Presentation   News Events   Archives    Links   Sections Submit a     paper Mail

FRENIS  zero 

Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività

Home Frenis Zero

        

"Mnemosyne": psicoanalisti e memoria dei traumi collettivi

 

 LA DIFFICOLTA' DI DIRE IO: L'ESPERIENZA DEL DIARIO NEL CONFLITTO INTER-JUGOSLAVO DI FINE NOVECENTO.

 

Il presente articolo è stato originariamente pubblicato sulla rivista "Adultità" nel numero dell'ottobre 2006 dedicato ai "Conflitti". Si ringrazia l'editore "Guerini e associati" per aver autorizzato la pubblicazione dell'articolo su "Frenis Zero".

 

di Nicole Janigro

 

 

Nicole Janigro, nata a Zagreb (Croazia), vive e lavora a Milano. Psicoterapeuta, analista di formazione junghiana, fa parte dell’associazione “Laboratorio analitico delle immagini” (L.A.I.).

Collabora a progetti di formazione legati al tema dell’ elaborazione del conflitto, rivolti a volontari e operatori attivi sul campo nelle aree di crisi della ex Jugoslavia. Ha in corso una ricerca su sogno e guerra.

Ha svolto attività giornalistica ed editoriale, è autrice di L’esplosione delle nazioni (Feltrinelli 1993,1999), ha curato il Dizionario di un paese che scompare. Narrativa dalla ex Jugoslavia (manifestolibri 1994), La guerra moderna come malattia della civiltà, (Bruno Mondadori, Milano 2002), Casablanca serba. Racconti da Belgrado, (Feltrinelli, Milano 2003).

 

 

 

Scrivevano tutti (…) i giornalisti e gli scrittori, ma anche insegnanti, le persone in vista, giovani e persino i bimbi. La maggior parte di costoro teneva diari nei quali i tragici avvenimenti di ogni giorno si riflettevano attraverso il prisma dell’esperienza personale. Venne a crearsi in tal modo una mole enorme di scritti; ma la maggioranza andò distrutta con l’eccidio della comunità ebraica di Varsavia.

                           Annette Wieviorka, L’era del testimone[1]


 

[1] La citazione di A. Wievorka sulla scrittura dei diari si trova in G. Didi-Huberman (2003), Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005, p.138.

 

 

 

Nella Polonia invasa dai nazisti, nella Berlino del Terzo Reich, nella Sarajevo assediata, nella Belgrado sotto le bombe Nato: si scrive, si rischia per spedire una lettera, si usa la poca energia elettrica per inviare l’ultimo messaggio e-mail. E i diari, cartacei ieri spesso elettronici oggi, sfidano l’inenarrabile, sono la forma prescelta per appuntare l’orrore divenuto quotidianità. I diari raccontano, brulicano di testimonianze orali, mescolano la mancanza d’acqua e la pozza di sangue sull’asfalto, provano a regolare quel che usuale non è. Sono un mezzo per farsi coraggio, per ricordare l’universale comune: per coloro che verranno, affinché l’umanità non possa più dimenticare, per comunicare all’Altro come si fa a sopravvivere accanto all’indicibile. Pagine che si trasformano in ricordi da conservare per i posteri, diventeranno fonti, interrogheranno la storia futura, sfideranno i meccanismi della “costruzione della memoria”.[1]

Le guerre inter-jugoslave, un work in progress che ha attraversato l’ultimo decennio del Novecento, hanno generato un materiale vastissimo che ben rappresenta una delle caratteristiche delle “nuove guerre” che schizofrenicamente rimescolano modernità e barbarie.[2]

E che molto spesso a noi, spettatori,[3] è arrivato nella forma di annotazioni giornaliere che scrittori di professione, letterati e giornalisti, ma anche folle di outsider hanno trasformato, appena è stato possibile, in libri-diario. I giornalisti i loro reportage, gli adolescenti i loro quaderni scolastici, gli scrittori i loro libri, le amiche e gli amici i loro epistolari in forma di e-mail.

Il diario ha assorbito e nutrito il bisogno di raccontare l’assedio di Vukovar, quello di Sarajevo, l’atmosfera di Belgrado, la patchwork city che per quindici anni è stata l’anfiteatro di quel mondo dissociato,[4] la “pulizia etnica” del Kosovo.

Situazioni estreme dove mettere la data di un giorno nuovo significa aver passato la giornata, esserci ancora, non mollare del tutto la presa del proprio io sul tempo. Tenere il proprio diario diventa un modo per cercare un ordine nel caos che sovrasta, non rinunciare alla possibilità di una qualche forma di senso, seguire il filo della propria biografia sconvolta da fattori esterni. Il diario è una scrittura intima e privata, in un momento dove tutto, lo stupro e la morte, avviene in pubblico. E’ “il compagno segreto” al quale confidare, senza occhi indiscreti, ciò che sfugge alla lotta dei Grandi, ma interessa il “pover’uomo” frantumato fra i noi e i loro.

  

 

Tra mito e storia, sospesi sull’orlo del tempo

 

Nelle vicende storiche della Jugoslavia, formatasi alla fine della prima guerra mondiale e disgregatasi dopo la fine della guerra fredda, la presenza dei miti e delle mitologie delle “piccole nazioni” ha svolto un ruolo peculiare. Sia per le caratteristiche locali e regionali delle diverse componenti della federazione, sia per i molteplici e complicati intrecci con la situazione internazionale del “secolo breve”.

La posizione e collocazione politica delle nazionalità dello stato jugoslavo, le secolari tradizioni di lotta per sottrarsi al dominio delle grandi potenze hanno strettamente legato i destini dell’homo balcanicus alle sorti collettive degli slavi del sud. Da qui il radicarsi di una Weltanschauung, spesso trasformata in ideologia

ufficiale, dove le esistenze dei singoli riescono ad assumere un senso e un significato solo e soprattutto nell’incontro e nel rapporto con la Grande Storia.

Nel caso jugoslavo, questo rappresenta un decisivo elemento di continuità, pur fra tante rotture, del passaggio dal comunismo al nazionalismo. E il richiamo al “sacrificio” in nome di un ideale – classe operaia, partito, patria, nazione - è stato continuamente evocato e richiamato per legittimare le immense perdite umane delle guerre inter-jugoslave degli anni novanta del secolo scorso.

Il caso della Serbia, deus ex machina prima, carnefice/vittima poi, della federazione jugoslava, destinata ora ad una transizione che appare infinita, è fortemente segnato dal continuo intreccio di storia e di memoria, dove le gloriose sorti passate non riescono a riscattare le difficili sopravvivenze presenti. E dove la durata di vita del singolo si perde nel tempo eternalizzato di regimi che puntano a sopravvivere alla propria epoca.

Il confronto fra il “pover’uomo” e la Grande Storia che non lascia scampo, che nutre molte pagine delle letterature dell’Europa centro-orientale, è un Leitmotiv della letteratura serba contemporanea. Individui braccati dalla storia attraversano le pagine di Milos Crnjanski e di Borislav Pekic, di Slobodan Selenic e di Aleksandar Tisma, di Mirko Kovac e di Zivojin Pavlovic. Ma anche quelle di un best-seller popolare come Il libro di Milutin di Danko Popovic, monologo di un contadino che la Storia ha costretto a diventare guerriero.

  

Curiosamente, la letteratura diventa anche (insieme al cinema) il luogo dove è possibile parlare delle sconfitte e delle perdite, nominare ed elaborare lutti. La sensazione di essere rimasti orfani tutti dopo la morte di Tito, la sparizione della Jugoslavia, un cadavere che non verrà mai seppellito, i ricordi di infanzie che, per chi ha più di quindici anni, hanno avuto luogo in un paese che non esiste più. E ora i traumi di una guerra che, anche là dove non ha toccato fisicamente gli individui, ha mutato il loro paesaggio esterno, ha mandato all’aria le loro vite, colpito la loro psiche. Si affida alla pagina scritta il compito di conservare i ricordi e gli affetti, di raccontare le migrazioni, manifestare le nostalgie: quello che i monumenti e le case più volte distrutti, le frontiere spostate non possono fare.

E vengono in mente due grandi scrittori chiusi in casa, nella loro città occupata, durante la seconda guerra mondiale. Ivo Andric, a Belgrado, scrive i suoi capolavori ma affida gli incubi e le riflessioni al suo diario, Miroslav Krleza, a Zagabria, confessa al suo le angosce delle notti insonni, insegue le tracce che le notizie belliche trasmesse per radio lasciano nei suoi sogni “schiumanti”. Entrambi si sentono the war inside, ne studiano le conseguenze. Oggi ci appaiono incredibilmente attuali nel soffermarsi sugli “effetti collaterali” di un’esposizione prolungata ai suoni e alle visioni di guerra.

 

 

 

Prijedor-Belgrado-Como

                 

Diventare se stessi, con ogni energia diventare se stessi.

Difficile.

Una bomba, un discorso, uno sparo – e il mondo può cambiare fisionomia. E dove resta in tal caso il “se stessi”?[5]

Della difficoltà di dire io è un’espressione che, insieme ad altre molto simili, compare più volte in Riflessioni su Christa T., testo dalla gestazione e pubblicazione molto travagliati.[6] Ripercorre le vicende biografiche di una giovane donna, la sua malattia e morte attraverso le pagine del suo diario. Una vita poco significativa, di nessun interesse generale, senza alcuna importanza politica, ma, appunto, un’esistenza irrinunciabile per lei, che l’ha vissuta, e per quanti l’hanno conosciuta. Riflessioni su Christa T. diventa un libro scandalo, punta l’attenzione sull’intimità di un privato che si svolge lontano dagli occhi del pubblico. Attira l’attenzione sul “pover’uomo” e non sul’Impresa del socialismo – nella Germania orientale, nel ’68 fatidico anche all’est: è l’anno dell’invasione sovietica di Praga.

La scrittrice si interroga su che cosa significhi dire io in società che pongono l’accento sul “noi”, quale peso possano avere le minuzie della quotidianità, se e come il ritmo di vita del singolo essere umano possa incontrare il corso del tempo degli avvenimenti in pubblico. Lo spostamento di sguardo appare insostenibile e, forse,  non è così strano che sistemi politici anche molto diversi fra loro temano e censurino proprio i “banali” racconti della quotidianità,  i diari intimi attraverso i quali l’io rivendica la sua centralità nel noi.[7]

Il “nostro” diario ci offre la possibilità di avere uno spazio che sposta l’attenzione dal generale al particolare, dagli eventi collettivi al ruolo individuale, ci costringe a ripensare le possibilità e le responsabilità del nostro agire, permette di ascoltarmi (e di rileggermi) come se anch’io per un attimo potessi essere l’Altro. Ognuno deve scegliere in quale tempo vivere, decidere dove

mettere l’accento: sulla guerra, sul passato remoto, su quello prossimo, comune, sul futuro. Ogni spostamento nella cronologia è anche una tacca della propria biografia.

Partendo dai molteplici e possibili usi del diario – scrittura intima, testo letterario, documento storico, elaborato terapeutico -, e dalla considerazione che racconti, testimonianze, reportage giornalistici, confessioni autobiografiche, attraverso i quali sono state narrate le guerre inter-jugoslave degli anni novanta hanno scelto in modo ricorrente la forma del diario, ho pensato possibile suggerire un percorso di scrittura, personale, e di discussione, collettiva, per analizzare le possibilità dello strumento diario nell’esprimere esperienze e vissuti della biografia individuale e, insieme, gli usi molteplici che permette nell’attività di formazione e di lavoro terapeutico.

E’ stata una sperimentazione: chiedere di portare il proprio diario, di scrivere un proprio diario, poteva forse costituire quel ponte di comunicazione fra persone diverse, spesso anche gravemente traumatizzate – “loro” – con il “noi”,  di figure che dall’esterno rischiavano di nominare il tema  “elaborazione del conflitto”.

 

 

 

 

A Prijedor[8], dove ogni fiume è stato frontiera, ogni ponte ha i suoi morti, ogni casa nuova rimpiazza le rovine di quella precedente. La storia del Novecento la si ritrova ad ogni passo: nei musei, nei cimiteri, nelle lapidi, nelle fabbriche-cattedrali del socialismo autogestito trasformate in camerate di tortura, nelle miniere abbandonate divenute discariche di cadaveri. E lo scenario industriale conferma il legame fra distruzione di massa e sviluppo tecnologico. A Prijedor il “gusto di uccidere” ha segnato le generazioni e il panorama, morti e vivi convivono in equilibrio precario.[9] Tornare per cercare i cadaveri distribuiti nelle fosse comuni, per ricostruire esistenze segnate dai lutti, per ricominciare nonostante il sommarsi dei traumi: significa già elaborare il conflitto?

In un incontro[10] di due giorni con un gruppo misto, per età e nazionalità, come accade dappertutto nella Bosnia dai destini incrociati. Chi si è salvato scappando in tempo, chi è sopravvissuto ai campi, chi era dalla parte dell’esercito occupante… L’inizio della guerra coincide, nel ricordo, con una separazione: dalla casa bruciata, dai genitori, da una persona cara uccisa, dalla propria città. Nel vissuto lo scoppio della guerra è sincronico alla separazione, la sua durata è il viaggio, la partenza verso l’ignoto, la fine della guerra è un arrivo/ritorno.[11] I temi emotivi si condensano tutti nel ritorno: gioia-paura, gioia-timore della gioia, sollievo, senso di spaesamento. Incredulità: di ritrovare accanto a se stessi la propria nuova identità. Poter parlare a voce alta in gruppo con il proprio nome e cognome,[12] ri-conoscersi di nuovo, comunicare il dolore, incerti fra il non dimenticare, il non perdonare, il non vendicarsi, in bilico fra la memoria e l’oblio.

Non si è riusciti a fare un’esercitazione, è stato solo un accenno; in molti hanno portato pezzi di carta, quaderni e foglietti, che durante la guerra li hanno accompagnati, e sono diventati bagaglio prezioso da portarsi appresso, alcuni non hanno voluto leggere nulla. Alcuni avevano tenuto un diario, ma era in tedesco, la loro lingua da profughi, ma anche, per le numerose attività di sostegno psicologico proposte a chi dai campi era stato inviato in Germania, la lingua nella quale si è imparato a dire io. E poi, buste e infinite lettere. Anche gli epistolari sono il diario di guerra; lo scambio di lettere viene  infatti osteggiato con ogni mezzo, le missive accompagnano ogni interruzione della comunicazione, trasmettono a chi sta dall’altra parte la propria versione dei fatti – un elemento particolarmente rilevante in un conflitto fra vicini. C’è chi ha tenuto un suo diario per immagini, e ha notato, con sorpresa, che, la guerra in corso, la bellezza del paesaggio dipinto compensava l’orrore presente. Solo con la pace sono apparse figure angoscianti, il nero e il sangue. Un po’ come accade anche con i sogni.[13]

Belgrado[14]: il gruppo è formato da psichiatri, medici, educatori e operatori con competenze diverse. Non piace troppo l’idea del diario, anche se durante la guerra, in molti, anche uomini, hanno scritto per passare le notti dei bombardamenti, per riuscire a sopportare quello che accadeva in Kosovo. La proposta tiene conto di un contesto formalmente omogeneo, che appare poco disposto però ad affrontare certe tematiche. Parlare di trauma vuol dire parlare di guerra, parlare di guerra davanti ad un uditorio “serbo” significa evocare la questione della colpa collettiva, costringe chi si sente rappresentato dalla comunità internazionale in primo luogo come il carnefice a mettere le mani avanti, a ricordare il proprio vissuto da vittima, a rivendicare il diritto ad un’altra narrazione. Ma non è semplice inventarsi un’identità post-comunista-nazionalista, rinunciare ad un teorema collettivo. Così la storia, il mito, la mitologia della propria nazione nutrono ancora le tormentate identità individuali.[15]

Dicembre 1980: dall’autobiografia alla Storia e al Mito.

Immaginate di scrivere il vostro diario in un giorno del dicembre 1980, anno della morte di Tito, a partire da elementi della propria autobiografia per arrivare a quelli della Storia e del Mito (in questo caso di Tito o quello che esso rappresentava).

Dicembre 2000: dal Mito alla Storia all’autobiografia. Immaginate di scrivere il vostro diario in un giorno del dicembre 2000, anno della caduta di Milosevic, a partire dagli elementi del suo Mito e della Storia per arrivare a quelli della vostra autobiografia.

Il giorno dopo l’intervento è di tutti i partecipanti, appare prevalente il bisogno di discutere/criticare il tipo di compito proposto, il desiderio di intervenire sul tema “diario”, di sapere di più delle esperienze italiane di uso del diario, della diffusione del diario on line. Diversi interventi riferiscono esperienze terapeutiche, soprattutto con bambini traumatizzati.

Da quale prospettiva scrivere? Per alcuni il diario raccoglie le cose brutte, come se le pagine fossero sogni che si ricordano solo se incubi; c’è chi si sente male se rilegge i diari di se stesso adolescente; c’è chi ricorda quanto ha scritto nel libro dei necrologi per Tito, altri quel che hanno appuntato in una delle notti dei bombardamenti Nato, la notte nella quale la moglie ha partorito in un ospedale senza elettricità. In molti hanno sentito il bisogno di scrivere nel 1999. Chi lavorava come educatore in prigione, mandato in Kosovo, si è trovato a vivere una rivolta: era lì, ma con il diario era anche altrove. Il diario della famiglia è qualcosa da passare ai figli, come un’eredità. Scoprire che il nonno teneva un diario, poi il padre: è qualcosa che si può leggere?

 

 

 

 

 

Si racconta il caso di un celebroleso che sogna di essere una persona sana che cammina. Che il valore del diario possa essere qualcosa di curativo come i sogni che camminano? Che possa essere uno strumento utile per la costruzione di una mitobiografia individuale?[16]

A Como[17] il gruppo è formato da persone di età, professione e provenienze geografiche molto diverse. Con la ex Jugoslavia hanno legami familiari, affettivi, lavorativi. C’è chi vi è nato, e la Storia l’ha costretto a venire in Italia, chi sull’altra sponda dell’Adriatico non era mai andato nemmeno in vacanza e ora ci passa mesi interi. Il gruppo è incredibilmente sintonico con la proposta di scrivere il proprio diario con due date: luglio 1995, Srebrenica – luglio 2005, Srebrenica. Per molti era un nome che non diceva nulla, ora pare impossibile fosse così. C’è chi era studente, adesso è giornalista, chi ancor ricorda lo shock, e chi le celebrazioni per i dieci anni del massacro. Scrivono tutti, i fogli non bastano, il tempo non basta, l’intreccio fra i viaggi e i progetti di volontariato e non solo, e le mogli e i figli, le amiche, gli amanti… Srebrenica è la Storia di chi qui si sente povero di storia.

 

 

 

 

              La guerra: trauma e avventura

              

             

              Che cosa resta, quando le armi non funzionano più, ma intanto le vite si sono inceppate. Non si è più uguali, non lo si potrà davvero essere mai più. “Elaborazione del conflitto”, “elaborazione del trauma”: questioni immense che non possono essere racchiuse nel kit del Post-traumatic stress syndrom. Un trauma di massa richiede di fondare una nuova geologia, ha bisogno di ere di silenzio, spunta con andamento carsico.

Non può essere ridotto ad una parentesi – né della storia collettiva, né di quella individuale. Deve essere sminuzzato, diventare un oggetto da ricordare, una memoria di guerra, da conservare, da rigettare, da tramandare - magari poco prima di morire[18].

I diari raccolti e incontrati parlano di questa  antropologia della sofferenza, permettono di nuovo lo scambio: anche quello, inaudito, fra vittima e carnefice. Il mio diario rende vicino e vissuto qualcosa di atroce come la guerra, rappresentata come un fenomeno oscuro e inafferrabile. Riducendo ad uno qualcosa di collettivo e astratto lo umanizza, e, insieme, lo relativizza – la responsabilità individuale dei crimini di guerra assume spesso anche questo significato. Così l’evento bellico può farsi irripetibile passato, iniziare il suo processo di trasformazione. E, solo a quel punto, forse, al diario si può confessare che, a tratti, la guerra è stata anche una grande avventura Si sono fatte cose che non si sarebbero pensate mai, tanto che quando si riprende in mano il vecchio diario pare di leggere un’Altra biografia.

 

 

 

 

 

 

 


Note:

[1] Cfr. La biblioteca della memoria, a cura di V.Campo, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 2005, in particolare i testi di D.Demetrio e A.Orsi.

[2]AA.VV., Le guerre cominciano a primavera. Soggetti e genere nel conflitto jugoslavo, (a cura di M. Richter e  M.Bacchi), Rubbettino, Catanzaro 2003.

 

 

[3] S. Sontag (2003), Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003.

[4]N. Janigro ( a cura di), Casablanca serba. Racconti da Belgrado, Feltrinelli, Milano 2003.

 

[5] C. Wolf, Riflessioni su Christa T., Mursia, Milano 1973, p.179.

[6] Cfr. J. Magenau, Christa Wolf, edizioni e/o, Roma 2004, in particolare pp.182-225.

 

[7] Così è accaduto ai racconti di  S.Drakulic, Balkan Express, il Saggiatore, Milano 1993, nei quali l’autrice descrive come la guerra penetra nella quotidianità. Il libro è stato pubblicato in mezzo mondo, ma è stato a lungo quasi proibito in Croazia.

 

[8] Sull’esperienza di Prijedor si veda quanto riportato sul sito dell’Osservatorio sui Balcani e il testo dell’ideatore del progetto M. Nardelli, <<Dalla terra del non luogo (dai Balcani)>>, in L’educazione sentimentale, Guerini e Associati, Milano n.2, dicembre 2003.

[9] Sulle montagna Kozara ci fu una delle battaglie più cruente della seconda guerra mondiale, i monumenti portano incisi i nomi dei 9901 partigiani uccisi, i musei indugiano sugli orrori.

[10] Nel maggio 2003 all’interno di un progetto sull’elaborazione del conflitto promosso dall’Ambasciata della democrazia locale. I miei interventi sono stati tradotti da un’interprete, alle domande del gruppo ho risposto invece in serbocroato.

[11] L’esperienza del viaggio che accomuna chi è in guerra al migrante. Cfr. N. Losi,Vite altrove. Migrazione e disagio psichico, Milano, Feltrinelli, 2000.

 

[12] Dal quale è possibile desumere la nazionalità, dunque qualcosa che in guerra mette a repentaglio la propria vita.

[13] Secondo quanto riscontrato già durante il primo conflitto mondiale, studiando le nevrosi da guerra: finché si riesce a sognare il ritorno a casa non si impazzisce.

[14] Nel settembre 2004 all’interno del Project on Psychosocial Trauma Response in Serbia January 2004 – December 2005 promosso dallo Iom (International Organization for Migration).

[15] Davvero interessante l’utilizzo dei concetti di archetipo e di inconscio collettivo di C. G. Jung, le cui opere sono onnipresenti nelle librerie belgradesi.

[16] Cfr. R. Màdera, V. Tarca, La filosofia come stile di vita. Introduzione alle pratiche filosofiche, Bruno Mondadori, Milano 2003.

[17] Nel seminario tenuto nel novembre 2005 all’interno del convegno Pace da tutti i Balcani , promosso da associazioni che operano da anni nell’area. Sull’uso della lingua si veda la nota 11.

[18] Così è stato per molte donne tedesche violentate durante la liberazione di Berlino dai soldati sovietici.Cfr.

Norman M.Naimark, The Russians in Germany.A History of the Soviet Zone of Occupation, 1945-1949, Cambridge, London, 1995. In particolare il capitolo <<Soviet Soldiers, German Women, and the Problem of Rape>>. Cfr. anche N.Janigro, <<Pan o della guerra. Quando la sessualità si fa insulto>>, in Eros ed educazione (a cura di A. Zatti e L. Austoni), Franco Angeli, Milano 2006.

 

 

                                             
 

 

 

Bibliografia

 

M. Augé (1998), Le forme dell’oblio. Dimenticare per vivere, il Saggiatore, Milano 2000.

M. Augé (2002), Diario di guerra, Bollati Boringhieri, Torino 2002.

S. Cohen (2001), Stati di negazione, Carocci, Roma 2002.

I. Colovic, Politika simbola., (La politica dei simboli), Beograd 1997-2000.

I. Colovic. Bordel ratnika (Il bordello del guerriero), Beograd 1994.

B. Cosic (1969), Il ruolo della mia famiglia nella rivoluzione mondiale, e/o, Roma 1996.

D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004.

M. Giusti (a cura di), Ricerca interculturale e metodo autobiografico, La Nuova Italia, Firenze1998.

J. Hillman (1983), Le storie che curano. Freud, Jung, Adler, Raffaello Cortina Editore, Milano 1984.

E. Hoffman (1990), Come si dice, Donzelli, Roma 1996.

G. Didi-Huberman (2003), Immagini malgrado tutto, Raffello Cortina Editore, Milano 2005.

D. Karahasan (1993, Il centro del mondo, Il Saggiatore 1995.

A. Kristoff (2004), L’analfabeta. Racconto autobiografico, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2005.

N. Janigro (a cura di), La  guerra  moderna  come malattia della civiltà, Bruno Mondadori, Milano 2002.

N. Janigro ( a cura di), Casablanca serba. Racconti da Belgrado, Feltrinelli, Milano 2003.

I. Progoff (1975-1992), Curarsi con il diario, Pratiche Editrice, Milano 1996.

M. Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Bruno Mondadori, Milano 2003.

S. Sontag (2003), Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003.

G. Starace, Il racconto della vita. Psicoanalisi e autobiografia, Bollati Boringhieri, Torino 2004.


 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

Copyright - Ce.Psi.Di. - Rivista "FRENIS ZERO" All rights reserved 2004-2005-2006-2007