Che cosa spinge e porta una giovane donna, di
professione regista, ad immaginare e girare un film che si
occupa di altre donne che decidono di chiudere le loro vite
all’interno di un convento di clausura?
Lo so che dovrei parlare del film, del suo tema
e dei suoi contenuti, ma credo che questa domanda sia
necessaria come quelle che si è posta Alina quando ha pensato
di realizzare il suo film.
In realtà, anch’io, come lei nel film, non
riesco ad avere una risposta univoca e certa. Cercherò allora
di raccontare quello che so, quello che ho letto e quello che
ho provato e poi pensato nell’avvicinarmi al film.
Secondo
Raffaele Meale
Per
sempre
è un viaggio di ricerca all’interno del significato del
termine fede: cos’è che riesce a convincere donne giovani e
intelligenti a rinchiudersi in un monastero di clausura,
negandosi di fatto alla vita per perseguire un’ideale
astratto? Come può la materialità di cui è composta la vita
contemporanea lasciare così facilmente campo libero a una
forma mentis a cui sembra completamente estranea la
tangibilità del corpo e dell’essere? Interrogativi di non poco
conto dai quali parte l’analisi che porta al confronto con un
mondo, quello monastico, che la maggior parte della gente non
riesce a razionalizzare.
Il
documentario indaga i motivi che portano alcune donne a
scegliere la vita religiosa all’interno delle comunità
monastiche. La regista si immerge in questa realtà chiedendosi
come sia possibile per una donna di oggi concepire una scelta
estrema e definitiva, che vale per sempre.
L’opera di A. Marazzi è il diario del suo
incontro con le suore di alcuni ordini religiosi dal punto di
vista della donna, prima che della monaca. Un tentativo di
raccontare una dimensione difficilmente rappresentabile,
volgendo uno sguardo discreto al di là della grata della
clausura (come in uno dei più bei fotogrammi, lei al di qua,
le sua interlocutrici al di la’ della grata), per far nascere
riflessioni sul senso delle nostre scelte.
Veronica Maffizzoli
dice che il materiale filmato e le interviste realizzate con
le protagoniste di questa particolare realtà, raccontano della
ricerca di sé e del senso di ogni cosa, vissuta però
all’interno di un microcosmo dove si respirano, ma sono tenute
fuori (per davvero?), tutte le tensioni del mondo esterno. La
fede nel perseguire un sì pronunciato ad alta voce e la
ritualità del quotidiano monastico, fanno si che le esistenze
siano scandite secondo un ideale evangelico, in cui poter
accettare, crescere e costruirsi al di fuori della cultura
dominante.
L’essenza di tale scelta è compiuta nel valore
della comunità, nello sforzo del superamento dell’io in una
prospettiva di fede e di amore, nel senso della regola come
riferimento costante di una vita fuori dall’ordinario. La
convivenza ed il confronto diretto con altre donne è il mezzo
per arrivare ad una scoperta dell’ “io” reale, incondizionato,
senza riserva alcuna. E’ il cammino dove, sperimentando su se
stesse, si conferma l’intuizione che ha condotto a questa
scelta di vita definitiva. Oltrepassando in qualche modo il
limite della clausura, l’autrice ha creato un canale di
comunicazione tra realtà femminili intimamente differenti, in
cui da sempre c’è stata ostilità ed incomprensione. Non
esistono perchè a cui rispondere, ma solo delle donne che
conducono esistenze diverse, nel nome della propria essenza,
dei propri desideri e consapevolezze.
Non sempre i documentari forniscono risposte.
L’opera di Alina Marazzi pone molti spunti di riflessione
senza dare una sentenza definitiva. Di certo l’argomento
trattato è oggetto di diverse indagini: filosofiche, sociali,
teologiche, nonché punti di vista personali. Le numerose
monache intervistate in diversi conventi mettono in luce le
ragioni personali di scelte assolute. Quello che emerge è che
più si analizza questa realtà più la si svuota dei suoi miti.
La bravura della regista consiste nello scegliere risposte
semplici che sollevano molti dubbi. Per esempio, alla domanda
che si pongono molti laici sull’utilità delle suore di
clausura nel mondo moderno, una giovane sorella risponde:
”Gesù non ha fatto niente. É morto, non ha salvato il mondo”.
Colpisce l’ingenuità di queste testimonianze, che dissolvono
allo stesso tempo l’aura di mistero che circonda da sempre i
monasteri.
Il film di Alina Marazzi viene spesso ricordato
in questo periodo nel quale è uscito sugli schermi un’opera
che ha delle importanti analogie (o differenze, soprattutto…)
con la sua, “Il grande silenzio” di Groening, girato durante
sei mesi di frequentazione di un monastero maschile certosino
in Francia. I luoghi in cui i due registi hanno potuto
svolgere la loro ricerca, dopo un periodo di attesa perché la
richiesta andava soppesata - un tempo lunghissimo, 18 anni,
nel caso di Groening - sono stati il Carmelo di Legnano e
l’eremo di Camaldoli nel nostro caso, la Grande Chartreuse,
casa madre dell’ordine certosino nelle Alpi francesi, nel
secondo.
Alina Marazzi inizia a pensare alla
realizzazione del suo documentario sul set di ‘Fuori dal
mondo’, il film di Piccioni del 1999 a cui ha collaborato come
aiuto regista, e che raccontava dell’improvvisa irruzione
della realtà esterna nel mondo protetto di una suora.
Incuriosita dalle ragioni che possono portare giovani donne,
che nella vicinanza di quei mesi ha scoperto per tanti versi
simili a lei, a fare una scelta così radicale, e anche
colpita dalla sua definitività, decide di indagare, lei
laica, su quel mondo e su quelle ragioni. E lo fa cercando di
instaurare, nei limiti delle possibilità offerte dalla
clausura, un rapporto di conoscenza e comprensione con quelle
di loro che hanno accettato.
E’ molto interessante ascoltare quello che le
monache hanno da dirci - sulla gioia della rinuncia, sul senso
del loro non fare quasi niente, come Gesù che ‘non si diede
poi tanto da fare, giusto due o tre miracoli in trentatre
anni’, sul non essere mai sole e non sentirne il peso - sia
di quelle che la scelta definitiva l’hanno già fatta, sia di
chi, come Valeria la novizia, ci coinvolge al contrario in un
percorso più problematico perché non ancora compiuto.
E poco importa se alla fine il mistero della
vocazione rimane e l’indicibile resta non detto…lo scambio tra
i due mondi è iniziato.
Ecco le parole della regista in un articolo
apparso su La Repubblica nel 2006, sul Giornale nel 2005 e
nell’intervista a Paolo Brusorio prima del Festival di Locarno.
“'Per sempre' è un viaggio tra le suore di
clausura di tre monasteri del Nord Italia. L'idea mi è venuta
durante la lavorazione di un film di Giuseppe Piccioni, Fuori
dal mondo, con Margherita Buy, quando ho incontrato delle
novizie in un convento a Bergamo, quindi in un contesto
urbano. Mi chiedevo: cosa spinge queste donne a rinchiudersi?
È stata una vera sorpresa: non erano aliene come mi sarei
aspettata e soprattutto la loro vita non era astratta. Non
scappavano dalla famiglia o per studiare, come avveniva in
passato. Facevano una scelta di abnegazione ma, mi spiegavano,
per coltivare una parte di sé. I loro voti di povertà, castità
e obbedienza venivano reinterpretati quasi come eversivi. Non
possedere nulla significava anche protestare contro la
proprietà privata e mettersi dalla parte di chi non ha poteri
decisionali, i poveri. Essere caste significa vivere l'amore
(per Dio) svincolato dal possesso dell'altro. Conoscendole
meglio mi sembrava che quello che dicevano attraverso la grata
fosse più comprensibile da una prospettiva laica. La priora di
un monastero di Carmelitane mi trasmetteva un grande senso di
serenità e moltissima energia. Tutte loro parlavano di cose
essenziali e sicuramente sono meno frastornate dal casino
intorno. Per noi fare lo stesso lavoro o mantenere la stessa
relazione per tutta la vita può essere un incubo... Continuavo
a ripetermi: "Ok, povertà, castità, obbedienza... ma com'è
possibile fare tutto questo 'per sempre'?. «Perché lo fanno?
Perché ci credono». «Da allora sono rimasta in contatto con
qualche novizia»; da allora ha preso vita il progetto e una
domanda: cosa spinge ancora oggi una donna a chiudersi in
monastero.
Un anno e mezzo di corteggiamento per farsi
aprire portoni e cuori, i primi contatti con le realtà
lombarde, ha giocato subito a carte scoperte la Marazzi:
«Chiamavo e spiegavo alla madre superiora o alla badessa che
volevo sapere qualcosa in più del loro mondo e che lo scopo
finale sarebbe stato un documentario sulla vocazione».
Fasi di studio, colloqui privati e collettivi,
qualche monaca che rinuncia («erano perplesse “che bisogno
abbiamo di esporci”, mi dicevano») e la scelta finale di set e
«attrici»: le carmelitane scalze di Legnano, le monache
camaldolesi di Camaldoli e le monache benedettine di Viboldone,
hinterland milanese. Da luglio 2004 sei mesi dentro e fuori le
mura. A volte, solo dentro: «Mai più di tre giorni. E, come
capita spesso sul set, sveglia alle cinque per filmare il
primo atto del giorno: le lodi. E di seguito, le altre
ventiquattro ore». E gli incontri ravvicinati: «Almeno
inizialmente l'approccio era il solito: capire le motivazioni
di una vita di povertà, castità e obbedienza». Poi le
scoperte. Alcune insospettabili: «Queste suore erano laureate.
Non sono donne fuori dal mondo, non guardano la tv, ma sono
informate. Leggono i giornali, sanno delle guerre, dei fatti
politici. E le più giovani, in fondo, hanno i gusti delle loro
coetanee: sentono la musica, Franco Battiato e Carmen Consoli
sono gli autori preferiti, ma non immaginatevi il rock a tutto
volume. Anche quella della musica è una presenza molto
discreta».
La comunità, una comunicazione orizzontale e
non piramidale, l'assenza di quei segni del comando immaginati
al di qua del muro: sono il bagaglio che Alina Marazzi si è
portata a casa. Essere donna, dice, «mi ha aiutato molto a
entrare in sintonia con loro, probabilmente un uomo avrebbe
fatto più fatica. Tanto che a un certo punto mi sono posta il
dubbio di entrare in monastero con la troupe maschile: ho
chiesto il permesso alla madre superiora, me l'ha concesso e
non abbiamo avuto problemi»".
Forse ora è arrivato il momento giusto per
poter dire che cosa mi sono portato a casa io, dopo la visione
e la discussione di questo film.
Credo che quasi chiunque abbia visto questo
film, l’abbia fatto perché aveva conosciuto l’opera precedente
di Alina Marazzi, Un’ora sola ti vorrei, del 2002. In
molti, dopo avere amato la struggente rivisitazione della
storia della propria madre e la riscoperta della stessa
attraverso il lavoro cinematografico, si erano domandati, un
po’ curiosi, un po’ preoccupati, un po’ ansiosi, quale sarebbe
stato il percorso successivo della regista.
In questo senso, a me sembra, in primo luogo,
che ci sia una grande continuità tra i due film. Ambedue
parlano di misteri, di speranze, di fede e di scelte
definitive. In particolare, Alina non hai mai parlato della
scomparsa di sua mamma come di una assenza, ma sempre come di
una mancanza, molto legata quindi al tema della nostalgia, che
si può provare, secondo me, solo se si è potuta sperimentare
una presenza. E credo che per potersi aspettare una sorta di
ritrovamento di chi si è perduto, bisogna fare i conti con la
fede, con la fiducia. Forse non è un caso, quindi, che lei si
sia trovata a trattare questo tema.
A me sembra che ci troviamo davanti ad un
contatto molto attento, rispettoso e partecipe al tempo
stesso. Un lavoro nel quale, più che cercare e dare delle
risposte, vengono poste e condivise delle domande e degli
interrogativi. Il senso estremo e globale di una scelta così
radicale e definitiva. Mi pare che queste tematiche siano ben
espresse attraverso il tema della ripetitività. Stessi orari,
stessi gesti, stessi rituali, come a garantire e preservare il
distacco dalle “cose terrene” quelle mostrate attraverso gli
stacchi di vita esterna (nuvole, fiumi, acqua che scorre, come
il traffico di un’autostrada, e così via…). Sono grandi le
domande, ma sono semplici, quasi “piccole”, le risposte che
vengono dalle suore. Come se anche loro si trovassero dentro
ad un progetto ben più ampio di quello che possono loro stesse
comprendere e percepire.
Io penso che il film non sia solo un
documentario, comunque, ma che ad un certo punto faccia un
salto deciso verso la fiction. E’ quando sulla scena compare
Valeria, una novizia che cerca di spiegarci anche le ragioni
culturali, filosofiche e personali della sua scelta. Appare
all’improvviso in una stanza, forse una cucina, forse ripresa
dall’esterno. Si sente che è “diversa”, che è un’altra,
nonostante tutto. Sulle prime io ho quasi avuto un senso di
disorientamento, non ho capito se si trattasse di Alina
stessa, se fosse un errore di inquadratura, se fosse una
persona della troupe. Era una sorta di perturbante percettivo.
In realtà, la storia successiva, il fascino delle parole di
una “come noi”, la possibilità di avere davvero delle
risposte, fanno cambiare il ritmo del film. Fino al colpo di
scena finale, quasi il rischio che il filone finalmente
trovato potesse spezzarsi e rendere vana l’intera ricerca ed
operazione. Fino al ritorno alle cose semplici, essenziali,
scontate, uguali e senza un’apparente perché, come la sveglia
mattutina e le prime orazioni.
Mi piace riportare, nella mia condivisione con
le stesse, anche le parole di Lisa Marchiori, espresse in un
dibattito su Cine@forum: “Mi è sembrato che i quesiti che
si pone la regista, sulla definitività della scelta delle
suore di "uscire" dal mondo rimandi ancora a quesiti sulla
morte della madre, che ha compiuto questa scelta in modo ancor
più definitivo. Le "madri" con cui si incontra non la
convincono, le sembrano "lontane" sino a quando non incontra
Valeria, una novizia che ha un aspetto direi quasi familiare,
per chi ha in mente il viso di Alina e di quello di sua
madre. Valeria, se ho capito bene, alla fine torna indietro da
questa "scelta definitiva". Alina, che per un periodo non
sente Valeria perchè ha avuto sua figlia, non la trova più
dove l'aveva lasciata. Una loro telefonata fa pensare che
Valeria abbia preso un'altra strada... come se allora si
potesse pensare che effettivamente non è detto che tutto sia
"per sempre". Il film mi ha lasciata turbata. Ancora questa
regista mette tutta se stessa nella immagini, nelle parole,
nei suoni. Ho percepito un grande desiderio di capire, di
entrare in relazione con l'altro anche se così diverso, di
immedesimarsi, di tollerare... d'altra parte le suore le
ripetono che quello che desiderano è l'amore e l'accettazione
reciproca…”
E’ proprio la fede nel ritorno di qualcuno che
manca che ci fa vivere e ci permette di svolgere il nostro
lavoro. Ancora una volta è il
tempo la domanda di fondo, la questione sospesa, in questo
caso dietro la definitività delle scelte che le persone
possono compiere. Dimensione temporale che appare anche nei
titoli…un’ora sola, per sempre…, anche se per Valeria
sembra poter esistere anche il “per un po’…”. Il “per sempre”,
inoltre, inserisce un’altra dimensione temporale: non basta
più “un’ora sola”, ma si vorrebbe rimanere con la propria
madre (o la propria figlia …) “per sempre”. Se unissimo i due
titoli verrebbe “Un’ora sola ti vorrei per sempre”,
come se ora il desiderio fosse quello della stabilità, che
forse riguarda anche Teresa (la bambina che è nata poco dopo
la fine del film precendente) ed il nuovo ruolo di Alina
Marazzi…per sempre figlia, per sempre madre. E, per nostra
buona fortuna, ancora regista!
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