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   "MUSICA MAESTRO! Sigmund Freud e Yvette Guilbert".

di Roberto Cheloni

 

 
 

 

                                             


 

 

 

 

 

Trasportiamoci stasera a Parigi, all’Eldorado: un caffè concerto dove una quasi debuttante poco più che ventenne, Yvette Guilbert, (appena giunta dopo una folgorante carriera all’ 'Hippodrome') incanta il pubblico cosmopolita, venuto in Francia ad ammirare la 'Grande Exposition': è l’anno 1889 e gli occhi dei parigini e degli stranieri sono fissi alla Tour Eiffel.

Un giovane neurologo di una trentina d’anni, Sigmund Freud, si concede una pausa tra le scarsamente interessanti sedute del Congresso internazionale di ipnotismo: su consiglio della moglie del professor Charcot, si reca ad ascoltare la giovanissima “diseuse”. Sarà l’inizio di un’amicizia “immediata, tenera ed inossidabile”, come la definiranno i biografi della Guilbert.

La parola “psicoanalisi” non si frammette tra i nostri due protagonisti, perché il temine era ancora da venire.

Charles Zidler, il “patron” del 'Moulin Rouge' aveva scoperto prima di Freud (esattamente nel 1885) quella fanciulla enigmatica, dalle lunghissime gambe, intuendone la “cifra” dell’artista, mentre ancora dirigeva l’'Hippodrome'.  Toulouse-Lautrec, che la vide al 'Divan Japonais' (dopo l’esperienza del 'Moulin Rouge') ne tracciò degli “ schizzi”: uno estremamente realistico (se si vuole: spietato).

In scena Yvette si presentava fasciata di un abito di un verde smeraldo,  indossando lunghi guanti neri, misteriosa ed equivoca, quanto i suoi testi si situavano al confine tra il lecito e lo scabroso.

Il suo corpo efebico nulla concedeva agli sguardi lascivi degli spettatori, ma i testi delle canzoni che interpretava con un filo di voce (e che scriveva, come “La pocharde” – “L’ubriacona”) erano infarciti di sottili e scandalose allusioni; sembrava chiedere al pubblico se il messaggio era stato decifrato: “L’avez-vous entendue?”cantava con la sua inimitabile ed impeccabile dizione.

Non stupiamoci che lo stesso Gounod, ormai settantenne, andasse a sentirla o che un 'viveur' come il Principe di Galles la preferisse a molte altre. Henri Lavedan la paragonò- sottolineandone l’impatto inquietante con il pubblico- “alla statua di cera di un personaggio di Edgar  Allan Poe, che ospiti un fonografo nel ventre”. Pensiamo solo ad uno dei titoli che interpretava in uno dei locali più chic: “Aux Ambassadeurs”; la famosa (o famigerata) “La Danse macabre des foetus” di Mac Nab,  “detta” inimitabilmente da Yvette,  era in grado di scuotere qualunque spettatore, ma anche le canzoni di Xanrof, “Le Fiacre”, “L’Éros vanné” di Maurice Donnay, “Ma téte” di Secretain fanno in pochissimo tempo della Guilbert  “La diseuse fin de siècle”, come si legge nei manifesti d’epoca.

Tanto è il successo,  che già nella sua tournée viennese (nella patria di Freud) dell’inverno 1893, al teatro Ronacher che la ospita, viene presentata come la “Eleonora Duse della canzone”; a partire da quell’anno tutta Parigi conosceva il titolo del suo primo scritto autobiografico: “Come si diventa una stella”. 

E’ a Vienna che Freud la riascolta, ma dovremo aspettare una trentina d’anni perché sorga la perturbante amicizia tra Yvette ed uno dei genî del XX secolo.

Dico “perturbante”, perché Freud si situava in un particolare rapporto di attrazione e di indifferenza nei riguardi della musica; pur tuttavia la frequentazione della “diseuse”, durante i suoi spettacoli e fuori, testimonia di un’attrattiva per il “Guilbertinage” di Yvette, che rimanda alla fonte misteriosa della sua arte inimitabile, seduzione che permette alla cantante di rivolgersi a Freud (unica a farlo!) soltanto col cognome.

La nipote acquisita di Yvette, Eva Rosenfeld, studiava psicologia a Vienna. Nel 1924 fa la conoscenza di Anna Freud, la figlia psicoanalista di Sigmund e viene presentata al Maestro; due anni dopo, a Parigi, parlerà alla zia dell’ammirazione che il fondatore della psicoanalisi portava nei riguardi delle sue canzoni. E’ qui che inizia l’amicizia tra Yvette ed il Maestro. La "diseuse" regala a Freud una sua fotografia con la dedica: “Ad uno scienziato, da un’artista”; Freud risponde, contraccambiando con lo stesso tipo di regalo.

Il successo di Yvette ed il suo fascino la spingono ad iniziare la sua ponderosa autobiografia, così, già nell’agosto del 1927, Freud può lèggere il primo volume de “La chanson de ma vie”, che l’artista francese gli fa pervenire; a partir da quell’anno  si fissa la consuetudine che vede Freud ed Yvette Guilbert incontrarsi (almeno annualmente) ai concerti viennesi  per i quali, immancabilmente, il Maestro riceve dei biglietti omaggio, cui contraccambia con la galanteria di un bouquet di fiori; segue un biglietto d’invito per un thé all’Hotel Bristol.

Yvette arrivava, vera incarnazione di una Duse libertina, con il marito ed impresario Max Schiller, tra l’altro intimo amico (se non amante, come si sussurrava) di Eleonora Duse. Max era ebreo come Freud e come il Maestro esposto quindi ai fatali disegni dei terribili eventi degli Anni Trenta.

Yvette cantava “porgendo”, come si usa dire; il Maestro ascoltava, rapito; di colloquiare fluentemente neanche a parlarne, dopo che il cancro alla mascella l’aveva colpito: “Meine Protese spricht nicht französisch” osserverà scherzosamente Freud a Max Schiller (anche Yvette fu gravemente malata, a partire dal 1900 fino al 1906).

Già nel 1929 uno storico del costume è in grado di asserire che l’arte di Yvette possiede una cifra particolare; il terzo volume della sua autobiografia è in realtà un epistolario: “Mes lettres d’amour”, in cui figurano (tra la schiera di ammiratori più o meno famosi) tre nomi di spicco della letteratura francese: Pierre Loti, Francis Jammes e Pierre Louÿs. Yvette si diverte, ancora una volta, a spiazzare il suo pubblico. Ogni lettera è inserita in una prosa di commento e preceduta da un prologo “analitico”, all’interno del quale Yvette scandaglia il misterioso fondamento della propria arte, capace di trasformare un testo ordinario in un’inimitabile performance.

Arriva il momento in cui la "diseuse" interpella il Maestro, in una fitta rete epistolare, dicevo “interpella” come si farebbe con un “oracolo”, chiedendo non una risposta diretta, ma un auto-responso ispirato.

Sentiamo:

Ogni periodo dell’esistenza comporta

una particolare tecnica di seduzione.

Da lungo tempo ho fermato la mia – l’ultima…!

In scena occorre perdere ciò che rimane

in me, cancellare perfino

la mia ombra, essere non più che un’onda

senza nome e colma di sonorità. La Vie

qui chante (…) a mio talento obbligare

il mio pubblico a dimenticarmi (…). A vent’anni il

mio successo trovava compimento, mi

si diceva, nel mio particolare “apparire”. A sessant’anni (…)

il mio successo si alimenta della “mia trasparenza” (…)

questa tattica - diciamo – di “seduzione”…

si accorda ai miei sessant’anni”.

 

Lo scandaglio che Yvette lascia scorrere nel mare profondo della sua “trasparenza” non vale a dar notizia dei tesori che si trovano nel fondo della sua psiche, come ben sa ogni persona che intraprende una psicoanalisi,  ripensando al periodo che ha preceduto l’inizio della cura: non si può psicoanalizzare se stessi! Così una capitale lettera del 28 febbraio 1931 (Yvette aveva 66 anni, essendo nata nel 1865) svela la curiosità della cantante nei riguardi, non tanto della psicoanalisi, quanto del suo maestro, cui la "diseuse" chiede ”quattro righe in tedesco” che suo marito Max Schiller tradurrà e che potranno renderla “folle di gioia”. La risposta di Freud tarderà un poco; non si confronti il ritardo di otto giorni con gli “eoni” che una lettera inviata nel XXI secolo impiega per giungere a destinazione: se si compulsa il ciclopico epistolario freudiano, ci si avvede che le lettere si susseguivano e ricevevano risposta con continuità sorprendente. Perché allora  attendere l’8 marzo per vergare la data (molte lettere sono a lungo soppesate) della risposta ad Yvette? Freud equivoca la richiesta della sua amica e risponde lungamente cercando di estrapolare –da ciò che ha udito e veduto a Parigi ed a Vienna- l’essenza dell’”Io del commediante”.

Freud si chiede se veramente “l’ Io del commediante” sia “trasparente” e risponde di no, ma anche se “con un semplice contributo” alla impossibile “risoluzione di un gran segreto”. Difficile intendere quale sia tale enigma; forse conferire una apparenza indubitabile di vita vissuta, “autentica”, al ruolo interpretato. Sono le nascoste risorse dell’essere a colorare, a dar spessore a ciò che Yvette, all’opposto indicava come la sua “trasparenza.”. Si tratta piuttosto di offrire inconsciamente espressione a dei desideri “evanescenti”?

Resta il mistero di fondo: perché lo spettatore prova un brivido davanti a 'La Soûlarde'? Perché risponde “sì” di cuore alla domanda: “Ditemi se sono bella”? In fondo –conclude Freud- “ne sappiamo così poco”….

Una lettera così “moderatamente psicoanalitica” riceve invece una veemente risposta “da artista”, che testimonia la classica resistenza all’interpretazione che l’analista incontra in seduta. Le parole  (soprattutto i dinieghi) sono sottolineate due ed anche tre volte:

“ No! Non credo che questa “specie di Io” messo in scena sia un “sovrappiù” soppresso e reimpiegato, perché se la vita mi ha permesso di conoscere una quantità di cose, io d’altro canto ne ignoro altrettante! E dunque io saprei immaginarle, senza averle ‘provate’”.

 

Yvette protesta essere null’altro che la “volontà cerebrale dell’artista” a permetterle di trasformarsi sulla scena; altro non poteva attendersi il Maestro da colei che possedeva –quale peculiarità del suo dire- la sublime sfacciataggine di cantare in scena delle “grivoiserie”, di portare alla ribalta il vizio? La difesa fa sorridere il Maestro, costretto a far da schermidore, a colpi di fioretto epistolare, contro Yvette e lo “zio Max”; come si fa a comprendere il genio di Leonardo –si difende Freud- (che al sommo artista dedicò un saggio del 1910)- senza gettare uno sguardo sulle sue fondamentali esperienze infantili? E, per stare al presente, -affonda Freud- come intendere il genio comico di Charlot senza comprendere che Chaplin attivava una comprensione psichica portando sullo schermo le umiliazioni subìte nell’infanzia?

E’ inutile indurre un’analisi attraverso il veicolo di uno scambio epistolare; Freud lo sa bene, tanto che il “duello” finisce ad armi pari, senza intaccare l’amicizia con Yvette. ” In fondo ne sappiamo così poco…” aveva ammesso il Maestro relativamente all’Io del “commediante”. E’ forse “quel certo non so che” il limite dell’invalicabile, lo stretto roccioso (come il “complesso di castrazione”) sul quale si arrestano gli strumenti della psicoanalisi? Ascoltiamo il testo della canzone di Yvette preferita da Freud: “Madame Arthur”di Paul de Koch.

 

 

 

Come si sa, gli studiosi di una nuova scienza si stringono attorno al Maestro come gli adepti di un culto misterico al loro sacerdote, condividendone non solo le teorie, ma anche i gusti personali.

     Nell’impressionante 'Diario clinico' del 1932 Sàndor Ferenczi, il più geniale allievo di Freud, annota alla data del 10 aprile, riferendosi alle drammatiche vicissitudini del suo rapporto analitico con Elisabeth Severn (siglata “R.N.” nel Diario):

 

Invece che con il cuore, sento con la testa. Testa e pensiero prendono il posto del cuore e della libido. Spostamento di impulsi libidici fisicamente più primitivi nella testa, forse anche sotto forma di sintomi (mal di testa) o nella tendenza a costruire teorie (..). Ciò che manca a me, per i miei pazienti, è quel certo ‘qualcosa’" (nel testo tedesco si legge: “ das gewiβe ‘etwas’").

 

Ecco vi è un limite che manca all’analisi, quale strumento scientifico, per porre lo scienziato nella stessa lunghezza d’onda del folle o dell’artista (o dell’artista folle): "das gewiβe ‘etwas’" che non fatichiamo a tradurre con “je ne sais quoi”, il “certo non so che”.

Dagli ‘anni trenta’ Yvette Guilbert è soggetto “da citazione” per il Maestro; egli risponde così alle lodi sperticate che Arnold Zweig gli ha dedicato nella sua opera (1934): "Bilanz der deutschen Judenheit. 1933, Ein Versuch" (Bilancio dell’ebraismo tedesco del 1933. Un tentativo):

 

“Di ciò che Lei nel Bilanz scrive di su di me, non credo naturalmente nemmeno la metà. Ma la mia amica Yvette ha pur sempre una canzoncina nel suo repertorio: ça fait toujours plaisir”.

 

Non vi è dubbio che Freud apprezzasse anche canzoni più audaci della "diseuse", come la birichina “Tha-ma-ra-boum-di-hé” intessuta nell’Argot studentesco parigino ed infarcita di parti “coquines”, che non potevano che piacere all’autore del “Motto di spirito”, che anche in altra opera non aveva esitato ad analizzare storielle veramente oscene. Sentiamo “Tha-ma-ra-boum-di-hé” nella bella traduzione di Giovani Reginato...

 

 

 

Non desideriamo dimenticare che fin dall’epoca della pubblicazione del “Mosé di Michelangelo”, il fondatore della psicoanalisi avvertiva che, l’artista “mira piuttosto a destare in noi la stesso atteggiamento emotivo, la stessa costellazione mentale che ha prodotto in lui l’impeto creativo”.

Era proprio vero, come Freud confessa in esordio al Mosé, che egli era “quasi del tutto incapace di provare alcun godimento” nell’ascolto musicale? E’ impossibile crederlo, se non aggiungendo all’imprescindibile postilla, tratta dalla stessa opera :

Un mio atteggiamento mentale razionalistico, o forse analitico, si rifiuta in me a che io sia commosso da una cosa senza che io sappia perché e che cos’è che mi colpisce”.

Nel campo della letteratura e della scultura (come per l’opera ospitata in San Pietro in Vincoli a Roma), “contemplando” – è Freud stesso, così sorvegliato nel suo scrivere, ad ammettere indirettamente il suo amore per la letteratura- il Maestro viennese tentava di “spiegare a se stesso”, a che cosa “fosse dovuto il loro effetto” (ibidem).

A proposito del canto S.Agostino aveva scritto: “chi ama canta”, facendo luce sulle motivazioni inconsce che inducono l’uomo a farsi strumento, ad aprirsi illimitatamente all’esteriorità, quasi a voler uscire da un “involucro” corporale. Thomas Mann fa dire -nel suo Doktor Faustus- al Diavolo (nel suo colloquio con Adrian Leverkuhn): “La musica è una faccenda teologica”.

Come i meccanismi del sogno scoperti da Freud spostamento e condensazione, così la musica si condensa nell’armonia e si sposta su registri i più differenti.

Yvette non cantava soltanto, ma “porgeva” servendosi della gestualità, delle occhiate ammiccanti, delle “mosse”. E’ormai recepito dal senso comune che l’ascolto dello psicoanalista non si limita alla registrazione delle parole del paziente: il c.d. “terzo orecchio” è in grado di captare le “vibrazioni non verbali”, veicolate dal corpo dell’analizzante (come si dice in Francia).. Scriveva Freud nel 1901:

 

Chi ha occhi per vedere e orecchie per intendere si convince che ai mortali non è possibile celare nessun segreto. Chi tace con le labbra chiacchiera con la punta delle dita, si tradisce attraverso tutti i pori

 

Qui il Maestro trattava il caso Dora, una delle prime (la più famosa) pazienti di Freud. Nell’illustrazione della storia clinica egli ha in mente di mostrare alla comunità scientifica il ruolo fondamentale del Transfert, la traslazione dell’affettività del paziente verso il suo analista. “Ciascuno possiede nel proprio inconscio uno strumento con cui può intendere le espressioni dell’inconscio degli altri”; questa affermazione freudiana analizza le reazioni dello psicoanalista al dire del paziente: una risonanza che il Maestro chiama controtransfert, l’unica autentica – per alcuni teorici- comunicazione psicoanalitica.

Dunque aveva male inteso Yvette: il Maestro non escludeva “risonanze” inconsce del proprio ascolto della "diseuse" (come tali difficilmente analizzabili); Freud conosceva bene le fantasie notturne che assediano i bambini (specie se infanti) ed il potere –anche in assenza di comprensione delle parole- che la ninna nanna ripetuta della madre ha di sedare il 'pavor nocturnus'. Chissà se l’immensa cultura del Maestro viennese arrivò a conoscere i "Canti e danze di morte" di Mussorskij? Nella 'Berceuse' è la madre a cantare la ninna nanna al bambino.

Fu scritto (Di Benedetto) che “la musica rinvia al mondo inconscio anche perché risveglia alcune nostre esperienze asimboliche, depositate nelle memorie del corpo”.

Nei timbri, nel variare dei suoni della voce, si mostra il legame tra il corpo e la parola; è necessario in analisi sintonizzare con le inflessioni di voce del paziente per mantenere vivo il legame tra le esperienze rappresentate dalle parole e la loro radice semantica.

I messaggi non verbali, la gestualità, gli ammiccamenti sono un richiamo irresistibile ad esperienze percettive arcaiche.

Non bella, con un filo di voce, Yvette sul palcoscenico mostrava un’inusitata capacità di captazione dell’attenzione del pubblico, che le permise di lavorare (come abbiamo visto) sino ad un’età in cui le cantanti evitano il contatto diretto col pubblico non potendo più essere oggetto di desiderio, cos’era divenuta Yvette Guilbert quando cantava (di fronte ad un pubblico entusiasta) nel 1936, (a 71 anni) a Londra, alla Grotrian Hall?

La "diseuse" incontrò Freud nella capitale inglese quando il Maestro dovette fuggire, prevenendo le persecuzioni naziste;  Max Schiller (il marito di Yvette) come abbiamo detto era ebreo come Freud. Nel 1937 (il 19 dicembre) il Maestro scrive ad Yvette, assicurando che i due saranno ricevuti “a braccia aperte” alla società londinese. La profezia si avvera: nell’ottobre 1938 alla Wigmor Hall, l’anziana artista si esibisce con l’accompagnamento al piano di Irène Aïtoff. Il suo misterioso fascino è immutato; canta ancora 'Madame Arthur' ed è perennemente valida la chiusa della canzone preferita da Freud:

 

Oh, donne che cercate di far conquiste da mane a sera, invano passate, per piacervi, ore intere allo specchio. Eleganza, grazia sbarazzina, sguardo, un sospiro di buona lega, velluti, profumi, e crinoline: nulla vale quel certo “non so che”.

 

L’ultima foto di Yvette dedicata al Maestro porta la data: 6 maggio 1939 (Freud morirà il 23 settembre di quell’anno). La dedica è affettuosa ed ammirata: “Al grande Freud con tutto il mio cuore”. Non è certo la psicoanalisi ad attirare la Guilbert, ma la personalità di Freud e la sua immensa cultura, che non gl’impediva di apprezzare la fine arte della "diseuse".

Se Freud fu un archeologo della psiche, Yvette Guilbert sistematizzò una raccolta (imprescindibile per i musicologi) di canzoni medioevali (che lasciò in legato alla pianista Irène Aïtoff e di cui oggi -2006- si sono perse le tracce).

L’immoralità che traspare dai testi di alcune sue canzoni non è un invito al libertinaggio: “Se uno le canta <quelle cose> non le fa” aveva detto al suo padre confessore.

Si tratta, quindi,di una sorta di inconsapevole auto-analisi, che farà scuola nella storia della canzone.

Come Freud fondò una Scuola di Psicoanalisi, così Yvette aprì una Scuola di Canto a Bruxelles.

                 Morì cinque anni dopo il maestro, nel 1944, ad Aix-en-Provence.

        I suoi numerosi scritti testimoniano la lucidità con cui sceglieva i testi, cosciente dei piccoli sismi che il suo “porgere” scatenava; negò sempre  –a quanto si legge nei suoi scritti autobiografici-  l’esistenza di una fonte inconsapevole della sua arte, che cercasse sbocco necessario nel rapporto con il pubblico.

       I suoi doppi sensi sono forse  –per chi legge le centinaia di giuochi di parole che costellano l’opera di Freud-  le forme significanti della vita emotiva di ciascuno, un contributo all’estetica, che chiama l’ascoltatore all’interpretazione, come le parole del paziente sollecitano il “terzo orecchio” nello psicoanalista. Dai quadri che la ritraggono, dai manifesti dei film che ha interpretato, Yvette Guilbert ci guarda, enigmatica e rassicurante;  se la ascoltiamo, dopo tanti anni, i risolini che percorrono le sue canzoni, le pause ad effetto, i 'calembours' ci fanno percepire, accanto al desiderio di esser lì a rispondere al suo: “L’avez-vous entendu?”, la caducità del bello che almeno una volta abbiamo tutti  udito, nelle emozioni trasmesse dalla voce di una mamma che accompagna lo sguardo del suo bambino.

 

 

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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