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Nella Polonia invasa dai nazisti, nella
Berlino del Terzo Reich, nella Sarajevo assediata, nella Belgrado
sotto le bombe Nato: si scrive, si rischia per spedire una lettera, si
usa la poca energia elettrica per inviare l’ultimo messaggio e-mail. E
i diari, cartacei ieri spesso elettronici oggi, sfidano
l’inenarrabile, sono la forma prescelta per appuntare l’orrore
divenuto quotidianità. I diari raccontano, brulicano di testimonianze
orali, mescolano la mancanza d’acqua e la pozza di sangue
sull’asfalto, provano a regolare quel che usuale non è. Sono un mezzo
per farsi coraggio, per ricordare l’universale comune: per coloro che
verranno, affinché l’umanità non possa più dimenticare, per comunicare
all’Altro come si fa a sopravvivere accanto all’indicibile. Pagine che
si trasformano in ricordi da conservare per i posteri, diventeranno
fonti, interrogheranno la storia futura, sfideranno i meccanismi della
“costruzione della memoria”.
Le guerre inter-jugoslave, un work in progress che ha attraversato
l’ultimo decennio del Novecento, hanno generato un materiale
vastissimo che ben rappresenta una delle caratteristiche delle “nuove
guerre” che schizofrenicamente rimescolano modernità e barbarie.
E che molto spesso a noi, spettatori,
è arrivato nella forma di annotazioni giornaliere che scrittori di
professione, letterati e giornalisti, ma anche folle di outsider hanno
trasformato, appena è stato possibile, in libri-diario. I giornalisti
i loro reportage, gli adolescenti i
loro quaderni scolastici, gli scrittori
i loro libri, le amiche e gli amici i loro epistolari in forma di
e-mail.
Il diario ha assorbito e nutrito il
bisogno di raccontare l’assedio di Vukovar, quello di Sarajevo,
l’atmosfera
di Belgrado, la
patchwork city che per quindici anni è stata l’anfiteatro di quel
mondo dissociato,
la “pulizia etnica” del Kosovo.
Situazioni estreme dove mettere la data
di un giorno nuovo significa aver passato la giornata, esserci ancora,
non mollare del tutto la presa del proprio io sul tempo. Tenere il
proprio diario diventa un modo per cercare un ordine nel caos che
sovrasta, non rinunciare alla possibilità di una qualche forma di
senso, seguire il filo della propria biografia sconvolta da fattori
esterni. Il diario è una scrittura intima e privata, in un momento
dove tutto, lo stupro e la morte, avviene in pubblico. E’ “il compagno
segreto” al quale confidare, senza occhi indiscreti, ciò che sfugge
alla lotta dei Grandi, ma interessa il “pover’uomo” frantumato fra i
noi e i loro.
Tra mito e storia, sospesi sull’orlo
del tempo
Nelle vicende storiche della
Jugoslavia, formatasi alla fine della prima guerra mondiale e
disgregatasi dopo la
fine della guerra fredda, la presenza dei miti e delle mitologie delle
“piccole nazioni” ha svolto un ruolo peculiare. Sia per le
caratteristiche locali e regionali delle diverse componenti della
federazione, sia per i molteplici e complicati intrecci con la
situazione internazionale del “secolo breve”.
La posizione e collocazione politica
delle nazionalità dello stato jugoslavo, le secolari tradizioni di
lotta per sottrarsi al dominio delle grandi potenze hanno strettamente
legato i destini dell’homo balcanicus alle sorti
collettive degli slavi del sud. Da qui il radicarsi di una
Weltanschauung, spesso trasformata in ideologia
ufficiale, dove le esistenze dei
singoli riescono ad assumere un senso e un significato solo e
soprattutto nell’incontro e nel rapporto con la Grande Storia.
Nel caso jugoslavo, questo rappresenta
un decisivo elemento di continuità, pur fra tante rotture, del
passaggio dal comunismo al nazionalismo. E il richiamo al “sacrificio”
in nome di un ideale – classe operaia, partito, patria, nazione - è
stato continuamente evocato e richiamato per legittimare le immense
perdite umane delle guerre inter-jugoslave degli anni novanta del
secolo scorso.
Il caso della Serbia, deus ex machina
prima, carnefice/vittima poi, della federazione jugoslava, destinata
ora ad una transizione che appare infinita, è fortemente segnato dal
continuo intreccio di storia e di memoria, dove le gloriose sorti
passate non riescono a riscattare le difficili sopravvivenze presenti.
E dove la durata di vita del singolo si perde nel tempo eternalizzato
di regimi che puntano a sopravvivere alla propria epoca.
Il confronto fra il “pover’uomo” e la
Grande Storia che non lascia scampo, che nutre molte pagine delle
letterature dell’Europa centro-orientale, è un Leitmotiv della
letteratura serba contemporanea. Individui braccati dalla storia
attraversano le pagine di Milos Crnjanski e di Borislav Pekic, di
Slobodan Selenic e di Aleksandar Tisma, di Mirko Kovac e di Zivojin
Pavlovic. Ma anche quelle di un best-seller popolare come Il libro
di Milutin di Danko Popovic, monologo di un contadino che la
Storia ha costretto a diventare guerriero.
Curiosamente, la letteratura diventa
anche (insieme al cinema) il luogo dove è possibile parlare delle
sconfitte e delle perdite, nominare ed elaborare lutti. La sensazione
di essere rimasti orfani tutti dopo la morte di Tito, la sparizione
della Jugoslavia, un cadavere che non verrà mai seppellito, i ricordi
di infanzie che, per chi ha più di quindici anni, hanno avuto luogo in
un paese che non esiste più. E ora i traumi di una guerra che, anche
là dove non ha toccato fisicamente gli individui, ha mutato il loro
paesaggio esterno, ha mandato all’aria le loro vite, colpito la loro
psiche. Si affida alla pagina scritta il compito di conservare i
ricordi e gli affetti, di raccontare le migrazioni, manifestare le
nostalgie: quello che i monumenti e le case più volte distrutti, le
frontiere spostate non possono fare.
E
vengono in mente due grandi scrittori chiusi in casa, nella loro città
occupata, durante la seconda guerra mondiale. Ivo Andric, a Belgrado,
scrive i suoi capolavori ma affida gli incubi e le riflessioni al suo
diario, Miroslav Krleza, a Zagabria, confessa al suo le angosce delle
notti insonni, insegue le tracce che le notizie belliche trasmesse per
radio lasciano nei suoi sogni “schiumanti”. Entrambi si sentono
the war
inside,
ne studiano le conseguenze. Oggi ci appaiono
incredibilmente attuali nel soffermarsi
sugli “effetti collaterali” di un’esposizione prolungata ai suoni e
alle visioni di guerra.
Prijedor-Belgrado-Como
Diventare
se stessi, con ogni energia diventare se stessi.
Difficile.
Una bomba,
un discorso, uno sparo – e il mondo può cambiare fisionomia. E dove
resta in tal caso il “se stessi”?
Della difficoltà di dire io
è un’espressione che, insieme ad altre molto simili, compare più volte
in Riflessioni su Christa T., testo dalla gestazione e
pubblicazione molto travagliati.
Ripercorre le vicende biografiche di una giovane donna, la sua
malattia e morte attraverso le pagine del suo diario. Una vita poco
significativa, di nessun interesse generale, senza alcuna importanza
politica, ma, appunto, un’esistenza irrinunciabile per lei, che l’ha
vissuta, e per quanti l’hanno conosciuta. Riflessioni su Christa T.
diventa un libro scandalo, punta l’attenzione sull’intimità di un
privato che si
svolge lontano dagli occhi del
pubblico. Attira l’attenzione sul “pover’uomo” e non sul’Impresa del
socialismo – nella Germania orientale, nel ’68 fatidico anche all’est:
è l’anno dell’invasione sovietica di Praga.
La scrittrice si interroga su che cosa
significhi dire io in
società che pongono l’accento sul “noi”, quale peso possano avere le
minuzie della quotidianità, se e come il ritmo di vita del singolo
essere umano possa incontrare il corso del tempo degli avvenimenti in
pubblico. Lo spostamento di sguardo appare insostenibile e, forse,
non è così strano che sistemi politici anche molto diversi fra loro
temano e censurino proprio i “banali” racconti della quotidianità, i
diari intimi attraverso i quali l’io rivendica la sua centralità nel
noi.
Il “nostro” diario ci offre la
possibilità di avere uno spazio che sposta l’attenzione dal generale
al particolare, dagli eventi collettivi al ruolo individuale, ci
costringe a ripensare le possibilità e le responsabilità del nostro
agire, permette di ascoltarmi (e di rileggermi) come se anch’io per un
attimo potessi essere l’Altro. Ognuno deve scegliere in quale
tempo vivere, decidere dove
mettere l’accento: sulla guerra, sul
passato remoto, su quello prossimo, comune, sul futuro. Ogni
spostamento nella cronologia è anche una tacca della propria
biografia.
Partendo dai molteplici e possibili usi
del diario – scrittura intima, testo letterario, documento storico,
elaborato terapeutico -, e dalla considerazione che racconti,
testimonianze, reportage giornalistici, confessioni autobiografiche,
attraverso i quali sono state narrate le guerre inter-jugoslave degli
anni novanta hanno scelto in modo ricorrente la forma del diario, ho
pensato possibile suggerire un percorso di scrittura, personale, e di
discussione, collettiva, per analizzare le possibilità dello strumento
diario nell’esprimere esperienze e vissuti della biografia individuale
e, insieme, gli usi molteplici che permette nell’attività di
formazione e di lavoro terapeutico.
E’ stata una sperimentazione: chiedere
di portare il proprio diario, di scrivere un proprio diario, poteva
forse costituire quel ponte di comunicazione fra persone diverse,
spesso anche gravemente traumatizzate – “loro” – con il “noi”, di
figure che dall’esterno rischiavano di nominare il tema “elaborazione
del conflitto”.
A
Prijedor,
dove ogni fiume è stato frontiera, ogni ponte ha i suoi morti, ogni
casa nuova rimpiazza le rovine di quella precedente. La storia del
Novecento la si ritrova ad ogni passo: nei musei, nei cimiteri, nelle
lapidi, nelle
fabbriche-cattedrali del socialismo autogestito trasformate in
camerate di tortura, nelle miniere abbandonate divenute discariche di
cadaveri. E lo scenario industriale conferma il legame fra distruzione
di massa e sviluppo tecnologico. A Prijedor il “gusto di uccidere” ha
segnato le generazioni e il panorama, morti e vivi convivono in
equilibrio precario.
Tornare per cercare i cadaveri distribuiti nelle fosse comuni, per
ricostruire esistenze segnate dai lutti, per ricominciare nonostante
il sommarsi dei traumi: significa già elaborare il conflitto?
In un incontro
di due giorni con un gruppo misto, per età e nazionalità, come accade
dappertutto nella Bosnia dai destini incrociati. Chi si è salvato
scappando in tempo, chi è sopravvissuto ai campi, chi era dalla parte
dell’esercito occupante… L’inizio della
guerra coincide,
nel ricordo, con una
separazione: dalla casa bruciata, dai genitori, da una persona cara
uccisa, dalla propria città. Nel vissuto lo scoppio della guerra è
sincronico alla separazione, la sua durata è il viaggio, la partenza
verso l’ignoto, la fine della guerra è un arrivo/ritorno.
I temi
emotivi si
condensano tutti nel ritorno: gioia-paura, gioia-timore della gioia,
sollievo, senso di spaesamento. Incredulità: di ritrovare accanto a se
stessi la propria nuova identità. Poter parlare a voce alta in gruppo
con il proprio nome e cognome,
ri-conoscersi di nuovo, comunicare il dolore, incerti fra il non
dimenticare, il non perdonare, il non vendicarsi, in bilico fra la
memoria e l’oblio.
Non si è riusciti a fare
un’esercitazione, è stato solo un accenno; in molti hanno portato
pezzi di carta, quaderni e foglietti, che durante la guerra li hanno
accompagnati, e sono diventati bagaglio prezioso da portarsi appresso,
alcuni non hanno voluto leggere nulla. Alcuni avevano tenuto un
diario, ma era in tedesco, la loro lingua da profughi, ma anche, per
le numerose attività di sostegno psicologico proposte a chi dai campi
era stato inviato in Germania, la lingua nella quale si è imparato a
dire io. E poi, buste e infinite lettere. Anche gli epistolari sono
il diario di guerra; lo scambio di lettere viene infatti osteggiato
con ogni mezzo, le missive accompagnano ogni interruzione della
comunicazione, trasmettono a chi sta dall’altra parte la propria
versione dei fatti – un
elemento
particolarmente rilevante in un conflitto fra vicini. C’è chi ha
tenuto un suo diario per immagini, e ha notato, con sorpresa, che, la
guerra in corso, la bellezza del paesaggio dipinto compensava l’orrore
presente. Solo con la pace sono apparse figure angoscianti, il nero e
il sangue. Un po’ come accade anche con i sogni.
Belgrado:
il gruppo è formato da psichiatri, medici, educatori e operatori con
competenze diverse. Non piace troppo l’idea del diario, anche se
durante la guerra, in molti, anche uomini, hanno scritto per passare
le notti dei bombardamenti, per riuscire a sopportare quello che
accadeva in Kosovo. La proposta tiene conto
di un contesto formalmente omogeneo,
che appare
poco disposto però ad affrontare certe tematiche. Parlare di trauma
vuol dire parlare di guerra, parlare di guerra davanti ad un uditorio
“serbo” significa evocare la questione della colpa collettiva,
costringe chi si sente rappresentato dalla comunità internazionale in
primo luogo come il carnefice a mettere le mani avanti, a ricordare il
proprio vissuto da vittima, a rivendicare il diritto ad un’altra
narrazione. Ma non è semplice inventarsi un’identità
post-comunista-nazionalista, rinunciare ad un teorema collettivo. Così
la storia, il mito, la mitologia della propria nazione nutrono ancora
le tormentate identità individuali.
Dicembre 1980: dall’autobiografia alla
Storia e al Mito.
Immaginate di scrivere il vostro diario
in un giorno del dicembre 1980, anno della morte di Tito, a partire da
elementi della propria autobiografia per arrivare a quelli della
Storia e del Mito (in questo caso di Tito o quello che esso
rappresentava).
Dicembre 2000: dal Mito alla Storia
all’autobiografia. Immaginate di scrivere il vostro diario in un
giorno del dicembre 2000, anno della caduta di Milosevic, a partire
dagli elementi del suo Mito e della Storia per arrivare a quelli della
vostra autobiografia.
Il giorno dopo l’intervento è di tutti
i partecipanti, appare prevalente il bisogno di discutere/criticare il
tipo di compito proposto, il desiderio di intervenire sul tema
“diario”, di sapere di più delle esperienze italiane di uso del
diario, della diffusione del diario on line. Diversi interventi
riferiscono esperienze terapeutiche, soprattutto con bambini
traumatizzati.
Da quale prospettiva scrivere? Per
alcuni il diario raccoglie le cose brutte, come se le pagine fossero
sogni che si ricordano solo se incubi; c’è chi si sente male se
rilegge i diari di se stesso adolescente; c’è chi ricorda quanto ha
scritto nel libro dei necrologi per Tito, altri quel che hanno
appuntato in una delle notti dei bombardamenti Nato, la notte
nella quale la moglie ha partorito in un ospedale senza elettricità.
In molti hanno sentito il bisogno di scrivere nel 1999. Chi lavorava
come educatore in prigione, mandato in Kosovo, si è trovato a vivere
una rivolta: era lì, ma con il diario era anche altrove. Il diario
della famiglia è qualcosa da passare ai figli, come un’eredità.
Scoprire che il nonno teneva un diario, poi il padre: è qualcosa che
si può leggere?
Si racconta il caso
di un celebroleso che sogna di essere una persona sana che cammina.
Che il valore del diario possa essere qualcosa di curativo come i
sogni che camminano? Che possa essere uno strumento utile per la
costruzione di una mitobiografia individuale?
A
Como
il gruppo è formato da persone di età, professione e provenienze
geografiche molto diverse. Con la ex Jugoslavia hanno legami
familiari, affettivi, lavorativi. C’è chi vi è nato, e la Storia l’ha
costretto a venire in Italia, chi sull’altra sponda dell’Adriatico non
era mai andato nemmeno in vacanza e ora ci passa mesi interi. Il
gruppo è incredibilmente sintonico con la proposta di scrivere il
proprio diario con due date: luglio 1995, Srebrenica – luglio 2005,
Srebrenica. Per molti era un nome che non diceva nulla, ora pare
impossibile fosse così. C’è chi era studente, adesso è giornalista,
chi ancor ricorda lo shock, e chi le celebrazioni per i dieci anni del
massacro. Scrivono tutti, i fogli non bastano, il tempo non basta,
l’intreccio fra i viaggi e i progetti di volontariato e non solo, e le
mogli e i figli, le amiche, gli amanti… Srebrenica è la Storia di chi
qui si sente povero di storia.
La guerra: trauma e
avventura
Che cosa resta, quando le
armi non funzionano più, ma intanto le vite si sono inceppate. Non si
è più uguali, non lo si potrà davvero essere mai più. “Elaborazione
del conflitto”, “elaborazione del trauma”: questioni immense che non
possono essere racchiuse nel kit del Post-traumatic stress syndrom. Un
trauma di massa richiede di fondare una nuova geologia, ha bisogno di
ere di silenzio, spunta con andamento carsico.
Non può essere
ridotto ad una parentesi – né della storia collettiva, né di quella
individuale. Deve essere sminuzzato, diventare un oggetto da
ricordare, una memoria di guerra, da conservare, da rigettare, da
tramandare - magari poco prima di morire.
I diari raccolti e incontrati parlano
di questa antropologia della sofferenza, permettono di nuovo lo
scambio: anche quello, inaudito, fra vittima e carnefice. Il mio
diario rende vicino e vissuto qualcosa di atroce come la guerra,
rappresentata come un fenomeno oscuro e inafferrabile. Riducendo ad
uno qualcosa di collettivo e astratto lo umanizza, e, insieme, lo
relativizza – la responsabilità individuale dei crimini di guerra
assume spesso anche questo significato. Così l’evento bellico può
farsi irripetibile passato, iniziare il suo processo di
trasformazione. E, solo a quel punto, forse, al diario si può
confessare che, a tratti, la guerra è stata anche una grande avventura
Si sono fatte cose che non si sarebbero pensate mai, tanto che quando
si riprende in mano il vecchio diario pare di leggere un’Altra
biografia.
Note:
AA.VV.,
Le guerre cominciano a primavera. Soggetti e genere nel
conflitto jugoslavo, (a cura di M. Richter e M.Bacchi),
Rubbettino, Catanzaro 2003.
N.
Janigro ( a cura di), Casablanca serba. Racconti da
Belgrado, Feltrinelli, Milano 2003.
Cfr.
J. Magenau, Christa Wolf, edizioni e/o, Roma 2004,
in particolare pp.182-225.
Così è accaduto
ai racconti di S.Drakulic,
Balkan Express, il Saggiatore, Milano 1993, nei quali
l’autrice descrive come la guerra penetra nella quotidianità. Il
libro è stato pubblicato in mezzo mondo, ma è stato a lungo quasi
proibito in Croazia.
L’esperienza del viaggio che
accomuna chi è in guerra al migrante. Cfr. N. Losi,Vite
altrove. Migrazione e disagio psichico, Milano, Feltrinelli,
2000.
Norman
M.Naimark, The
Russians in Germany.A
History of the Soviet Zone of Occupation, 1945-1949,
Cambridge, London, 1995. In particolare il capitolo <<Soviet
Soldiers, German Women, and the Problem of Rape>>. Cfr. anche
N.Janigro, <<Pan o della guerra. Quando la sessualità si fa
insulto>>, in Eros ed educazione (a cura di A. Zatti e L.
Austoni), Franco Angeli, Milano 2006.
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