Trasportiamoci stasera a Parigi,
all’Eldorado: un caffè concerto dove una quasi debuttante poco più che
ventenne, Yvette Guilbert, (appena giunta dopo una folgorante carriera
all’ 'Hippodrome') incanta il pubblico cosmopolita, venuto in Francia ad
ammirare la 'Grande Exposition': è l’anno 1889 e gli occhi dei parigini
e degli stranieri sono fissi alla Tour Eiffel.
Un giovane neurologo di una trentina
d’anni, Sigmund Freud, si concede una pausa tra le scarsamente
interessanti sedute del Congresso internazionale di ipnotismo: su
consiglio della moglie del professor Charcot, si reca ad ascoltare la
giovanissima “diseuse”. Sarà l’inizio di un’amicizia “immediata,
tenera ed inossidabile”, come la definiranno i biografi della Guilbert.
La parola “psicoanalisi” non si
frammette tra i nostri due protagonisti, perché il temine era ancora
da venire.
Charles
Zidler, il “patron” del 'Moulin Rouge' aveva scoperto prima di Freud
(esattamente nel 1885) quella fanciulla enigmatica, dalle lunghissime
gambe, intuendone la “cifra” dell’artista, mentre ancora dirigeva l’'Hippodrome'.
Toulouse-Lautrec, che la vide al 'Divan Japonais' (dopo l’esperienza del
'Moulin Rouge') ne tracciò degli “ schizzi”: uno estremamente realistico
(se si vuole: spietato).
In scena Yvette si presentava fasciata
di un abito di un verde smeraldo, indossando lunghi guanti neri,
misteriosa ed equivoca, quanto i suoi testi si situavano al confine
tra il lecito e lo scabroso.
Il suo corpo efebico nulla concedeva
agli sguardi lascivi degli spettatori, ma i testi delle canzoni che
interpretava con un filo di voce (e che scriveva, come “La pocharde” –
“L’ubriacona”) erano infarciti di sottili e scandalose allusioni;
sembrava chiedere al pubblico se il messaggio era stato decifrato:
“L’avez-vous entendue?”cantava con la sua inimitabile ed impeccabile
dizione.
Non stupiamoci che lo stesso Gounod,
ormai settantenne, andasse a sentirla o che un 'viveur' come il Principe
di Galles la preferisse a molte altre. Henri Lavedan la paragonò-
sottolineandone l’impatto inquietante con il pubblico- “alla statua di
cera di un personaggio di Edgar Allan Poe, che ospiti un fonografo
nel ventre”. Pensiamo solo ad uno dei titoli che interpretava in uno
dei locali più chic: “Aux Ambassadeurs”; la famosa (o famigerata) “La
Danse macabre des foetus” di Mac Nab, “detta” inimitabilmente da
Yvette, era in grado di scuotere qualunque spettatore, ma anche le
canzoni di Xanrof, “Le Fiacre”, “L’Éros vanné” di Maurice Donnay, “Ma
téte” di Secretain fanno in pochissimo tempo della Guilbert “La
diseuse fin de siècle”, come si legge nei manifesti d’epoca.
Tanto è il successo, che già nella
sua tournée viennese (nella patria di Freud) dell’inverno 1893, al
teatro Ronacher che la ospita, viene presentata come la “Eleonora Duse
della canzone”; a partire da quell’anno tutta Parigi conosceva il
titolo del suo primo scritto autobiografico: “Come si diventa una
stella”.
E’ a Vienna che Freud la riascolta, ma
dovremo aspettare una trentina d’anni perché sorga la perturbante
amicizia tra Yvette ed uno dei genî del XX secolo.
Dico “perturbante”, perché Freud si
situava in un particolare rapporto di attrazione e di indifferenza nei
riguardi della musica; pur tuttavia la frequentazione della “diseuse”,
durante i suoi spettacoli e fuori, testimonia di un’attrattiva per il
“Guilbertinage” di Yvette, che rimanda alla fonte misteriosa della sua
arte inimitabile, seduzione che permette alla cantante di rivolgersi a
Freud (unica a farlo!) soltanto col cognome.
La nipote acquisita di Yvette, Eva
Rosenfeld, studiava psicologia a Vienna. Nel 1924 fa la conoscenza di
Anna Freud, la figlia psicoanalista di Sigmund e viene presentata al
Maestro; due anni dopo, a Parigi, parlerà alla zia dell’ammirazione
che il fondatore della psicoanalisi portava nei riguardi delle sue
canzoni. E’ qui che inizia l’amicizia tra Yvette ed il Maestro. La
"diseuse" regala a Freud una sua fotografia con la dedica: “Ad uno
scienziato, da un’artista”; Freud risponde, contraccambiando con lo
stesso tipo di regalo.
Il successo di Yvette ed il suo
fascino la spingono ad iniziare la sua ponderosa autobiografia, così,
già nell’agosto del 1927, Freud può lèggere il primo volume de “La
chanson de ma vie”, che l’artista francese gli fa pervenire; a partir
da quell’anno si fissa la consuetudine che vede Freud ed Yvette
Guilbert incontrarsi (almeno annualmente) ai concerti viennesi per i
quali, immancabilmente, il Maestro riceve dei biglietti omaggio, cui
contraccambia con la galanteria di un bouquet di fiori; segue un
biglietto d’invito per un thé all’Hotel Bristol.
Yvette arrivava, vera incarnazione di
una Duse libertina, con il marito ed impresario Max Schiller, tra
l’altro intimo amico (se non amante, come si sussurrava) di Eleonora
Duse. Max era ebreo come Freud e come il Maestro esposto quindi ai
fatali disegni dei terribili eventi degli Anni Trenta.
Yvette cantava “porgendo”, come si usa
dire; il Maestro ascoltava, rapito; di colloquiare fluentemente
neanche a parlarne, dopo che il cancro alla mascella l’aveva colpito:
“Meine Protese spricht nicht französisch” osserverà scherzosamente
Freud a Max Schiller (anche Yvette fu gravemente malata, a partire dal
1900 fino al 1906).
Già nel 1929 uno storico del costume è
in grado di asserire che l’arte di Yvette possiede una cifra
particolare; il terzo volume della sua autobiografia è in realtà un
epistolario: “Mes lettres d’amour”, in cui figurano (tra la schiera di
ammiratori più o meno famosi) tre nomi di spicco della letteratura
francese: Pierre Loti, Francis Jammes e Pierre Louÿs. Yvette si
diverte, ancora una volta, a spiazzare il suo pubblico. Ogni lettera è
inserita in una prosa di commento e preceduta da un prologo
“analitico”, all’interno del quale Yvette scandaglia il misterioso
fondamento della propria arte, capace di trasformare un testo
ordinario in un’inimitabile performance.
Arriva il momento in cui la "diseuse"
interpella il Maestro, in una fitta rete epistolare, dicevo
“interpella” come si farebbe con un “oracolo”, chiedendo non una
risposta diretta, ma un auto-responso ispirato.
Sentiamo:
“Ogni periodo dell’esistenza
comporta
una particolare tecnica di
seduzione.
Da lungo tempo ho fermato la mia –
l’ultima…!
In scena occorre perdere ciò che
rimane
in me, cancellare perfino
la mia ombra, essere non più che
un’onda
senza nome e colma di sonorità. La
Vie
qui chante (…) a mio talento
obbligare
il mio pubblico a dimenticarmi (…).
A vent’anni il
mio successo trovava compimento, mi
si diceva, nel mio particolare
“apparire”. A sessant’anni (…)
il mio successo si alimenta della
“mia trasparenza” (…)
questa tattica - diciamo – di
“seduzione”…
si accorda ai miei sessant’anni”.
Lo scandaglio che Yvette lascia
scorrere nel mare profondo della sua “trasparenza” non vale a dar
notizia dei tesori che si trovano nel fondo della sua psiche, come ben
sa ogni persona che intraprende una psicoanalisi, ripensando al
periodo che ha preceduto l’inizio della cura: non si può
psicoanalizzare se stessi! Così una capitale lettera del 28 febbraio
1931 (Yvette aveva 66 anni, essendo nata nel 1865) svela la curiosità
della cantante nei riguardi, non tanto della psicoanalisi, quanto del
suo maestro, cui la "diseuse" chiede ”quattro righe in tedesco” che suo
marito Max Schiller tradurrà e che potranno renderla “folle di gioia”.
La risposta di Freud tarderà un poco; non si confronti il ritardo di
otto giorni con gli “eoni” che una lettera inviata nel XXI secolo
impiega per giungere a destinazione: se si compulsa il ciclopico
epistolario freudiano, ci si avvede che le lettere si susseguivano e
ricevevano risposta con continuità sorprendente. Perché allora
attendere l’8 marzo per vergare la data (molte lettere sono a lungo
soppesate) della risposta ad Yvette? Freud equivoca la richiesta della
sua amica e risponde lungamente cercando di estrapolare –da ciò che ha
udito e veduto a Parigi ed a Vienna- l’essenza dell’”Io del
commediante”.
Freud si chiede se veramente “l’ Io
del commediante” sia “trasparente” e risponde di no, ma anche se “con
un semplice contributo” alla impossibile “risoluzione di un gran
segreto”. Difficile intendere quale sia tale enigma; forse conferire
una apparenza indubitabile di vita vissuta, “autentica”, al ruolo
interpretato. Sono le nascoste risorse dell’essere a colorare, a dar
spessore a ciò che Yvette, all’opposto indicava come la sua
“trasparenza.”. Si tratta piuttosto di offrire inconsciamente
espressione a dei desideri “evanescenti”?
Resta il mistero di fondo: perché lo
spettatore prova un brivido davanti a 'La Soûlarde'? Perché risponde
“sì” di cuore alla domanda: “Ditemi se sono bella”? In fondo –conclude
Freud- “ne sappiamo così poco”….
Una lettera così “moderatamente
psicoanalitica” riceve invece una veemente risposta “da artista”, che
testimonia la classica resistenza all’interpretazione che l’analista
incontra in seduta. Le parole (soprattutto i dinieghi) sono
sottolineate due ed anche tre volte:
“ No! Non credo che questa “specie
di Io” messo in scena sia un “sovrappiù” soppresso e reimpiegato,
perché se la vita mi ha permesso di conoscere una quantità di cose, io
d’altro canto ne ignoro altrettante! E dunque io saprei immaginarle,
senza averle ‘provate’”.
Yvette protesta essere null’altro che
la “volontà cerebrale dell’artista” a permetterle di trasformarsi
sulla scena; altro non poteva attendersi il Maestro da colei che
possedeva –quale peculiarità del suo dire- la sublime sfacciataggine
di cantare in scena delle “grivoiserie”, di portare alla ribalta il
vizio? La difesa fa sorridere il Maestro, costretto a far da
schermidore, a colpi di fioretto epistolare, contro Yvette e lo “zio
Max”; come si fa a comprendere il genio di Leonardo –si difende Freud-
(che al sommo artista dedicò un saggio del 1910)- senza gettare uno
sguardo sulle sue fondamentali esperienze infantili? E, per stare al
presente, -affonda Freud- come intendere il genio comico di Charlot
senza comprendere che Chaplin attivava una comprensione psichica
portando sullo schermo le umiliazioni subìte nell’infanzia?
E’ inutile indurre un’analisi
attraverso il veicolo di uno scambio epistolare; Freud lo sa bene,
tanto che il “duello” finisce ad armi pari, senza intaccare l’amicizia
con Yvette. ” In fondo ne sappiamo così poco…” aveva ammesso il Maestro
relativamente all’Io del “commediante”. E’ forse “quel certo non so
che” il limite dell’invalicabile, lo stretto roccioso (come il
“complesso di castrazione”) sul quale si arrestano gli strumenti della
psicoanalisi? Ascoltiamo il testo della canzone di Yvette preferita da Freud: “Madame Arthur”di Paul de Koch.
Come si sa, gli studiosi di una nuova
scienza si stringono attorno al Maestro come gli adepti di un culto
misterico al loro sacerdote, condividendone non solo le teorie, ma
anche i gusti personali.
Nell’impressionante
'Diario
clinico' del 1932 Sàndor Ferenczi, il più geniale allievo di Freud,
annota alla data del 10 aprile, riferendosi alle drammatiche
vicissitudini del suo rapporto analitico con Elisabeth Severn (siglata
“R.N.” nel Diario):
“ Invece che con il cuore, sento con
la testa. Testa e pensiero prendono il posto del cuore e della libido.
Spostamento di impulsi libidici fisicamente più primitivi nella testa,
forse anche sotto forma di sintomi (mal di testa) o nella tendenza a
costruire teorie (..). Ciò che manca a me, per i miei pazienti, è quel
certo ‘qualcosa’" (nel testo tedesco si legge: “ das gewiβe ‘etwas’").
Ecco vi è un limite che manca
all’analisi, quale strumento scientifico, per porre lo scienziato
nella stessa lunghezza d’onda del folle o dell’artista (o dell’artista
folle): "das gewiβe ‘etwas’" che non fatichiamo a tradurre con “je ne sais quoi”, il “certo non so che”.
Dagli ‘anni trenta’ Yvette Guilbert è
soggetto “da citazione” per il Maestro; egli risponde così alle lodi
sperticate che Arnold Zweig gli ha dedicato nella sua opera (1934):
"Bilanz der deutschen Judenheit. 1933, Ein Versuch" (Bilancio
dell’ebraismo tedesco del 1933. Un tentativo):
“Di ciò che Lei nel Bilanz scrive di
su di me, non credo naturalmente nemmeno la metà. Ma la mia amica
Yvette ha pur sempre una canzoncina nel suo repertorio: ça fait
toujours plaisir”.
Non vi è dubbio che Freud apprezzasse
anche canzoni più audaci della "diseuse", come la birichina
“Tha-ma-ra-boum-di-hé” intessuta nell’Argot studentesco parigino ed
infarcita di parti “coquines”, che non potevano che piacere all’autore
del “Motto di spirito”, che anche in altra opera non aveva esitato ad
analizzare storielle veramente oscene. Sentiamo “Tha-ma-ra-boum-di-hé”
nella bella traduzione di Giovani Reginato...
Non desideriamo dimenticare che fin
dall’epoca della pubblicazione del “Mosé di Michelangelo”, il
fondatore della psicoanalisi avvertiva che, l’artista “mira piuttosto
a destare in noi la stesso atteggiamento emotivo, la stessa
costellazione mentale che ha prodotto in lui l’impeto creativo”.
Era proprio vero, come Freud confessa
in esordio al Mosé, che egli era “quasi del tutto incapace di provare
alcun godimento” nell’ascolto musicale? E’ impossibile crederlo, se
non aggiungendo all’imprescindibile postilla, tratta dalla stessa
opera :
“Un mio atteggiamento mentale
razionalistico, o forse analitico, si rifiuta in me a che io sia
commosso da una cosa senza che io sappia perché e che cos’è che mi
colpisce”.
Nel campo della letteratura e della
scultura (come per l’opera ospitata in San Pietro in Vincoli a Roma),
“contemplando” – è Freud stesso, così sorvegliato nel suo scrivere, ad
ammettere indirettamente il suo amore per la letteratura- il Maestro
viennese tentava di “spiegare a se stesso”, a che cosa “fosse dovuto
il loro effetto” (ibidem).
A proposito del canto S.Agostino aveva
scritto: “chi ama canta”, facendo luce sulle motivazioni inconsce che
inducono l’uomo a farsi strumento, ad aprirsi illimitatamente
all’esteriorità, quasi a voler uscire da un “involucro” corporale.
Thomas Mann fa dire -nel suo Doktor Faustus- al Diavolo (nel suo
colloquio con Adrian Leverkuhn): “La musica è una faccenda teologica”.
Come i meccanismi del sogno scoperti
da Freud spostamento e condensazione, così la musica si condensa
nell’armonia e si sposta su registri i più differenti.
Yvette non cantava soltanto, ma
“porgeva” servendosi della gestualità, delle occhiate ammiccanti,
delle “mosse”. E’ormai recepito dal senso comune che l’ascolto dello
psicoanalista non si limita alla registrazione delle parole del
paziente: il c.d. “terzo orecchio” è in grado di captare le
“vibrazioni non verbali”, veicolate dal corpo dell’analizzante (come
si dice in Francia).. Scriveva Freud nel 1901:
“Chi ha occhi per vedere e orecchie
per intendere si convince che ai mortali non è possibile celare nessun
segreto. Chi tace con le labbra chiacchiera con la punta delle dita,
si tradisce attraverso tutti i pori”
Qui il Maestro trattava il caso Dora,
una delle prime (la più famosa) pazienti di Freud. Nell’illustrazione
della storia clinica egli ha in mente di mostrare alla comunità
scientifica il ruolo fondamentale del Transfert, la traslazione
dell’affettività del paziente verso il suo analista. “Ciascuno
possiede nel proprio inconscio uno strumento con cui può intendere le
espressioni dell’inconscio degli altri”; questa affermazione freudiana
analizza le reazioni dello psicoanalista al dire del paziente: una
risonanza che il Maestro chiama controtransfert, l’unica autentica –
per alcuni teorici- comunicazione psicoanalitica.
Dunque aveva male inteso Yvette: il
Maestro non escludeva “risonanze” inconsce del proprio ascolto della
"diseuse" (come tali difficilmente analizzabili); Freud conosceva bene
le fantasie notturne che assediano i bambini (specie se infanti) ed il
potere –anche in assenza di comprensione delle parole- che la ninna
nanna ripetuta della madre ha di sedare il 'pavor nocturnus'. Chissà se
l’immensa cultura del Maestro viennese arrivò a conoscere i "Canti e
danze di morte" di Mussorskij? Nella 'Berceuse' è la madre a cantare la
ninna nanna al bambino.
Fu scritto (Di Benedetto) che “la
musica rinvia al mondo inconscio anche perché risveglia alcune nostre
esperienze asimboliche, depositate nelle memorie del corpo”.
Nei timbri, nel variare dei suoni
della voce, si mostra il legame tra il corpo e la parola; è necessario
in analisi sintonizzare con le inflessioni di voce del paziente per
mantenere vivo il legame tra le esperienze rappresentate dalle parole
e la loro radice semantica.
I messaggi non verbali, la gestualità,
gli ammiccamenti sono un richiamo irresistibile ad esperienze
percettive arcaiche.
Non bella, con un filo di voce, Yvette
sul palcoscenico mostrava un’inusitata capacità di captazione
dell’attenzione del pubblico, che le permise di lavorare (come abbiamo
visto) sino ad un’età in cui le cantanti evitano il contatto diretto
col pubblico non potendo più essere oggetto di desiderio, cos’era
divenuta Yvette Guilbert quando cantava (di fronte ad un pubblico
entusiasta) nel 1936, (a 71 anni) a Londra, alla Grotrian Hall?
La "diseuse" incontrò Freud nella
capitale inglese quando il Maestro dovette fuggire, prevenendo le
persecuzioni naziste; Max Schiller (il marito di Yvette) come abbiamo
detto era ebreo come Freud. Nel 1937 (il 19 dicembre) il Maestro
scrive ad Yvette, assicurando che i due saranno ricevuti “a braccia
aperte” alla società londinese. La profezia si avvera: nell’ottobre
1938 alla Wigmor Hall, l’anziana artista si esibisce con
l’accompagnamento al piano di Irène Aïtoff. Il suo misterioso fascino
è immutato; canta ancora 'Madame Arthur' ed è perennemente valida la
chiusa della canzone preferita da Freud:
Oh, donne che cercate di far
conquiste da mane a sera, invano passate, per piacervi, ore intere
allo specchio. Eleganza, grazia sbarazzina, sguardo, un sospiro di
buona lega, velluti, profumi, e crinoline: nulla vale quel certo “non
so che”.
L’ultima foto di Yvette dedicata al
Maestro porta la data: 6 maggio 1939 (Freud morirà il 23 settembre di
quell’anno). La dedica è affettuosa ed ammirata: “Al grande Freud con
tutto il mio cuore”. Non è certo la psicoanalisi ad attirare la
Guilbert, ma la personalità di Freud e la sua immensa cultura, che non
gl’impediva di apprezzare la fine arte della "diseuse".
Se Freud fu un archeologo della
psiche, Yvette Guilbert sistematizzò una raccolta (imprescindibile per
i musicologi) di canzoni medioevali (che lasciò in legato alla
pianista Irène Aïtoff e di cui oggi -2006- si sono perse le tracce).
L’immoralità che traspare dai testi di
alcune sue canzoni non è un invito al libertinaggio: “Se uno le canta
<quelle cose> non le fa” aveva detto al suo padre confessore.
Si tratta, quindi,di una sorta di
inconsapevole auto-analisi, che farà scuola nella storia della
canzone.
Come Freud fondò una Scuola di
Psicoanalisi, così Yvette aprì una Scuola di Canto a Bruxelles.
Morì cinque anni
dopo il maestro, nel 1944, ad Aix-en-Provence.
I suoi numerosi scritti
testimoniano la lucidità con cui sceglieva i testi, cosciente dei
piccoli sismi che il suo “porgere” scatenava; negò sempre –a quanto
si legge nei suoi scritti autobiografici- l’esistenza di una fonte
inconsapevole della sua arte, che cercasse sbocco necessario nel
rapporto con il pubblico.
I suoi doppi sensi sono forse
–per chi legge le centinaia di giuochi di parole che costellano
l’opera di Freud- le forme significanti della vita emotiva di
ciascuno, un contributo all’estetica, che chiama l’ascoltatore
all’interpretazione, come le parole del paziente sollecitano il “terzo
orecchio” nello psicoanalista. Dai quadri che la ritraggono, dai
manifesti dei film che ha interpretato, Yvette Guilbert ci guarda,
enigmatica e rassicurante; se la ascoltiamo, dopo tanti anni, i
risolini che percorrono le sue canzoni, le pause ad effetto, i
'calembours' ci fanno percepire, accanto al desiderio di esser lì a
rispondere al suo: “L’avez-vous entendu?”, la caducità del bello che
almeno una volta abbiamo tutti udito, nelle emozioni trasmesse dalla
voce di una mamma che accompagna lo sguardo del suo bambino.
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