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 Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte  

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    " UN'ANALISTA DEL MIO TEMPO"

 

Prefazione di Domenico Chianese del libro di Marina Breccia "Le parole ritrovate" (Borla, 2006)

 

 

Si ringrazia sentitamente l'editore Borla, oltre che il dott. Chianese, per l'autorizzazione alla riproduzione su "Frenis Zero" di questa prefazione.

 

                

“Ciascuna idea nasce con la forma, io do forma alle idee come mi vengono in testa : non  si sa da dove vengono le idee , portano la loro forma con sé, mi arrivano le idee con la loro veste “

Meret Oppenheim

 

 

“ Raggiunta la rappresentazione di parola, l’immagine diventa parola  e potremmo dire ancora la parola parla attraverso l’immagine.

Marina Breccia

 

 

            “La psicoanalisi trova  in quella follia per eccellenza , che gli psichiatri chiamano schizofrenia, il proprio tormento intimo più invincibile. In questa follia si danno infatti , in una forma interamente manifesta, e interamente sottratta, le forme della finitudine verso cui di solito la psicoanalisi avanza illimitatamente (e nell’interminabile )…Di modo che la psicoanalisi ’vi si riconosce ’ , una volta posta di fronte a quelle stesse psicosi  cui pure ( o piuttosto per questa ragione)  non  ha  accesso:  come se la psicosi ostentasse in un’illuminazione  crudele  e offrisse in una forma non già troppo lontana, ma al contrario troppo vicina,  ciò  verso cui l’analisi  deve lentamente procedere”. Così scrive M. Foucault. ( 1967 Le parole e le cose, pag.402) 

Gli analisti che si sono cimentati con la psicosi hanno avvertito quel tormento “intimo e invincibile”che dissolve certezze e teorie acquisite , perché la psicosi interroga la psicoanalisi nei suoi fondamenti metapsicologici e metodologici.

 

Piera Aulagnier nella prefazione a La violenza dell’interpretazione scrive :” … in maniera spesso inattesa , abbiano visto certe questioni, che pensavo risolte, ritrovare la loro oscurità , certi riferimenti concettuali, che avevamo creduto non presentassero più difficoltà, perdere la loro apparente chiarezza”.

  Foto: Piera Aulagnier

In questo ambito di riflessione e di dubbio si colloca la ricerca del libro  Le parole ritrovate di Marina Breccia  che scrive: “ Non si può declinare un paradigma della psicosi  a partire da una situazione psichica  non psicotica senza sapere ed accettare di imbattersi costantemente in elementi che producono una faglia , un crinale dove il pensiero teorico si interrompe e scorre inevitabilmente da un versante o da un altro”.

Sarebbe però fuorviante circoscrivere il testo della Breccia unicamente all’interno della problematica della psicosi, anche se questo rimane un tema centrale.

Sono le immagini, il rapporto immagini-parole, immagini-pensiero, l’area di partenza di una riflessione che transita e sosta sulla psicosi e approda ad una meditazione dolorosa  , e ad una posizione etica, sulla crisi della parola  nel mondo contemporaneo , quel collasso tragico determinato dall’invasione delle immagini. Questo tema che l’autrice pone nell’ouverture de Le parole ritrovate sarà da me commentato nella conclusione del mio breve excursus  perché la premessa  della Breccia è in realtà l’approdo, lo sbocco di una ricerca perseguita da anni.

Come orientarsi, parlando di immagini, e del catastrofico smacco, nella psicosi, tra immagini e parole?

Marina Breccia ci propone un viaggio che  parte da Freud , tocca Autori come Lacan, Assoun, Aulagnier, Laplanche e Pontalis, per giungere ad una sua proposta originale, che viene descritta e rappresentata attraverso due esperienze analitiche  di pazienti psicotiche, di rara intensità e profondità.

Di questo viaggio io traccerò solo delle linee, dei tracciati sintonici con il mio sentire, lasciando al lettore e al suo gusto estetico la scelta e il ritrovamento di altre vie e percorsi.

Marina Breccia parte da Freud , per delineare la sua metodologia di ricerca che contempla e articola in modo inscindibile il “ descrittivo” e il “ metapsicologico” perché solo la corrispondenza di questi  due piani può “ strutturare un modello interpretativo “.

Ma il ricorso a Freud non è solo  metodologico. L’autrice parte dalla concezione dell’immagine in Freud per affermare: “ L’immagine di percezione è un luogo di scambio, un centro di svincolo, attraverso il quale si può transitare su  vie più avanzate. L’immagine è un luogo di transizione tra un primario e un secondario, tra un arcaico e un differenziato, senza essere più l’uno né ancora l’altro, rimane vicino all’arcaico, ma assume rispetto ad esso  una qualche differenziazione che è ancora grossolana e sincretica; è il momento del possibile passaggio. Vi è un transito da un’attività psichica , che non è pensiero, ad un’altra che si sposta su altre vie…….La scelta di partire da questo versante del pensiero freudiano ha un senso preciso, che è quello di individuare un’ansa di riflessione  che ha costituito la forza motrice e propulsiva di tutto il resto del testo. A partire da questa scelta, si è creata infatti l’opportunità di introdurre il pensiero di altri Autori che si è mantenuto in connessione con quello di Freud.”.

Partendo da tali premesse, con una cura esemplare, si dispiega il dialogo con gli altri Autori.

Lacan è rivisitato per differenziare l’immagine dall’immaginario.

  Foto: Jacques Lacan

 "E’ necessaria una precisazione sull’uso dei termini: immagine e immaginario. Immagine viene usato con significato che rimanda fortemente a quello di Freud , che si inscrive nell’ambito della percezione interna , e che si trova in quegli attraversamenti dei percorsi psichici che  tenderebbero  verso il ritorno alla percezione primaria  senza il soddisfacimento di questa meta. Questo impedimento favorirebbe i possibili agganci con il simbolico, e da lì i concatenamenti ideativi verso la possibilità di costruzione di significato. Attraverso questa identificazione  di luoghi e di percorsi delle immagini si può ritrovare che una tale definizione si va a collocare in una posizione non troppo distante dal pensiero di Lacan sull’immaginario: ‘ Le incidenze immaginarie,lungi da rappresentare l’essenziale della nostra esperienza , non ne restituiscono nulla che non sia inconsistenza , a meno che non siano rapportate alla catena simbolica che le lega e le orienta ’. Ancora sempre con Lacan , la percezione trae il suo carattere di realtà solo attraverso le sue articolazioni simboliche  “

Di Lacan viene sottolineata l’importanza data dallo psicoanalista francese al ruolo e all’onnipotenza dell’Altro  e al valore fondante, o meglio fondativo, per il Soggetto dell’ordine del simbolico.

Ma è Piera Aulagnier, a mio avviso, il punto di riferimento della speculazione di Marina Breccia, che sono certo si riconoscerebbe nelle seguenti parole della Aulagnier: “ Noi rifiutiamo le diverse concezioni sociogenetiche della psicosi, ma crediamo al contrario, al ruolo di quella che chiamiamo realtà storica . In questa realtà, diamo un egual peso agli eventi svoltisi nella vita della coppia durante l’infanzia del soggetto , al discorso tenuto al bambino e alle ingiunzioni che gli sono state fatte , ma anche alla posizione di esclusione, di sfruttamento o di vittima che la società ha potuto effettivamente imporre alla coppia o al bambino ( Piera Aulagnier 1994 La violenza dell’interpretazione    pag. 216). Piera Aulagnier, affrontando il pensiero di Lacan sul ruolo dell’Altro nella costruzione-distruzione del soggetto , sottolinea l’importanza nella preistoria del futuro psicotico, come ripropone la Breccia, del “ .... non-desiderio  di bambino nei genitori che lo attendono, che corrisponde ad un desiderio di morte per il bambino, raramente agito, più frequentemente espresso in modo mascherato , attraverso conflitti più o meno razionalizzati  e indirizzati verso l’altro coniuge . L’evento della nascita diventa allora per il genitore il rischio di un disimpasto pulsionale , che lo pone di fronte alla propria pulsione di morte . Ciò comporta drammaticamente per il bambino l’impossibilità di rappresentare la propria origine come il risultato di un desiderio e di un piacere che unisce i suoi  due genitori. Un’altra  conseguenza di questo accadimento psichico è che al disinvestimento del non-desiderio corrisponda una supercompensazione da parte  della madre che lo rivendichi come unicamente suo.”.

Da qui il dato “ folle “ dello psicotico di donare , cedere la sua vita all’Altro , da qui quell’insieme indissolubile di sopraffazione–donazione.

Scrive Marina Breccia: “ L’esistenza si declina sempre secondo lo stesso paradigma che vede l’Io cedere all’Altro le chiavi di casa sua facendolo diventare il padrone e il tiranno. Quello che resta del soggetto può utilizzare solo una versione sgrammatica , illogica e impossibile da sperimentare fuori dalla psicosi, che suonerebbe come “ Io sei” “.

Sull’utilizzazione delle immagini in chiave metaforica , si trova una vicinanza tra l’operare clinico della Aulagnier e della Breccia  che afferma :” Piera Aulagnier descrive l’intervento dell’analista come colui che esprime un scena figurata , il più vicina possibile al ' pensare in immagini' di cose corporee, e questa modalità di intervento diventa una proposta e un’indicazione …. Si potrebbe quindi dire che l’operatività proposta indica la possibilità di raggiungere un pensiero attraverso un’immagine ; nel caso dell’Autrice l’immagine è proposta , indicata e costruita dall’analista , è infatti l’immagine, che secondo la Aulagnier , ha la funzione di favorire la costruzione del fantasma, fino a quel momento impossibile, per far ripartire un pensiero.”.

Diversi capitoli del libro sono dedicati alla proposta di utilizzare le immagini in chiave terapeutica, come ponte tra l’”originario” e il “ primario” per uno sbocco nel simbolico, che caratterizza il “secondario”, uno sbocco e approdo alla parola , da come recita il titolo del libro, divenuta  così una “parola ritrovata”.

Considerando, a partire da Freud , che nella rappresentazione vi è una componente percettiva  ed una ideativa , e che nella psicosi è evidente uno scarto tra le due , con conseguente difficoltà di passaggio dal “primario” al “secondario”, l’operare sulle immagini in chiave metaforica serve a colmare questo iato e a congiungere  il piano percettivo con quello ideativo.

Marina Breccia ci tiene però a sottolineare , per chiarire il ruolo dell’analista  nel lavoro con le immagini che: “…. questa ipotesi trova un analista inerte , non un propositore di immagini, né un estimatore di immagini, né un collezionista di immagini, né voyeuristicamente un desideroso di immagini. L’analista può favorire , rispetto al proprio modo di porsi rispetto  alle immagini , un passaggio al pensiero, passaggio che è già posto in essere dal paziente  e che eventualmente fa parte di un suo desiderio, quello dell’altro. La ricostruzione, la descrizione, e l’utilizzo dell’immagine fanno parte di attività su materiale totalmente a carico del paziente, perché tutto ciò ha a che fare con  un riconoscimento di una sua soggettività che incomincia a pensare tutelabile dal furto e dalla sopraffazione dell’altro.”

Nell’analisi delle psicosi “….è più il tempo dedicato a riprendere e a riparare l’ordito che quello dedicabile alla ricomposizione del disegno che ne racconta la storia…….Il raggiungimento del soggetto non è un atto eroico, non è un bene da conquistare , è una realtà esistenziale alla quale l’analista tiene in quanto tale per sé e per l’altro.” Quest’ultima affermazione parte dalla premessa che nel paziente  sia da ricostruire l’”Io esistenziale “ , prima dell’”Io simbolico”.

 

Chi sulla terra non fa valere la sua parte divina, non ha neppure agli inferi riposo”  (Hölderlin,Invocazione alle Parche )  

  Foto: W. Blake, "Parabola delle vergini sagge e delle vergini folli"

Scrivono, commentando Hölderlin, Abraham e Torok (1993, Così parla il poeta , pag. 289): “ Sì, la parte divina, l’opera scaturita dal ritrovamento di se stesso, viene alla luce solo per farsi valere , per farsi riconoscere. Da sé a sé di fronte all’universo. A volte l’ “ universo” è rappresentato da chi siede  su una poltrona analitica. Di fronte a lui questa “parte divina “ si crea , o lentamente si svela. Che l’analista la comprenda, la ammetta, ne goda! Come si potrebbe godere una poesia. Ma quanta strada per giungervi! E quante trappole durante il percorso. L’analista ha orecchio per tutti i “poemi, per tutti i “poeti” ?

Queste parole di Abraham e Torok sono da me utilizzate per parlare delle due straordinarie vicende analitiche  di pazienti psicotiche  descritte dalla Breccia, che ha avuto orecchio per quei “poemi e per quei “ poeti”. Ritrovo nella Breccia, così come in Abraham e Torok, il rispetto,  l’amore oserei dire per la vita dell’altro, una vita intesa come opera  complessa da decifrare con strumenti insieme classici e innovativi.

 

Durante l’analisi Lia avrà crisi psicotiche anche in seduta . In una di queste il delirio, il dolore e l’odio attraversano la paziente  e invadono l’analista, verso la fine della seduta  il mare si placa : “...non tema”, dice la paziente all’analista, “ è andata via , è andata via , se ne è andata, grazie di essere rimasta  qui con me ad ascoltarmi “.

In un periodo di remissione del dolore psicotico, inizia le sedute con una canzoncina che le è venuta in mente in autobus. E’ una specie di ritornello che dice: “Non più voci, non più dolore , il mondo non sarà felicità , ma questa è libertà”. Scrive l’autrice: “ Io le propongo un’interpretazione quando lei ritorna sulla canzoncina  nel corso della seduta , attraverso la quale le sottopongo l’idea che la canzone fosse , nella forma e nel contenuto, la testimonianza di una possibilità per il pensiero di fluire con minori intoppi tra esterno e interno: che lei, più libera dal dolore della malattia , avesse trovato una fonte di nuove parole, per descrivere la sua vita e la sua sofferenza e che avesse meno bisogno delle voci o di parole prese a prestito da altri. Il suo pensiero si incaglia e si blocca, ma poi riparte con un  “ non credo di aver capito niente”. Le propongo: “Se immaginiamo di avere due ceste , e che lei possa usare invece delle parole delle palle di diverso colore , il nero corrisponde alle parole di prigionia…” e lei aggiunge “ ... e il rosso , che a me piace,  a quelle di libertà. Come le distribuirei?” Completa:” Nella cesta delle palle nere butterei le voci, nell’altra potrei mettere tutto il resto “. Dopo un silenzio:” Ma nella cesta nera dovrei mettere anche tutti i giudizi e pregiudizi degli altri  che mi hanno terrorizzato, tutte le parole di mia madre che mi hanno divorato da dentro,tutte le parole che ripetevo io dette da lei, a volte mi sembrava perfino con la stessa voce , parole come lance che mi trapassavano, e io ero persa , non capivo niente “.

E’ questo un bell’esempio  dell’operare e del lavorare con le immagini di Marina Breccia.

“ Prima c’erano le immagini costruite da lei, ora c’è un’immagine co-struita in una metafora , che è alla ricerca di un significato possibile, e da non perdere, là dove l’interpretazione sembrava aver fallito la possibilità di raggiungerlo e dove , tenacemente sia io che lei, non volevamo comunque perdere le speranze di ritrovarlo.”

Verso la fine del percorso la paziente giungerà a dire:” Ho pensato che esistono due mondi: quello operativo delle persone normali, e quello non operativo degli psicotici, dico due mondi perché sono due realtà che prendono dignità dai propri valori. Sapere di avere dei valori mi fa vivere  e “sentire “ il futuro. Prima il futuro era solo un pensiero completamente distaccato dal presente, ora lo vedo mentre sono nel presente … speriamo di farcela.”

 

Dopo una delle sue crisi psicotiche , Livia  ricorderà in seduta quanto la sorella si sentisse insicura perchè andava male a scuola ed era proprio Livia ad incoraggiarla e ad aiutarla . Poi dirà: “ Sa , penso che sono diventata psicotica al posto suo”. Le crisi si ripetono, misteriosamente nel periodo di Pasqua .Il padre, molto amato, si era ammalato  tempo addietro  di una forma di demenza con stati confusionali. In analisi riuscirà a ricordare il padre che, in uno stato di grave eccitamento psicomotorio, le proponeva un rapporto sessuale  e questo ricordo  precipitava insieme a quello di un abuso subito  in una Pasqua.

L’umiliazione non è certo la genesi della psicosi, ma ne è un costituente spesso nascosto, segreto, che ti arresta la vita.” La psicosi non è una malattia, è un’esperienza che ti cambia la vita per sempre, anche quando trovi il coraggio, dopo molto, di ricominciare a vivere”, dirà la paziente.

E si ricomincia a vivere anche con l’uso delle immagini, quelle promosse dal paziente.

“ Solo ora mi accorgo che è tutta la seduta che penso a quella busta che ho osservato sul suo tavolo entrando. Era stata aperta malamente e , a causa di questo ha rischiato di essere stracciata, probabilmente insieme al suo contenuto. E’ come se questa busta io l’avessi vista infinite volte, e infinite volte mi fossi interrogata  su di essa , ma solo ora riesco a vedere un collegamento tra quella busta malamente strappata e me. Io sono come quella busta, la psicosi è uno strappo, è una conseguenza di un trattamento in cui è riposta scarsa attenzione e scarsa cura, … è una conseguenza anche della natura di quella busta. Se la mia natura fosse stata solida come quella di quelle belle buste da pacchi, piene di bollicine di plastica , resistenti fuori, però anche morbide e tenaci dentro, forse non ci sarebbe bisogno di pensare alle buste. Poi, subito dopo penso un’altra cosa: e se io fossi stata ancora meno resistente  e l’incontro con le disattenzioni della sorte avesse avuto ancora un altro esito, quale sarebbe stata la mia possibilità di recupero alla vita? Io ho forti dubbi che sarebbe andata così, allora penso che sono comunque contenta , anche se non sono come quelle belle buste cicciotte, oddio, anche se meriterebbe che un po’ dimagrissi” A. :” La busta  era sul mio tavolo, ha a che fare con me?” L.:” Non mi sembra possibile che lei possa essere così incurante degli involucri, e di quello che ci sta dentro, però forse in passato l’ho temuto, anche perché era l’esperienza a cui ero più abituata, non mi ricordo se l’ho pensato quando lei non c’era quella Pasqua che mi hanno ricoverato, so di averlo pensato dopo quando lei mi ha confermato la sua presenza  e questo mi ha aiutato a capire la mia paura che si ripetesse l’abbandono, la volta dei fiori… Quella è stata per me l’occasione per pensare che era possibile qualche cosa che non era solo cancellato dalla mia memoria, ma anche dalla mia vita.”

 

Come prima dicevo la ricerca di Marina Breccia approda ad una riflessione sul disagio contemporaneo della civiltà, riflessione che ritroviamo nella premessa del libro:

” Mi sono spesso chiesta”, scrive,”dove Freud avrebbe potuto incontrare gli psicotici. E’ indubitabile che all’epoca non sarebbe stato possibile un libero accesso al suo studio, tranne che in rare eccezioni, poiché queste forme cliniche avevano incontrato solo luoghi di segregazione . Ecco che allora l’incontro , per verificarsi, avrebbe dovuto essere forzoso, quindi poco analitico, per un movimento troppo attivo di chi offriva la cura.

Alle soglie del ventesimo secolo, prima delle terribili devastazioni delle due grandi guerre, la società teneva bene a bada le sue spinte aggressive e distruttive , fondando convinte radici di speranza nel nuovo secolo su molte menzogne e ipocrisie.

… La società odierna, che dista da quella freudiana  solo un secolo, si propone in tutt’altro modo: non mentisce , o lo fa poco, ma diniega, con le più alte espressioni di scissione . Il diniego è rapido, cancella macchia e colpa, perché annulla la realtà.

……Il collasso temporale e l’invasione, attraverso l’imposizione delle immagini, annullano lo spazio angusto che fa accedere alle immagini dell’interiorità.

….. Il mondo occidentale  ha perso il potere delle immagini da offrire al suo pensiero……

….. Freud , oggi, non dovrebbe andare a cercare la psicosi, la troverebbe come espressione più diffusa del suo tempo…”

 

Per Freud la nevrosi è legata alla rinuncia pulsionale ed anche la civiltà si fonda sulla rinuncia pulsionale , la nevrosi è così “ segno”, “ incarnazione soggettiva”, del disagio strutturale della civiltà . La nevrosi, rappresentazione deformata del sociale, rappresenta il “ modello”, la decifrazione del sociale. Ad anni di distanza dal Disagio della Civiltà   ci possiamo chiedere  se la nevrosi rimane un” operatore “, un modello adeguato per rappresentare la forma collettiva contemporanea  del disagio.

Il libro di Marina Breccia  sembra suggerire che la “psicosi” può rappresentare  un modello per poter pensare la forma collettiva del nostro disagio.

“ In questo studio, che è iniziato come esperienza clinica, e si è tradotto, strada facendo , in un pensiero, mi sono potuta sentire  'analista del mio tempo' e insieme appartenente a quelle origini che hanno permesso questa definizione e mi hanno aiutato nella comprensione”

Così scrive di se stessa l’autrice e io riconosco  in Marina Breccia un’analista del nostro tempo che “mantiene in vita “, usando un’espressione cara a Derrida (2004, Quale domani? ),un’eredità culturale interpretandola, traducendola e così trasformandola, adeguandola al nostro tempo e alle vite tragiche che la Breccia cura con rispetto, cultura  e dedizione.

   Foto: J. Derrida

               

     

     

Bibliografia

Abraham N.,Torok M. (1987),La scorza e il nocciolo, Roma,Borla, 1993.

Aulagnier P. (1975), La violenza dell’interpretazione, Roma, Borla, 1994.

Derrida J., Roudinesco E.(2001),Quale domani?  ,Torino, Bollati Boringhieri, 2004.

Foucault M.(1966) Le parole e le cose , Milano, Rizzoli,1967.

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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