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Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività

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"Mnemosyne": psicoanalisti e memoria dei traumi collettivi

 "Terrore di Stato e Psicoanalisi"

 

di Janine Puget

 

  NOTA EDITORIALE

Questa pagina, per motivi di spazio, non può che contenere la traduzione di un  estratto dell'articolo di Janine Puget "The State of Threat and Psychoanalysis", pubblicato nel sito web di "Free Associations" (a cui si rimanda per la versione in inglese). A sua volta questo testo in inglese costituisce la traduzione del primo capitolo del libro "Violence d'Etat et Psychanalyse" (Paris, Bordas, 1989). La traduzione dall'inglese all'italiano è di Giuseppe Leo.

 

Janine Puget è una psicoanalista che lavora con individui, coppie e gruppi. E' "Full Member" della Associazione Psicoanalitica di Buenos Aires e dell'Associazione Argentina della Psicoterapia di Gruppo. Ha pubblicato, tra i tanti libri, "El grupo y sus configuraciones" nonché numerosi articoli riguardanti l'influenza del contesto sociale sul setting psicoanalitico, sul narcisismo e sulla psicoanalisi di coppia.   go to the english version (click here)  

 

                                            Introduzione

Ci sono esperienze che non si possono evitare. Possono essere considerate universali, sebbene abbiano un particolare significato per ogni individuo. Ma ce ne sono altre che tendiamo a non  pensare oppure che, se siamo costretti a viverle, cerchiamo di ignorare, ricorrendo al diniego ed a vari meccanismi di difesa.

  Foto: Bruno Bettelheim


Ricordiamo cosa accadde quando Bettelheim arrivò negli Stati Uniti cercò di raccontare la sua recente esperienza del campo di concentramento: nessuno gli voleva credere, e ci furono tentativi persino di usare la psichiatria per diagnosticare a lui dei problemi psicopatologici, in modo tale che una realtà intollerabile potesse essere denegata con più possibilità di successo.

Qui non entreremo nei dettagli delle motivazioni politiche che possono aver sostenuto l'adozione di una tale posizione da parte della gente a cui egli parlò. In tutti i modi, queste motivazioni psichiche e politiche si devono trovare in tutte quelle situazioni di violenza sociale e scatenano meccanismi mentali quali il diniego e l'alienazione.

Nondimeno, coloro che dicono che non hanno fatto esperienza di una tale estrema sofferenza  potrebbero trovare dei modi per incontrare simili fenomeni nei loro rispettivi contesti socio-culturali.  Tali fenomeni esistono in forme più o meno visibili in tutte le società, sebbene si debba fare un considerevole sforzo per riconoscere gli effetti inconsci che essi producono e per sentirsi influenzati da essi. Comunque, sembra spesso alle persone che hanno vissuto tali sofferenze che esse possano essere comprese solo da altre persone che   le hanno sperimentate. Perciò incontriamo qui una doppia difficoltà.

La violenza sociale e la sua rappresentazione mentale saranno il punto di partenza per il nostro pensiero in questo lavoro, in particolare in relazione al terrorismo di Stato in un paese dell'America Latina. Sebbene ci concentriamo sulla nostra esperienza, è facile vedere che la violenza sociale che esiste in tutto il mondo ha punti in comune con quella dell'Argentina.

Quando cerca di comprendere le vicissitudini psicologiche sperimentate durante una catastrofe sociale, la prima risposta della gente è quella di confinare il problema ad una distante regione geografica o mentale, che può o meno riguardare l'analisi finale. Il meccanismo che consiste nel cercare di sbarazzarsi di qualcosa di scomodo è inerente all'apparato mentale.  L'espulsione, la proiezione e l'auto-mutilazione sono meccanismi riconosciuti da differenti teorie psicoanalitiche come strumenti fondamentali utilizzati per consentire al soggetto di tollerare ciò che altrimenti apparirebbe un'esperienza intollerabile.

La violenza perpetrata dallo Stato è il paradigma della violenza sociale, dato che coloro che si suppone debbano proteggere e assicurare la legalità in realtà adoperano il potere in maniera mortifera e criminale. Lo Stato ha anche dei mezzi più sottili di imporre violentemente il suo potere letale; questi dipendono dalle politiche economiche e dagli interessi internazionali. Nel nostro caso lo Stato ha usato tutti questi metodi. Possiamo parlare di violenza sociale correlata con il terrorismo di Stato dato che uno scopo della dittatura era quello di sbaragliare qualsiasi gruppo di pensiero che potesse opporsi al regime. Questo è il motivo per cui i 'leaders' politici sono stati i primi ad essere stati colpiti, sia che si trattasse di potenziali sia che fossero 'leaders' effettivi. Inoltre, la dittatura ha attivamente operato nel prevenire ogni risposta politica favorendo una politica economica concepita al fine di causare l'impoverimento di una parte più ampia di popolazione. E' ben noto che le persone che soffrono la fame non hanno la capacità di concepire o di organizzare un movimento di opposizione. Sarà perciò necessario identificare certe variabili universali in ogni situazione.

Il compito paradossale che abbiamo intrapreso nel presente lavoro è quello di trasmettere qualcosa la cui trasmissione è difficile e talora impossibile. Proveremo a trovare l'inizio di una soluzione a questo paradosso. Per varie ragioni, la teoria psicoanalitica non riconosce prontamente l'influenza del contesto sociale sull'apparato mentale e sulla situazione terapeutica, e non cerca di svelare la sua rappresentazione mentale. Numerosi psicoanalisti in Argentina si sono dedicati a sviluppare concetti teorici concernenti gli effetti psicologici della repressione politica durante la dittatura e continuano a farlo (Kordon & Edelman, 1983, 1986; e molti altri). Essi non hanno dovuto attendere quaranta anni come è stato nel caso del fenomeno nazista. Può essere che da quell'esperienza noi abbiamo tratto degli insegnamenti e le dobbiamo qualcosa. 

DIFFICOLTA' TEORICHE

Il nostro passato teorico

Certi percorsi intrapresi dalla teoria psicoanalitica sembrano suggerire che è possibile lavorare con una cornice terapeutica che non prenda in considerazione il contesto sociale, o anche che, come psicoanalisti, non abbiamo gli strumenti per avvicinare un tale argomento.

E' possibile continuare a mantenere una tale posizione senza condurre i nostri pazienti verso la rimozione o persino il diniego? La psicoanalisi nacque sotto l'egida di un'ideologia borghese dominata dall'ipotesi che la realtà psichica si costruisse tra la madre, il padre e il bambino. Era basata su una teoria delle pulsioni, oltre la quale il contesto sociale sembrava secondario. Possiamo veramente credere che la realtà sociale esterna, il non-io, non abbia alcuna rappresentazione nella realtà psichica? Per rispondere a questa domanda dovremo osservare in che modo il corpo sociale ed i suoi segnali si manifestano. La realtà sociale avrà uno status che ci renderà capaci di riconoscerla.

Nella sua risposta a Romain Rolland, sul tema del sentimento oceanico da lui descritto come 'un sentimento di un legame indissolubile, di essere un'unica cosa col mondo esterno come un tutt'uno', Freud dice di essere tentato di dire che questo sentimento è qualcosa di più di una visione intellettuale, accompagnata naturalmente da un carico emotivo, ma che è anche presente in altri atti cognitivi:

<<L'idea di ricevere da parte degli uomini un indizio della loro connessione con il mondo circostante attraverso un sentimento immediato che dall'inizio è diretto a tal fine, sembra così strana e si combina così male con la struttura della nostra psicologia che si è giustificati nel cercare di scoprire una spiegazione psicoanalitica - ossia genetica - di un tale sentimento >> (Freud, 1929, p. 65).

Poco dopo, Freud riconosce che 'il nostro presente sentimento dell'io è, perciò, solo un residuo limitato di un sentimento molto più ampio - davvero, onnicomprensivo - che corrispondeva ad un legame più intimo tra l'io ed il mondo intorno ad esso' (p. 68). In questo testo Freud sottolinea la possibilità di stabilire una relazione primaria tra l'io ed il mondo esterno collegata ad una rappresentazione psichica primitiva. Questo procedimento concettuale lo porta ad identificare questa relazione di indissolubile comunione e a descriverla in certi casi patologici e nello stato dell'innamoramento. Con Berenstein (1984), abbiamo attribuito la ricerca di un sentimento oceanico e di fusione, come viene  ricreato nello stato di innamoramento, alla relazione primitiva con un singolo ed esclusivo oggetto.

 Nei suoi scritti 'sociali', Freud molto sottilmente identificava le caratteristiche dei fenomeni sociali, il comportamento delle masse e le loro relazioni con il 'leader'. Comunque egli rapidamente riferì questo insieme di problemi al complesso edipico, alla castrazione ed al parricidio.

Il problema della rappresentazione mentale del sociale è difficile. Il nostro primo passo è allora quello di separare quelle teorie che sostengono la visione che il contesto sociale sia irrilevante per lo psicoanalista da quelle che invece difendono la posizione opposta. Nel primo caso, dobbiamo operare un'ulteriore suddivisione tra momenti di grande sconvolgimento sociale e la situazione che qui stiamo descrivendo, la dittatura argentina;  la esclusione del contesto sociale deriva non solo da una posizione scientifica, ma anche dal bisogno di trovare rifugio in una celletta asettica. Questo è il modo in cui il mondo storico-genetico monopolizza la vita mentale dei pazienti e degli analisti e molto chiaramente contribuisce ad un meccanismo che diviene un bastione difensivo.

Un'altra difficoltà di percezione: i mondi sovrapposti

Una difficoltà nel concettualizzare lo stato della catastrofe sociale ed il suo effetto sulla situazione psicoanalitica nasce dal fatto che sia i pazienti che gli analisti sono immersi nello stesso contesto sociale; essi sono esposti alle stesse paure ed alle stesse difficoltà nel percepire gli eventi. Quando gli analisti ed i pazienti stanno simultaneamente sperimentando le stesse ansietà o preoccupazioni derivanti dal contesto della loro vita quotidiana, parliamo di mondi sovrapposti (Puget & Wender, 1982). In tali casi gli analisti probabilmente non hanno la distanza psichica ed il tempo necessari per rendersi capaci di riconoscere quello che è simile e quello che è differente, e di stabilire la relazione analitica. Quando certi eventi traumatici provenienti dallo stesso mondo condiviso appaiono nel materiale analitico, danno luogo a distorsioni e a trasformazioni nell'ascolto dell'analista e nel suo procedere analitico; essi incoraggiano negli analisti una particolare tendenza a partecipare, a 'condividere'. Questa involontaria ed inevitabile 'condivisione', che stimola o inibisce una curiosità ambivalente, può diventare segreta, sostitutiva e vergognosa. In alcune condizioni è molto difficile per noi stabilire un chiaro confine tra il campo dell'analisi e quello che possiamo chiamare il 'campo della vita quotidiana', o 'campo della realtà socio-culturale'. La situazione terapeutica è inondata sia da un'abbondanza di informazione o di notizie sia dalla flagrante omissione di fatti correlati a ciò che è di pubblico dominio. Il mondo della vita quotidiana, che ha un carico altamente traumatico, viola la situazione analitica.

Queste condizioni minacciano i meccanismi sublimatori dell'analista su cui si basa , in linea generale, la possibilità ed il desiderio di condividere, riconoscere e decodificare i segreti dell'inconscio. Ma è precisamente questo aspetto traumatico del materiale e l'interesse che esso suscita a contribuire ad una perdita del mistero che è necessario per destare il desiderio dell'analista di decifrarlo. Quest'ultimo finisce per prendere  ciò che ascolta in senso letterale. Non è più un simbolo [ciò che viene preso dall'analista, n.d.trad.]. In tali casi gli analisti inconsciamente si appropriano di fenomeni aneddotici, non riescono a riconoscere la loro provenienza inconscia e perdono ogni interesse per il punto di vista psicoanalitico. Essi  vanno solo in cerca di altri interlocutori illusori, o essi stessi o altri individui appartenenti al mondo della loro vita quotidiana. L'omissione di materiale, che è un possibile effetto del diniego del paziente, porta gli analisti a stabilire un patto di complicità ed a 'dimenticare' il mondo esterno. Questa situazione porta a mettere in luce due fondamentali disturbi che verranno più tardi in superficie nel processo analitico:

1) un effetto traumatico. Questo si verifica quando qualcosa improvvisamente ed inaspettatamente interrompe il funzionamento dell'analisi. Sebbene il mondo sovrapposto dia un'illusione di contatto, in realtà esso allontana l'analista dalla possibilità di 'svelare' l'inconscio. La relazione analitica non fornirà agli analisti lo spazio ed il tempo necessari per perlaborare ('work through') un evento che è personale per loro e che non riescono a risolvere con se stessi. Sono presi in una trappola. Per ovvi motivi semantici e comunicativi, gli analisti non possono parlare coi loro pazienti senza usare il linguaggio o le parole che appartengono a questi ultimi. Ma queste sono precisamente le parole  che appartengono alla vita privata dell'analista, che hanno prodotto e che continuano ancora a produrre un effetto traumatico in lui o in lei (l'analista) e che allora sono sovrapposte alla vita privata del paziente. L'analista a quel punto soffre per ciò che abbiamo chiamato una micro-situazione traumatica, con tutti i sintomi di disagio, di ansietà, di destrutturazione  psicotica e di riattivazione di certe angosce paranoidi o confusionali che la accompagnano. In tali condizioni l'analista può entrare in uno stato governato dall'ordine sensoriale, con la soppressione della capacità di pensare e di portare a termine la funzione analitica. Questo stato inconscio gradualmente invade la cornice analitica e le interpretazioni; esso influenza la scelta del materiale. Un'area sorda e cieca viene perciò creata laddove ha luogo l'"acting out" dell'analista.

2) Un disturbo narcisistico. Il narcisismo 'analitico' derivante dalla sublimazione viene sostituito dal narcisismo ordinario della vita quotidiana. Gli analisti sentono il desiderio di essere nominati, amati o soddisfatti in un modo immediato e diretto, di aumentare il loro prestigio e la loro conoscenza, sia su se stessi sia sul mondo circostante.

L'analista allora diventa un oggetto di sofferenza, mentre il paziente un oggetto protettivo. Il primo cerca di soddisfare i requisiti ideali sostenuti dalle sue richieste primitive. Questo processo affronta varie complesse vicissitudini. Comunque, possiamo dire che esso riattiva un funzionamento primitivo, governato dall'io ideale e dall'ideale dell'io, che sono proiettati nel macro-contesto socio-culturale e sul suo rappresentante, l'istituzione analitica. L'analista identifica con dei 'come se' ciò che a lui viene presentato e trasforma essi in un'ingiunzione. Sappiamo anche che le identificazioni originate dall'ideale dell'io possono produrre delle identificazioni di tipo eroico, mortifero o di tipo delinquenziale. Questo processo ha dirette conseguenze per l'autostima dell'analista che è sempre più sofferente. Se domina la megalomania, l'analista occuperà il posto del bambino onnisciente nel delirio del suo paziente ('Conosce tutto, condivide tutto'); oppure, se è dominante il funzionamento depressivo, la risposta sarà 'non conosce nulla ed è inconsapevole di tutto'.

E' possibile che qualche eccesso nell'interpretazione del transfert sia dovuto a questo funzionamento. E' anche molto probabile che la teoria dei disturbi narcisistici dovuti a mondi sovrapposti possa renderci meglio capaci di capire certe difficoltà da cui in genere  sono affette le istituzioni psicoanalitiche , ma che acquisiscono specifiche caratteristiche durante periodi di violenza di Stato. Per vari motivi, la struttura del macr-contesto sociale viene simmetricamente  riprodotta nelle istituzioni.

Un'altra difficoltà

E' indispensabile per lo sviluppo dell'apparato mentale che esso sia capace di riconoscere gli stimoli, di ricevere segnali esatti e di comprendere il loro significato. Freud identificò la capacità di distinguere il sé dal non-sé, il mondo interno da quello esterno, il piacere dal dispiacere e il passivo dall'attivo come principi essenziali nella formazione dell'apparato mentale. Perciò fa parte della funzione genitoriale, uno dei legami concatenati responsabili della trasmissione dei significanti del contesto sociale, il fornire al bambino significati sempre più complessi e differenziati fino a che l'io maturo acquisisca la capacità di far ciò da se stesso. Il riconoscimento della realtà esterna è direttamente correlato con la conoscenza e con le teorie che l'apparato mentale può formulare da sé, stabilendo connessioni, formulando giudizi, scoprendo relazioni causali ed usando il linguaggio. In questo modo gli individui incrementano la loro capacità di simbolizzare. Le teorie iniziali, legate alle funzioni primitive ed alle teorie sessuali infantili, vengono rifiutate non appena lo permetta la maturazione dell'apparato mentale. Ogni argomento si addice all'epistemologo che lavora nell'elaborazione di nuove teorie per render conto dei fatti che possono o corroborarle oppure confutarle.

Possiamo ipotizzare che il bebé riceva significanti culturali direttamente, senza l'intervento di immagini genitoriali. Il macro-contesto sociale mantiene un'informazione variegata che viene gradualmente decodificata dal bebé (Puget, 1987).

Quando l'informazione che viene ricevuta è chiara, o almeno accessibile, e la distorsione è dovuta solo a fattori politici, la conoscenza, la scoperta e la comprensione soffriranno unicamente di difficoltà inerenti al processo stesso. Comunque, genitori ambigui, confusi, che danno falsi messaggi, alterano il funzionamento mentale del bambino. Allo stesso modo, l'informazione sociale, qualora sia sistematicamente falsa o mistificata, dà luogo a vari disturbi nell'io adulto, dipendenti direttamente dalla qualità dell'informazione, dal messaggio minaccioso che viene trasmesso nonché, sembrerebbe, dalla sua risonanza con un funzionamento mentale primitivo. Penso che l'integrazione sociale sia imposta, che includa gli individui in una storia che precede e fa seguito a loro, che abbia una qualità inconscia e che trasformi i soggetti in trasmettitori ed agenti in un'organizzazione sociale in cui essi sono soggetti attivi ed oggetti passivi. Ogni individuo porta con sé un codice che è correlato alla propria partecipazione alla struttura sociale.

La realtà sociale è ciò che ci parla di tutte le persone che esistono in un certo contesto. Non è la stessa cosa della famiglia, che è una delle sue manifestazioni,  e che io considero come un qualcosa di culturale. Io vedo ciò che è culturale e ciò che è sociale come due cose differenti. Il campo sociale è un insieme unito da un singolo linguaggio, da una tradizione, da regole concernenti la distribuzione del lavoro e le classe sociali, da una storia politica ed istituzionale e da un'organizzazione della giustizia. La cultura concerne le leggi di consanguineità e le questioni delle origini.

La percezione della presenza di un altro soggetto ed i primi oggetti genitoriali originano dal fatto che il bambino è indifeso; la sua costituzione come soggetto all'interno di una famiglia dipende dalla configurazione edipica. La percezione dello spazio sociale dipende da altri fattori che la teoria psicoanalitica non ha finora sufficientemente capito, ma che sono probabilmente correlati con le questioni primarie del possesso e del potere. Credo che la teoria di René Kaës (1984) della anaclisi multipla possa aprire modalità di scoperta della specificità della rappresentazione sociale.

Il bambino piccolo è il soggetto della struttura sociale in cui è integrato prima di essere il soggetto delle relazioni coi genitori. Per fare un'ipotesi di questo tipo dobbiamo prima  farne altre, cosa sia la struttura sociale, cosa crei la specie, che è la matrice che fa nascere il soggetto nella sua struttura familiare. (Non sto proponendo qui una visione dello sviluppo, ma considerando differenti livelli logici.) L'integrazione sociale non deriva dalla struttura della famiglia. La struttura della famiglia, che è contrassegnata dal complesso di Edipo, e la struttura sociale, che lo è dal complesso sociale, sono ognuna governate da loro proprie specifiche leggi. Nel primo caso considero la castrazione come il fattore organizzatore, mentre nel secondo le regole e le istituzioni. Nella prima sono proibiti l'incesto ed il parricidio, nella seconda l'anomia e l'omicidio di chiunque.

Penso che dovremmo risolvere certe questioni concernenti il comportamento e la sua inclusione entro la cornice di una teoria psicoanalitica. Dovremmo anche riconoscere che l'"azione sociale" nelle differenti istituzioni, in cui il soggetto ha una collocazione, produca certi fenomeni delle cui radici inconsce siamo ancora inconsapevoli. Qual è la specificità delle relazioni sociali inconsce? Ci imbarcheremo in un nuovo programma di ricerca se considereremo la socializzazione come il risultato di un processo che è indipendente dalle prime relazioni oggettuali genitoriali? Stabilire che la realtà sociale venga mediata dal super-io dei genitori equivale a formulare una ipotesi differente rispetto a quella che afferma che il bambino piccolo acceda alla realtà direttamente. Queste due ipotesi non sono compatibili all'interno del nucleo duro della teoria di un singolo programma di ricerca (Lakatos, 1970).

Per lavorare con la seconda ipotesi dovremo accettare che il soggetto sia una parte di un insieme di cui egli ha una rappresentazione mentale, e che questo insieme contenga dei sottosistemi ciascuno dei quali abbia specifici aspetti organizzativi. Come conseguenza suggeriremmo che i soggetti sono immersi in un mondo di stimoli che possono direttamente percepire senza la mediazione di oggetti genitoriali, e che questi ultimi formino solo un elemento del macro-cosmo socio-culturale. La concentrazione sugli oggetti genitoriali si determina attraverso la prima perdita, quella dell'appartenenza ad un insieme. Ciò può essere la base della primitiva relazione e dell'origine del sentimento oceanico.

Queste ipotesi mi portano ad ascoltare con molta attenzione ciò che mi sembra essere una rinascita del senso di appartenenza sociale dei pazienti e ad interpretare le risonanze inconsce tra il macro-contesto individuale e quello sociale nella loro specificità.

Il discorso delle figure genitoriali e il discorso sociale suggeriscono differenti dialoghi all'io. Saremo particolarmente interessati al discorso sociale. L'identità dell''individuo' dipende da questo, e l'identità del 'soggetto' dipende dal discorso edipico. Quest'ultimo si basa sulla castrazione, il primo sulle regole che proteggono dall'anomia (Puget, 1987).

 

 

 

 

 

VIOLENZA SOCIALE

La violenza e la violenza sociale sono due concetti strettamente prossimi anche se appartengono a differenti contesti. Cercheremo di stabilire una comune base metapsicologica per loro. Tenteremo anche di capire gli effetti della violenza sociale perpetrata da una struttura di  potere dittatoriale ed in particolare dal terrorismo di stato. Il significante di questa violenza era il terrore. Il suo diniego quindi ha creato uno 'stato di terrorismo' con il suo equivalente nell'apparato mentale.

I problemi inerenti alla relazione dell'individuo con la società risiedono nelle relazioni stabilite da patti ed accordi inconsci che, seppure silenti in certe epoche della vita, restano attivi. Son questi che fissano l'identità trascendente del soggetto culturale umano (l'individuo). Essi possono facilmente dar luogo a patti ripetitivi e perversi.  Se studiamo la letteratura psicoanalitica sul tema della violenza, troviamo formulazioni che cercano di capire la violenza come una manifestazione dell'aggressività, dell'istinto di morte o di una differente pulsione, vestita da Eros o da Thanatos (Bergeret, 1986). Altre visioni concettuali la collegano al narcisismo (Green, 1983; Decobert, 1984) o ad un meccanismo inerente allo stato di essere indifeso del bambino ed al suo bisogno di ricevere significati da un io genitoriale protesico (Aulagnier, 1975-85). Altri ancora sono convinti che la violenza origini nella contraddizione psichica (Diatkine, 1984) o nei paradossi (Anzieu, 1975; Decobert, 1984).

Sembra che tutti considerino che un certo grado di violenza sia necessario ed inerente alla condizione umana. Cercheremo quindi di identificare e concettualizzare i suoi eccessi, la sua orchestrazione e le sue conseguenze per l'apparato mentale.

Qualsiasi sia la teoria, a livello descrittivo la violenza sociale è assimilata ad una manifestazione discontinua, che tende a stabilire o a rinforzare un legame tra un protettore ed una persona indifesa, annullando o piuttosto annichilendo chiunque sia o diventi il più debole. Di conseguenza lo spazio delle relazioni e della socializzazione viene ridotto al punto più piccolo; qualcosa di strano e di estraneo si sta imponendo sull'io, il soggetto che desidera viene annullato, ignorato, e la relazione diventa quella tra padrone e schiavo. Gli assi della appartenenza sociale vengono sconnessi. Non c'è più alcun dilemma o questione dato che ciò che è in pericolo è la stessa vita. La capacità di pensiero viene confinata a quelle aree che affermano l'esistenza.

Chiunque in ogni tempo può diventare un significante che deve essere eliminato. Lo scopo del terrorismo di stato è di annichilare ognuno, e qualcuno in particolare poiché potrebbe diventare un segno che potrebbe essere inscritto nella sfera immaginaria della società con la connotazione del panico. La popolazione annichilata è parte di una 'classe naturale' che, come quella degli schiavi nella visione di Aristotele, non è umana, e quindi non ha diritti. I risultati della violenza sociale sono la morte e l'alienazione.

 

Quando il paradosso, fonte di violenza, deriva da un contesto sociale di dittatura che l'analista e l'analizzando condividono, il dialogo analitico è disturbato. Non è più possibile lavorare 'senza desiderio o memoria', così la relazione diventa più limitata. Sembra con tutta probabilità che le interpretazioni basate sul principio di continuità genetica diventino una sorta di bastione di difesa.

 

 

CATASTROFE SOCIALE

 

Gli anni della dittatura sono stati definiti una 'catastrofe sociale'. Usiamo questo concetto per definire uno stato la cui rappresentazione mentale è la disarticolazione di qualche parametro condizionante il 'contratto narcisistico' (Aulagnier, 1975) stabilito tra l'individuo e la società, che ha luogo in un contesto di violenza sociale.

   Foto: Piera Aulagnier

 

Improvvisamente o gradualmente le regole che governano l'interdipendenza dei membri del gruppo in relazione alla vita ed alla morte, al crimine ed alla punizione non sono più riconosciute. Il senso di colpa perde il suo ordine causale storico-genetico e viene trasformato in colpa sociale. Il contesto sociale diviene incoerente.

Incomprensibile ed inafferabile

Il discorso autoritario proveniente dalle istituzioni di potere adotta una logica causale basata su false ipotesi, supportata da valori etici perversi che promuovono azioni corrotte. Di conseguenza i gruppi di appartenenza o cadono a pezzi oppure, al contrario, aumentano la loro coesione difensiva, e si perdono i gruppi di riferimento. Vorremmo avanzare le seguenti ipotesi: una larga fetta di popolazione entra in uno stato di alienazione, concetto che usiamo qui in un senso simile a quello dato da Aulagnier (1979). Aulagnier lo usa per descrivere un modo patologico di idealizzazione in relazione ai fenomeni sociali, scatenante uno stato massiccio di alienazione, con cui il soggetto si identifica usando tutta la potenza della forza alienante. I soggetti sono sostenuti in questo da un desiderio di alienazione e diventano lottatori per una 'causa', a cui attribuiscono il potere delirante di garantire la verità, la supremazia e la generosità. Da un punto di vista descrittivo, questo processo è rassicurante, fornisce certezze e vieta la 'libertà di pensiero'.

Secondo lo stesso meccanismo e per motivi soggettivi, gli altri alienano il loro pensiero in un'ideologia dominante, una setta, un gruppo o un micro-gruppo. Così abbiamo visto un rinforzarsi difensivo di qualche gruppo di appartenenza con un valore dato a quelle ideologie che evitano il conflitto con la struttura di potere. In alcuni casi la sottomissione agli organi di potere ha prodotto comportamenti irrazionali e violenti o ha portato la gente a rivolgersi al misticismo. Un'altra fetta di popolazione è stata capace di mantenere la capacità di pensare e di percepire i segnali della realtà esterna. Essi per questo hanno pagato con una sofferenza interiore. La tendenza ad adattarsi alla realtà, che risultava da una certa ambivalenza, nondimeno restava forte. Un'altra fetta di popolazione ha apertamente sostenuto la dittatura senza alcuna contraddizione e si è identificata totalmente con essa.

 

 

ALIENAZIONE

 

Dobbiamo prima porre la seguente domanda: l'alienazione è necessariamente legata ad un desiderio di alienare? Questa forza deriva dal desiderio? L'individuo che può essere annichilato riceve qualcosa di misterioso dal contesto sociale a cui non può dare significato? Per il perpetratore della violenza, l'altro è semplicemente un oggetto che deve essere neutralizzato, fatto diventare una cosa. L'impulso a dominare trae alimento in un modo violento e perverso. Le azioni del terrorismo di Stato vengono definite dalla violenza e dalla perversione. Possiamo identificare due livelli di analisi:

1) il livello narcisistico, in cui una struttura di relazioni si stabilisce sul modello dell'Oggetto Unico, con l'anaclisi della pulsione da dominare (Berenstein & Puget, 1984). Ciò che è coinvolto qui è una struttura primaria corrispondente ad uno stato primario di disagio, che richiede la presenza di un oggetto come protezione dall'eccitamento. Questa è la prima struttura di relazione oggettuale ed è ancora impregnata di narcisismo primario. Il desiderio ardente di ricreare questa relazione potrebbe stare alla radice dell'eccesso di violenza. Il desiderio di preservare la vita a qualsiasi prezzo, qualsiasi siano le condizioni, può render possibile il tollerare questo eccesso. Possiamo vedere che c'è un eccesso di violenza quando un soggetto diviene il 'protettore-difensore' di un altro e trasforma quest'ultimo in un oggetto debole ed indifeso. Ricordiamo il discorso megalomanico della dittatura, che si pose come protettrice di tutti i cittadini dell'Argentina.

Vediamo l'eccesso di violenza come ciò che annulla l'altro e lo trasforma in un riflesso trasparente (potenzialità psicotica); causa separazione e rompe le relazioni. Questa ultima forma di violenza è basata sul modello del trauma della nascita e della fine della simbiosi.

2) I patti inconsci tra il gruppo ed il soggetto che è obbligato a prendere un posto particolare all'interno di esso. Questa imposizione è il risultato della violenza necessaria, che diventa eccessiva quando il luogo imposto al soggetto non è dipendente dalla sua naturale integrazione nel gruppo, ma semplicemente viene incontro ai bisogni di autoritarismo per creare segregazione e capri espiatori. La violenza del gruppo dipende dal messaggio che viene trasmesso e dalla forza che deriva da certi tipi di funzionamento gruppale, in cui il potere delle emozioni, dei sentimenti e delle azioni viene rinforzato. Un tipo di funzionamento basato sulla fusione viene allora scatenato, rendendo difficile distinguere tra spazio individuale e spazio condiviso del gruppo. Un altro fattore che si dovrebbe considerare è l'impunità che conferisce il gruppo di appartenenza. I singoli membri hanno un anonimato che permette loro di evitare sentimenti di responsabilità per le loro azioni. Tutti questi fattori generano un eccesso di violenza e creano una struttura relazionale del tipo protetto-debole.

L'appartenenza ad un gruppo che rappresenta la totalità della collettività è una necessaria condizione di vita. C'è una scelta binaria tra l'alleanza e l'esclusione. La seconda scelta viene esperita come una 'non appartenenza' alla struttura sociale. L'esperienza dell'emigrazione forzata è direttamente legata ad una 'perdita di appartenenza'. In condizioni di violenza sociale, l'alleanza contrattata dipende da un funzionamento paranoide e porta ad un'esperienza di 'alleanza forzata'.

Il potenziale distruttivo di un gruppo non deriva dalla somma dei suoi membri. Diviene una nuova entità, in cui originano gli affetti  e le azioni incontrollabili. E' superfluo dire che quando un gruppo procede compatto nel distruggere, il suo potere aumenta in una progressione geometrica. Nella violenza sociale questi due livelli dell''Oggetto Unico' ed i patti inconsci tra l'individuo ed il gruppo sono intrecciati tra di loro.

Riassumendo, gli assi del disagio-protezione e dell'anomia-appartenenza sono entrambi rafforzati dalla violenza sociale.

 

Lo Stato di MINACCIA

 

Quando la violenza sociale si stabilisce permanentemente, nasce uno stato sociale di minaccia. Questa è una condizione mentale in cui l'io perde la capacità di riconoscere quei segnali che lo rendono abile a percepire e a classificare gerarchicamente i pericoli provenienti dal mondo esterno e a distinguere tra immaginazione e realtà, vita e morte.

Quando gli individui perdono questa capacità essi entrano in uno stato di confusione o di paralisi. Essi hanno bisogno di identificare se un attacco è reale o immaginario, ma confondono la realtà interna con quella esterna. Essi affrontano il compito impossibile di effettuare azioni al fine di proteggere se stessi da probabili attacchi, quando il nemico è senza volto. La loro esperienza del tempo è alterata: il presente dipende da un futuro in cui la logica del 'se, allora' non è più operativa.  La loro scelta di opzioni è compromessa poiché è impossibile per loro vederle in un contesto. Il nuovo codice e le regole del gioco non sono noti. Quando questo accade al livello macro-sociale, l'io sente che i punti di certezza su cui si basa la sua identità sociale sono stati minati. L'incertezza e l'associata ansietà diventano uno stato la cui forza disorganizzante attacca quei punti di riferimento che in precedenza avevano dato consistenza all'identità ed al sentimento di appartenenza. Un sentimento di dipendenza si stabilisce tra l'io indifeso ed un altro ignoto: il gruppo, la società. Tutte le relazioni sono impregnate da un'esperienza di minaccia.

Quando si stabilisce uno stato di minaccia, esso porta un aumento delle ansietà confusionali e schizo-paranoidi. La mente è in preda all'esperienza del pericolo e ad un pensiero circolare, ripetitivo che è associato con gravi pensieri di futuro penoso o di morte. Congiuntamente a questo l'azione diventa inibita o limitata.

Quando un intero gruppo condivide questo stato, esso viene amplificato, portando il gruppo a riattivare processi irrazionali ed il loro corollario consistente in inibizione del pensiero. Un paziente che era 'scomparso' per un certo tempo e che allora era stato dichiarato prigioniero, ricordava gli intervalli tra ogni seduta di tortura come periodi di tempo di intensa sofferenza mentale che egli associava con una mancanza di limiti al dolore mentale. Egli si sentiva  preso da uno stato di panico in cui qualcosa a cui non si poteva dare alcun significato, qualcosa di inimmaginabile e terrificante poteva accadere a lui senza che egli potesse conoscere né il quando né il perché. Egli sentiva questa incertezza come qualcosa di sufficiente a farlo diventare matto,  e mentre durante le sedute di tortura egli cercava di difendere se stesso dal dolore fisico e mentale, questo metteva un limite al suo panico (Puget & Wender, 1986).

Lo stato di minaccia può incoraggiare un desiderio di essere morto, al fine di riguadagnare certezza, un limite all'angoscia che tutto consuma. Questo si può paragonare al 'desiderare di non desiderare' che si mette in atto come difesa nei confronti del dolore intollerabile.

Abbiamo osservato un'angoscia di questo genere in pazienti vicini alla morte che erano pieni di un sentimento di non poter essere aiutati nella loro lotta contro la malattia in seguito ad una diagnosi di morte imminente. Essi sentivano un urgente bisogno di recuperare qualche segnale di certezza rispetto alla loro morte, in un tentativo maniacale di controllarla. In questi casi non era tanto la morte che li atterriva quanto l'incertezza. Quando essi si convinsero che la morte è un atto solitario, al meglio accompagnato da un altro potenziale, essi entrarono in uno stato di grande confusione. Un prigioniero - una persona scomparsa - ci disse che egli era capace di riguadagnare una certa serenità quando faceva in modo da dare alla sua personale sofferenza un significato universale. Non era più solo.

Comunque c'è una differenza tra queste due situazioni: colui che sta morendo può ricevere cura ed aiuto, la sua sofferenza viene riconosciuta all'interno del gruppo familiare e sociale; al contrario, la sofferenza della persona scomparsa è causata da altre persone, e l'ambiente sociale, invece di approvare la sua condotta, lo attacca. Per coloro che vivono in uno stato di minaccia politica, la sofferenza è immaginata, è mentale, e non esiste più né un oggetto-protettore né una rappresentazione mentale. Non c'è più alcun segnale chiaro e la non prevedibilità diventa un carattere della vita quotidiana, mentre scompaiono i necessari punti di certezza.  Quando l'ambiente sociale giustifica ed impone il crimine e la sofferenza sui soggetti che sono al suo interno, un particolare elemento di disagio si aggiunge alla loro sofferenza. In casi in cui questo stesso ambiente condanna alla sofferenza  utilizzando la sua funzione di protezione o di sostegno, non resta che la sofferenza e la solitudine delle situazioni estreme; l'umiliazione ed i sentimenti associati ad essa non appaiono.

Sul piano sociale, la morte di un gruppo viene rappresentata da una rottura nelle relazioni di appartenenza e dalla diminuzione del senso di appartenenza alla società.

La dittatura militare creò una situazione sociale il cui modello venne sovrapposto alla situazione che abbiamo già descritto. La struttura di potere istituì un'interrelazione tra predominio e debolezza sociale al fine di annichilare gli individui sia fisicamente sia, dato che alla loro esperienza di annichilamento non si poteva dare alcun significato, mentalmente. Gli effetti patogenici sono probabilmente più gravi quando obbligano l'individuo ad accettare ogni sorta di restrizione, e ancora di più quando vengono attaccati il pensiero e la capacità di agire. Comunque, in ogni contesto sociale abbiamo bisogno di poter distinguere quei significanti che possono mettere in pericolo l'apparato percettivo dell'io e quindi restringere le relazioni umane.

Per riassumere, e ritornando al contesto sociale argentino, possiamo dire che la dittatura agì deliberatamente per generare ignoranza; per creare false speranze; per ridurre al silenzio ogni pensiero contrario al regime; per usare il terrore ed il panico come strumenti; per trasformare l'informazione in disinformazione o in informazione perversa utilizzando messaggi paradossali il più possibile. Un certo tipo di linguaggio progressivamente scomparì dal vocabolario quotidiano.

Per uno psicoanalista il linguaggio è di primario valore nel trasmettere conoscenza, nel chiarire i malintesi e nel trasformare immagini ed affetti in comunicazione. Così possiamo dire che siamo stati attaccati mediante i nostri stessi strumenti primari, ossia le parole, la conoscenza ed il pensiero. Vorrei sottolineare la differenza tra questa ed altre catastrofi sociali in cui è possibile parlare, pensare e conoscere. Vorrei fare un'importante distinzione tra situazioni sociali che attaccano il linguaggio e la conoscenza da una parte, e dall'altra quelle che rendono possibili questi, o almeno non li impediscono.

Siamo soliti pensare in termini di forza identificatoria del discorso genitoriale, ma ne sappiamo di meno riguardo alla forza identificatoria del discorso sociale. La formazione del Sé in una relazione dialettica con l'alterità dipende fondamentalmente da questi due discorsi. Questo è il motivo per cui abbiamo bisogno di guardare ai modelli identificatori proposti dalla dittatura ed al genere di valori che essa ha trasmesso.

 

La registrazione mentale dello stato di minaccia

 

Per quanto tempo l'apparato mentale può tollerare di vivere in uno stato di minaccia senza ricorrere al diniego ed alla sottomissione masochistica, abbandonando certi valori o addirittura adottando come propri i valori del potere che tortura?

Possiamo vedere un aspetto del contesto sociale argentino durante la dittatura nella registrazione mentale di uno 'stato di minaccia', le cui caratteristiche descriveremo. Possiamo dire che lo stato di minaccia:

1) impone restrizioni all'io tanto a lungo quanto quest'ultimo non riesce a recuperare uno spazio mentale per le relazioni, costruito su una consapevolezza dei valori che lo aiuteranno a stabilirsi in un'organizzazione sociale;

2) produce inibizioni, confusione o iperlucidità. Esso apre la porta ad un certo tipo di immagini correlate al misterioso, al vuoto, all'impensabile;

3) dà luogo ad un disturbo nelle funzioni di previsione e di anticipazione;

4) riempie lo spazio mentale di emozioni che non possono essere tradotte in parole, che sono veicoli di un'esperienza 'intollerabile'. I meccanismi primordiali vengono riattivati;

5) interrompe o improvvisamente modifica le relazioni sociali di appartenenza e di riferimento. 'Condivisione' diventa equivalente di 'pericolo'.

Lo stato di minaccia è una situazione estrema che può essere trasformata in qualcosa che un analista può osservare. L'intera popolazione ne soffriva in un modo o nell'altro e ovviamente la situazione psicoanalitica non rimaneva indifferente. Più noi avremmo riconosciuto questo, più  saremmo stati in grado di preservare la nostra capacità di pensiero e con meno probabilità di soccombere a questo tipo di fenomeno che continua ad esistere nel mondo.

L'elaborazione mentale dello 'stato di minaccia'

 

L'elaborazione mentale di una minaccia attraversa differenti fasi. Nel primo stadio l'organizzazione mentale diviene disorganizzata, dando luogo ad un'esperienza di panico o di terrore. Nel secondo stadio, l'individuo cerca di trovare un nome o dei segnali che potrebbero rendere più facile dare significato alla minaccia, nell'illusione di risolverla, di evitarla, o di usare sistemi difensivi per controllarla o annullarla. Allora, nella fase successiva, c'è un'oscillazione tra negazione e comprensione con, nel migliore dei casi, il ri-stabilirsi di un'organizzazione appropriata alla vita, il cui asse illusorio consiste nell'evitare che la minaccia diventi concreta. I meccanismi di adattamento assicurano la sopravvivenza a qualsiasi costo. E' probabilmente a questo punto che certe vittime della tortura si abbandonino ai loro torturatori in un'estrema speranza di salvare la pelle. Questo è anche il punto in cui i bastioni difensivi ed i miti vengono creati.

In queste situazioni estreme l'io acquisisce una rappresentazione del tempo futuro, il tempo dell'intenzione (Jaques, 1982) che è associato alla sofferenza o alla morte. Il tempo vissuto diventa più  breve. Il soggetto entra in uno stato di iperlucidità o attenzione momentanea rispetto al presente che è soprattutto correlato ad un tempo artificiale direttamente collegato nella mente al preservare la vita. Esperienze associate ad un tempo infinito o illimitato diventano pertinenti. La sicurezza che dipende da un progetto per il futuro viene rimpiazzata da un altro sistema di credenze, sostenuto dal pensiero magico ed istantaneo. Le situazioni critiche e lo 'stato di minaccia' danno luogo ad un analogo tipo di funzionamento mentale.

 

 
 
 
 

 

 

 

 

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