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FRENIS  zero 

 Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte  

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    " IL PANE E LA LINGUA". Recensione di Giuseppe Leo

 

Il libro

Curatori: C. Cotellessa e A. Cicchetti

Edizioni: Tabula, Lanciano (CH), 2007

Prezzo: euro 80,00

Indice:

Volume Primo

 

Prefazione di Francesco Sabatini                                                pag. 4

 

“Prendetene e mangiatene tutti”  di Carla Cotellessa                 pag. 9

 

Cibo e cucina in Abruzzo   di Adele Cicchitti                             pag. 37

 

Volume Secondo

 

Cibo e musica            di Paola Ardizzola                                     pag. 5

 

Cibo e filosofia      di Virginia Maurizio                                     pag. 25

 

Cibo e letteratura  di   Ilaria Filograsso                                      pag. 41

 

Cibo e arte         di Filippo Maria Ferro                                     pag. 71

 

Cibo e cinema     di Marilena Lucente                                       pag. 97

 

Alimentazione come arte terapeutica, percorsi storici

                                         di Anna Maria Pacilli                       pag. 117

 

Alimentazione e salute      di  Maria Rosaria Grimaldi             pag.  125

 

Diritto e alimentazione    di   Federica De Robertis                  pag. 142

 

Brevi suggestioni di cibo e poesia   di Alessio Di Giulio          pag. 146

 

Cibi, sogni e utopie        di  Carla Cotellessa                             pag. 150

 

Postfazione    di Renato Minore                                                pag. 158

 

Note biografiche                                                                        pag. 163

 

 

 

           Lunedì 10 dicembre 2007 a Maglie si è svolto il primo incontro di cultura psicoanalitica promosso dalla rivista "Frenis Zero" per l'anno 2007/2008. "IL GUSTO DELLA PSICOANALISI" ha visto la partecipazione di Filippo Maria Ferro, Carla Cotellessa e Maria Rosaria Grimaldi, autori di alcuni saggi del libro "Il pane e la lingua". Carla Cotellessa è anche una delle curatrici dell'opera. A presentare gli autori sono intervenuti Francesco Tornesello e Giuseppe Leo. Di seguito riportiamo il testo letto da Giuseppe Leo in occasione di quell'incontro.    
 


 

Questa mia lettura  del libro “Il pane e la lingua” è necessariamente unilaterale e parziale, per un duplice ordine di motivi. Il primo è quello che parlare del cibo in qualsiasi ‘salsa’ lo si faccia, da qualsiasi angolazione, non può che portarci ad esplorare solo un esiguo angolo di quell’immenso paesaggio, così vario e complesso, che ci si offre alla vista… ed al gusto dei nostri sensi. Come correttamente afferma una delle curatrici dell’opera, Carla Cotellessa, <<la restituzione dello studio di questi insiemi, complessi per l’incongruenza delle contingenze, delle epoche, dei luoghi, delle classi sociali, dell’età della vita, dei cicli stagionali, e difformi anche per credenze e sacralità, è impresa quasi impossibile>>. Quindi <<l’enorme quantità di materiale che non può essere tutto utilizzato e sintetizzato, insieme ai ruoli stessi degli alimenti estremamente fluttuanti e relativi nel significato e nel ritmo del consumo (…) >> obbliga a operare delle scelte ‘tranchants’, da parte di un recensore, nell’approccio all’oggetto di studio. E quindi una tale vastità di ambiti e di riferimenti, tutti intrecciati col posto che il cibo occupa nella vita dell’uomo, mi obbligano a prediligere alcuni punti più salienti, magari arbitrari, ma che maggiormente risuonano col mio essere psicoterapeuta. Il secondo ordine di motivi che condiziona la mia unilateralità sta in un dato contingente: la presenza qui, questa sera, del Prof. Ferro, della dott.ssa Cotellessa e della dott.ssa Grimaldi che mi portano a circoscrivere le mie considerazioni ai loro testi compresi in quest’opera. E quindi prenderò spunto dal testo della dott.ssa Cotellessa per un discorso generale sull’opera, quindi passando ad alcune considerazioni sui saggi dal tema più specifico  del prof. Ferro e della dott.ssa Grimaldi.

 

<<PRENDETENE E MANGIATENE TUTTI>>

 

Come esordisce una delle curatrici, Carla Cottellessa, nel suo testo che fa da saggio introduttivo del libro, <<negli ultimi anni, scrivere sull’alimentazione è cosa facile e naturale, di moda e dalla diffusione costante, ma, come vedremo, non è del tutto semplice poiché, in fondo, equivale a parlare dell’uomo e del suo rapporto con gli affetti, con la famiglia, con la società in cui vive, con la cultura d’appartenenza, con le dinamiche storiche e con quelle sue interne, con i sistemi produttivi e con le differenziazioni di classe>>.  Parlare di cibo e alimentazione pone, in altre parole, a interrogarsi sulle origini culturali delle pratiche di alimentazione (in un’ottica paleoantropologica), sulle differenze transculturali tra le diverse pratiche (questioni della più grande attualità in una società attraversata da potenti e inarrestabili flussi migratori), ma anche attraverso il ricorso all’arte e al cinema , da un lato, ed alla clinica psicoanalitica dall’altro a chiedersi quanto l’alimentazione sia investita di una componente simbolica inconscia che affiora nelle nostre abitudini alimentari quotidiane.

Come afferma la professoressa Cotellessa, <<l’alimentazione, è evidente, non consiste semplicemente nella ricerca delle materie prime, delle modalità di cottura, degli utensili maggiormente idonei per la cucina; né è, peraltro, esclusivamente cultura orale o scritta, le ricette, o atto simbolico, selettivamente spirituale. Alimentarsi è atto fisiologico, umano e animale, può essere oggetto di superstizione e di tabù, ma di frequente riguarda la sensibilità e il pensiero>>. Come per il linguaggio, anche l’alimentazione prevede dei codici culturali che si apprendono sin dall’infanzia, in gran parte inconsci, ma che non per questo sono immutabili: sia nella dimensione sociale sia in quella clinica individuale le pratiche dell’alimentazione risentono delle dinamiche collettive e relazionali con cui vengono rimaneggiati gli apprendimenti più basilari e arcaici dell’individuo. E’ per questo che i vari saperi attorno al cibo, quello del filosofo e dello psicoanalista, quello del cuoco e del sociologo, quello dell’antropologo e dell’economista, quello dello storico e del nutrizionista, quello dell’etnologo e quello del medico non dovrebbero rappresentare degli ‘ambiti di senso’  disparati e scollegati tra di loro, ma dei contributi ad una visione unitaria dell’uomo nel suo farsi persona, ossia essere dotato di un’identità sociale sempre in fieri. E’ questo lo sforzo che questo libro intende affrontare con un’ottica interdisciplinare davvero meritoria e feconda. Ed è proprio nello spirito dell’opera che la Cotellessa passa in rassegna (nel paragrafo “tempo e spazio: la storia e la geografia”) le coordinate storico-geografiche  di questa presenza del cibo nelle culture che hanno forgiato quella, o meglio sarebbe dire, quelle che oggi ci appartengono. Culture della magrezza, condite di campagne salutistiche, con gli slittamenti semantici subiti da parole come ‘dieta’ e concettuali come a proposito del valore dell’astinenza che non si correla più ad implicazioni religiose, ma a motivazioni estetiche, igieniche o utilitaristiche. Ed è questo l’humus socio-culturale che prepara il terreno a quegli slittamenti di senso, più profondi in quanto investono l’Erlebnis, l’esperienza vissuta, e il Leib, il corpo vissuto. <<I corpi vengono rimossi>> scrive la Cotellessa <<o per meglio dire diventano i “luoghi” di collasso, di angosce e il sintomo di un disagio collettivo>>.

 

Gli spunti più densi di connotazioni psicoanalitiche si trovano negli ultimi paragrafi del saggio della dott. Cotellessa. In esso efficace ed equilibrata è l’integrazione tra saperi psicoanalitici e saperi antropologici (si pensi all’opera di Levi Strauss “Il crudo e il cotto”) per cui alimentazione e linguaggio condividono, su un piano antropologico, l’essere entrambi strutturati sulla base di codici, culturalmente trasmessi, ma anche l’essere ambedue, in un’ottica psicoanalitica, portatori di <<categorie inconsce profondamente operative>> (pag. 28). Infatti <<si può parlare di “alimentazione materna” come si parla di “lingua materna”>> (ibidem) L’esempio dell’alimentazione degli emigranti e dei suoi valori simbolici viene addotto dall’autrice come esempio del fatto che <<certe dominanti alimentari e linguistiche resistono a cambiamenti anche radicali, dell’ambiente sociale e dell’ideologia>> (ibidem). Anche il culto delle origini, comune a tutte le civiltà, viene mantenuto grazie al consumo di certi piatti insieme alla pratica linguistica, entrambi veicoli di simboli condivisi nella trasmissione del rito. D’altronde il termine ‘religione’, il latino religio, deriva da re-ligare, ‘rimettere insieme’, ripristinare attraverso il rito quella condivisione tra parola e cibo dello stesso luogo fisico che è la bocca. “Prendetene e mangiatene tutti”: <<allora parola e cibo>> scrive la Cotellessa <<sono la stessa cosa: conoscenza, ricordo ed alimentazione fanno parte della medesima “esperienza” (…)>> (pag. 31). Codici coscienti e modi inconsci del gusto e del disgusto sono significanti che appartengono insieme al mondo psichico individuale (anche nella sua dimensione diacronica) ed al mondo dell’essere-con-l’altro (o dell’esserci heideggeriano), ma colto nella specificità sincronica di una cultura particolare (cfr. pag. 29). Il contributo dello strutturalismo viene declinato dalla Cotellessa (riprendendo anche Roland Barthes – pag. 29) nel cogliere quelle opposizioni, tra dolce e salato, tra resistente e molle, tra caldo e freddo, che sembrano contraddistinguere i codici gastronomici, e quindi l’identità culturale di intere nazioni: l’enfasi posta sullo sweet e crisp nell’alimentazione americana ne è un esempio. Ancora cogliendo l’apporto dello strutturalismo, linguaggio ed alimentazione condividono l’importanza del ‘valore’ e della ‘funzione’ di un tratto distintivo:  come un fonema che entra e si combina in sistemi fonologici difformi, così un ingrediente culinario <<può determinare mutamenti in base alle varie epoche, alle economie e alle contingenze storiche>> (pag. 30).  <<L’alimentazione è, quindi, “ermeneutica”; e ci riconduce al rapporto uomo/cibo/linguaggio. Entrambi naturali, cibo e linguaggio si affidano a regole indiscusse inglobate in periodi arcaici della vita>> (pag. 29).

 E veniamo al posto della psicoanalisi in questa ermeneutica di segni da svelare.

A me sconosciuta era la citazione di Hegel, riportata dalla Cotellessa, per cui <<nella bocca si confondono la parola e i baci, da un lato, e, dall’altro, il mangiare, il bere, lo sputare. Il punto più alto dello spirito e il luogo della pura animalità>> (pag. 30). D’altronde, riprendendo il concetto della Heimann dell’importanza degli orifizi del corpo umano per la circolazione tra dentro e fuori, tra Sé e oggetto, la bocca è tra essi quello che consente l’intermediazione tra interno ed esterno anche grazie alla parola (verbum, logos), che è anche pneuma, soffio che pervade di vita l’intero mondo come in certe dottrine gnostiche. La psicoanalisi non si occupa solo dell’interiorità, ma anche e soprattutto della relazione tra interno ed esterno, attraverso il corpo, colto come Leib (corpo vissuto) nella sua dimensione esperenziale. Ed, allora, come il corpo  vissuto si può identificare con oggetti-simulacri esterni o venir proiettato  in identificazioni intrise di persecutorietà, così anche il volto si può fare maschera, elemento personificante che si pietrifica in un ritratto. E i quadri dell’Arcimboldi ci fanno pensare a quanto sia possibile spingere fino al limite questi processi di identificazione proiettiva: <<i legami di “affinità”, quasi di identità, tra l’uomo e certi cibi commestibili, il mantenimento dei relativi tabù assicurano un necessario corretto rapporto con l’ordine sociale e intellettuale, di tipo quasi cosmologico>> (pag. 27). Ha senso quindi, in questi termini, esplorare, come fa Filippo Maria Ferro, il concetto di “ritratto del cibo”.

 

Foto: Filippo Maria Ferro durante un suo intervento all'incontro "Il gusto della psicoanalisi"

 CIBO E ARTE  di Filippo Maria Ferro

 

Il saggio di Filippo Maria Ferro, intitolato “CIBO E ARTE. Il ‘ritratto’ del cibo: mercati, colazioni, tavole imbandite, cucine”, colpisce innanzitutto per l’originalità di quel “ritratto che è nel cibo”: nel suo discorso, il cibo sembra personificarsi, rimandare ad una “persona” che è depositaria di una “maschera” sociale, secondo l’espressione di Resnik. Ma, siccome il ritratto sin dalle origini della storia dell’arte è intimamente connesso al culto dei morti, è naturale che il prof. Ferro inizi a trattare della funzione apotropaica del ritratto del cibo (precursore della natura ‘morta) e del banchetto e del mondo dei morti. La morte rende ‘significante’ la dimensione figurale degli animali-cibo, raffigurati nei graffiti preistorici, <<sopra la perenne realtà del quotidiano>>  nella sua dimensione di caducità, di mortalità. Chiarisce a tal proposito Ferro: <<In effetti, raffigurare gli animali sacrificati per alimentarsene e continuare a vivere, eppure contemplarli nella pienezza delle fisicità, è speranza, anzi certezza, che il loro sacrificio sia ininfluente nell’economia del mondo e che, attraverso tale sacrificio, la continuità della vita sia garantita, come chiaramente esprime la serialità delle immagini>> (pag. 71). Quindi la mortalità, che intride di sé la figura del ritratto- cibo, fattosi vittima sacrificale per consentire la propagazione della vita umana, diventa simbolo di trascendenza in una vita ultraterrena. La ‘natura morta’, la cui linea espressiva lungo la tradizione pittorica occidentale viene da Ferro ripercorsa a partire dalla Grecia ellenistica e dagli affreschi delle ville flegree (in cui peraltro l’istante della morte è stato ritratto immobilizzato nella consistenza lapidea del corpo defunto), diventa  nel Rinascimento codice di una simbologia sacra che rimanda ad un al di là, persino in un ‘filosofo’ della natura come Leonardo. Ma è con il suo apogeo che la natura morta perde la sua aura ‘sacrale’ per divenire ‘genere’. Questo processo culturale è da mettere senza dubbio in relazione con la rivoluzione scientifica,concomitante nel XVII secolo, in parallelo con il trionfo del paesaggio in particolare nella coeva pittura fiamminga. Ma per Ferro il ritratto, pur laicizzato, continua  ad intrattenere  un   legame col registro del sacro: <<così ‘ciliegie’ e ‘cetrioli’ rivelano sempre ‘sangue’ e ‘peccato’ ma, anziché prefigurare la ‘passio’ nel tacito e presago colloquio tra la Madonna e il Bambin Gesù, si presentano quali ‘cose di natura’ (…)>> (pag. 72)  <<La novità di questi autori>> cito testualmente Ferro <<sta non solo nel sottolineare l’indipendenza dei naturalia dalle composizioni religiose ma nel comprendere quanta spiritualità vi sia nella contemplazione della natura, quale arcana metafisica si legga dietro questi nuovi oggetti-studio>>. Quindi la pittura di realtà si fa portatrice di una forte carica di religiosità, talora come in Juan Sanchez Cotan diventando la vera pittura sacra.

E tra frutti e biscotti <<affiorano elementi criptici, simbolici e ‘unheimlich’, insetti, coleotteri e topolini intenti a rodere noci e nocciole>>. Il termine “unheimlich” che dà il titolo al saggio di Freud del 1919 non è una presenza casuale nel testo di Ferro. Il termine “perturbante”, con cui ‘unheimlich’ in genere è stato tradotto, ricorre anche in un altro passo del testo: quello in cui Ferro tratta del rinnovato ‘naturalismo’ che dalla fine del ‘600 lungo il ‘700,  <<ritrova, nell’Italia settentrionale, una vena ‘naturale’ nella dolente poesia di autori interpreti di una dura condizione sociale (Ferro, da psichiatra, non manca qui di ricordare la psicosi da pellagra). Quindi l’unheimlich, il perturbante è quella categoria che segna l’inizio e la fine del barocco: nei naturalia barocchi, infatti, è centrale <<l’aspetto scenografico dell’allestimento, con l’attenzione rivolta a cogliere l’infinita varietà del reale, per seguire i moti del desiderio ma altresì per definire la passione di una scienza alla febbrile ricerca di più ampie conoscenze e descrizioni, sino al rischio (esemplare in Ulisse Aldovrandi) di non distinguere tra fantasia e realtà>>. In questa dinamica tra desiderio e dolore, tra passione epistemofilica e vanitas troviamo una chiave di lettura importante che Ferro ci offre rispetto al tema della vertigine estetica così centrale nel barocco. Una chiave di lettura supplementare rispetto a quella dell’Argan (che peraltro Ferro cita a proposito di un suo delizioso ricordo autobiografico) che vedeva nell’immaginazione come superamento del limite il fulcro  dell’esperienza estetica barocca, dell’esperienza  tesa a <<impressionare, commuovere, persuadere>>, persuadere che qualcosa di non-reale può diventare realtà, scriveva l’Argan, che l’agire umano può tradurre il possibile in reale. Ma da psichiatra e psicoanalista Ferro coglie il perturbante che nel barocco si annida nella dinamica conflittuale, <<nel doppio volto dello spirito barocco : l’opulenza e la vanitas>>. E’ una dinamica bipolare, di tipo maniaco-depressivo, quella che è sottintesa nella mente dell’uomo barocco? C’è l’intimo conflitto tra la colpa del pasto finito e il suo diniego nell’invenzione di nuove meraviglie, di infiniti pasti da consumare in una pantagruelica visionarietà a scandire le polarità dello spirito barocco? E’ possibile, ma il perturbante che Ferro menziona richiama più direttamente l’eredità freudiana. E’ nell’atto stesso con cui lo psicoanalista si accosta alla ricerca estetica che si annida l’esperienza del perturbante. <<E’ raro che lo psicoanalista si senta spinto verso ricerche estetiche, anche quando non si riduca l’estetica alla teoria del bello per descriverla, invece, come la teoria delle qualità del nostro sentire. Egli lavora su altri strati della vita psichica e ha ben poco a che fare con quei moti dell’animo – inibiti nella meta, sfumati e dipendenti da numerosissime costellazioni concomitanti – che costituiscono perlopiù la materia d’indagine propria dell’estetica>>. Le parole introduttive del saggio di Freud mi sembrano la cornice imprescindibile entro cui collocare il saggio di Ferro su cibo e arte. Grazie alla mimesi l’arte può rappresentare quel dato oggetto come familiare (‘heimlich’), <<in primis vengono delineati con precisione i cibi, colti nella loro identità (…), la stagionalità degli ortaggi e dei frutti, le loro varietà, colti nei passaggi dal mondo della natura a quello della cultura, nelle abitudini alimentari e nei sistemi gastronomici di appartenenza. Ma un ché di estraneo, uno scarto rispetto al familiare si insinua inevitabilmente nella mente di colui che fruisce l’opera d’arte, anche la più ‘mimetica’ possibile. Ed il meraviglioso è solo l’ enfatizzazione, così cara al barocco, di quel perturbante che soggiace immancabilmente all’esperienza estetica di fronte ad ogni rappresentazione artistica che rende labile il confine tra fantasia e realtà, <<quando appare realmente ai nostri occhi qualcosa che fino a quel momento avevamo considerato fantastico, quando un simbolo assume pienamente la funzione e il significato di ciò che è simboleggiato (…) >> (Freud, 1919). E quando ci imbattiamo in quella condizione di onnipotenza dei pensieri e dei desideri che, nel funzionamento tipico del pensiero primario, ci fa scivolare nella vertigine della sospensione dell’esame di realtà.

Ma il perturbante, nell’arte del XX e XXI secolo, può essere altresì declinato nella <<dimensione sconcertante del mero consumismo>> (pag. 86) al centro della pop art, che riproporrebbe, sostiene Ferro, <<un problema analogo a quello vissuto tra 500 e inizio del ‘600: salutare con orgoglio un nuovo benessere ed al contempo mostrarne l’ubris e la vanitas>> (pag. 86). Ma ancor più fecondo, anche per la comprensione dell’arte contemporanea, è il concetto del ‘ritratto del cibo’ di Ferro. Se ancora con la pop art questa <<non cessa di cercare una mimesi>> pur evidenziando <<una scena di falsificazione>> (pag.87) (il cibo è inscatolato, <<amputato nella sua intensità sensoriale>>, <<diviene merce anonima snaturata nell’identità per il prevalere della marca>>) di tipo metonimico (l’uomo si riflette nel cibo che ne rappresenta una parte per il tutto), con l’avvento della body art e soprattutto del corpo postorganico, la manipolazione genetica degli alimenti finisce per riflettersi in un corpo come materia organica che si incontra con quella artificiale. Il sé si riplasma in un orizzonte di piena mutazione, si confronta con le sperimentazioni della clonazione e della chirurgia plastica, si invera in altri modelli di Leib che si amplificano attraverso gli strumenti del cyberspazio.

 

 

ALIMENTAZIONE E SALUTE di Maria Rosaria Grimaldi

 

Il saggio della dott.ssa Grimaldi, prima di sviluppare un excursus storico sui rapporti tra pratiche alimentari e disturbi del comportamento alimentare, sottolinea giustamente alcuni concetti basilari della clinica psicoanalitica: l’oralità, il piacere connesso con la stimolazione della bocca, come fondamento non solo dell’incorporazione degli oggetti esterni (prima modalità in cui il Sé comincia a costruirsi), ma anche del rapporto tra sviluppo del pensiero simbolico e frustrazione del soddisfacimento pulsionale. In più, il richiamo all’antropologia, ci fa concepire come i simboli connessi al cibo siano strutturanti per l’identità sociale ed etnica di ciascuno di noi. <<Il cibo si rivela così testimone del nostro essere psicologico, e talvolta finisce per segnalare anche il turbamento psichico>>.  Il richiamo alla antropologia ed alla psicoanalisi può aiutarci nel comprendere come mai spesso i disturbi della condotta alimentare esordiscano in adolescenza. <<Gli adolescenti, oggi>> scrive Grimaldi <<sono esposti ad una vivace stimolazione sensoriale di immagini e di suoni, vedono ridotta la capacità di discriminare i segnali interni, subiscono il monopolio dei gusti dolce e salato, la monotonia delle scelte, rifiutano il nuovo, assistono al destrutturarsi dell’alimentazione, accusano dinamiche conflittuali riguardo al cibo>> (pag. 126). Ma il <<rapporto dell’uomo con il cibo segna (…) i ritmi della storia>> (pag. 129), ed è quindi rintracciando nei sistemi di valori che hanno caratterizzato le varie epoche storiche che possiamo correttamente interpretare i fenomeni e non confondere, ad esempio, le moderne adolescenti anoressiche con le ascetiche sante medioevali. L’intrigante e completo excursus storico tracciato dalla Grimaldi a proposito dei disturbi del comportamento alimentare mi sembra meritorio di segnalazione, in un panorama psichiatrico, quello attuale, in cui ad occuparsi di storia della psichiatria sono sociologi, storici, antropologi,…. ma non più gli psichiatri. Ed una scienza prima della propria memoria storica non dà prova di <<maturità, (di) disposizione ad accettare non solo la relatività di alcuni dati, ma anche interrogarsi su punti nevralgici ricorrenti e immanenti alla riflessione>> (Ferro, “Psichiatria e storia”, 2000). Insomma, mi piace concludere con le parole del Prof. Ferro: <<delineare una storia di tali fatti significa non solo offrirne una lettura corretta, ma anche trarne indicazioni di esperienza utili per le scelte attuali>> (Ferro, ibidem).

 

Giuseppe Leo

 

 
 
 
 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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