Antony Gormley, negli anni ottanta, sviluppò quello che in effetti era un
nuovo concetto di scultura, che gli consentiva di utilizzare il corpo umano
come centro della sua opera: si trattava di un espediente tramite il quale
farsi da parte rispetto alla grande tradizione, tramandataci dall'Antichità
e dal Rinascimento, di rappresentare il corpo con realismo sempre maggiore,
in pietra o in bronzo. Avviata dagli Egiziani e sviluppatasi con lo studio
della natura umana coltivato da Greci e Romani, questa tradizione costituì
il fulcro anche per i grandi scultori rinascimentali come Donatello o
Michelangelo, e per i loro successori postrinascimentali, dal Bernini a
Rodin. Anche se concepita in modi differenti, la rappresentazione della
figura umana è rimasta comunque la preoccupazione principale per molti
scultori moderni, da Brancusi a Henry Moore. Nell'arte greca più antica, ciò
che più meraviglia è lo sforzo che gli scultori arcaici compirono proprio
per riuscire a rappresentare la figura umana, laddove poi i classici ne
studiarono a fondo la muscolatura, esplorando i modi per renderne il
movimento. Tali questioni furono poi riprese durante il Rinascimento, e in
seguito i moderni studiarono varie maniere per semplificare le forme
sfruttando più esplicitamente le proprietà dei vari materiali - pietra,
bronzo, legno - con i quali erano realizzate le sculture. Da tutto ciò
deriva una sfida che molti degli artisti del tardo Novecento hanno dovuto
affrontare: la "tirannia" del Rinascimento, che costringe gli scultori a
fuggire da quella che era diventata oramai una convenzione limitante. Ognuno
ha raccolto la sfida a modo suo: Eduardo Paolozzi ha usato parti di macchine
per costruire le sue forme umane; Barry Flanagan ha scelto una lepre come
traslato dell'attività umana, nella sua fuga dalla tradizione
rinascimentale; Anthony Caro ha inaugurato una nuova era portando la sua
scultura "giù dal piedistallo", e utilizzando componenti di acciaio nelle
sue costruzioni. Antony Gormley ha affrontato differentemente questa sfida:
ha sviluppato una procedura sistematica per produrre un getto, uno stampo
del suo stesso corpo. L'esercizio non è più quello di rappresentare il corpo
o di ricercare i materiali con cui rappresentarlo: è il corpo, o lo spazio
da esso occupato - il locus del nostro essere - che diviene soggetto
di ricerca.
Nei suoi primi
lavori, come "Learning to Be", lo stampo stesso era ricoperto di piombo; in
seguito, in "Another Place" e nel lavoro esposto a Scolacium, "Time Horizon",
le figure sono state ricavate direttamente, in ferro, da un calco del suo
corpo. Qui, benché tutte siano rappresentate in piedi, sono stati utilizzati
svariati calchi e stampi, a seconda delle varie fasi di respirazione, e con
altre differenze minori, per evitare l'impressione di un'identità univoca.
Vai al videoclip
n.1 girato nella sede della mostra
In una serie
di grande effetto realizzata nei primi anni novanta, "Learning", il
risultato di questo processo produttivo per ricalchi sta nell'aver fatto in
modo che il centro dell'attenzione si rivolga non tanto all'abilità
produttiva mostrata dallo scultore nell'ottenere una data raffigurazione,
quanto proprio all'esistenza della scultura in sé, come rappresentazione
umana che occupa un certo spazio. Nella serie "Learning", le opere sono
effettivamente tutte a grandezza naturale, ma mi piace immaginarle non come
adulti cresciuti, bensì come degli individui più giovani ancora in divenire.
Immaginiamo come sarebbe se non fossimo nati piccoli, ma fossimo venuti alla
luce già in dimensione di adulti; immaginiamo che i nostri primi anni non
siano stati caratterizzati dalla crescita fisica, ma solo da un processo di
consapevolezza e conoscenza del mondo via via crescente, quale in effetti il
bambino sperimenta parallelamente allo sviluppo fisico.
Foto: "Iron Baby", 1999
L'opera
collegata, "Learning to See", ci ricorda che, da neonati, all'inizio
siamo sopraffatti da emozioni visive, e ci vogliono mesi per
poter cominciare a vedere il mondo in tre dimensioni, per poter
realizzare che il mondo può essere conosciuto come un insieme di
oggetti situati nello spazio, e che questi oggetti possono muoversi
senza perdere la loro integrità. Arriviamo a imparare che gli oggetti,
avvicinandosi o allontanandosi, cambiano dimensione solo in apparenza.
"Learning to Think", in cui i corpi sono liberi ma le teste (e di
conseguenza le menti) non ancora, perché bloccate in uno spazio solido
- in questo caso il soffitto - fa parte della stessa serie, come pure
altri lavori che riesaminano la nostra dipendenza dalle sensazioni.
Ognuna di
queste singole figure è in effetti l'esplorazione di che cosa
significhi appartenere al genere umano; affronta il fatto che noi
siamo esseri fisici che non possono esistere al di fuori dei propri
corpi e che ricevono informazioni sul mondo attraverso le sensazioni
sperimentate dal proprio corpo. Dobbiamo imparare a usare queste
sensazioni, e durante gli anni della crescita noi impariamo,
letteralmente, a vedere, impariamo a pensare, a essere. Un forte senso
del problema, del desiderio di apprendere in modo più completo la
natura materiale del nostro essere, permea l'opera di Gormley.
Foto: "Seeing and Believing", 1988
La
scultura di Gromley riguarda l'essere, la pura e semplice natura e
circostanza della nostra esistenza; non si concentra su come
intraprendere una qualche specifica attività, un combattimento o un
lancio del disco. Le sue figure, quindi, non corrono e non camminano:
stanno in piedi, o sedute, o sdraiate. In questo, ha notato l'autore
stesso, la sua opera ha più in comune con la staticità delle prime
sculture greche delle isole Cicladi, risalenti al 2500 a.C. circa, che
con le antiche figure greche di kouroi, già rappresentate
nell'atto di avanzare, benché questo movimento iniziale non dia ancora
una grande impressione di azione. A ogni modo, se ci allontaniamo
dalla tradizione artistica occidentale, possiamo trovare numerose
sculture statiche che sono altrettanto importanti proprio per la loro
presenza, e forse per il loro potere immanente, piuttosto che per
merito delle loro azioni. le statue di pietra dell'Isola di Pasqua,
sebbene raffiguranti persone - forse condottieri - ormai morte, hanno
un forte impatto proprio perché usano figure ferme, stanti, spesso
allineate, con lo sguardo sempre rivolto verso il mare (come in una
prefigurazione del Pacifico di "Another Place").
Queste
strutture singole - nel caso di "Learning to Think" si tratta già di
un gruppo - sono figure maschili, dato che sono dei calchi del corpo
dello stesso Gormley. Ma, in generale, non è importante di che sesso
siano: invitano noi tutti a identificarci con loro per contemplare e
riesaminare le realtà basilari della nostra esistenza. Hanno,
certamente, un loro modo di essere insistenti ma, come già si è
notato, di natura interrogativa: ci domandano chi o che cosa siamo, e
che cosa crediamo di fare qui.
Vai al videoclip n.2 della mostra
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Insieme nel
mondo |
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Poche tra le sculture di Gormley riguardano dichiaratamente i rapporti
umani e, di solito, non troviamo momenti di conversazione: nelle sue
opere non c'è un'"Annunciazione", una "Madre con Fanciullo". Da questo
punto di vista, egli non esula dalla tradizione dell'Antichità e del
Rinascimento, in cui il paradigma della scultura è la figura umana
singola, di solito stante. Ma l'artista ha sviluppato questo paradigma
portandolo verso un'esplorazione più sistematica, e utilizzando anche
singole figure sedute, acquattate, inginocchiate o sdraiate, sempre
ricavate dal suo proprio corpo. In qualche caso specifico - come
"Land, Sea and Air" - ci sono gruppi di tre personaggi o più, ma che
generalmente non interagiscono tra loro.
Foto: "Present Time",
2001
Negli
ultimi anni ottanta questo tema, alquanto solitario, cominciò a
sembrargli insufficiente, e così cambiò direzione, creando gruppi
scultorei di numerose piccole figure in terracotta, la cui dimensione
si rifaceva a quella di una mano. Il suo commento su questo
spostamento di interesse è stato:
<<Alla
fine mi interessa il quadro più ampio: qual è la base della
consapevolezza? Il corpo, dobbiamo dire. E' possibile dare un'immagine
tridimensionale del principio cartesiano in cui la consapevolezza non
ha altro oggetto che il suo fondamento? Questo è ciò che sta alla
radice del mio progetto. Dopo essermene occupato per quasi vent'anni,
mi domando se questa attività non sia diventata un po' troppo
solipsistica, e forse proprio questo rischio è ciò che mi ha spinto a
creare "Field". Verso la fine degli anni ottanta, dopo aver progredito
abbastanza razionalmente nell'analisi dei fondamenti dell'umana
consapevolezza con quattro gruppi di opere, ognuno dei quali conteneva
tre elementi, ho avvertito una crisi... Per me, "Field" è stato una
fuga necessaria da questa analisi piuttosto prolungata sui principi
fisici alla base dell'esistenza e della percezione, nonché un
tentativo di arrivare al corpo collettivo, un modo di riconoscere il
fatto che l'essere umano è anche una questione di connessioni. E'
stato il risultato di una crisi: le mie erano preoccupazioni diverse
da quelle dei miei simili e mi sentivo estremamente isolato, così fare
"Field" è stato una liberazione da quella posizione privilegiata
dell'artista contemporaneo come paradigma dell'individuo libero,
capace di creare la sua opera all'interno del suo spazio e del suo
tempo, attribuendole valore e significato. Questo era diventato un po'
come una prigione per me, e quindi alla fine degli anni ottanta
cominciai a pensare che il mio lavoro stava andando avanti senza
collegamenti con il mondo, e questa è stata per me la spinta
catalizzatrice verso "Field">>.
Foto: "Concentrate I",
2003
Uno dei
primi tra questi studi è stato intrapreso in Australia nel 1989: "Field
for the Art Gallery of New South Wales". Consisteva in oltre
mille piccole figure di terracotta, in una specie di cerchio
suddiviso, e disposte come lungo delle linee di forza intorno a un
magnete invisibile come, per esempio, della limatura di ferro su un
foglio di carta. In questo pezzo, il termine "field", "campo",
suggeriva in modo interessante un qualche ordine sottostante, eppure
nascosto, che collegava le figure e ne governava la scelta delle
posizioni. Come ha affermato Gormley: <<Per la prima versione di "Field",
mi è venuta questa idea di tagliare il cervello all'altezza degli
occhi, sulla linea dell'orizzonte, per avere una sezione trasversale
dei due emisferi, separandoli leggermente in modo che fosse possibile
scenderci in mezzo, per poi descrivere in qualche modo questo campo di
cervello come un campo magnetico. Quindi questa versione iniziale di "Field"
aveva 1100 pezzi, disposti prima in questo stretto cerchio dove
stavano spalla a spalla, una sessantina di loro, poi un secondo,
leggermente più spaziati, rivolti all'interno, come in un invito a
scendere lungo questo sentiero nel mezzo, così che quando uno
raggiungeva il centro diventava il punto focale. Ma trovavo tutto ciò
un po' comportamentista, e allora, quando esposi di nuovo il lavoro a
New York nel 1991, la sfida divenne utilizzare tutto lo spazio per
riempire l'intera galleria>>.
Questo
lavoro successivo, molto più ambizioso, composto di circa
trentacinquemila di queste figure grandi quanto una mano, fu
realizzato con l'aiuto della famiglia Texca a Cholula, in Messico, nel
1990. Gormley disse alla famiglia che <<ciò in cui sperava era di
poter rendere l'immagine di persone non ancora nate>>: <<Volevo
servirmi della mia vita per cambiare la mia vita - per ricominciare da
zero>>. L'opera fu esposta dapprima a New York nel 1991 e,
successivamente, l'artista di nuovo con dei collaboratori, ne realizzò
una affine in Inghilterra, dal titolo "Field for the British Isles",
che è stata esposta spesso, principalmente alla Hotung Gallery nella
Central Court del British Museum. In questo caso lo spettatore
sperimenta qualcosa di diverso: davanti agli occhi aperti di queste
migliaia di figure ammassate, il ruolo di chi guarda è capovolto.
Invece di essere noi a guardare e osservare il corpo dell'artista
pensando al nostro stesso corpo, ci sembra di stare proprio lì, sul
banco dei testimoni, sotto lo sguardo di trantacinquemila persone: uno
stratagemma artistico del tutto particolare ci fa sentire acutamente
consapevoli della nostra posizione, di dove siamo, della nostra
presenza e dei nostri corpi.
Queste
varie versioni di "Field" richiamano un'altra notevole opera, che
consiste in un gruppo di figure e anticipa per certi versi "Time
Horizon". "Another Place" non è la prima installazione in cui
Gormley ha usato un numero considerevole di figure in ferro, ciascuna
modellata sul suo corpo: infatti, era stata preceduta in questo da "Critical
Mass", un assemblaggio di pezzi simili in varie posizioni (sdraiati,
inginocchiati, in piedi, alcuni che ciondolavano appesi dall'alto),
esposti nel cortile della Royal Academy of Arts di Londra nel 1995. Ma
in quel caso la disposizione era volutamente casuale, quasi
disordinata, evocativa di una certa disfunzione del mondo moderno.
Vai al
videoclip n.3 della mostra
La
sistemazione in "Another Place" è molto diversa: le figure sono tutte
stanti, su una spiaggia sabbiosa, alcune irraggiungibili dal mare
anche in caso di alta marea (anche se parzialmente sepolte nella
sabbia), altre più vicine all'acqua e parzialmente sommerse dalla
marea che sale. Tutte hanno lo sguardo rivolto verso il mare, nella
stessa direzione, e sono disposte in modo che le parti superiori delle
loro teste formino tra loro un piano perfetto: sono perfettamente
allineate orizzontalmente. La prima installazione era destinata alla
Happag Halle di Cuxhaven, la seconda a Stavanger in Norvegia, mentre
attualmente il lavoro è esposto a Crosby Beach, nei pressi di
Liverpool, da dove partirà per New York.
Questo
interessante insieme di figure potrebbe essere interpretato in vari
modi: ogni figura guarda verso il mare (e resta parzialmente sommersa
quando la marea sale), apparentemente distaccata dalle altre, ma tutte
sono chiaramente spinte dalla stessa preoccupazione, dalla stessa
attrazione, dalle stesse forze. Secondo quanto sostiene Gormley:
<<L'opera si intitola "Another Place", il che penso richiami
apertamente non solo il desiderio di emigrare, ma il desiderio di un
altro 'dove', in cui le cose siano diverse. Quando questo concetto
diventa fisico, e quindi inserito in un mondo esistente, allora riesce
a trasformare il luogo>>.
L'Altro
Luogo in questione si trova al di là del mare: nel caso di Cuxhaven e
Liverpool l'emigrazione si dirigeva tradizionalmente verso l'America.
Ma al crepuscolo, quando cala il sole su queste figure rivolte a
ovest, altre speculazioni diventano possibili, e tornano in mente
certi versi di Tennyson:
"Sunset
and evening star,
And
one clear call for me.
And
may there be no moaning of the bar,
When
I put out to sea,
But
such a tide as moving seems asleep,
Too
full for sound and foam,
When
that which drew from out the boundless deep
Turns
again home".
Richiamare Tennyson non significa suggerire che Gormley si aspetti di
vedee un giorno i suoi personaggi incontrare il loro "pilota faccia a
facci", ma ricordare che la "diversità" di cui si parla può essere di
tempo, oltre che di spazio.
Foto: "Sovereign State", 1989-90
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La profondità
del tempo: sub specie aeternitatis |
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E' certamente
il caso di "Time Horizon", in cui le figure formano un insieme in
qualche modo comparabile a "Another Place". Anch'esse sono di ghisa,
in questo caso di dieci sagome differenti, modellate direttamente dal
corpo di Gormley <<in diversi momenti della respirazione, dalla piena
inspirazione alla espirazione totale, con il torace completamente
rilassato, in una sorta di mediazione, quindi, tra un corpo in massima
tensione e in massimo relax>>. Ma, questa volta, appartengono alla
terra, non al mare, e di sicuro non guardano tutte nella stessa
direzione, anche se sono anch'esse disposte in modo che <<l'alto delle
loro teste formi un piano perfetto>>, determinando in questo modo la
posizione orizzontale che dà il titolo all'opera. Questa posizione
rende necessario che alcune figure siano parzialmente sepolte nella
terra (come nel caso di "Another Place"), mentre altre, soprattutto
nel Foro dove il terreno pende leggermente verso sud, vengono rialzate
su piedistalli.
Il fatto che
alcune figure possano ora guardarsi reciprocamente tra gli ulivi e nel
Foro, rende possibile, con parole di Gormley, <<una comunicazione
sussurrata con livelli di storia dimenticati... una specie di
agopuntura del paesaggio ma anche dell'immaginario degli uomini>>.
Alla
luce brillante del giorno si riesce a immaginare una conversazione tra
questi personaggi e i dignitari di marmo in toga, a loro volta
in piedi sui loro piedistalli, che un tempo dominavano nel Foro (e ora
si possono incontrare nel museo annesso). ma nella penombra del
crepuscolo, diventano possibili altre evocazioni e le figure assumono
un'identità diversa:
"Those
are Grecian ghosts, that in battle were slain,
And
unbury'd remain
Inglorious on the plain".
Il poema
di Dryden si riferisce al massacro dei soldati di Alessandro Magno, al
tempo del quale la greca Skylletion era già vecchia di quattro
secoli: in effetti, era già in declino al momento della fondazione di
Scolacium da parte dei romani nel 123 a.C.
Se per
un momento, tuttavia, ci fermiamo a pensare a questo insieme di
personaggi di ferro non come a un gruppo di contemporanei, nostri o di
Alessandro, ma come a una linea di discendenza, ognuno figlio del
precedente e padre del successivo, ne otterremo un'immagine alquanto
diversa, più come di uno spaccato verticale di tempo che come un
orizzonte piatto: una discendenza dagli antichi che dai giorni nostri
va indietro verso un lontano passato. In effetti, gli studi più
attuali sul DNA nella nuova disciplina della archeogenetica, che si
occupa di studiare il passato dell'uomo con il supporto di tecniche di
biologia molecolare, hanno dimostrato che la sequenza del DNA
mitocondriale nelle cellule che compongono l'organismo di ognuno di
noi è quasi identica tra madre e figlio, risalendo lungo una linea
femminile ininterrotta fino all'inizio della nostra specie, Homo
sapiens sapiens, in Africa, circa duecentomila anni fa. Infatti è
stato in Africa, oltre un milione di anni fa, che il predecessore
dell'Homo sapiens, noto per i suoi resti fossili e
chiamato oggi Homo erectus, apparve come evoluzione dei nostri
antenati-scimmia. Allo stesso modo, risale di figlio in padre la
sequenza di DNA della parte invariata del cromosoma Y nelle cellule di
ogni essere umano maschile, in un'ininterrotta catena di discendenza
che arriva anch'essa alle origini africane della nostra specie.
Se ci
prendessimo la briga di immaginare questi personaggi di metallo, sui
loro piedistalli o emergenti dal suolo calabro, non come gruppi di
contemporanei ma come componenti di generazioni che si succedono in
una linea evolutiva come quella descritta, ognuno figlio del
precedente personaggio, allora le centinaia di generazioni
rappresentate in questa installazione ci porterebbero indietro di 2500
anni (considerando 25 anni il periodo medio di una generazione), fino
a circa un secolo prima di Alessandro e il suo esercito, quando la
greca Skylletion era di fondazione ancora relativamente recente
a opera, secondo la leggenda, di Ulisse.
Per
arrivare con una linea di discendenza ininterrotta fino ai primi
insediamenti umani in Calabria, intorno a 40 mila anni fa,
rappresentando ogni generazione, sarebbe necessaria una serie di mille
e seicento di queste figure; per riportarci alle nostre origini
africane di duecentomila anni fa ci vorrebbe una linea di discendenza
maschile di almeno ottomila figure di antenati che arrivi ad
abbracciare le nostre prossime generazioni, tanto è antica la nostra
specie.
"Time
Horizon" è un lavoro che ci invita, anzi ci spinge, a speculazioni di
questo genere: promuove domande, ci rende consapevoli della nostra
presenza fisica. Insieme a noi, considera molti aspetti della
condizione umana, immaginando come siamo arrivati qui, in questo posto
e in questo luogo, e come possiamo porci in relazione a chi ci ha
vissuto prima di noi; riporta alla mente i vari periodi di occupazione
che Scolacium ha affrontato nel corso dei secoli.
La
scultura è una forma di arte molto materiale, che di solito ha a che
fare con il solido e il tangibile: come la poesia, però, ha la
capacità di evocare in noi pensieri inaspettati e di rivelare emozioni
profonde. Un pensoso visitatore di Scolacium, che incontri "Time
Horizon" in una sera estiva dell'anno 2006, avrà la tentazione di
lasciare in silenzio il Foro romano per spostarsi verso l'uliveto, in
cerca di un posto solitario in mezzo agli alberi con uno spicchio di
vista verso la costa e il Mediterraneo. Due secoli fa, il grande poeta
Giacomo Leopardi, ben prima di tutto questo parlare di DNA e delle
discussioni su cosmologia moderna e meccanica quantistica, già
rifletteva su questi aspetti. Il suo poema, L'Infinito ,
offre con le sue riflessioni sulla solitudine una via che magari
possiamo seguire anche a Scolacium nella nostra immersione personale,
tra lo stormire degli ulivi e la silenziosa stratigrafia del tempo.
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Intersezioni - Seconda edizione
Time Horizon. Antony Gormley al Parco Archeologico di Scolacium:
un'installazione di 100 sculture e una mostra personale di grandi
opere
Dal 25 giugno all' 8 ottobre 2006
Organizzazione: Assessorato alla Cultura della Provincia di Catanzaro
con la collaborazione dell'Assessorato alla Cultura della Regione
Calabria e della Direzione Regionale per i Beni Culturali e
Paesaggistici della Calabria
Orari: tutti i giorni 10-21,30; ingresso libero
Catalogo: Electa con testi in italiano e inglese
Parco Archeologico di Scolacium Roccelletta di Borgia (Catanzaro)
Info: 0961. 391356-84342-741257
www.provincia.catanzaro.it
Ufficio Stampa: Studio Esseci-Sergio Campagnolo
tel. 049 663499; fax 049 655098
info@studioesseci.net
www.studioesseci.net
Ufficio Stampa Electa
tel. 02.21563433- 250; fax 02.21563314
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Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo |