Questa mia
lettura del libro “Il pane e la lingua” è necessariamente unilaterale
e parziale, per un duplice ordine di motivi. Il primo è quello che
parlare del cibo in qualsiasi ‘salsa’ lo si faccia, da qualsiasi
angolazione, non può che portarci ad esplorare solo un esiguo angolo
di quell’immenso paesaggio, così vario e complesso, che ci si offre
alla vista… ed al gusto dei nostri sensi. Come correttamente afferma
una delle curatrici dell’opera, Carla Cotellessa, <<la restituzione
dello studio di questi insiemi, complessi per l’incongruenza delle
contingenze, delle epoche, dei luoghi, delle classi sociali, dell’età
della vita, dei cicli stagionali, e difformi anche per credenze e
sacralità, è impresa quasi impossibile>>. Quindi <<l’enorme quantità
di materiale che non può essere tutto utilizzato e sintetizzato,
insieme ai ruoli stessi degli alimenti estremamente fluttuanti e
relativi nel significato e nel ritmo del consumo (…) >> obbliga a
operare delle scelte ‘tranchants’, da parte di un recensore,
nell’approccio all’oggetto di studio. E quindi una tale vastità di
ambiti e di riferimenti, tutti intrecciati col posto che il cibo
occupa nella vita dell’uomo, mi obbligano a prediligere alcuni punti
più salienti, magari arbitrari, ma che maggiormente risuonano col mio
essere psicoterapeuta. Il secondo ordine di motivi che condiziona la
mia unilateralità sta in un dato contingente: la presenza qui, questa
sera, del Prof. Ferro, della dott.ssa Cotellessa e della dott.ssa
Grimaldi che mi portano a circoscrivere le mie considerazioni ai loro
testi compresi in quest’opera. E quindi prenderò spunto dal testo
della dott.ssa Cotellessa per un discorso generale sull’opera, quindi
passando ad alcune considerazioni sui saggi dal tema più specifico
del prof. Ferro e della dott.ssa Grimaldi.
<<PRENDETENE E
MANGIATENE TUTTI>>
Come esordisce
una delle curatrici, Carla Cottellessa, nel suo testo che fa da saggio
introduttivo del libro, <<negli ultimi anni, scrivere
sull’alimentazione è cosa facile e naturale, di moda e dalla
diffusione costante, ma, come vedremo, non è del tutto semplice
poiché, in fondo, equivale a parlare dell’uomo e del suo rapporto con
gli affetti, con la famiglia, con la società in cui vive, con la
cultura d’appartenenza, con le dinamiche storiche e con quelle sue
interne, con i sistemi produttivi e con le differenziazioni di
classe>>. Parlare di cibo e alimentazione pone, in altre parole, a
interrogarsi sulle origini culturali delle pratiche di alimentazione
(in un’ottica paleoantropologica), sulle differenze transculturali tra
le diverse pratiche (questioni della più grande attualità in una
società attraversata da potenti e inarrestabili flussi migratori), ma
anche attraverso il ricorso all’arte e al cinema , da un lato, ed alla
clinica psicoanalitica dall’altro a chiedersi quanto l’alimentazione
sia investita di una componente simbolica inconscia che affiora nelle
nostre abitudini alimentari quotidiane.
Come afferma la
professoressa Cotellessa, <<l’alimentazione, è evidente, non consiste
semplicemente nella ricerca delle materie prime, delle modalità di
cottura, degli utensili maggiormente idonei per la cucina; né è,
peraltro, esclusivamente cultura orale o scritta, le ricette, o atto
simbolico, selettivamente spirituale. Alimentarsi è atto fisiologico,
umano e animale, può essere oggetto di superstizione e di tabù, ma di
frequente riguarda la sensibilità e il pensiero>>. Come per il
linguaggio, anche l’alimentazione prevede dei codici culturali che si
apprendono sin dall’infanzia, in gran parte inconsci, ma che non per
questo sono immutabili: sia nella dimensione sociale sia in quella
clinica individuale le pratiche dell’alimentazione risentono delle
dinamiche collettive e relazionali con cui vengono rimaneggiati gli
apprendimenti più basilari e arcaici dell’individuo. E’ per questo che
i vari saperi attorno al cibo, quello del filosofo e dello
psicoanalista, quello del cuoco e del sociologo, quello
dell’antropologo e dell’economista, quello dello storico e del
nutrizionista, quello dell’etnologo e quello del medico non dovrebbero
rappresentare degli ‘ambiti di senso’ disparati e scollegati tra di
loro, ma dei contributi ad una visione unitaria dell’uomo nel suo
farsi persona, ossia essere dotato di un’identità sociale sempre in
fieri. E’ questo lo sforzo che questo libro intende affrontare con
un’ottica interdisciplinare davvero meritoria e feconda. Ed è proprio
nello spirito dell’opera che la Cotellessa passa in rassegna (nel
paragrafo “tempo e spazio: la storia e la geografia”) le coordinate
storico-geografiche di questa presenza del cibo nelle culture che
hanno forgiato quella, o meglio sarebbe dire, quelle che oggi ci
appartengono. Culture della magrezza, condite di campagne
salutistiche, con gli slittamenti semantici subiti da parole come
‘dieta’ e concettuali come a proposito del valore dell’astinenza che
non si correla più ad implicazioni religiose, ma a motivazioni
estetiche, igieniche o utilitaristiche. Ed è questo l’humus
socio-culturale che prepara il terreno a quegli slittamenti di senso,
più profondi in quanto investono l’Erlebnis, l’esperienza vissuta, e
il Leib, il corpo vissuto. <<I corpi vengono rimossi>> scrive la
Cotellessa <<o per meglio dire diventano i “luoghi” di collasso, di
angosce e il sintomo di un disagio collettivo>>.
Gli spunti più
densi di connotazioni psicoanalitiche si trovano negli ultimi
paragrafi del saggio della dott. Cotellessa. In esso efficace ed
equilibrata è l’integrazione tra saperi psicoanalitici e saperi
antropologici (si pensi all’opera di Levi Strauss “Il crudo e il
cotto”) per cui alimentazione e linguaggio condividono, su un piano
antropologico, l’essere entrambi strutturati sulla base di codici,
culturalmente trasmessi, ma anche l’essere ambedue, in un’ottica
psicoanalitica, portatori di <<categorie inconsce profondamente
operative>> (pag. 28). Infatti <<si può parlare di “alimentazione
materna” come si parla di “lingua materna”>> (ibidem) L’esempio
dell’alimentazione degli emigranti e dei suoi valori simbolici viene
addotto dall’autrice come esempio del fatto che <<certe dominanti
alimentari e linguistiche resistono a cambiamenti anche radicali,
dell’ambiente sociale e dell’ideologia>> (ibidem). Anche il culto
delle origini, comune a tutte le civiltà, viene mantenuto grazie al
consumo di certi piatti insieme alla pratica linguistica, entrambi
veicoli di simboli condivisi nella trasmissione del rito. D’altronde
il termine ‘religione’, il latino religio, deriva da re-ligare,
‘rimettere insieme’, ripristinare attraverso il rito quella
condivisione tra parola e cibo dello stesso luogo fisico che è la
bocca. “Prendetene e mangiatene tutti”: <<allora parola e cibo>>
scrive la Cotellessa <<sono la stessa cosa: conoscenza, ricordo ed
alimentazione fanno parte della medesima “esperienza” (…)>> (pag. 31).
Codici coscienti e modi inconsci del gusto e del disgusto sono
significanti che appartengono insieme al mondo psichico individuale
(anche nella sua dimensione diacronica) ed al mondo dell’essere-con-l’altro
(o dell’esserci heideggeriano), ma colto nella specificità sincronica
di una cultura particolare (cfr. pag. 29). Il contributo dello
strutturalismo viene declinato dalla Cotellessa (riprendendo anche
Roland Barthes – pag. 29) nel cogliere quelle opposizioni, tra dolce e
salato, tra resistente e molle, tra caldo e freddo, che sembrano
contraddistinguere i codici gastronomici, e quindi l’identità
culturale di intere nazioni: l’enfasi posta sullo sweet e
crisp nell’alimentazione americana ne è un esempio. Ancora
cogliendo l’apporto dello strutturalismo, linguaggio ed alimentazione
condividono l’importanza del ‘valore’ e della ‘funzione’ di un tratto
distintivo: come un fonema che entra e si combina in sistemi
fonologici difformi, così un ingrediente culinario <<può determinare
mutamenti in base alle varie epoche, alle economie e alle contingenze
storiche>> (pag. 30). <<L’alimentazione è, quindi, “ermeneutica”; e
ci riconduce al rapporto uomo/cibo/linguaggio. Entrambi naturali, cibo
e linguaggio si affidano a regole indiscusse inglobate in periodi
arcaici della vita>> (pag. 29).
E veniamo al
posto della psicoanalisi in questa ermeneutica di segni da svelare.
A me
sconosciuta era la citazione di Hegel, riportata dalla Cotellessa, per
cui <<nella bocca si confondono la parola e i baci, da un lato, e,
dall’altro, il mangiare, il bere, lo sputare. Il punto più alto dello
spirito e il luogo della pura animalità>> (pag. 30). D’altronde,
riprendendo il concetto della Heimann dell’importanza degli orifizi
del corpo umano per la circolazione tra dentro e fuori, tra Sé e
oggetto, la bocca è tra essi quello che consente l’intermediazione tra
interno ed esterno anche grazie alla parola (verbum, logos), che è
anche pneuma, soffio che pervade di vita l’intero mondo come in certe
dottrine gnostiche. La psicoanalisi non si occupa solo
dell’interiorità, ma anche e soprattutto della relazione tra interno
ed esterno, attraverso il corpo, colto come Leib (corpo
vissuto) nella sua dimensione esperenziale. Ed, allora, come il corpo
vissuto si può identificare con oggetti-simulacri esterni o venir
proiettato in identificazioni intrise di persecutorietà, così anche
il volto si può fare maschera, elemento personificante che si
pietrifica in un ritratto. E i quadri dell’Arcimboldi ci fanno pensare
a quanto sia possibile spingere fino al limite questi processi di
identificazione proiettiva: <<i legami di “affinità”, quasi di
identità, tra l’uomo e certi cibi commestibili, il mantenimento dei
relativi tabù assicurano un necessario corretto rapporto con l’ordine
sociale e intellettuale, di tipo quasi cosmologico>> (pag. 27). Ha
senso quindi, in questi termini, esplorare, come fa Filippo Maria
Ferro, il concetto di “ritratto del cibo”.
Foto: Filippo Maria Ferro durante un suo
intervento all'incontro "Il gusto della psicoanalisi"
CIBO E ARTE di
Filippo Maria Ferro
Il saggio di
Filippo Maria Ferro, intitolato “CIBO E ARTE. Il ‘ritratto’ del cibo:
mercati, colazioni, tavole imbandite, cucine”, colpisce innanzitutto
per l’originalità di quel “ritratto che è nel cibo”: nel suo discorso,
il cibo sembra personificarsi, rimandare ad una “persona” che è
depositaria di una “maschera” sociale, secondo l’espressione di
Resnik. Ma, siccome il ritratto sin dalle origini della storia
dell’arte è intimamente connesso al culto dei morti, è naturale che il
prof. Ferro inizi a trattare della funzione apotropaica del ritratto
del cibo (precursore della natura ‘morta) e del banchetto e del mondo
dei morti. La morte rende ‘significante’ la dimensione figurale degli
animali-cibo, raffigurati nei graffiti preistorici, <<sopra la perenne
realtà del quotidiano>> nella sua dimensione di caducità, di
mortalità. Chiarisce a tal proposito Ferro: <<In effetti, raffigurare
gli animali sacrificati per alimentarsene e continuare a vivere,
eppure contemplarli nella pienezza delle fisicità, è speranza, anzi
certezza, che il loro sacrificio sia ininfluente nell’economia del
mondo e che, attraverso tale sacrificio, la continuità della vita sia
garantita, come chiaramente esprime la serialità delle immagini>>
(pag. 71). Quindi la mortalità, che intride di sé la figura del
ritratto- cibo, fattosi vittima sacrificale per consentire la
propagazione della vita umana, diventa simbolo di trascendenza in una
vita ultraterrena. La ‘natura morta’, la cui linea espressiva lungo la
tradizione pittorica occidentale viene da Ferro ripercorsa a partire
dalla Grecia ellenistica e dagli affreschi delle ville flegree (in cui
peraltro l’istante della morte è stato ritratto immobilizzato nella
consistenza lapidea del corpo defunto), diventa nel Rinascimento
codice di una simbologia sacra che rimanda ad un al di là, persino in
un ‘filosofo’ della natura come Leonardo. Ma è con il suo apogeo che
la natura morta perde la sua aura ‘sacrale’ per divenire ‘genere’.
Questo processo culturale è da mettere senza dubbio in relazione con
la rivoluzione scientifica,concomitante nel XVII secolo, in parallelo
con il trionfo del paesaggio in particolare nella coeva pittura
fiamminga. Ma per Ferro il ritratto, pur laicizzato, continua ad
intrattenere un legame col registro del sacro: <<così ‘ciliegie’ e
‘cetrioli’ rivelano sempre ‘sangue’ e ‘peccato’ ma, anziché
prefigurare la ‘passio’ nel tacito e presago colloquio tra la Madonna
e il Bambin Gesù, si presentano quali ‘cose di natura’ (…)>> (pag. 72)
<<La novità di questi autori>> cito testualmente Ferro <<sta non solo
nel sottolineare l’indipendenza dei naturalia dalle
composizioni religiose ma nel comprendere quanta spiritualità vi sia
nella contemplazione della natura, quale arcana metafisica si legga
dietro questi nuovi oggetti-studio>>. Quindi la pittura di realtà si
fa portatrice di una forte carica di religiosità, talora come in Juan
Sanchez Cotan diventando la vera pittura sacra.
E tra frutti e
biscotti <<affiorano elementi criptici, simbolici e ‘unheimlich’,
insetti, coleotteri e topolini intenti a rodere noci e nocciole>>. Il
termine “unheimlich” che dà il titolo al saggio di Freud del 1919 non
è una presenza casuale nel testo di Ferro. Il termine “perturbante”,
con cui ‘unheimlich’ in genere è stato tradotto, ricorre anche in un
altro passo del testo: quello in cui Ferro tratta del rinnovato
‘naturalismo’ che dalla fine del ‘600 lungo il ‘700, <<ritrova,
nell’Italia settentrionale, una vena ‘naturale’ nella dolente poesia
di autori interpreti di una dura condizione sociale (Ferro, da
psichiatra, non manca qui di ricordare la psicosi da pellagra). Quindi
l’unheimlich, il perturbante è quella categoria che segna l’inizio e
la fine del barocco: nei naturalia barocchi, infatti, è
centrale <<l’aspetto scenografico dell’allestimento, con l’attenzione
rivolta a cogliere l’infinita varietà del reale, per seguire i moti
del desiderio ma altresì per definire la passione di una scienza alla
febbrile ricerca di più ampie conoscenze e descrizioni, sino al
rischio (esemplare in Ulisse Aldovrandi) di non distinguere tra
fantasia e realtà>>. In questa dinamica tra desiderio e dolore, tra
passione epistemofilica e vanitas troviamo una chiave di lettura
importante che Ferro ci offre rispetto al tema della vertigine
estetica così centrale nel barocco. Una chiave di lettura
supplementare rispetto a quella dell’Argan (che peraltro Ferro cita a
proposito di un suo delizioso ricordo autobiografico) che vedeva
nell’immaginazione come superamento del limite il fulcro
dell’esperienza estetica barocca, dell’esperienza tesa a
<<impressionare, commuovere, persuadere>>, persuadere che qualcosa di
non-reale può diventare realtà, scriveva l’Argan, che l’agire umano
può tradurre il possibile in reale. Ma da psichiatra e psicoanalista
Ferro coglie il perturbante che nel barocco si annida nella dinamica
conflittuale, <<nel doppio volto dello spirito barocco : l’opulenza e
la vanitas>>. E’ una dinamica bipolare, di tipo maniaco-depressivo,
quella che è sottintesa nella mente dell’uomo barocco? C’è l’intimo
conflitto tra la colpa del pasto finito e il suo diniego
nell’invenzione di nuove meraviglie, di infiniti pasti da consumare in
una pantagruelica visionarietà a scandire le polarità dello spirito
barocco? E’ possibile, ma il perturbante che Ferro menziona richiama
più direttamente l’eredità freudiana. E’ nell’atto stesso con cui lo
psicoanalista si accosta alla ricerca estetica che si annida
l’esperienza del perturbante. <<E’ raro che lo psicoanalista si senta
spinto verso ricerche estetiche, anche quando non si riduca l’estetica
alla teoria del bello per descriverla, invece, come la teoria delle
qualità del nostro sentire. Egli lavora su altri strati della vita
psichica e ha ben poco a che fare con quei moti dell’animo – inibiti
nella meta, sfumati e dipendenti da numerosissime costellazioni
concomitanti – che costituiscono perlopiù la materia d’indagine
propria dell’estetica>>. Le parole introduttive del saggio di Freud mi
sembrano la cornice imprescindibile entro cui collocare il saggio di
Ferro su cibo e arte. Grazie alla mimesi l’arte può rappresentare quel
dato oggetto come familiare (‘heimlich’), <<in primis vengono
delineati con precisione i cibi, colti nella loro identità (…), la
stagionalità degli ortaggi e dei frutti, le loro varietà, colti nei
passaggi dal mondo della natura a quello della cultura, nelle
abitudini alimentari e nei sistemi gastronomici di appartenenza. Ma un
ché di estraneo, uno scarto rispetto al familiare si insinua
inevitabilmente nella mente di colui che fruisce l’opera d’arte, anche
la più ‘mimetica’ possibile. Ed il meraviglioso è solo l’
enfatizzazione, così cara al barocco, di quel perturbante che soggiace
immancabilmente all’esperienza estetica di fronte ad ogni
rappresentazione artistica che rende labile il confine tra fantasia e
realtà, <<quando appare realmente ai nostri occhi qualcosa che fino a
quel momento avevamo considerato fantastico, quando un simbolo assume
pienamente la funzione e il significato di ciò che è simboleggiato (…)
>> (Freud, 1919). E quando ci imbattiamo in quella condizione di
onnipotenza dei pensieri e dei desideri che, nel funzionamento tipico
del pensiero primario, ci fa scivolare nella vertigine della
sospensione dell’esame di realtà.
Ma il
perturbante, nell’arte del XX e XXI secolo, può essere altresì
declinato nella <<dimensione sconcertante del mero consumismo>> (pag.
86) al centro della pop art, che riproporrebbe, sostiene Ferro, <<un
problema analogo a quello vissuto tra 500 e inizio del ‘600: salutare
con orgoglio un nuovo benessere ed al contempo mostrarne l’ubris e la
vanitas>> (pag. 86). Ma ancor più fecondo, anche per la comprensione
dell’arte contemporanea, è il concetto del ‘ritratto del cibo’ di
Ferro. Se ancora con la pop art questa <<non cessa di cercare una
mimesi>> pur evidenziando <<una scena di falsificazione>> (pag.87) (il
cibo è inscatolato, <<amputato nella sua intensità sensoriale>>,
<<diviene merce anonima snaturata nell’identità per il prevalere della
marca>>) di tipo metonimico (l’uomo si riflette nel cibo che ne
rappresenta una parte per il tutto), con l’avvento della body art e
soprattutto del corpo postorganico, la manipolazione genetica degli
alimenti finisce per riflettersi in un corpo come materia organica che
si incontra con quella artificiale. Il sé si riplasma in un orizzonte
di piena mutazione, si confronta con le sperimentazioni della
clonazione e della chirurgia plastica, si invera in altri modelli di
Leib che si amplificano attraverso gli strumenti del cyberspazio.
ALIMENTAZIONE E
SALUTE di Maria Rosaria Grimaldi
Il saggio della
dott.ssa Grimaldi, prima di sviluppare un excursus storico sui
rapporti tra pratiche alimentari e disturbi del comportamento
alimentare, sottolinea giustamente alcuni concetti basilari della
clinica psicoanalitica: l’oralità, il piacere connesso con la
stimolazione della bocca, come fondamento non solo dell’incorporazione
degli oggetti esterni (prima modalità in cui il Sé comincia a
costruirsi), ma anche del rapporto tra sviluppo del pensiero simbolico
e frustrazione del soddisfacimento pulsionale. In più, il richiamo
all’antropologia, ci fa concepire come i simboli connessi al cibo
siano strutturanti per l’identità sociale ed etnica di ciascuno di
noi. <<Il cibo si rivela così testimone del nostro essere psicologico,
e talvolta finisce per segnalare anche il turbamento psichico>>. Il
richiamo alla antropologia ed alla psicoanalisi può aiutarci nel
comprendere come mai spesso i disturbi della condotta alimentare
esordiscano in adolescenza. <<Gli adolescenti, oggi>> scrive Grimaldi
<<sono esposti ad una vivace stimolazione sensoriale di immagini e di
suoni, vedono ridotta la capacità di discriminare i segnali interni,
subiscono il monopolio dei gusti dolce e salato, la monotonia delle
scelte, rifiutano il nuovo, assistono al destrutturarsi
dell’alimentazione, accusano dinamiche conflittuali riguardo al cibo>>
(pag. 126). Ma il <<rapporto dell’uomo con il cibo segna (…) i ritmi
della storia>> (pag. 129), ed è quindi rintracciando nei sistemi di
valori che hanno caratterizzato le varie epoche storiche che possiamo
correttamente interpretare i fenomeni e non confondere, ad esempio, le
moderne adolescenti anoressiche con le ascetiche sante medioevali.
L’intrigante e completo excursus storico tracciato dalla Grimaldi a
proposito dei disturbi del comportamento alimentare mi sembra
meritorio di segnalazione, in un panorama psichiatrico, quello
attuale, in cui ad occuparsi di storia della psichiatria sono
sociologi, storici, antropologi,…. ma non più gli psichiatri. Ed una
scienza prima della propria memoria storica non dà prova di
<<maturità, (di) disposizione ad accettare non solo la relatività di
alcuni dati, ma anche interrogarsi su punti nevralgici ricorrenti e
immanenti alla riflessione>> (Ferro, “Psichiatria e storia”, 2000).
Insomma, mi piace concludere con le parole del Prof. Ferro:
<<delineare una storia di tali fatti significa non solo offrirne una
lettura corretta, ma anche trarne indicazioni di esperienza utili per
le scelte attuali>> (Ferro, ibidem).
Giuseppe Leo
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