FRENIS zero | ||||||||
Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte | ||||||||
Una lunga sequenza scorre i volti, inquadra trucchi e fogge, segue le rughe,
esita sulla bocca di quella che forse riuscirà a parlare. Hanno molte età,
appartengono a differenti classi sociali, vestite all’ultima moda o con il
fazzoletto legato al collo: sono un insieme solo femminile, la macchina da
presa porta ogni faccia in primo piano - anche un fenomeno collettivo come
la guerra non riesce a cancellare ciò che ciascuno di noi ha di unico.
Sommesse, accennano qualche strofa di una sevdalinka, canto tradizionale
senza tempo che tutte conoscono. In uno dei numerosi centri di sostegno alle
donne vittime, che fanno meno fatica a chiedere l’assegno di sussistenza che
raccontare per elaborare il loro trauma come i terapeuti (stranieri)
desidererebbero, l’atmosfera rimarrà sempre opprimente, in silenzio o in
pianto, nessuna potrà mai dimenticare il motivo per il quale si trova lì.
Siamo a Sarajevo, capitale della Bosnia-Erzegovina, un anno indefinito di un
dopo guerra infinito, il cielo scarica sulla città neve e pioggia, sull’asfalto si
scivola sul fango, il ritmo metropolitano corre veloce, ma gli esseri umani e
l’ambiente sono ancora pieni di lividi, i cimiteri che spuntano ovunque non
permettono di dimenticare, basta un nonnulla per sentire aria di minaccia.
Grbavica. Il segreto di Esma, Orso d’Oro al festival di Berlino 2006,
sminuzza la coppia amico/nemico, il bianco/nero del conflitto, in storie
individuali, in vicende quotidiane segnate dal passato recente ma che vivono
oggi una loro urgenza e attualità.
Durante la guerra il quartiere di Grbavica è stato la linea del fronte, gli
abitanti rimasti ostaggio dell’esercito serbo, esposti a soprusi grandi e
piccoli. E chi ora ci passa sa che dentro gli edifici screpolati dell’edilizia
popolare socialista spesso è andato in scena l’orrore. Ma Grbavica vuol
dire anche donna con la gobba, metafora del peso che Esma non riesce a
scrollarsi di dosso. La seguiamo nei suoi spostamenti, nella ricerca di un
lavoro, i soldi che non bastano per mantenere Sara, la figlia dodicenne.
Approda come cameriera in un night club dove ogni notte il ritmo metallico
della turbo folk music si mischia con l’alcol e i soldi di chi si è arricchito,
con l’alterarsi dei molti che non riescono più a fare a meno della violenza.
Esma suda e sobbalza davanti ad ogni imprecazione che esce dai petti
villosi, ricoperti di catene d’oro e giacche di finta pelle, vomita, fuma e si
impasticca.
Chi vuole sottrarsi al machismo da branco è Pelda, che cerca di uscire dal
giro paramafioso, vorrebbe poter corteggiare Esma senza che fra i due si
levi l’ombra della violenza che lì accanto le donne hanno subito. Se
nell’agognato estero Pelda potrà inseguire una normalità, Esma non se la
sente di partire: “bisogna rimanere per i nostri morti”, per quelli che non
sono stati ancora ritrovati, anche se ogni giorno in più di uno sbucano fuori
da qualche fossa comune.
Fra madre e figlia il rapporto conosce solo gli alti e i bassi, gli abbracci
sfociano in rissa, i gesti dell’amore trasmutano in odio – e viceversa. La
ragazzina ama i suoi capelli, pensa di averli simile al padre, la madre non
racconta, non dà notizia né mostra fotografie. Sara è un maschiaccio,
ribelle anche a scuola dove fa coppia con Samir, figlio di un martire della
guerra. Per una gita scolastica i soldi non bastano, i parenti non aiutano,
solo le amiche di Esma fanno una colletta. Come orfana Sara avrebbe
diritto all’esonero, il documento necessario però non arriva. I compagni la
sbeffeggiano, l’accusano di mentire, un padre caduto in guerra costituisce
(come nella Jugoslavia di Tito) un pedigree. Provata ed esasperata la madre
esplode e confessa: non c’è un padre, non ci sono eroi né martiri, solo
uomini che hanno visto in lei, come in oltre ventimila donne bosniache, il
“nemico riproduttivo”- e l’hanno violentata. Stupro è la parola della
vergogna, quella che fa tenere gli occhi bassi, vivere nel timore di
incontrare per strada o al bar il proprio carnefice, è l’interrogativo
tragico se tenere il bambino della violenza, frutto del seme che l’altro ci ha
ficcato in corpo, o abortire (e molto spesso a bambino già nato perché era
troppo tardi per interrompere la gravidanza). Come sarà capitato alla
protagonista che non riesce a guardare la figlia senza rivivere questa
ambivalenza.
E sarà proprio lo sguardo di Esma (una intensa Mirjana Karanovic già vista
nei film di Kusturica) che continuerà a perseguitare lo spettatore fuori dal
cinema, mentre Sara parte per la gita scolastica, e sul pullman la classe
canta “Sarajevo, mio amore”, motivo degli anni settanta, quando la città
non avrebbe mai potuto immaginare di poter essere divisa.
Grbavica. Storia di Esma è il primo lungometraggio di Jasmila Zbanic,
regista bosniaca che si è fatta conoscere per i suoi documentari e diversi
corti che hanno ricevuto riconoscimenti internazionali. Nata a Sarajevo nel
1974, la guerra l’ha vissuta da adolescente, a due passi dal fronte, la
scoperta dell’amore, per lei e le sue coetanee, è avvenuta in contemporanea
alla scoperta della violenza sessuale. La duplicità dei sentimenti provati
quando ha avuto una figlia, dice nelle interviste, l’ha avvicinata al segreto
di Esma, ha voluto un titolo impronunciabile per trasmettere l’immagine
sonora del suo mondo interiore. Così Grbavica non diventa un film
didascalico, ma rivela scene di un’antropologia della sofferenza che per
essere elaborata deve poter continuare a raccontarsi.
Nicole Janigro
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