Presentation   News Events   Archives    Links   Sections Submit a     paper Mail

FRENIS  zero 

Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività

  Home Frenis Zero

        

 

 

   DOUGLAS GORDON: l'incertezza dello sguardo

 

In occasione della mostra di Douglas Gordon tenutasi al MART di Rovereto dal 7 ottobre 2006 al 21 gennaio 2007 pubblichiamo in versione italiana un'intervista  rilasciata dall'artista britannico nel 2002 in occasione di una sua mostra ("What have I done") alla Hayward Gallery di Londra  (dal 1 novembre 2002 al 5 gennaio 2003).

 

Douglas Gordon, nato nel 1966 a Glasgow, dopo aver studiato alla "Glasgow School of Art" ed alla "Slade School of Fine Art" di Londra, tornò a lavorare a Glasgow, maturando un'idea di lavoro spesso basato su una rottura delle gestalten percettive. Rendendo il suo pubblico consapevole della fuggevolezza della soggettività di ognuno, egli sembra chiedere (e chiedersi) in che modo noi diamo significato alla nostra esperienza delle cose. Uno dei primi lavori testuali, "Meaning and Location" del 1990, che fu installato all'University College di Londra, dimostra non solo il modo con cui l'artista enfatizza l'importanza del contesto, ma anche il modo con cui egli esplora le anomalie semantiche. Stampando lo stesso testo due volte con una virgola spostata ("Truly I say to you, today you will be with me in paradise. Truly I say to you today, you will be with me in paradise"), egli moltiplica ed altera l'originale significato delle parole evangeliche di San Luca. Nel 1994  esibisce l'installazione sonora "Something Between My Mouth and Your Ear": in una stanza dalle pareti interamente tinteggiate di blu, egli fa suonare 30 canzoni  che erano popolari nei sei mesi precedenti la sua nascita. Questo interesse per la memoria e la percezione venne sviluppato nella video-proiezione di "24 Hour Psycho" del 1993, un'installazione con una proiezione all'indietro del film di Hitchcock, rallentata in modo da durare un'intera giornata. Gordon attira l'attenzione dello spettatore sia su come ogni dettaglio del film si intrecci con gli altri sia sulla progressione dei fotogrammi. La sua ammirazione per Hitchcock continuò nella video-installazione "Feature Film" del 1999, al Centre Pompidou di Parigi.  Nel 2002 a Oslo Gordon affronta il capolavoro di John Ford "The Searchers" ("Sentieri selvaggi"). Nella sceneggiatura del film originale John Wayne impiega cinque anni per ritrovare Nathalie Wood, la nipote rapita dagli indiani; così nell'installazione di Gordon ogni inquadratura del film dura 15 minuti e lo spettatore deve fare un considerevole sforzo di memoria per ricollegare tutte le scene e ricostruire la storia. Il sito web dell'artista (www.hayward.org.uk/whathaveidone  ) ci fornisce una chiave di lettura di questa scelta: <<se Walter Benjamin ci ha rivelato come l'avvento del cinema abbia regalato una nuova esperienza del tempo, Gordon sfida la legge del cinema nella sua più intima essenza, riportando "The Searchers" alla fruizione temporale di un'opera d'arte>>.

Anche il calcio rientra negli interessi di Gordon. Insieme a Philippe Parreno gira un film su Zidane in cui il calciatore viene ripreso da 18 telecamere poste a bordo campo, quasi un ritratto intriso di aurea monumentalità. Nella mostra del MART si è rivisto il "24 Hour Psycho", i testi da lui ideati scritti sulle pareti dell'edificio progettato da Mario Botta, la video-installazione "Play Dead" con l'elefante che fa il morto, ed una versione di "Pretty much every film and video work from about 1992 until now", che è una sorta di suo diario fatto di vari monitors, allestiti in una sala buia, in cui egli ha raccolto, rielaborato e raccontato parti della propria vita, dei films, dei video amati, degli amici persi e ritrovati, tutto arrangiato in una cacofonia di suoni ed immagini che investono lo spettatore nella sala peraltro buia. Gordon è stato insignito del "Turner Prize" nel 1996 e nel 1997 ha rappresentato la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia.

                                                                          Giuseppe Leo

 

                                             

Douglas Gordon
 Play Dead; Real Time (Other Way), 2003
 

 Video/Film,
 

 

Intervista a Douglas Gordon di  Jean Wainwright apparsa su "Avant Garde" (         December/January 2002-03 No 262, p1-4 ). in occasione di una mostra alla Hayward Gallery di Londra.

 

 

 

  J.W.: Vorrei cominciare col parlare della sua re-installazione di "24 Hour Psycho" del 1993 alla Hayward Gallery nella stessa posizione esatta di quella che occupava in "Spellbound" nel 1996.

D.G.: E' questa la prima volta che ho avuto l'opportunità di farlo, di rivisitare uno spazio - di re-installare qualcosa, giocando con l'idea non completamente di un richiamo istantaneo, ma di una sorta di ricordo. Spesso quando gli artisti vengono in uno spazio come questo, essi devono quasi pensare ad esso come in una sorta di battaglia per poterlo adottare. La mia idea è stata che "24 Hour Psycho" è stato sempre qui, è solo accaduto che forse se ne sia andato fuori strada ma solo in senso temporale - è la cosa permanente. E' in definitiva qualcosa di ironico che accade qui - ma se la gente non ha visto quel lavoro sei anni fa ciò non importa molto. La gente che lo ha fatto forse ne riporterà un senso di umorismo e di presunzione, a causa di questo enorme muro a specchio, in modo tale che se inizi a pensare 'ma questo l'ho già visto' il tappeto ti viene tirato da sotto i piedi. Ti mette in difficoltà nell'orientarti nello spazio - proprio grazie all'inclusione di uno o due specchi. Sarà interessante vedere in che modo il visitatore guarderà questo lavoro - se attraverso lo specchio - oppure se guarderà la cosa reale e qual è comunque la differenza. Quando cammino lungo l'altro corridoio con gli specchi, trovo più facile guardare nello specchio "Between Darkness and Light (After William Blake)"del 1997, poiché mi sembra più sicuro far ciò piuttosto che guardare l'oggetto reale - in quanto sono terrorizzato da esso. Non ho mai guardato "L'Esorcista" nella mia vita, è troppo per me. Anche per me tanti lavori sembrano molto 'high-tech' in questi giorni in cui non c'è nulla che mi interessa. Sono partito nella mia pratica - o nella mia pratica conosciuta - con "24 Hour Psycho" che è molto 'DIY'. La mia idea originaria era che qualcuno potesse scendere alla 'Virgin' o alla 'Tower video' per comprare "Psycho" e guardarlo a quel modo - essi non dovevano avere la mia autorizzazione per far ciò.

JW: Cosa ha all'inizio attirato il suo interesse per l'immagine allo specchio?

DG: Può darsi che molto abbia a che fare con l'aver paura e con un misto di superstizione che probabilmente è diventata un voyerismo durante l'adolescenza che probabilmente si è evoluto in un sadismo della mezza età o qualcosa del genere - volendo io  vedere ma anche non volendo necessariamente essere coinvolto. C'è una qualche sorta di implicazione del trauma ogni volta che si ha a che fare con l'esibizione. Se recuperi l'idea di un tuo ricordo di un evento traumatico, accade spesso al rallentatore come se tu tornassi indietro in un modo simile a quello che avviene in "Psycho". Il testo scritto sullo specchio, che è "Io son cambiato, Tu sei cambiato", ripetuto in modo inesorabile, potrebbe essere usato nella vita reale come scusa o come rassicurazione, è qualcosa come un mantra. Ognuno lo ha udito e lo ha probabilmente usato, e quando guardi nello specchio probabilmente non sai più la differenza tra l'"Io" ed il "Tu".

JW: Possiamo parlare della curiosità, la sua sperimentazione con il tempo rallentato per vedere cosa accade.

DG: Molto di ciò proviene dal lavoro di 'performance' che ero solito fare da studente quando ero molto influenzato da Alastair MacLennan. Ricordo che a Riverside, in occasione della "National Review of Live Art" in cui io mi esibivo con due amici di Glasgow ed eravamo al piano superiore mentre ci muovevamo molto lentamente, Alastair era sotto le scale e si muoveva ancora più lentamente. La cosa grande era che si trattava di una cosa molto semplice fatta con una doppia velocità - cosa di cui ero più consapevole quando la vedevo piuttosto che quando la eseguivo in una performance. Gran parte dei films tentano di rappresentare la velocità a cui noi viviamo - e noi tutti viviamo con una relativa velocità a meno che uno non si trovi in uno stato di narcosi in cui ciò non accade, cosa che è ugualmente interessante. Con la 'performance' di Alastair tu diventavi molto consapevole della differenza tra le due velocità e del modo in cui ciò influenzava il tuo processo cognitivo, la tua interazione fisica con gli oggetti. Penso che questa sia una delle cose che probabilmente c'era dietro "24 Hour Psycho", il modo in cui la gente si comporta nello spazio con un'immagine che lo sta muovendo velocemente.

JW: Se parliamo di "Between Darkness and Light (After William Blake)", in quel caso lei ha montato e combinato due films, "L'Esorcista" su un lato dello schermo e "The Song of Bernadette" sull'altro lato. Ognuno di essi ha la sua distinta colonna sonora combinata con un potente conflitto tra bene e male.

DG: Ancora una volta si è trattato di una cosa interessante in tale installazione che è avvenuta in altri luoghi. La colonna sonora di "Between Darkness and Light".... diventa la colonna sonora per un sacco di altri pezzi in questa esibizione e ti porta ad interessarti al fatto che "Fog", i pezzi con le mani, i lavori testuali e "24 Hour Psycho" siano tutti decisamente silenziosi. Così per me questo è stato interessante ed autenticamente sperimentale. Non sapevo cosa sarebbe accaduto una volta lasciato penetrare il suono.

JW: Con la sua installazione "Something between your mouth and my ear" del 1994, sembra trattarsi anche questo di qualcosa di molto importante.

DG: La genesi del lavoro partì dal fatto che io iniziai a ripensare l'idea del leggere - che forse leggere sia più di udire e ciò faceva riferimento a Umberto Eco ed a Gianni Celati, e che, quando tu leggi una parola fuori dalla pagina, tu senti una voce nella tua testa. Ho iniziato a pensare che le prime cose che ho letto potessero essere state le prime cose che ho udito -  e che le prime cose che ho udito potrebbero essere state le cose che mia madre ha udito.

JW: Molto lacaniano.

DG: Non ho mai verificato ciò con mia madre, ho voluto andarci vicino ma non troppo vicino...

JW: Avrebbe potuto essere un'esperienza disturbante.

DG: Può esserlo stato  per Sandy Shaw più di quanto avrei probabilmente ammesso. Data la natura dello spazio è difficile vedere dove la gente potrebbe finire; essendo passato attraverso tante installazioni dall'aspetto tetro e angosciante in questa mostra, tu finisci per approdare in qualcosa che  apparentemente è una situazione che dà il benvenuto a ciò che si potrebbe vedere come un caldo lavoro concettuale. E' il solo spazio in cui la luce diurna filtrata penetra in modo che il buio sia fuori - prenda questa come una metafora se vuole. Naturalmente ciò che questo implica - e questi lavori sono tutti modelli per altre cose - è che se queste sono cose che può darsi io abbia udito, io posso averne udite anche altre e quindi non solo me stesso ma tutti gli altri. Così persino il lavoro più accogliente dovrebbe riuscire a distorcere se stesso e divenire qualcosa di un po' più ambiguo.

JW: Due dei suoi autoritratti hanno anche una distorsione. "Self Portrait (Kissing with Scopolamine)" del 1994, in cui lei bacia la sua immagine negativa allo specchio e "Kissing with Sodium Pentothal" del 1994, una proiezione 'multi-slide'; la gente che lei baciava in quel lavoro sapeva che lei era drogato?

DG: Alcuni di loro lo sapevano: l'idea consisteva nel fatto di dirlo ad alcuni e non ad altri di loro. Il pentothal è la cosiddetta droga della verità, lei sa che in alcuni B-movies in cui si cerca di ottenere una confessione da parte di qualcuno, si inietta del penthotal di sodio.

JW: Quando si vede la sequenza, essa è fredda e silenziosa tanto che tutte le cose che avresti potuto dire sono lasciate in sospeso.

DG: Suppongo che la parte mancante sia ciò che puoi solo immaginare, ma ci sono parti mancanti in tutto, persino nelle opere testuali che sembrano essere finite. Nell'elenco di paure in "From God to Nothing", del 1996, ce ne sono alcune che di sicuro mancano.

JW: Lei ha scritto le 147 paure nella forma di un flusso di coscienza?

DG: Si trattava di un flusso di coscienza nell'arco di un periodo di giorni. Qualcuna di loro originò dall'omeopatia con la quale ero cresciuto. Parte dell'idea è quella di un'auto-diagnosi - in modo da rispondere ai sintomi con un manuale - gran parte di essa ha a che fare con il guardare alle paure in modo che ci si possa aiutare. Vedo "From God to Nothing" come un'opera molto positiva, non è del tutto paranoica. Penso che elencando le tue paure tu possa riconoscere quello che esse sono. In genere il lavoro è installato in senso orizzontale in modo che sia difficile trovare un inizio o una fine, ma qui è verticale in modo che sia implicata una gerarchia a causa della situazione fisica.

JW: La narrativa è per lei importante, le sue due opere "Fog" del 2002 e "Black Star" del 2002, entrambe correlate al romanzo di James Hogg "The Private Memoirs and Confessions of a Justified Sinner" del 1824. Possiamo parlare del modo in cui questi due lavori si correlano tra di loro?

DG: "Black Star" è uno spazio assolutamente buio. C'è la luce bianca che la gente associa ad un club o ad una discoteca con tutte le idee positive/negative e intensificate, penso, per il fatto che ovviamente in un club ci sono molte superfici che quella luce può riflettere, ma qui non c'è nulla tranne la persona. Si arriva quasi al punto che uno sente di essere radiografato - non una situazione reale ma una metafora. Parte di questo lavoro è la mia narrazione del libro di Hogg. La prima idea fu quella di rispecchiare ciò che accadeva nel romanzo. Anche se il romanzo ha uno stile narrativo molto lineare, quando si sta davvero al suo interno la semplicità scompare. In "Black Star" lo spettatore sta all'interno di una sagoma molto semplice ossia quella di una stella, ma è in realtà incredibilmente difficile vedere ciò che è quella forma. L'altro motivo per aver scelto una stella è l'idea molto più populista che Satana si suppone sia evocato all'interno di noi stessi. Il trucco o lo scherzo per me sta nel fatto che le persone potrebbero stare in piedi nel mezzo di essa senza rendersene conto, poiché credo che è ciò che accade comunque nella vita. C'è anche molto altro nel testo di Hogg - non sai se è una finzione, è abbastanza vicino alla verità ma non molto, non sai se le manifestazioni del male o le giustificazioni sono nella testa di Robert Wringhim o se sono accadute davvero, quindi c'è un dubbio. [...]

JW: Qual è la relazione di "Black Star" con "Fog"?

DG: "Fog" , dovrei sottolinearlo, è basato sulla scena con il fratello del protagonista, ma non è un'illustrazione di essa. Per chi conosce il libro si può fare l'idea che stai guardando qualcuno che è vicino alla morte, ma per chi non lo conosce ciò non dovrebbe fare molta differenza. Quello che ho cercato di fare in termini di 'editing' - e questa proiezione potrebbe essere vista come un'idea universale di qualcuno che sta cercando di pensare al di fuori di essi - era di indurre il timore che qualcuno ha di perdere la propria ombra, di avere due ombre o di condividere un'ombra con qualcun altro. Si gioca su tutta la mitologia del vampirismo e la solita roba del satanismo. Il tipo che interpreta la parte è il padrino del mio bambino, cosa che penso sia un simpatico pezzo di mitologia da attaccare intorno all'opera.  Questo non si è dovuto stabilirlo, ma nel tempo potrebbe diventare un'idea più interessante. Come conseguenza di ciò girammo "Fog" a New York su un palcoscenico che si rivelò essere stato lo stesso usato per "Fatal Attraction" - la scena di combattimento tra Glenn Close e Michael Douglas - cosa che pensai fosse una gran bella idea, che cioè quando cala la nebbia noi vedremo  l'altro set.

JW: Come lei cita stilisticamente Hitchcock così cita anche Andy Warhol.

DG: Realizzai una versione di "Empire" che venne chiamata "Bootleg Empire", è quasi la versione amatoriale del capolavoro dell'autore - è fatto in modo molto precario. Ho vissuto a Berlino per un po' e sono andato a vedere "Empire" di Warhol ed ho pensato 'Potrei non vederlo mai più', così lo ho filmato per l'ultima ora della sua durata. Così la mia versione dura solo due ore - è come "il meglio di" o qualcosa del genere. Ma spesso la mia versione è vista insieme ai suoi films nelle mostre, che è qualcosa di divertente dato che la mia è leggermente più drammatica essendo ripresa in modo più traballante e con le ombre delle persone che camminano di fronte alla macchina da presa. Ma ugualmente Barnett Newman costituiva un'influenza molto rilevante nella realizzazione dei pezzi cinematografici. Quando avevo 16 anni venni a Londra da Glasgow ed andai alla Tate Gallery dove vidi uno dei dipinti di Newman. Non avevo mai visto prima nulla di simile per dimensioni e piuttosto che guardarlo misurai il tempo che ci sarebbe voluto per andare da un estremo all'altro di esso. Fu il mio primo rendermi conto che il tempo e l'arte hanno un nesso molto stretto. Il fatto è che tu non puoi ignorare ciò e ci vogliono 10 secondi per percorrere l'intera lunghezza - pensai che fosse proprio incredibile. Ma penso che fossi anche sopraffatto dal fatto fisico per cui, se i tuoi occhi sono impregnati, tu porti con te un'impronta retinica dell'opera e, se essa ti sta influenzando fisicamente, allora lo sta facendo anche psicologicamente. Quindi anni dopo mi ricordai di Barnett Newman quando lessi in uno dei diari di Warhol che tutti pensavano che Warhol fosse un tipo di parte, ma Andy disse "in alcun modo posso competere con Barnet Newmann" per il fatto di occupare con lui lo stesso spazio allo stesso tempo. Ricordo anche l'esibizione di Warhol alla Hayward, ma essa mi ha influenzato allo stesso modo che lo stare in una toilette ad un 'party' a Glasgow nel 1992 guardando "My Hustler" e fingendo di essere immobile in modo da poter vedere un po' di più. Era molto 'factory', era eccezionale.

JW: Molti dei suoi lavori mostrano un corpo frammentato come in "Left Dead" o in Dead Right" o in "Hand and Foot".

DG: Esse non riguardano tanto la frammentazione del corpo in  termini di psicologia - non che la lettura  psicoanalitica sia irrilevante -  in un senso pornografico in modo da poter guardare qualcosa messo a distanza dal corpo. Ero maggiormente interessato in qualche modo a ciò che accade fuori da ciò che puoi vedere: se questo sta accadendo alla mano ed al piede, immaginiamo cosa sta accadendo altrove. Questa è l'idea di feticizzazione inversa, tu non stai facendo di una cosa che stai guardando un feticcio, ma lo stai facendo di qualcosa a cui non hai accesso. Questo è ancora qualcosa un po' simile all'idea dello specchio - ossia, guardando attraverso lo specchio può darsi che tu non ti senta in colpa come se fossi coinvolto nella stessa cosa nella vita reale. Puoi guardare qualcosa che è del tutto innocente - che è la sola cosa che puoi vedere - piuttosto che qualcosa che sta realmente accadendo che è di gran lunga più drammatico se accade fuori dallo schermo. Per me l'idea del fuori schermo è ugualmente interessante rispetto a ciò che sta accadendo proprio di fronte a te.

JW: Cosa mi dice riguardo all'atto di appropriarsi di qualcosa in rapporto al diritto d'autore: se non conoscessi che lei avesse fatto "Fog" penserei che si tratta di parte di un 'B-movie' che non mi era familiare.

DG: Bene, perfetto! - proprio perché per me i pezzi che sono stati 'scippati' non avranno, in termini temporali, uno status tanto differente rispetto ai lavori che io ho presumibilmente filmato. La mitologia molteplice e contraddittoria intorno all'opera è importante per me tanto quanto l'opera stessa. Nella video-installazione "Pretty much every film and video work from about 1992 until now. To be seen on monitors, some with headphones, others run silently, and all simultaneously" del 2002 c'è un paio di films di mosche che stanno morendo. Quando la mostrammo al Centre Pompidou una storia fu che io avessi trovato questi films in un 'college' oppure in una facoltà di medicina che stavano facendo degli esperimenti - in parte perché  erano più credibili se non era stato un artista ad averli realizzati. Sarebbe più interessante abbandonare l'idea del gesto dell'arte per entrare invece nella cosiddetta vita reale. Ma allora noi mettemmo in giro un'altra storia che naturalmente ero stato io a girarli. Fu per me più interessante avere storie contraddittorie intorno all'opera.

JW: In tale contesto possiamo parlare dei suoi tatuaggi corporei con la parola 'sempre', che è scritta specularmente come 'per sempre', 'ogni giorno' o 'abbi fiducia in me'? Quando lei li ha realizzati erano delle opere d'arte?

DG: Era il punto in cui l'arte era diventata portatile. A causa del 'background' da cui provengo, un tatuaggio costituiva un grande tabù nella mia famiglia.

Quel marchio indelebile sul corpo - che naturalmente è il motivo per cui ti piace quando ne hai uno - ma potrei dire "è stato fatto come opera d'arte" ed allora quando sei fuori dalla galleria d'arte esso non è più un'opera d'arte.

JW: C'è un nesso qui con "Three inches (black)" del 1997.

DG: Ciò che per me era interessante era il fatto che il dito tatuato di nero divenisse come un oggetto che narrava una storia. E' il dito sinistro, la mano sinistra e tutto ciò che è mitologia sinistra così come il significato dei tre pollici ('inches'). Esso è stato fotografato immediatamente dopo che il tatuaggio è stato fatto. Quel tale e me avevamo una relazione nel far ciò, egli mi consentiva di scattare delle foto ed io gli davo il dito da portar via. Purtroppo egli non poté essere presente all'inaugurazione della mostra.

JW: C'è spesso un'ambiguità nel suo lavoro, come se lei non volesse fissare una relazione da parte della gente con esso.

DG: E' interessante che lei affermi qualcosa del genere. Sono partito dall'altro versante di ciò, in cui la mia idea era che le cose sono fissate in modo che le lasciamo esposte al rischio. A me piace il rischio. Mi piace l'idea che avendo avuto una mostra alla Hayward io possa ora scomparire. Allo stesso modo in cui non ho mai voluto occupare un particolare ambito della pratica artistica, penso che ci debba essere un dovere dell'artista di mantenere una posizione nel mondo. Penso che sia molto importante dare a me stesso la possibilità di scegliere di dire 'no' il più spesso possibile, in modo che ci sia la possibilità che tu improvvisamente possa cambiare e lasciare l'artista al di fuori di questa scelta. Anche se c'è un tema biografico/autobiografico nella mostra, il modo in cui Fiona Bradley (curatrice della mostra) ed io abbiamo parlato di questo quando stavamo preparando e realizzando l'installazione prevedeva che questo sarebbe stato fatto come se io non fossi qui per una qualsiasi ragione. Perciò non si tratta chiaramente di una retrospettiva, ma è una ricognizione di un aspetto di una pratica.

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

Copyright - Ce.Psi.Di. - Rivista "FRENIS ZERO" All rights reserved 2004-2005-2006-2007