ROMA. È possibile o impossibile dimenticare?
All´origine di biografie disastrate, ma anche di grandi tragedie
collettive, ci sono i traumi di un passato che non passa. Non solo
ferite individuali, romanzi familiari tinti di nero, ma fratture
irreversibili con i genocidi del Novecento di cui la Shoah è stato il
paradigma più osceno. Siamo comunque eredi, spesso servitori, non
sempre allegri beneficiari della vita di chi ci ha preceduto.
È il tema centrale di questa intervista con il francese René Kaës,
mente brillante della psicoanalisi contemporanea. Ha settantadue anni,
è professore emerito presso l´università Lumière di Lione, ha scritto
numerosi saggi tradotti in italiano - quasi tutti - da Borla (il più
recente è Un singolare plurale, legato al suo lavoro clinico con i
gruppi, «lo spazio in cui l´Io può avvenire»).
In questi giorni René Kaës è il protagonista di un convegno su "Generi
e Generazioni" - voluto principalmente da Patrizia Cupelloni,
l´attuale segretario scientifico del Centro psicoanalitico di Roma. La
sua dotta relazione su "la trasmissione delle alleanze inconsce" è
senz´altro destinata agli studiosi, ma qui l´analista francese tenta
di comunicare il suo pensiero a un pubblico colto, forse semplicemente
curioso, senz´altro più ampio.
«Ciò che permane non è il ricordo, ma le tracce», scrive Pontalis.
Sono queste tracce, che diventano sintomi, angoscia senza nome?
«L´inconscio non dimentica nulla, conserva tutto quello che ha
percepito, provato, può compensare i punti ciechi e le sordità, o
anche creare delle rappresentazioni di ciò che ad esempio non è stato
attraverso allucinazioni o gesti, "passaggi all´atto". Il ricordo può
in effetti svanire, ma non la traccia che resta senza figura né senso
quando prevalgono la negazione e il rigetto. Sono queste tracce senza
memoria che diventano sintomi, terrori senza nome, pensieri bianchi».
Cosa sono i pensieri bianchi, professore?
«Alludono alla psicosi quando si esprime appunto nell´incapacità di
pensare, generando una forma di vuoto. Ma quello che è traccia senza
senso per un soggetto può attivare tracce in un altro, accade spesso
attraverso il sogno. È quanto osservo nelle terapie di gruppo o anche
nelle terapie familiari fondate su un dispositivo psicoanalitico, e
che le giustifica ampiamente come una modalità di accesso
all´inconscio».
All´inizio degli anni Novanta, lei, la Faimberg e un altro paio di
analisti firmavate un libro ormai considerato un classico: s´intitola
Trasmissione della vita psichica tra generazioni. Un tema che implica
un interrogativo di fondo: è davvero impossibile dimenticare?
«Intanto non è solo la vita psichica che viene trasmessa, vale a dire
quanto sostiene e assicura una continuità positiva dell´esistenza
umana come il mantenimento dei legami intersoggettivi. Spesso si
tratta di formazioni mortifere. È anche la morte psichica che si
trasmette, una condizione che impedisce di "simbolizzare" gli stati
interni e i rapporti con gli altri. Nelle mie ricerche, sono stato
particolarmente attento alla "trasmissione del negativo", a tutto quel
che non si contiene, non si trattiene, non si ricorda: gli oggetti
perduti di cui non si è elaborato il lutto, il senso di colpa o della
vergogna, i traumi rimasti tali e quali... Comunque, sì, ci sono delle
situazioni in cui è impossibile dimenticare».
In che senso allora si considera l´oblio la forza viva della memoria?
«L´oblio non è solo la forza viva della memoria, ne è la condizione.
Vede, ogni lutto che segue a un trauma è un lavoro doloroso, ma nel
segno della creazione: in genere bisogna identificarsi con le parti
"buone" e riconoscere quelle "cattive" dell´altro. Si tratta di una
faticosa ricostruzione assolutamente necessaria per rigenerarsi, per
non rimanere appunto inchiodati al lutto... Questo però non toglie che
esiste la dimensione dell´indimenticabile».
Una dimensione che si traduce in un uso ossessivo della memoria?
«Non si dimentica ciò che rimane incollato al trauma, inelaborato, che
esige quindi la ripetizione, e senz´altro un uso ossessivo della
memoria. Una scena ci assedia, ci invade, occupa il nostro spazio
psichico. E´ lì stampata nella mente, e nulla mai si trasforma. Così
si conserva la presenza costante dell´avvenimento traumatico, con
tutto il suo terrore devastante ma forse anche con una forma di
parossistico godimento».
"Transgenerazionale": è un termine difficile, seppure ormai di uso
comune nel linguaggio psicoanalitico. Allude a un processo di natura
inconscia attraverso cui entriamo in contatto con un´esperienza non
vissuta in prima persona, estranea alla coscienza. È così che lei lo
intende?
«Sottoscrivo pienamente questa definizione di transgenerazionale, del
tutto distinta dalla nozione di intergenerazionale che rimanda invece
alle relazioni dirette tra due generazioni o all´interno di una stessa
generazione... Qui si parla di ciò che ereditiamo a nostra insaputa:
episodi reali e spesso traumatici, che sono stati oggetto di negazione
o di rigetto da parte di chi li ha vissuti, si depositano nella psiche
dei discendenti creando quelle che Nicolas Abraham e Maria Torok hanno
chiamato "cripte", luoghi che accolgono fantasmi, oggetti grezzi,
enigmatici, bizzarri, inassimilabili, impensabili, indicibili... Sono
questi i processi più arcaici che formano lo zoccolo originario
dell´inconscio».
In stanza d´analisi o nei gruppi, come si affronta una materia così
oscura, misteriosa?
«Dal punto di vista clinico, il problema è comprendere come il
soggetto s´impadronisca di quanto gli viene trasmesso in questo modo,
di quel che eredita senza poterne diventare realmente l´erede, perché
non ha potuto iscriverlo nella propria storia. Cito spesso una frase
di Goethe che piaceva molto anche a Freud: "Quello che hai ereditato
dai tuoi padri, allo scopo di possederlo, devi guadagnartelo".
Appropriarsi dell´eredità è possibile solo quando s´intraprende un
processo profondo di soggettivazione, sciogliendo quelle che definisco
"alleanze inconsce". È un uso vivo della memoria che dice: ricorda,
recupera il tuo passato, fai di te una persona tra le altre, ma che
rimane singolare e distinta. Strada facendo, potrai separare ciò che è
tuo da ciò che non lo è. Tuttavia, dovrai ammettere che questa memoria
ritrovata è una costruzione e ti parla dell´avvenire: è anche una
memoria del futuro».
In che rapporto sta la memoria individuale con quella collettiva?
«È una questione davvero complessa: storici, antropologi,
psicoanalisti l´affrontano da diverse angolazioni. Assolutamente
centrale è il valore della testimonianza: la messa in forma di
racconto d´immani tragedie epocali, come nel caso della Shoah o delle
dittature genocide. La memoria collettiva, come quella individuale, è
selettiva: si forma sulla base delle rimozioni dei membri di un gruppo
proteggendo i loro interessi. Ciò che definiamo revisionismo è la
faccia emersa di questi patti di negazione collettiva che mutilano la
memoria. Anche se quello che viene cancellato, "torna nel reale",
secondo la concezione di Lacan».
«I morti non sono degli assenti, sono degli invisibili»: Anne
Schutzenberger ricorre a una citazione di Sant´Agostino ne La sindrome
degli antenati (Di Renzo), un libro che lei conoscerà senz´altro... Ma
è un´immagine convincente?
«Francamente la trovo molto ambigua, fuorviante. I morti non sono
degli spettri che non possiamo percepire con i sensi, vanno accettati
- integrati - come assenti perché sono "passati", e non possono
tornare. Sono però anche molto presenti dentro di noi e tra di noi,
sul piano della memoria, dell´eredità, delle identificazioni...».
Ricordare per dimenticare è un´immagine che la convincerà di più. È
anche il titolo di un librino bellissimo a firma Janine e Vahram
Altounian (anticipato su queste pagine il 3 novembre scorso): il
diario di un padre sfuggito al genocidio armeno, la dolorosa
testimonianza di sua figlia, un´intellettuale molto in vista - è lei
che ha supervisionato la traduzione delle opere complete di Freud in
Francia. Ma è vero che è stata sua paziente?
«Sì... Janine Altounian è una persona che mi è davvero carissima».
|