Dottore in medicina a tutti gli effetti nel 1554 da Enrico II. Scoprì come arrestare le emorragie durante le amputazioni con una nuova tecnica di legatura delle vene. A Carlo IX che gli chiedeva di “trattarlo, curarlo, meglio dei poveri dell’Hopital de Dieu, A. Paré rispondeva: - C’est impossibile. Sire, parce que je les soigne (curo) comme des rois”. Egli lasciò un’opera immensa dedicata tutta ad alleviare le sofferenze e le ferite, così come vi aveva dedicato l’intera sua vita]

 

Fu un nome di cui Freud mai fece parola assumendo in sé stesso, totalmente, la responsabilità del proprio operato.

Tenendo conto che Freud non parlava mai a caso e nello scrivere ogni sua parola esprime un pensiero passato al vaglio, dall’esperienza e dall’intelletto, questa raccomandazione non può dirci altro che lo stesso Freud nel fare psicoanalisi si accostava all’enigma, al mistero del paziente con il suo destino, alla cura, con profonda umiltà, quasi con “spirito mistico” nel silenzio e nell’ascolto, nella segretezza della traslazione, affidandosi nell’operare, come il famoso chirurgo francese Ambroise Paré all’azione operante, sconosciuta, misteriosa ed indicibile di Dio.

Trovo fondamentale, quindi, per la comprensione della relazione che Freud vedeva tra l’esperienza dello psicoanalista e quella del chirurgo e del pastore di anime, soffermarci su questa ‘citazione’ del pensiero di Ambroise Paré (je le pensai, Dieu le guérit).

Infatti, è curioso e fa pensare come, nel portare questa citazione ad esempio del modo in cui l’analista dovrebbe accostarsi al paziente, Freud commetta un lapsus, dice infatti il famoso chirurgo: “Je le pansai, Dieu le guérit”, dove il verbo 'panser' sta ad indicare: "l’ho bendato", "l’ho fasciato"; non "l’ho pensato" come cita Freud, ma allora forse Freud intendeva che, in psicoanalisi, è il pensiero consapevole, l’ascolto (nell’ascolto) al capezzale del paziente, il silenzio, la parola che solamente interpreta, a ‘bendare’, ‘proteggere’ e ‘fasciare’ le ferite? Ferite dell’anima, della psiche, ma anche del corpo nei suoi sintomi a volte tanto gravi e dolorosi?

O forse anche che il pensiero di Dio gli era ‘sempre in mente’, laddove l’imperscrutabile profondità dell’inconscio non era ancora sufficiente a sondare il mistero di dolore e di felicità, di vita e di morte nel desiderio dell’essere umano?

Certamente vi è una stretta connessione tra il bendare le ferite e curare il ‘soma’ che del paziente racconta l’intero sé anche senza parole: nella postura del corpo e nei sintomi.

Vi è una stretta connessione tra la psiche ferita, bisognosa di cura e contenimento e le bende che proteggono, coprono, contengono, stringono le ferite perché si possano rimarginare;  ma la guarigione da dove o da chi viene?

Quale mistero passa attraverso la rinuncia del paziente alla propria autonomia in favore di un altro essere umano che si prende cura di lui? Nel 1913 nell’introduzione a "Il metodo psicoanalitico" di Oskar Pfister, Freud scriveva testualmente:

 

“…Sotto un solo aspetto la responsabilità di un educatore può forse superare quella di un medico. Di solito il medico ha a che fare con strutture psichiche che già sono diventate rigide, e, troverà, nella personalità già stabilizzata del paziente, un limite alle sue possibilità di successo, ma nel contempo, una garanzia della capacità del paziente di regolarsi da solo. Invece l’educatore (ed il pastore nei paesi protestanti ha la stessa funzione) lavora su materiale plastico e pronto ad ogni impressione, e deve sempre tener presente l’obbligo di non plasmare la giovane mente in conformità alle sue idee personali, ma piuttosto secondo le disposizioni e la possibilità del soggetto.

Non è forse questa un’indicazione precisa sul pensiero dell’Unicità, profondamente ebraica e cristiana, che riguarda ogni essere umano, per l’Unico Dio, l’Unica Legge, l’Unico comandamento? Così recita l’Ebreo nella professione di fede di Israele: “ (Shemà) Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è UNO SOLO. Amerai il Signore  tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua forza. Queste parole che ti ordino oggi saranno sempre nel tuo cuore, le ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando siederai in casa tua e quando camminerai per strada, quando ti coricherai e quando ti alzerai…) Speriamo che l’applicazione della psicoanalisi al servizio dell’educazione esaudisca rapidamente le speranze che educatori e medici possono a buon diritto riporre in essa. Un libro, quindi, come questo di Pfister che cerca di insegnare l’analisi agli educatori, potrà fare affidamento sulla gratitudine delle generazioni future.

Scrive Ernest Jones in “Vita e opere di Sigmund Freud”: <<…Quando Freud compì trentacinque anni, il padre gli regalò una Bibbia sulla quale aveva scritto in ebraico la seguente dedica:

 

“Mio caro figlio fu nel settimo anno di vita che lo spirito di Dio cominciò a spingerti allo studio. Lo Spirito di Dio deve averti così parlato: - Leggi nel Mio Libro, ti saranno aperte così le fonti del sapere e dell’ intelletto. E’ il Libro dei Libri, è il pozzo scavato dai saggi dal quale i legislatori hanno tratto l’acqua del loro sapere… Tu hai visto in questo grosso Libro la visione dell’Onnipotente, tu hai ascoltato di buon grado, hai agito e hai cercato di volare alto sulle Ali dello Spirito Santo. Da allora io ho conservato quella Bibbia e ora, in occasione del tuo trentacinquesimo compleanno, l’ho tirata fuori dal suo ripostiglio e te la mando come segno di affetto del tuo vecchio padre”>>.

  

Freud  ne rimase profondamente colpito, fin da che il padre l’avesse osservato con tanta attenzione.

Dice ancora Ernest Jones:

 

 “ Ebreo fino in fondo, ne era orgoglioso, prettamente ebraica era la sua propensione a raccontare aneddoti e barzellette ebraiche e si faceva ben pochi amici che non fossero ebrei, si opponeva energicamente all’idea che gli ebrei fossero malvoluti o comunque inferiori, e doveva aver molto sofferto fin dai tempi della scuola, specialmente dell’università, dell’antisemitismo che circolava per Vienna e che pose fine alla fase di entusiasmo per il nazionalismo tedesco dei primi anni. Freud non abiurò mai le sue origini ebraiche, neppure quando il pericolo dell’antisemitismo germanico si era fatto vicino e realisticamente drammatico, bambino era stato fortemente influenzato dallo studio della Bibbia, ma mai, forse, aveva pensato che il padre l’avesse osservato con tanta attenzione…”.

Nella sua casa a Vienna Freud subì due invasioni naziste e la figlia Anna il 22 marzo 1938 fu trattenuta per un giorno compresa la notte dalla Gestapo.

Nel 1933, a Berlino, nel maggio, le opere di Freud erano state pubblicamente bruciate. Freud e la sua famiglia si salvarono solo grazie all’intervento della principessa Bonaparte, che li aiutò a trasferirsi a Londra passando per Parigi, nel giugno1938, solo un anno prima della morte di Freud avvenuta il 23 settembre 1939.

Ho scelto di leggere la lettera n. 19, del 5 giugno 1910, per la chiarezza con cui Freud espone la differenza tra psicanalisi e percorso educativo e per la sincerità che, nel confronto tra il Maestro ed il Pastore, dà testimonianza della loro radicata amicizia e dell’umanità che contraddistingueva entrambe le vocazioni: scientifica e religiosa, accomunate dalla passione rigorosa del Maestro per il suo lavoro e dalla fede dell’amico pastore nella cura delle anime illuminata dallo studio appassionato della psicoanalisi.

E’ ancora Ernest Jons a raccontare di Freud.

Il 1911 fu per Freud un anno particolarmente significativo per quanto riguarda il suo rapporto con la religione. All’inizio dell’anno egli annunciò che la sua originalità di pensiero si stava estinguendo, osservazione interessante in quanto precedette solo di pochi mesi uno dei suoi lavori più originali sulla psicologia della religione ("Totem e Tabù", 1913).

Verso agosto, sebbene in vacanza, ammise di essere “tutto totem e tabù”. Il 26 febbraio 1911, a proposito di Adler, le cui teorie si erano allontanate dalla “retta via” (la rottura con Adler divenne definitiva nello stesso anno; Adler, medico psicoanalista viennese divergendo dalla teoria freudiana, aveva fondato la psicologia individuale) Freud scrive al Pastore: <<….Egli dimentica le parole di Paolo apostolo, delle quali Lei conosce il testo molto meglio di me: “E se non aveste l’amore…”>>. (Paolo, Lettera Prima ai Corinzi, 13, 1-13)

Giova ricordare come questo tema e la sostanziale differenza tra amore cristiano e solidarietà naturale venga oggi finalmente rimessa in luce dall’enciclica di Benedetto XVI: “DEUS CARITAS EST ”. Nel proemio Benedetto XVI riporta le parole di San Giovanni Apostolo nella Prima Lettera: <<“DEUS CARITAS EST, ET, QUI MANET IN CARITATE, IN DEO MANET, ET DEUS IN EO MANET” (1 Io 4, 16). Riprende poco più avanti dal  Libri Deuteronomii: “…Audi, Israel: Dominus Deus noster Dominus unus est. Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo et ex tota anima tua et ex tota fortitudine tua” (6, 4-5)… Gesù ha unito, facendone un unico precetto, il comandamento dell’amore di Dio con quello dell’amore del prossimo contenuto nel Libro Levitico: “Diliges proximum tuum sicut te ipsum” (19, 18; cfr  Mc 12, 29-31). "Quoniam prior nos Deus dilexit(cfr 1 Io 4, 10), l’amore non è più solo un “comandamento”, ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro…>>.  L’amore del prossimo risulta essere essenzialmente religioso, non si può piacere a Dio senza rispettare gli uomini, soprattutto i più deboli, i più abbandonati, il motivo non è la semplice solidarietà umana, è la storia della Salvezza. La voce verbale 'Dilexit-Diliges' indica con forza la scelta e la cura dell’Amato, chiamato per nome.

Per concludere con un breve richiamo: nel 1938, poco prima della sua morte, Freud porta a termine l’opera pubblicata postuma: "Compendio di psicoanalisi", nella quale (riprendo una citazione del dott. R. Cheloni in "L’Ordine della generazione", pag. 63 ) parlando dell’ ‘Io Onnicomprensivo’ e del ‘rimosso’ scrive che, dopo la guarigione, l’ammalato ammette che in un “angolino” del suo animo, si teneva gelosamente celata una persona normale che osservava come spettatore imparziale il trascorrere della malattia e del suo tumulto. Sono codeste le ultime parole di Freud sulla necessità di una centralità dell’Io, che avoca a sé il momento della riflessione di quella parte, ‘Dio sa quanto importante’, non ceduta al rimosso.

Prima di passare alla lettura della lettera del 5 giugno 1910 scritta da Freud al Pastore Pfister è significativo all’interno di questa riflessione tra psicoanalisi e fede, ricordare Suor Teresa di Calcutta che si arrabbiava e quasi maltrattava, offesa nel suo intimo, chi la ringraziava per l’aiuto ricevuto, ingiungendo loro di ringraziare Gesù: era per l’amore da Lui ricevuto in sovrabbondanza,  che lei poteva donare, solo un umile strumento, il suo stesso amore.

 

 

 

Vienna, 5 giugno, 1910

   

 Caro dottore,

 

finalmente è arrivata la domenica in cui ho potuto leggere fino in fondo la Sua analisi dell’odio e della riconciliazione (“Indagine analitica sulla psicologia dell’odio e della riconciliazione”). Quanto al resto, attendo il Suo degno “Conte” e deciderò dopo la lettura se non debba rispedirGlielo per lo “Jahrbuch” [ rivista di psicoanalisi di cui allora era redattore Jung a Zurigo , n.d.aut.]. Il suo eventuale predecessore è gia eventualmente nelle Sue mani [“Il Leonardo” di Freud, n.d.aut.] .

La Sua cara lettera pone domande ed esige ch’io mi esprima sull’analisi, e pone domande sullo spinoso argomento  della traslazione. Non so come potrei impiegare questa bella serata meglio che trattenendomi con Lei su questo argomento. Con che cosa devo cominciare, con le lodi o con le critiche? Sono certo che queste ultime Le riusciranno più interessanti.

Io penso dunque che l’analisi soffra di un male ereditario, quello della…virtù; è l’opera di un uomo troppo per bene, che quindi si crede anche tenuto a dar prova di discrezione. Sennonché queste faccende psicoanalitiche sono comprensibili sol se vengono trattate con una certa completezza e in dettaglio, così come l’analisi in sé funziona solo se il paziente scende dalle astrazioni sostitutive ai piccoli dettagli. La descrizione perciò è incompatibile con una buona esposizione di psicoanalisi: BISOGNA TRASFORMARSI IN UN TIPACCIO, ESPORSI, LASCIARSI ANDARE, TRADIRE, COMPORTARSI COME UN ARTISTA CHE RUBA I SOLDI DEL BILANCIO FAMILIARE  ALLA MOGLIE PER COMPRARSI I COLORI O CHE DA’ FUOCO AI MOBILI PER SCALDARE LO STUDIO ALLA MODELLA. SENZA UN PO’ DI CRIMINALITA’ NON SI RIESCE A COMBINARE NIENTE DI BUONO. Naturalmente ciò che Lei espone basta perfettamente a giustificare le Sue conclusioni, che sono a suo onore; ma il lettore non riceve nessuna impressione, non può sintonizzarsi col suo inconscio e perciò non può veramente criticare in modo adeguato. Una seconda osservazione riguarda la tecnica. Su questo argomento io sono troppo unilaterale, cerco di dimostrare che una sola è la giusta e continuo a metterla alla prova. Lei ha riconosciuto, ed è esatto, che l’esperimento associativo va bene per un primo orientamento, ma non per la prosecuzione della cura, perché ad ogni nuova parola-stimolo si interrompe continuamente il paziente troncandogli il filo del discorso. La formazione spontanea di serie di parole di cui Lei si serve nell’analisi è senza dubbio incomparabilmente migliore, ma non fornisce un’immagine netta, non dà chiari ragguagli, e non  mi sembra che rappresenti un risparmio. Là dove riesce, il paziente avrebbe certo potuto continuare con discorsi completi. Solo che il processo sarebbe stato in apparenza più lento, e in cambio si sarebbero individuate con chiarezza le resistenze. La formazione di serie non è che un mezzo per agganciare la resistenza, e io attualmente lo rifiuto completamente, trascuro i complessi a favore delle resistenze e cerco di accostarmi direttamente a queste ultime. Questa è la caratteristica principale della mia tecnica attuale, che –penso- va più a fondo e guida con maggiore sicurezza di ogni altra usata in precedenza. Per quanto riguarda la TRASLAZIONE, è una vera e propria croce. Ciò che nella malattia agisce con volontà propria e indomabile –e a causa del quale abbiamo abbandonato tanto la suggestione indiretta, quanto la suggestione ipnotica diretta –non può essere eliminato completamente neanche dalla psicoanalisi, ma solo contenuto, e i suoi residui si manifestano nella traslazione. Di solito sono abbastanza ragguardevoli, e qui le regole spesso ci piantano in asso, siamo costretti ad adeguarci al carattere specifico del malato e anche a non rinunciare del tutto a qualche propria nota personale. In generale sono d’accordo con Stekel che il paziente va tenuto in uno stato di astinenza, di amore insoddisfatto, ma questo naturalmente non è sempre possibile. Quanto più lei gli permetterà di trovare amore, tanto più rapidamente raggiungerà i suoi complessi, ma tanto minore sarà il successo finale, poiché il paziente si priva degli appagamenti di complessi abituali solo perché può scambiarli con i risultati della traslazione. Il successo è splendido, ma dipende interamente dalla traslazione. Si otterrà forse la guarigione, ma non il necessario grado di autonomia, né la garanzia contro le ricadute. Sotto questo aspetto Lei ha la vita più facile di noi medici; perché sublima la traslazione nella religione e nell’etica, cosa che non è facile con gli invalidi della vita. Probabilmente la tecnica rigorosa della resistenza non è necessaria per Lei, che pratica la psicoanalisi al servizio della cura delle anime su persone giovani, quasi sempre ancora lontane dalla serietà dell’erotismo. Come vede, caro dottore, le mie critiche contengono ben poco biasimo. Io mi limito a misurare il suo lavoro in base alle nostre ultime esigenze, che non hanno ancora raggiunto una precisione completa. Le Sue frasi conclusive dimostrano quale chiarezza e quale arricchimento può rappresentare, per la psicologia corrente, la nostra psicoanalisi. Che ne è ora della Sua “Propedeutica”, che aspetto con tanto interesse? Lei sa che la Svizzera s’è trasformata per noi quest’anno in Olanda. L’anno prossimo, se mi riuscirà davvero di venire, spero di trovare risanata la frattura a Zurigo e Jung vincitore sulle difficoltà che gli stanno preparando ora. La saluto cordialmente, anche a nome dei membri della mia famiglia che lei conosce.

                                                                                                                   Suo Freud.

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

 

BENEDETTO, PP. XVI, Litterae encyclicae Deus Caritas est, Libr. Ed. Vaticana, Città del Vaticano, 2006.

 

CHELONI, Roberto, Fondamenti teorici dell’Identità, Lettura tenuta all’Ateneo di Treviso, A.A 2006/2007, comunicazione personale.

 

FREUD, Sigmund – PFISTER, Oskar : Briefe 1909-1939, S. Fischer Verlag, Frankfurt a. M.,  Trad. it.: Silvano Daniele: Psicoanalisi e fede. Lettere tra Freud e il Pastore Pfister 1909 – 1939, Bollati Boringhieri, Torino, 1990.

 

FREUD, S.: Ratschläge für den Arzt bei der psychoanalytischen Behandlung, 1912; Trad. it.: Raccomandazioni al medico sul trattamento psicoanalitico, in: Freud, S., Psicologia della vita amorosa e scritti, 1910/1912, Newton Compton, Roma, 1976.

 

JONES, Ernest., Vita e opere di Sigmund Freud,  Trad. it.: Armando Novelletto, Il Saggiatore, Milano, 1973.

                                                          

MANNONI, Octave, Freud, Paris, Seuil, 1968, Trad. it.: Alfredo Salsano, Laterza, Bari, 1982.

 

 

 

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