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FRENIS  zero 

Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività

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        " PAESAGGIO CON FIGURE"

 di Colin Renfrew

 

 

  

 



Dal 24 giugno 2006 al 8 orrobre 2006 presso il Parco Archeologico di Scolacium Roccelletta di Borgia (Catanzaro) si è svolta la mostra "Time Horizon" con sculture di Antony Gormley, curata da Alberto Fiz. Time Horizon è il titolo dell'installazione che Antony Gormley ha realizzato appositamente per Scolacium. Si tratta di 100 sculture in ferro di 189x53x29 centimetri, dal peso di 650 chili ciascuna che l'artista inglese ha creato partendo dai calchi del suo corpo; le opere appaiono come una serie di varianti rispetto al processo di respirazione.
L'evento espositivo organizzato dall'Assessorato alla Cultura della Provincia di Catanzaro con la collaborazione dell'Assessorato alla Cultura della Regione Calabria e della Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Calabria, ha proposto, accanto all'installazione che dà il titolo alla rassegna, una mostra personale di Gormley nei suggestivi ambienti del Museo del Frantoio, all'interno del Parco di Scolacium, con una selezione di opere che vanno dalla fine degli anni Ottanta sino a oggi, in grado di ripercorrere la ricerca linguistica e le innovazioni stilistiche dell'artista.
Time Horizon caratterizza la seconda edizione di Intersezioni, la rassegna nata nel 2005 con l'obiettivo di proporre una nuova fruibilità dell'arte, sottolineando la relazione tra il patrimonio archeologico e l'esperienza dei maggiori scultori contemporanei. Tony Cragg, Jan Fabre e Mimmo Paladino sono stati i protagonisti della prima edizione. "Dopo il successo dello scorso anno il Parco Archeologico di Scolacium è al centro di un altro impegnativo progetto internazionale particolarmente innovativo dove l'arte di oggi instaura un inedito dialogo con la memoria e la storia", ha affermato Maurizio Rubino Assessore alla Cultura della Provincia di Catanzaro. Ed  il Presidente della Provincia di Catanzaro Michele Traversa ha confermato che "con Intersezioni la Calabria della cultura non solo valorizza uno dei suoi luoghi storici di maggior fascino ma diventa un punto di riferimento per la comprensione dei linguaggi più attuali promuovendo un nuovo approccio con i maggiori maestri della contemporaneità".

Per quanto riguarda il progetto espositivo è stato Alberto Fiz a spiegare come "in questo caso Gormley abbia messo a disposizione il proprio corpo per compiere un'indagine sull'universo fisico e sensoriale che interagisce con il territorio e con l'architettura del luogo". Tutto ciò, ribadisce il critico, "consente di ampliare la nostra percezione e di sviluppare un percorso visivo completamente nuovo ponendoci in continua relazione con la moltitudine del nostro essere e del nostro agire. L'uomo diventa, allo stesso tempo, contenitore e contenuto dello spazio infinito". Le sculture occupano il Parco di Scolacium disponendosi sull'intera area sia nella zona archeologica del Foro, ovvero la piazza principale della colonia Minervia Scolacium dove un tempo erano situati i monumenti più importanti, sia nell'immenso uliveto circostante. Sono state collocate ciascuna su una base differente alla stessa altezza creando un'unica linea dell'orizzonte. "E' la prima volta che posso utilizzare un luogo così affascinante e così ricco di riferimenti alla memoria storica e alla realtà del presente", afferma Gormley. "Il mio progetto si sviluppa su due assi, quello orizzontale della storia e quello verticale della natura e della terra. Le mie sculture, che richiedono la presenza diretta dello spettatore, si possono considerare come una sorta di agopuntura in grado di ridare energia allo spazio evidenziando aspetti che prima sembravano nascosti".
L'installazione dello scultore inglese va considerata come un innesto sul territorio dove archeologia e geologia trovano nuovi punti di connessione e lo spettatore che giungerà al Parco Archeologico di Scolacium si troverà a compiere un percorso esplorativo affascinante e misterioso dove le opere di Gormley attendono in silenzio di essere scoperte creando un rinnovato dialogo con chi osserva.

Accanto a questa complessa installazione era stata allestita, come s'è detto, una mostra  negli spazi del Museo del Frantoio che per la prima volta era stato utilizzato per un'esposizione d'arte contemporanea. In una cornice di archeologia industriale formata da macine, presse e mole degli anni Trenta per la lavorazione delle olive, sono state collocate alcune opere come Seeing and believing del 1988, Sovereign State del 1989/90, Transfuser III del 2002 e Concentrate I del 2003 da cui risulta con chiarezza l'originalità dell'indagine di Gormley che ha rivitalizzato la figura umana nella scultura contemporanea attraverso una radicale indagine sul corpo, inteso come luogo di memoria e di metamorfosi in una ricerca sull'individualità ma anche sul corpo collettivo e sulla relazione tra sé e gli altri. A questo proposito appaiono emblematiche le due opere della serie Quantum Cloud, ovvero Quantum Cloud XVII e Quantum Cloud XXIV, entrambe del 2000, dove la figura appare nascosta all'interno di filiformi strutture in acciaio che ne impedisce una reale percezione, come se chi osserva fosse costretto ad un continuo processo di avvicinamento e di allontanamento. Nel caso di Transfuser III del 2002, il corpo sospeso è avvolto da un involucro in acciaio, quasi una navicella spaziale, che sembra custodire il feto. Nella piccola piazzetta che porta all'ingresso del Museo del Frantoio lo spettatore era accolto invece da Present Time del 2001, una grande scultura in ferro di tre metri e mezzo d'altezza basata sulla sovrapposizione di due calchi dell'artista divisi da una linea orizzontale dove si crea una stretta relazione tra l'elemento fisico e quello spirituale, tra lo spazio interno e quello esterno in una indagine tesa a metterci in contatto con l'aspetto più recondito e segreto dell'esistenza.
La mostra era accompagnata da un catalogo in italiano e inglese edito da Electa che rappresenta la prima importante monografia dell'artista pubblicata in Italia. Accanto al saggio del curatore Alberto Fiz, erano raccolti contributi critici di Maria Grazia Aisa, Bruno Corà e Colin Renfrew. Il volume, inoltre, era accompagnato da un'intervista di Antony Gormley con Alberto Fiz. Il testo che segue è parte del saggio di Colin Renfrew, scritto apposta per la mostra di Scolacium, che compare nel catalogo della mostra.


 



 

 
 

 

 

                      

 

 

    Usciamo dal mondo così come ci entriamo: soli.

  Antony Gormley, negli anni ottanta, sviluppò quello che in effetti era un nuovo concetto di scultura, che gli consentiva di utilizzare il corpo umano come centro della sua opera: si trattava di un espediente tramite il quale farsi da parte rispetto alla grande tradizione, tramandataci dall'Antichità e dal Rinascimento, di rappresentare il corpo con realismo sempre maggiore, in pietra o in bronzo. Avviata dagli Egiziani e sviluppatasi con lo studio della natura umana coltivato da Greci e Romani, questa tradizione costituì il fulcro anche per i grandi scultori rinascimentali come Donatello o Michelangelo, e per i loro successori postrinascimentali, dal Bernini a Rodin. Anche se concepita in modi differenti, la rappresentazione della figura umana è rimasta comunque la preoccupazione principale per molti scultori moderni, da Brancusi a Henry Moore. Nell'arte greca più antica, ciò che più meraviglia è lo sforzo che gli scultori arcaici compirono proprio per riuscire a rappresentare la figura umana, laddove poi i classici ne studiarono a fondo la muscolatura, esplorando i modi per renderne il movimento. Tali questioni furono poi riprese durante il Rinascimento, e in seguito i moderni studiarono varie maniere per semplificare le forme sfruttando più esplicitamente le proprietà dei vari materiali - pietra, bronzo, legno - con i quali erano realizzate le sculture. Da tutto ciò deriva una sfida che molti degli artisti del tardo Novecento hanno dovuto affrontare: la "tirannia" del Rinascimento, che costringe gli scultori a fuggire da quella che era diventata oramai una convenzione limitante. Ognuno ha raccolto la sfida a modo suo: Eduardo Paolozzi ha usato parti di macchine per costruire le sue forme umane; Barry Flanagan ha scelto una lepre come traslato dell'attività umana, nella sua fuga dalla tradizione rinascimentale; Anthony Caro ha inaugurato una nuova era portando la sua scultura "giù dal piedistallo", e utilizzando componenti di acciaio nelle sue costruzioni. Antony Gormley ha affrontato differentemente questa sfida: ha sviluppato una procedura sistematica per produrre un getto, uno stampo del suo stesso corpo. L'esercizio non è più quello di rappresentare il corpo o di ricercare i materiali con cui rappresentarlo: è il corpo, o lo spazio da esso occupato - il locus del nostro essere - che diviene soggetto di ricerca.

Nei suoi primi lavori, come "Learning to Be", lo stampo stesso era ricoperto di piombo; in seguito, in "Another Place" e nel lavoro esposto a Scolacium, "Time Horizon", le figure sono state ricavate direttamente, in ferro, da un calco del suo corpo. Qui, benché tutte siano rappresentate in piedi, sono stati utilizzati svariati calchi e stampi, a seconda delle varie fasi di respirazione, e con altre differenze minori, per evitare l'impressione di un'identità univoca.

    Vai al videoclip n.1 girato nella sede della mostra

In una serie di grande effetto realizzata nei primi anni novanta, "Learning", il risultato di questo processo produttivo per ricalchi sta nell'aver fatto in modo che il centro dell'attenzione si rivolga non tanto all'abilità produttiva mostrata dallo scultore nell'ottenere una data raffigurazione, quanto proprio all'esistenza della scultura in sé, come rappresentazione umana che occupa un certo spazio. Nella serie "Learning", le opere sono effettivamente tutte a grandezza naturale, ma mi piace immaginarle non come adulti cresciuti, bensì come degli individui più giovani ancora in divenire. Immaginiamo come sarebbe se non fossimo nati piccoli, ma fossimo venuti alla luce già in dimensione di adulti; immaginiamo che i nostri primi anni non siano stati caratterizzati dalla crescita fisica, ma solo da un processo di consapevolezza e conoscenza del mondo via via crescente, quale in effetti il bambino sperimenta parallelamente allo sviluppo fisico.

   Foto: "Iron Baby", 1999

L'opera collegata, "Learning to See", ci ricorda che, da neonati, all'inizio siamo sopraffatti da emozioni visive, e ci vogliono mesi per  poter cominciare a vedere il mondo in tre dimensioni, per poter realizzare che il mondo può essere conosciuto come un insieme di oggetti situati nello spazio, e che questi oggetti possono muoversi senza perdere la loro integrità. Arriviamo a imparare che gli oggetti, avvicinandosi o allontanandosi, cambiano dimensione solo in apparenza.  "Learning to Think", in cui i corpi sono liberi ma le teste (e di conseguenza le menti) non ancora, perché bloccate in uno spazio solido - in questo caso il soffitto - fa parte della stessa serie, come pure altri lavori che riesaminano la nostra dipendenza dalle sensazioni.

Ognuna di queste singole figure è in effetti l'esplorazione di che cosa significhi appartenere al genere umano; affronta il fatto che noi siamo esseri fisici che non possono esistere al di fuori dei propri corpi e che ricevono informazioni sul mondo attraverso le sensazioni sperimentate dal proprio corpo. Dobbiamo imparare a usare queste sensazioni, e durante gli anni della crescita noi impariamo, letteralmente, a vedere, impariamo a pensare, a essere. Un forte senso del problema, del desiderio di apprendere in modo più completo la natura materiale del nostro essere, permea l'opera di Gormley.

  Foto: "Seeing and Believing", 1988

La scultura di Gromley riguarda l'essere, la pura e semplice natura e circostanza della nostra esistenza; non si concentra su come intraprendere una qualche specifica attività, un combattimento o un lancio del disco. Le sue figure, quindi, non corrono e non camminano: stanno in piedi, o sedute, o sdraiate. In questo, ha notato l'autore stesso, la sua opera ha più in comune con la staticità delle prime sculture greche delle isole Cicladi, risalenti al 2500 a.C. circa, che con le antiche figure greche di kouroi, già rappresentate nell'atto di avanzare, benché questo movimento iniziale non dia ancora una grande impressione di azione. A ogni modo, se ci allontaniamo dalla tradizione artistica occidentale, possiamo trovare numerose sculture statiche che sono altrettanto importanti proprio per la loro presenza, e forse per il loro potere immanente, piuttosto che per merito delle loro azioni. le statue di pietra dell'Isola di Pasqua, sebbene raffiguranti persone - forse condottieri - ormai morte, hanno un forte impatto proprio perché usano figure ferme, stanti, spesso allineate, con lo sguardo sempre rivolto verso il mare (come in una prefigurazione del Pacifico di "Another Place").

Queste strutture singole - nel caso di "Learning to Think" si tratta già di un gruppo - sono figure maschili, dato che sono dei calchi del corpo dello stesso Gormley. Ma, in generale, non è importante di che sesso siano: invitano noi tutti a identificarci con loro per contemplare e riesaminare le realtà basilari della nostra esistenza. Hanno, certamente, un loro modo di essere insistenti ma, come già si è notato, di natura interrogativa: ci domandano chi o che cosa siamo, e che cosa crediamo di fare qui.

    Vai al videoclip n.2 della mostra  

 

 
Insieme nel mondo

 

 
Poche tra le sculture di Gormley riguardano dichiaratamente i rapporti umani e, di solito, non troviamo momenti di conversazione: nelle sue opere non c'è un'"Annunciazione", una "Madre con Fanciullo". Da questo punto di vista, egli non esula dalla tradizione dell'Antichità e del Rinascimento, in cui il paradigma della scultura è la figura umana singola, di solito stante. Ma l'artista ha sviluppato questo paradigma portandolo verso un'esplorazione più sistematica, e utilizzando anche singole figure sedute, acquattate, inginocchiate o sdraiate, sempre ricavate dal suo proprio corpo. In qualche caso specifico - come "Land, Sea and Air" - ci sono gruppi di tre personaggi o più, ma che generalmente non interagiscono tra loro.

  Foto: "Present Time", 2001

Negli ultimi anni ottanta questo tema, alquanto solitario, cominciò a sembrargli insufficiente, e così cambiò direzione, creando gruppi scultorei di numerose piccole figure in terracotta, la cui dimensione si rifaceva a quella di una mano. Il suo commento su questo spostamento di interesse è stato:

<<Alla fine mi interessa il quadro più ampio: qual è la base della consapevolezza? Il corpo, dobbiamo dire. E' possibile dare un'immagine tridimensionale del principio cartesiano in cui la consapevolezza non ha altro oggetto che il suo fondamento? Questo è ciò che sta alla radice del mio progetto. Dopo essermene occupato per quasi vent'anni, mi domando se questa attività non sia diventata un po' troppo solipsistica, e forse proprio questo rischio è ciò che mi ha spinto a creare "Field". Verso la fine degli anni ottanta, dopo aver progredito abbastanza razionalmente nell'analisi dei fondamenti dell'umana consapevolezza con quattro gruppi di opere, ognuno dei quali conteneva tre elementi, ho avvertito una crisi... Per me, "Field" è stato una fuga necessaria da questa analisi piuttosto prolungata sui principi fisici alla base dell'esistenza e della percezione, nonché un tentativo di arrivare al corpo collettivo, un modo di riconoscere il fatto che l'essere umano è anche una questione di connessioni. E' stato il risultato di una crisi: le mie erano preoccupazioni diverse da quelle dei miei simili e mi sentivo estremamente isolato, così fare "Field" è stato una liberazione da quella posizione privilegiata dell'artista contemporaneo come paradigma dell'individuo libero, capace di creare la sua opera all'interno del suo spazio e del suo tempo, attribuendole valore e significato. Questo era diventato un po' come una prigione per me, e quindi alla fine degli anni ottanta cominciai a pensare che il mio lavoro stava andando avanti senza collegamenti con il mondo, e questa è stata per me la spinta catalizzatrice verso "Field">>.

  Foto: "Concentrate I", 2003

Uno dei primi tra questi studi è stato intrapreso in Australia nel 1989: "Field for the Art Gallery of New South Wales". Consisteva in oltre  mille piccole figure di terracotta, in una specie di cerchio suddiviso, e disposte come lungo delle linee di forza intorno a un magnete invisibile come, per esempio, della limatura di ferro su un foglio di carta. In questo pezzo, il termine "field", "campo", suggeriva in modo interessante un qualche ordine sottostante, eppure nascosto, che collegava le figure e ne governava la scelta delle posizioni. Come ha affermato Gormley: <<Per la prima versione di "Field", mi è venuta questa idea di tagliare il cervello all'altezza degli occhi, sulla linea dell'orizzonte, per avere una sezione trasversale dei due emisferi, separandoli leggermente in modo che fosse possibile scenderci in mezzo, per poi descrivere in qualche modo questo campo di cervello come un campo magnetico. Quindi questa versione iniziale di "Field" aveva 1100 pezzi, disposti prima in questo stretto cerchio dove stavano spalla a spalla, una sessantina di loro, poi un secondo, leggermente più spaziati, rivolti all'interno, come in un invito a scendere lungo questo sentiero nel mezzo, così che quando uno raggiungeva il centro diventava il punto focale. Ma trovavo tutto ciò un po' comportamentista, e allora, quando esposi di nuovo il lavoro a New York nel 1991, la sfida divenne utilizzare tutto lo spazio per riempire l'intera galleria>>.

Questo lavoro successivo, molto più ambizioso, composto di circa trentacinquemila di queste figure grandi quanto una mano, fu realizzato con l'aiuto della famiglia Texca a Cholula, in Messico, nel 1990. Gormley disse alla famiglia che <<ciò in cui sperava era di poter rendere l'immagine di persone non ancora nate>>: <<Volevo servirmi della mia vita per cambiare la mia vita - per ricominciare da zero>>. L'opera fu esposta dapprima a New York nel 1991 e, successivamente, l'artista di nuovo con dei collaboratori, ne realizzò una affine in Inghilterra, dal titolo "Field for the British Isles", che è stata esposta spesso, principalmente alla Hotung Gallery nella Central Court del British Museum. In questo caso lo spettatore sperimenta qualcosa di diverso: davanti agli occhi aperti di queste migliaia di figure ammassate, il ruolo di chi guarda è capovolto. Invece di essere noi a guardare e osservare il corpo dell'artista pensando al nostro stesso corpo, ci sembra di stare proprio lì, sul banco dei testimoni, sotto lo sguardo di trantacinquemila persone: uno stratagemma artistico del tutto particolare ci fa sentire acutamente consapevoli della nostra posizione, di dove siamo, della nostra presenza e dei nostri corpi.

Queste varie versioni di "Field" richiamano un'altra notevole opera, che consiste in un gruppo di figure e anticipa per certi versi "Time Horizon". "Another Place" non è la prima installazione in cui Gormley ha usato un numero considerevole di figure in ferro, ciascuna modellata sul suo corpo: infatti, era stata preceduta in questo da "Critical Mass", un assemblaggio di pezzi simili in varie posizioni (sdraiati, inginocchiati, in piedi, alcuni che ciondolavano appesi dall'alto), esposti nel cortile della Royal Academy of Arts di Londra nel 1995. Ma in quel caso la disposizione era volutamente casuale, quasi disordinata, evocativa di una certa disfunzione del mondo moderno.

 

  Vai  al videoclip n.3 della mostra   

La sistemazione in "Another Place" è molto diversa: le figure sono tutte stanti, su una spiaggia sabbiosa, alcune irraggiungibili dal mare anche in caso di alta marea (anche se parzialmente sepolte nella sabbia), altre più vicine all'acqua e parzialmente sommerse dalla marea che sale. Tutte hanno lo sguardo rivolto verso il mare, nella stessa direzione, e sono disposte in modo che le parti superiori delle loro teste formino tra loro un piano perfetto: sono perfettamente allineate orizzontalmente. La prima installazione era destinata alla Happag Halle di Cuxhaven, la seconda a Stavanger in Norvegia, mentre attualmente il lavoro è esposto a Crosby Beach, nei pressi di Liverpool, da dove partirà per New York.

Questo interessante insieme di figure potrebbe essere interpretato in vari modi: ogni figura guarda verso il mare (e resta parzialmente sommersa quando la marea sale), apparentemente distaccata dalle altre, ma tutte sono chiaramente spinte dalla stessa preoccupazione, dalla stessa attrazione, dalle stesse forze. Secondo quanto sostiene Gormley: <<L'opera si intitola "Another Place", il che penso richiami apertamente non solo il desiderio di emigrare, ma il desiderio di un altro 'dove', in cui le cose siano diverse. Quando questo concetto diventa fisico, e quindi inserito in un mondo esistente, allora riesce a trasformare il luogo>>.

L'Altro Luogo in questione si trova al di là del mare: nel caso di Cuxhaven e Liverpool l'emigrazione si dirigeva tradizionalmente verso l'America. Ma al crepuscolo, quando cala  il sole su queste figure rivolte a ovest, altre speculazioni diventano possibili, e tornano in mente certi versi di Tennyson:

"Sunset and evening star,

And one clear call for me.

And may there be no moaning of the bar,

When I put out to sea,

 

But such a tide as moving seems asleep,

Too full for sound and foam,

When that which drew from out the boundless deep

Turns again home".

 

Richiamare Tennyson non significa suggerire che Gormley si aspetti di vedee un giorno i suoi personaggi incontrare il loro "pilota faccia a facci", ma ricordare che la "diversità" di cui si parla può essere di tempo, oltre che di spazio.

  Foto: "Sovereign State", 1989-90

 

 
La profondità del tempo: sub specie aeternitatis

 

 
  E' certamente il caso di "Time Horizon", in cui le figure formano un insieme in qualche modo comparabile a "Another Place". Anch'esse sono di ghisa, in questo caso di dieci sagome differenti, modellate direttamente dal corpo di Gormley <<in diversi momenti della respirazione, dalla piena inspirazione alla espirazione totale, con il torace completamente rilassato, in una sorta di mediazione, quindi, tra un corpo in massima tensione e in massimo relax>>. Ma, questa volta, appartengono alla terra, non al mare, e di sicuro non guardano tutte nella stessa direzione, anche se sono anch'esse disposte in modo che <<l'alto delle loro teste formi un piano perfetto>>, determinando in questo modo la posizione orizzontale che dà il titolo all'opera. Questa posizione rende necessario che alcune figure siano parzialmente sepolte nella terra (come nel caso di "Another Place"), mentre altre, soprattutto nel Foro dove il terreno pende leggermente verso sud, vengono rialzate su piedistalli.

Il fatto che alcune figure possano ora guardarsi reciprocamente tra gli ulivi e nel Foro, rende possibile, con parole di Gormley, <<una comunicazione sussurrata con livelli di storia dimenticati... una specie di agopuntura del paesaggio ma anche dell'immaginario degli uomini>>.

Alla  luce brillante del giorno si riesce a immaginare una conversazione tra questi personaggi e i dignitari di marmo  in toga, a loro volta in piedi sui loro piedistalli, che un tempo dominavano nel Foro (e ora si possono incontrare nel museo annesso). ma nella penombra del crepuscolo, diventano possibili altre evocazioni e le figure assumono un'identità diversa:

"Those are Grecian ghosts, that in battle were slain,

And unbury'd remain

Inglorious on the plain".

 

Il poema di Dryden si riferisce al massacro dei soldati di Alessandro Magno, al tempo del quale la greca Skylletion era già vecchia di quattro secoli: in effetti, era già in declino al momento della fondazione di Scolacium da parte dei romani nel 123 a.C.

Se per un momento, tuttavia, ci fermiamo a pensare a questo insieme di personaggi di ferro non come a un gruppo di contemporanei, nostri o di Alessandro, ma come a una linea di discendenza, ognuno figlio del precedente e padre del successivo, ne otterremo un'immagine alquanto diversa, più come di uno spaccato verticale di tempo che come un orizzonte piatto: una discendenza dagli antichi che dai giorni nostri va indietro verso un lontano passato. In effetti, gli studi più attuali sul DNA nella nuova disciplina della archeogenetica, che si occupa di studiare il passato dell'uomo con il supporto di tecniche di biologia molecolare, hanno dimostrato che la sequenza del DNA mitocondriale nelle cellule che compongono l'organismo di ognuno di noi è quasi identica tra madre e figlio, risalendo lungo una linea femminile ininterrotta fino all'inizio della nostra specie, Homo sapiens sapiens, in Africa, circa duecentomila anni fa. Infatti è stato in Africa, oltre un milione di anni fa, che il predecessore dell'Homo sapiens,  noto per i suoi resti fossili e chiamato oggi Homo erectus, apparve come evoluzione dei nostri antenati-scimmia. Allo stesso modo, risale di figlio in padre la sequenza di DNA della parte invariata del cromosoma Y nelle cellule di ogni essere umano maschile, in un'ininterrotta catena di discendenza che arriva anch'essa alle origini africane della nostra specie.

Se ci prendessimo la briga di immaginare questi personaggi di metallo, sui loro piedistalli o emergenti dal suolo calabro, non come gruppi di contemporanei ma come componenti di generazioni che si succedono in una linea evolutiva come quella descritta, ognuno figlio del precedente personaggio, allora le centinaia di generazioni rappresentate in questa installazione ci porterebbero indietro di 2500 anni (considerando 25 anni il periodo medio di una generazione), fino a circa un secolo prima di Alessandro e il suo esercito, quando la greca Skylletion era di fondazione ancora relativamente recente a opera, secondo la leggenda, di Ulisse.

Per arrivare con una linea di discendenza ininterrotta fino ai primi insediamenti umani in Calabria, intorno a 40 mila anni fa, rappresentando ogni generazione, sarebbe necessaria una serie di mille e seicento di queste figure; per riportarci alle nostre origini africane di duecentomila anni fa ci vorrebbe una linea di discendenza maschile di almeno ottomila figure di antenati che arrivi ad abbracciare le nostre prossime generazioni, tanto è antica la nostra specie.

"Time Horizon" è un lavoro che ci invita, anzi ci spinge, a speculazioni di questo genere: promuove domande, ci rende consapevoli della nostra presenza fisica. Insieme a noi, considera molti aspetti della condizione umana, immaginando come siamo arrivati qui, in questo posto e in questo luogo, e come possiamo porci in relazione a chi ci ha vissuto prima di noi; riporta alla mente i vari periodi di occupazione che Scolacium ha affrontato nel corso dei secoli.

La scultura è una forma di arte molto materiale, che di solito ha a che fare con il solido e il tangibile: come la poesia, però, ha la capacità di evocare in noi pensieri inaspettati e di rivelare emozioni profonde. Un pensoso visitatore di Scolacium, che incontri "Time Horizon" in una sera estiva dell'anno 2006, avrà la tentazione di lasciare in silenzio il Foro romano per spostarsi verso l'uliveto, in cerca di un posto solitario in mezzo agli alberi con uno spicchio di vista verso la costa e il Mediterraneo. Due secoli fa, il grande poeta Giacomo Leopardi, ben prima di tutto questo parlare di DNA e delle discussioni su cosmologia moderna e meccanica quantistica, già rifletteva su questi aspetti. Il suo poema,  L'Infinito , offre con le sue riflessioni sulla solitudine una via che magari possiamo seguire anche a Scolacium nella nostra immersione personale, tra lo stormire degli ulivi e la silenziosa stratigrafia del tempo.

 

 

 
   
   
   
Intersezioni - Seconda edizione
Time Horizon. Antony Gormley al Parco Archeologico di Scolacium: un'installazione di 100 sculture e una mostra personale di grandi opere
Dal 25 giugno all' 8 ottobre 2006
Organizzazione: Assessorato alla Cultura della Provincia di Catanzaro con la collaborazione dell'Assessorato alla Cultura della Regione Calabria e della Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Calabria
Orari: tutti i giorni 10-21,30; ingresso libero
Catalogo: Electa con testi in italiano e inglese
Parco Archeologico di Scolacium Roccelletta di Borgia (Catanzaro)
Info: 0961. 391356-84342-741257
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