Non sarà che lei è solo una vittima
che vende il suo trauma?
mi ha chiesto una biondina di
Harvard
il cui cervello è valutato mezzo
milione.
In inglese non lo sapevo dire.
Si rende conto di avere tutte le
ragioni?
Nove morti, il sangue che esce
dalla membrana del timpano,
quel dimenarsi fra i proiettili.
Tutto sta nella parola trauma.
E questo, sì, non sapevo dire in
inglese,
ho paura,
è l’unica cosa che vale fra quelle
che ho.
Adisa
Basic, Trauma-market
(1) L’evento bellico occupa di nuovo il centro della scena
internazionale. In Europa, è stato il conflitto al di là
dell’Adriatico a segnare il ritorno della guerra. Siamo dunque
costretti a ripensare (dopo il “mai più” di Auschwitz) il nostro
rapporto con la violenza, l’umana aggressività.
Che cosa resta? Che cosa resta dell’evento bellico, ma anche che
cosa resta dell’infinità di modi attraverso i quali si è cercato
di affrontare le sue conseguenze. Guerra umanitaria, pace
militare, curare la guerra: sono questi gli ossimori che esprimono
il tentativo di tenere a bada il ripetersi dell’insormontabile,
che, insieme, affascina e spaventa.
Un fenomeno che rappresenta la rottura della continuità – sociale,
culturale, politica, relazionale, autobiografica – e che, nel caso
della ex Jugoslavia, per le sue caratteristiche storiche e per la
sua durata, diventa parte dell’ambiente. Nulla è rimasto uguale,
né gli uomini né il paesaggio naturale: i corpi e le case portano
i segni delle ferite, nelle menti il tempo fatica a riprendere il
suo corso, le planimetrie devono tenere conto del numero
sterminato di cimiteri.
Le caratteristiche
del conflitto mutano: il rapporto civili/militari, il tipo di armi
usate per combattere e le droghe adatte allo scopo. Se il fine è
la “pulizia etnica” - un
aspetto comune delle “nuove guerre” - non è il territorio, ma la
popolazione civile obiettivo di conquista. Il bottino sono uomini,
donne e bambini, spinti, con il terrore, ad abbandonare case
bestie e terra – che solo così si può ripulire. L’incubazione
necessaria per trasformare il vicino in nemico – dunque in
qualcuno da eliminare o da scacciare, rendere profugo -, è
stata una “guerra delle parole” lunga dieci anni (dalla morte di
Tito, 1980, alle prime elezioni pluripartitiche, 1990). In uno
scontro che assume queste caratteristiche ciascuno è
inesorabilmente “inchiodato” alla dimensione collettiva della
propria nazionalità: il noi si trova di fronte un loro, che
sommerge l’io, si fatica a distinguere, di nuovo, un tu.
Le guerre balcaniche di fine Novecento hanno fornito, come
storicamente è accaduto per ogni conflitto, nuovo materiale
psichico alla riflessione e alla clinica. L’orrore della guerra
civile inter-jugoslava, gli “eccessi di violenza” che l’hanno
attraversata, spingono ad affrontare tematiche etiche ed
etologiche, psicologiche ed antropologiche. A riflettere sugli
intrecci storici di modernità e di barbarie, di identità e memoria
che hanno sconvolto e disgregato le esistenze dei singoli.
Già prima dello scoppio della guerra la Jugoslavia si trasforma,
diventa il paese ex – c’è un cadavere da seppellire, un lutto da
elaborare. I nuovi confini sconvolgono le geografie interiori,
risucchiano le infanzie, costringono a rivedere quanto è
essenziale in ogni identità. E il rapporto tra la dimensione
individuale e quella collettiva, cruciale nella storia culturale
degli slavi del sud, acquista ulteriori significati. Impossibile
infatti non considerare la cornice storico-politica, all’interno
della quale l’uso pubblico della storia si sovrappone all’uso
pubblico della memoria: nella Jugoslavia socialista le
celebrazioni pubbliche non sempre coincidevano con le memorie
private, le guerre interjugoslave degli anni novanta del Novecento
sono state accompagnate dalla distruzione dei monumenti ai caduti
della seconda guerra mondiale. Oggi mausolei e monumenti dividono,
di nuovo, i “nostri” morti dai “loro”, ma, al di là di
manipolazioni politiche e della ricerca della “verità storica”,
il lavoro del lutto e della memoria non può essere esaurito dalla
dimensione collettiva – che esalta/minimizza il dramma del
singolo.
E il rapporto tra la dimensione individuale e quella collettiva,
un nodo per la psicoanalisi da sempre teoricamente problematico,
incrocia uno degli aspetti più discussi nella pratica clinica del
trauma bellico. La storia della guerra del Novecento si riflette
nelle metamorfosi subite dal termine che definisce i suoi effetti
collaterali: dallo shock da granata della prima guerra mondiale
dell’epoca di Freud al PTSD - introdotto nel DSM- III per la
prima volta nel 1980, per i veterani del Vietnam. Ma il PTSD si
trasforma nel tempo, nel DSM- III si metterà l’accento sul
ripetersi delle occasioni di stress, nel DSM-IV lo si estenderà
agli abusi sui minori. Ormai entrato nel linguaggio comune, del
concetto viene fatto un uso onnicomprensivo, emergenziale,
politico-psichiatrico. E’ con questo acronimo che si affrontano le
rovine del day after: per rimettere ordine, ristabilire i confini
tra chi osservava e chi è sopravvissuto, tra le vittime e i
carnefici, tra l’interpersonale e l’intrapsichico. E sempre più
trauma e PTSD faticano a tenere insieme dimensioni tanto diverse:
il trauma della nazione – nel suo significato astratto e
collettivo -, e il Post Traumatic Stress Disorder che focalizza
l’attenzione sull’individuo. Ma quest’ultimo, ponendo lo stress
dopo il trauma, presuppone che il “fuori” abbia minato il
“dentro”. E’qui che diventa ardua l’attraversata della terra di
nessuno che separa la pace dalla guerra, che converte il passato
in presente, è qui che si deve offrire spazio alla posizione
dell’io senza dimenticare le connessioni con la ricostruzione
politica (culturale, spirituale) del noi.
(2) Il dopoguerra è una fine che stenta a segnare un inizio – la
costruzione sociale del trauma di massa può diventare quella
sospensione temporale infinita che distoglie dal trauma
individuale, o che riporta inesorabilmente ad esso (tanto più
laddove la sopravvivenza è legata all’aiuto statale-sociale a sua
volta legato all’identità di profugo, ecc.).
Nelle diverse
realtà della ex Jugoslavia una lunga esperienza di incontro con
persone gravemente traumatizzate (con una netta prevalenza di
interventi di gruppo) ha portato a elaborazioni differenti e
molteplici, all’uso di metodiche e tecniche davvero varie -
disegno, teatro, teatro dell’oppresso, attività ludiche e
attività lavorative, laboratori di cucina, atelier di tessitura,
arte-terapia, laboratori di scrittura, musica, danza.
La
scrittura, privata e pubblica, professionale e amatoriale,
costituisce un capitolo importante del “curare la guerra”.
Scrivere, rendere oggettivo qualcosa che in quel momento sta
invadendo l’io, significa offrire a quanto accade una possibilità
di sistemazione e dunque di senso. Nelle situazioni di assedio, ma
non solo, è stato un modo per sopravvivere. Costringere l’io a
spostarsi sulla pagina ha agito con la forza della compensazione
simile a quella che caratterizza il sogno, tanto più quando può
essere condiviso, come se l’attività onirica operasse come un
“sistema archetipico autocurativo della psiche” (Kalsched).
Il traboccare di narrative, di versioni
diverse e opposte delle stesse vicende, certo, mette in scena un
ulteriore piano di conflitto. L’effetto Rashomon, che può rendere
difficile pervenire al nucleo di ciò che per ciascuno è stato il
trauma maggiore, ha però come conseguenza immediata l’incontro con
un diverso punto di osservazione.
Situazioni differenti e improvvisate sono divenute “setting di
ascolto” – le donne stuprate sono state accolte dai centri
antiviolenza attivi, da prima della guerra, nelle principali
città.
Spesso chi offriva aiuto ed ascolto è stato
uno straniero, un Altro, che riusciva a diventare quella figura di
“terapeuta testimone” che, al di là di facili discorsi sulla
necessità di sblocchi emotivi in tempo reale, permetteva di
analizzare i vissuti individuali di un dramma collettivo,
di confrontarsi con la figura del
nemico e con le sue rappresentazioni interne. E che anche la
lingua fosse straniera (solo in rare occasioni il terapeuta
straniero conosceva la lingua locale), può avere facilitato quelle
“conversazioni particolari”. In bilico tra mondi diversi – estero
e indigeno -, in bilico tra l’incredibile orrore della guerra e
l’incredibile quotidianità della pace, nella consueta
intimità/estraneità dell’incontro terapeutico, in uno spazio
vicino/lontano che rende più facile esprimere a voce alta quanto
si è subito. All’altro straniero, che naturalmente non è del
luogo, e dunque non ha tutte le informazioni per comprendere la
situazione, ma nemmeno le identificazioni di appartenenza, si può
affidare il proprio racconto. Qualcosa di umanamente difficile da
integrare nella propria esperienza, accompagnato quasi sempre da
un profondo senso di vergogna – come se ricadesse sulla vittima
l’onta di quanto in sua presenza è avvenuto. E’ su questa figura
che è possibile proiettare il ruolo del salvatore esterno –
fidarsi di nuovo di un essere umano per la sua possibilità di
accettare quanto di universale c’è nel male ma insieme essere
rassicurati dalla sua estraneità al contagio. Una vicinanza non
eccessiva lascia aperto uno spazio transizionale. La particolarità
dell’ascolto di sé “attraverso” lo straniero crea un diaframma
che permette di iniziare a distinguere tra nemico/i interno/i e
esterno/i, a risentirsi degni della propria pelle.
(Chi è insieme interno/esterno, per esempio per motivi di
conoscenza linguistica, occupa una posizione scomoda. Nel momento
in cui i valori sono sconvolti e le difese abituali sospese, dire
all’altro, straniero, “tu non mi puoi capire”, permette di
preservare una parte di potere, un’isola di significato nella
quale non si ha bisogno dell’empatia dell’altro. E’ una zona
franca dove si è fuori dalla sua portata. Forse anche per questo
personalmente non ho mai voluto svolgere consultazioni individuali
e nel caso di incontri collettivi ho sempre usato l’italiano con
un’interprete, pur dichiarando di conoscere la lingua locale.)
Anche la pratica del “nostro” diario (Janigro, 2006)
offre la
possibilità di avere uno spazio che sposta l’attenzione dal
generale al particolare, dagli eventi collettivi al ruolo
individuale, costringe a ripensare le possibilità e le
responsabilità dell’agire come singoli, permette di ascoltarmi (e
di rileggermi) come se anch’io per un attimo potessi essere l’Altro.
Ognuno deve scegliere in quale tempo vivere, decidere dove mettere
l’accento: sulla guerra, sul passato remoto, su quello prossimo,
comune, sul futuro. Ogni spostamento nella cronologia è anche una
tacca della propria biografia. Nel ricordo lo scoppio della guerra
è sincronico alla separazione, la sua durata è il viaggio, la
partenza verso l’ignoto, la fine della guerra rappresenta un
arrivo/ritorno. I temi emotivi si condensano tutti nel ritorno:
gioia-paura, gioia-timore della gioia, sollievo, senso di
spaesamento. Incredulità: di ritrovare accanto a se stessi la
propria nuova identità. Poter parlare a voce alta in gruppo con il
proprio nome e cognome, ri-conoscersi di nuovo, comunicare il
dolore, incerti fra il non dimenticare, il non perdonare, il non
vendicarsi. Ammettere, in bilico tra la memoria e l’oblio, che la
guerra è stata, anche, una grande avventura.
(3) Accettare il
male, nella terapia e nella teoria, consente di prendere le
distanze dal dilemma insolubile: evitare di patologizzare la
distruttività senza normalizzarla - il che significherebbe
condonarla. Consente la ricerca di una nuova narrazione
(singolare/plurale) all’interno della quale l’accento viene posto
sulla “ordinarietà”. Questo significa evitare lo schema in bianco
e nero del bene e del male, là dove la potenza della distruttività
scende in campo. Riconoscere gli
aspetti liberatori che la violenza può assumere,
l’identificazione con l’aggressore come una reazione
all’impotenza, il timore che l’incontro con la sofferenza
dell’altro trasmetta a noi l’interrogativo: è possibile che siano
stati esseri umani a commettere certi atti. Sarebbe d’altronde
ingenuo pensare che il timore di scoprire qualcosa di mostruoso,
che inquieta, presente in ogni esperienza di ascolto terapeutico,
non si presenti con forza nel contatto con un orrore che, per
compiersi, ha dovuto annullare l’umano. (Il lavoro con persone
vittime di torture costringe il terapeuta a toccare gli estremi di
questa ambivalenza e delle proprie identificazioni con la vittima
e il carnefice, cfr. Sironi). La paura del terapeuta in ascolto,
nominata, richiama la paura – isterica, parossistica – di cui è
pregna l’atmosfera scenario della violenza. Mettersi in moto,
agire, essere attivi, permette di scaricarla, diventa un
modo per sentirsi meno indifesi e vulnerabili. E’ quanto, spesso,
non è stato concesso alla vittima, è quello che spesso costituisce
il mondo interiore del carnefice che forse, anche per la sua
identificazione con un combattente onnipotente, appare
“insensibile”, lontano dalla ricerca di una maggiore
consapevolezza della propria responsabilità.
Curare il trauma
non nega la violenza, certo la umanizza, il riconoscimento
collettivo dello statuto di vittime aiuta a ritrovare la dignità,
il proprio trauma non isola, ma può unire un gruppo, riconnetterlo
con la propria storia. Forse per questo, là dove i musulmani hanno
subito lo sterminio, i segnali stradali possono continuare a
portare i nomi di luoghi divenuti campi di prigionia, e diventa
possibile continuare a vivere “tranquillamente” accanto a fosse
che un giorno, forse, potranno restituire tutti i loro morti. Non
diventa più necessario annullare il paesaggio che di notte
continua a produrre incubi, se si riesce a sentire dentro di sé
l’irresistibile forza del sopravvissuto.
Nel caso della ex Jugoslavia shock e stress hanno colpito certo
diversamente, ma ripetutamente, l’insieme della popolazione. E’
saltata la cornice comune della federazione, che comprendeva un
ordine e un codice di esperienza nel quale si inscriveva la storia
individuale, la tradizione di famiglia, una cultura e religione
nazionale. Con la disgregazione della Jugoslavia prima, con la
guerra poi, è questa la rottura storica che disconnette ogni
singola parte regionale. L’escalation della violenza ha seguito
le linee di intersecazione delle composizioni nazionali: ritrovare
il proprio spazio e il proprio tempo è toccato a tutti, come la
guerra in uno spazio comune dove tutti parlano la stessa lingua.
Il trauma collettivo è stato cumulativo. I diversi livelli -
individuale/familiare/comunità/società / - ridiventano
significativi nella fase dell’elaborazione del conflitto, tanto
più in una situazione nella quale gli assetti post-bellici
ridisegnano religioni e confini.
Una riflessione originale e provocatoria
sulle caratteristiche della fase post-traumatica è quella
proposta da Renos Papadopoulos che vi condensa la sua lunga
esperienza con profughi e
vittime della violenza politica di diversi paesi.
Il trauma non agisce unicamente come un fattore di distruzione che
crea una terra bruciata da risanare attraverso il triangolo
virtuoso vittime/carnefici/salvatore.
Ha funzionato sì come la cancellazione di qualcosa di
pre-esistente, ma un’altra sua componente può produrre
potenzialità inedite. Una visione tutta ripiegata sul trauma come
qualcosa di solamente negativo/distruttivo da superare e annullare
immobilizza nello
status quo. Uno stesso accaduto non determina lo stesso effetto,
uno stesso evento traumatico può avere una reazione negativa (PTSD),
neutrale (Resilience), positiva
Adversity-Activated Development (AAD) .
Questa articolazione costringe a interventi terapeutici più
mirati verso il singolo individuo, va in direzione di una
concezione della cura del trauma che tiene conto degli approcci
sistemici e etnopsichiatrici. E se anche Papadopoulos si riferisce
in primo luogo ad un lavoro con profughi, la sua griglia di lavoro
mi pare particolarmente produttiva in una situazione come quella
delle guerre inter-jugoslave dove acquisizioni di indipendenza e
di autonomia, dalle forti identificazioni collettive, sono state
interpolate da episodi drammatici e fasi prolungate di violenza.
Nella fase dello sviluppo post-traumatico grande ruolo assume la
modalità in cui si manifesta la memoria collettiva. Nel caso
jugoslavo vi sono letture che hanno attribuito alla mancata
elaborazione dei traumi provocati dallo scontro civile interno
alle nazionalità, avvenuto durante la seconda guerra mondiale, il
“revival etnico” di fine Novecento. Oggi in ciascuno dei neostati
la questione si ripresenta. La trasposizione del trauma, in un
paese nato da una guerra e finito con una guerra, non ha
risparmiato nessuna generazione: è un Leitmotiv della
letteratura, della filmografia e dei manuali scolastici. La
generazione nata dopo gli anni sessanta, consumista e intimista,
proprio a questa onda lunga del trauma dei padri aveva voluto
sfuggire. La storia li ha riacchiappati, la guerra li ha riportati
sul campo di battaglia, ora di nuovo si trovano ad elaborare,
seppure in modo più personale e inesorabilmente meno eroico, ( e
ci pensa soprattutto il cinema e la letteratura) vissuti legati a
vicende belliche. Il discorso ufficiale è stereotipato, ripete lo
schema che ha portato al conflitto. Le narrazioni mitiche, che
influenzano maggiormente i giovani, hanno bisogno di eroi, seppure
negativi, di nutrimenti dalle radici più profonde come quelle
religiose. La trasposizione transgenerazionale è una narrazione
dalle stratificazioni pubbliche e private, la cui amplificazione e
diffusione dipendono dall’azione dei media (tema importante che
qui può essere solo accennato). E il racconto orale
familiare-personale ha il potere di influenzare il vissuti anche
di quanti (bambini, ma non solo) non hanno “visto” quanto è
accaduto, però hanno sentito ripetere all’infinito i racconti
dell’orrore.
(4) E’ anche nel rapporto con le immagini che si misura la nostra
attrazione e la nostra repulsione nei confronti della guerra (cfr.
Didi-Huberman, 2005). La potenza della guerra, “nostalgia del non
umano”, si riflette nelle immagini che la trasmettono. Il cielo di
Baghdad reso spettacolare dai razzi dove l’effetto estetico
prevale sull’etico: “noi siamo solo un fenomeno estetico”,
dicevano i cittadini di Sarajevo inquadrati dall’obiettivo dei
media. Vedere è il modo attraverso cui entriamo in contatto con la
guerra, evento visuale - e nella cultura globale il modello del
potere è visuale, siamo soggetti visuali davanti al caminetto
della televisione. Della guerra non sentiamo la puzza, non
tocchiamo i cadaveri – nel suo ultimo film, Alexandra,
Sokurov cerca di usare la pellicola in modo differente, quasi a
cercare l’effetto tridimensionale, per far sentire l’odore della
guerra, la pesantezza inesorabile e insormontabile del suo
protagonista, il corpo.
La storia della guerra è anche storia delle immagini che la
trasmettono - e se si pensa ad una guerra si pensa immediatamente
al fotogramma che l’ha eternalizzata.
Dalla guerra di Crimea (i soldati in posa, le prime
foto di un campo di battaglia sistemato e ripulito a far da set) a
quella in corso in Iraq. E le “nuove guerre” esaltano l’esibizione
della morte e della violenza attraverso il corpo: il corpo
fotografato, fonte e documento, il corpo del nemico ucciso (Saddam).
La violazione del corpo, per umiliare e terrorizzare chi resta,
abbinata alla produzione di immagini pornobelliche.
Il discorso della guerra penetra, impregna; per “noi” che la
guardiamo la guerra diventa una visione. Gli effetti
collaterali sono psichici, i nostri sogni di guerra parlano anche
del “dolore degli altri” – si pensi come il “silenzio collettivo
inconscio ed inconsciamente negato” delle Torri Gemelle è
risuonato nella
stanza d’analisi (cfr. Sassone).
Per chi si trova in guerra, l’immaginario si espande. In
situazioni difficili da tollerare l’immaginario può compensare
l’insostenibile della realtà, diventare una forma di protezione.
Ma un trauma può essere prodotto dalla sola immagine che trasmette
la guerra? Nel caso della guerra in ex Jugoslavia, le immagini
trasmesse ossessivamente e per molti anni dalla televisione hanno
avuto senz’altro un forte impatto – anche se sono pochi gli studi
sugli effetti prolungati della radiazione televisiva.
E il trauma si esprime, anche, attraverso una sofferenza
dell’immagine. Eccesso di immagini, assenza di immagine,
difficoltà di creare un’immagine onirica, distacco dell’immagine
dalla capacità di mentalizzazione, come se la retina fosse stata
impressionata ma non riuscisse a trasmettere ciò che ha visto alla
psiche. L’immagine diventa persecutoria, non riesce a tenere
insieme corpo e mente, il trauma condanna ad una fissità di
immagini, ad una scissione tra quanto è avvenuto al corpo, al suo
sentire, e la possibilità di un’immagine mentale corrispondente.
Al “troppo” si sopravvive smembrando e disconnettendo,
dimenticando quello che la mano destra ha fatto alla sinistra. E’
la dissociazione psichica (e su questo concordano studiosi di
formazione diversa) che “contiene” la sofferenza del trauma, il
recupero della fluidità di immagini coincide con la “guarigione” -
l’essere ridiventati padroni della propria qualità umana di
immaginazione.
Da un atteggiamento passivo davanti alle immagini, da una loro
inflazione, alla creazione di immagini proprie: l’immagine può
curare la guerra? Le visioni esterne ed interiori ci chiedono
ascolto, possiamo diventare noi cacciatori di immagini a cui
mettere il fermo: “quadri” che nutrano, trasformino, trascendano.
Che possono indurci in contemplazione. Un’immagine che ci rapisce
offre un rifugio, possiamo chiederle sostegno, una base sulla
quale potersi appoggiare. Ci consente di passare dalla visione
all’emozione, dall’emozione alla narrazione. Da ricettori passivi
a produttori attivi. Ma per imprimere a questi fotogrammi psichici
un senso di vita, riconnetterli in una narrazione capace di
rinsaldare le cesure e i legami, l’uno ha bisogno di avere di
fronte un altro.
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