DIFFICOLTA' TEORICHE
Il nostro passato teorico
Certi percorsi intrapresi dalla
teoria psicoanalitica sembrano suggerire che è possibile lavorare con
una cornice terapeutica che non prenda in considerazione il contesto
sociale, o anche che, come psicoanalisti, non abbiamo gli strumenti
per avvicinare un tale argomento.
E' possibile continuare a mantenere
una tale posizione senza condurre i nostri pazienti verso la rimozione
o persino il diniego? La psicoanalisi nacque sotto l'egida di
un'ideologia borghese dominata dall'ipotesi che la realtà psichica si
costruisse tra la madre, il padre e il bambino. Era basata su una
teoria delle pulsioni, oltre la quale il contesto sociale sembrava
secondario. Possiamo veramente credere che la realtà sociale esterna,
il non-io, non abbia alcuna rappresentazione nella realtà psichica?
Per rispondere a questa domanda dovremo osservare in che modo il corpo
sociale ed i suoi segnali si manifestano. La realtà sociale avrà uno
status che ci renderà capaci di riconoscerla.
Nella sua risposta a Romain Rolland,
sul tema del sentimento oceanico da lui descritto come 'un sentimento
di un legame indissolubile, di essere un'unica cosa col mondo esterno
come un tutt'uno', Freud dice di essere tentato di dire che questo
sentimento è qualcosa di più di una visione intellettuale,
accompagnata naturalmente da un carico emotivo, ma che è anche
presente in altri atti cognitivi:
<<L'idea di ricevere da parte
degli uomini un indizio della loro connessione con il mondo
circostante attraverso un sentimento immediato che dall'inizio è
diretto a tal fine, sembra così strana e si combina così male con
la struttura della nostra psicologia che si è giustificati nel cercare di
scoprire una spiegazione psicoanalitica - ossia genetica - di un tale
sentimento >> (Freud, 1929, p. 65).
Poco dopo, Freud riconosce che 'il
nostro presente sentimento dell'io è, perciò, solo un residuo limitato
di un sentimento molto più ampio - davvero, onnicomprensivo - che
corrispondeva ad un legame più intimo tra l'io ed il mondo intorno ad
esso' (p. 68). In questo testo Freud sottolinea la possibilità di
stabilire una relazione primaria tra l'io ed il mondo esterno
collegata ad una rappresentazione psichica primitiva. Questo
procedimento concettuale lo porta ad identificare questa relazione di
indissolubile comunione e a descriverla in certi casi patologici e
nello stato dell'innamoramento. Con Berenstein (1984), abbiamo
attribuito la ricerca di un sentimento oceanico e di fusione, come
viene ricreato nello stato di innamoramento, alla relazione
primitiva con un singolo ed esclusivo oggetto.
Nei suoi scritti 'sociali',
Freud molto sottilmente identificava le caratteristiche dei fenomeni
sociali, il comportamento delle masse e le loro relazioni con il 'leader'.
Comunque egli rapidamente riferì questo insieme di problemi al
complesso edipico, alla castrazione ed al parricidio.
Il problema della rappresentazione
mentale del sociale è difficile. Il nostro primo passo è allora quello
di separare quelle teorie che sostengono la visione che il contesto
sociale sia irrilevante per lo psicoanalista da quelle che invece
difendono la posizione opposta. Nel primo caso, dobbiamo operare
un'ulteriore suddivisione tra momenti di grande sconvolgimento sociale
e la situazione che qui stiamo descrivendo, la dittatura argentina;
la esclusione del contesto sociale deriva non solo da una posizione
scientifica, ma anche dal bisogno di trovare rifugio in una celletta
asettica. Questo è il modo in cui il mondo storico-genetico
monopolizza la vita mentale dei pazienti e degli analisti e molto
chiaramente contribuisce ad un meccanismo che diviene un bastione
difensivo.
Un'altra difficoltà di percezione: i
mondi sovrapposti
Una difficoltà nel concettualizzare
lo stato della catastrofe sociale ed il suo effetto sulla situazione
psicoanalitica nasce dal fatto che sia i pazienti che gli analisti
sono immersi nello stesso contesto sociale; essi sono esposti alle
stesse paure ed alle stesse difficoltà nel percepire gli eventi.
Quando gli analisti ed i pazienti stanno simultaneamente sperimentando
le stesse ansietà o preoccupazioni derivanti dal contesto della loro
vita quotidiana, parliamo di mondi sovrapposti (Puget & Wender, 1982).
In tali casi gli analisti probabilmente non hanno la distanza psichica
ed il tempo necessari per rendersi capaci di riconoscere quello che è
simile e quello che è differente, e di stabilire la relazione
analitica. Quando certi eventi traumatici provenienti dallo stesso
mondo condiviso appaiono nel materiale analitico, danno luogo a
distorsioni e a trasformazioni nell'ascolto dell'analista e nel suo
procedere analitico; essi incoraggiano negli analisti una particolare
tendenza a partecipare, a 'condividere'. Questa involontaria ed
inevitabile 'condivisione', che stimola o inibisce una curiosità
ambivalente, può diventare segreta, sostitutiva e vergognosa. In
alcune condizioni è molto difficile per noi stabilire un chiaro
confine tra il campo dell'analisi e quello che possiamo chiamare il
'campo della vita quotidiana', o 'campo della realtà socio-culturale'.
La situazione terapeutica è inondata sia da un'abbondanza di
informazione o di notizie sia dalla flagrante omissione di fatti
correlati a ciò che è di pubblico dominio. Il mondo della vita
quotidiana, che ha un carico altamente traumatico, viola la situazione
analitica.
Queste condizioni minacciano i
meccanismi sublimatori dell'analista su cui si basa , in linea
generale, la possibilità ed il desiderio di condividere, riconoscere e
decodificare i segreti dell'inconscio. Ma è precisamente questo
aspetto traumatico del materiale e l'interesse che esso suscita a
contribuire ad una perdita del mistero che è necessario per destare il
desiderio dell'analista di decifrarlo. Quest'ultimo finisce per
prendere ciò che ascolta in senso letterale. Non è più un
simbolo [ciò che viene preso dall'analista, n.d.trad.]. In tali
casi gli analisti inconsciamente si appropriano di fenomeni
aneddotici, non riescono a riconoscere la loro provenienza inconscia e
perdono ogni interesse per il punto di vista psicoanalitico. Essi
vanno solo in cerca di altri interlocutori illusori, o essi stessi o
altri individui appartenenti al mondo della loro vita quotidiana.
L'omissione di materiale, che è un possibile effetto del diniego del
paziente, porta gli analisti a stabilire un patto di complicità ed a 'dimenticare'
il mondo esterno. Questa situazione porta a mettere in luce due
fondamentali disturbi che verranno più tardi in superficie nel
processo analitico:
1) un effetto traumatico. Questo si
verifica quando qualcosa improvvisamente ed inaspettatamente
interrompe il funzionamento dell'analisi. Sebbene il mondo sovrapposto
dia un'illusione di contatto, in realtà esso allontana l'analista
dalla possibilità di 'svelare' l'inconscio. La relazione analitica non
fornirà agli analisti lo spazio ed il tempo necessari per perlaborare
('work through') un evento che è personale per loro e che non riescono
a risolvere con se stessi. Sono presi in una trappola. Per ovvi motivi
semantici e comunicativi, gli analisti non possono parlare coi loro
pazienti senza usare il linguaggio o le parole che appartengono a
questi ultimi. Ma queste sono precisamente le parole che
appartengono alla vita privata dell'analista, che hanno prodotto e che
continuano ancora a produrre un effetto traumatico in lui o in lei
(l'analista) e che allora sono sovrapposte alla vita privata del
paziente. L'analista a quel punto soffre per ciò che abbiamo chiamato
una micro-situazione traumatica, con tutti i sintomi di disagio, di
ansietà, di destrutturazione psicotica e di riattivazione di
certe angosce paranoidi o confusionali che la accompagnano. In tali
condizioni l'analista può entrare in uno stato governato dall'ordine
sensoriale, con la soppressione della capacità di pensare e di portare
a termine la funzione analitica. Questo stato inconscio gradualmente
invade la cornice analitica e le interpretazioni; esso influenza la
scelta del materiale. Un'area sorda e cieca viene perciò creata
laddove ha luogo l'"acting out" dell'analista.
2) Un disturbo narcisistico. Il
narcisismo 'analitico' derivante dalla sublimazione viene sostituito
dal narcisismo ordinario della vita quotidiana. Gli analisti sentono
il desiderio di essere nominati, amati o soddisfatti in un modo
immediato e diretto, di aumentare il loro prestigio e la loro
conoscenza, sia su se stessi sia sul mondo circostante.
L'analista allora diventa un oggetto
di sofferenza, mentre il paziente un oggetto protettivo. Il primo
cerca di soddisfare i requisiti ideali sostenuti dalle sue richieste
primitive. Questo processo affronta varie complesse vicissitudini.
Comunque, possiamo dire che esso riattiva un funzionamento primitivo,
governato dall'io ideale e dall'ideale dell'io, che sono proiettati
nel macro-contesto socio-culturale e sul suo rappresentante,
l'istituzione analitica. L'analista identifica con dei 'come se' ciò
che a lui viene presentato e trasforma essi in un'ingiunzione.
Sappiamo anche che le identificazioni originate dall'ideale dell'io
possono produrre delle identificazioni di tipo eroico, mortifero o di
tipo delinquenziale. Questo processo ha dirette conseguenze per
l'autostima dell'analista che è sempre più sofferente. Se domina la
megalomania, l'analista occuperà il posto del bambino onnisciente nel
delirio del suo paziente ('Conosce tutto, condivide tutto'); oppure,
se è dominante il funzionamento depressivo, la risposta sarà 'non
conosce nulla ed è inconsapevole di tutto'.
E' possibile che qualche eccesso
nell'interpretazione del transfert sia dovuto a questo funzionamento.
E' anche molto probabile che la teoria dei disturbi narcisistici
dovuti a mondi sovrapposti possa renderci meglio capaci di capire
certe difficoltà da cui in genere sono affette le istituzioni
psicoanalitiche , ma che acquisiscono specifiche caratteristiche
durante periodi di violenza di Stato. Per vari motivi, la struttura
del macr-contesto sociale viene simmetricamente riprodotta nelle
istituzioni.
Un'altra difficoltà
E' indispensabile per lo sviluppo
dell'apparato mentale che esso sia capace di riconoscere gli stimoli,
di ricevere segnali esatti e di comprendere il loro significato. Freud
identificò la capacità di distinguere il sé dal non-sé, il mondo
interno da quello esterno, il piacere dal dispiacere e il passivo
dall'attivo come principi essenziali nella formazione dell'apparato
mentale. Perciò fa parte della funzione genitoriale, uno dei legami
concatenati responsabili della trasmissione dei significanti del
contesto sociale, il fornire al bambino significati sempre più
complessi e differenziati fino a che l'io maturo acquisisca la
capacità di far ciò da se stesso. Il riconoscimento della realtà
esterna è direttamente correlato con la conoscenza e con le teorie che
l'apparato mentale può formulare da sé, stabilendo connessioni,
formulando giudizi, scoprendo relazioni causali ed usando il
linguaggio. In questo modo gli individui incrementano la loro capacità
di simbolizzare. Le teorie iniziali, legate alle funzioni primitive ed
alle teorie sessuali infantili, vengono rifiutate non appena lo
permetta la maturazione dell'apparato mentale. Ogni argomento si
addice all'epistemologo che lavora nell'elaborazione di nuove teorie
per render conto dei fatti che possono o corroborarle oppure
confutarle.
Possiamo ipotizzare che il bebé
riceva significanti culturali direttamente, senza l'intervento di
immagini genitoriali. Il macro-contesto sociale mantiene
un'informazione variegata che viene gradualmente decodificata dal bebé
(Puget, 1987).
Quando l'informazione che viene
ricevuta è chiara, o almeno accessibile, e la distorsione è dovuta
solo a fattori politici, la conoscenza, la scoperta e la comprensione
soffriranno unicamente di difficoltà inerenti al processo stesso.
Comunque, genitori ambigui, confusi, che danno falsi messaggi,
alterano il funzionamento mentale del bambino. Allo stesso modo,
l'informazione sociale, qualora sia sistematicamente falsa o
mistificata, dà luogo a vari disturbi nell'io adulto, dipendenti
direttamente dalla qualità dell'informazione, dal messaggio minaccioso
che viene trasmesso nonché, sembrerebbe, dalla sua risonanza con un
funzionamento mentale primitivo. Penso che l'integrazione sociale sia
imposta, che includa gli individui in una storia che precede e fa
seguito a loro, che abbia una qualità inconscia e che trasformi i
soggetti in trasmettitori ed agenti in un'organizzazione sociale in
cui essi sono soggetti attivi ed oggetti passivi. Ogni individuo porta
con sé un codice che è correlato alla propria partecipazione alla
struttura sociale.
La realtà sociale è ciò che ci parla
di tutte le persone che esistono in un certo contesto. Non è la stessa
cosa della famiglia, che è una delle sue manifestazioni, e che
io considero come un qualcosa di culturale. Io vedo ciò che è
culturale e ciò che è sociale come due cose differenti. Il campo
sociale è un insieme unito da un singolo linguaggio, da una
tradizione, da regole concernenti la distribuzione del lavoro e le
classe sociali, da una storia politica ed istituzionale e da
un'organizzazione della giustizia. La cultura concerne le leggi di
consanguineità e le questioni delle origini.
La percezione della presenza di un
altro soggetto ed i primi oggetti genitoriali originano dal fatto che
il bambino è indifeso; la sua costituzione come soggetto all'interno
di una famiglia dipende dalla configurazione edipica. La percezione
dello spazio sociale dipende da altri fattori che la teoria
psicoanalitica non ha finora sufficientemente capito, ma che sono
probabilmente correlati con le questioni primarie del possesso e del
potere. Credo che la teoria di René
Kaës (1984) della anaclisi multipla
possa aprire modalità di scoperta della specificità della
rappresentazione sociale.
Il bambino piccolo è il soggetto
della struttura sociale in cui è integrato prima di essere il soggetto
delle relazioni coi genitori. Per fare un'ipotesi di questo tipo
dobbiamo prima farne altre, cosa sia la struttura sociale, cosa
crei la specie, che è la matrice che fa nascere il soggetto nella sua
struttura familiare. (Non sto proponendo qui una visione dello
sviluppo, ma considerando differenti livelli logici.) L'integrazione
sociale non deriva dalla struttura della famiglia. La struttura della
famiglia, che è contrassegnata dal complesso di Edipo, e la struttura
sociale, che lo è dal complesso sociale, sono ognuna governate da loro
proprie specifiche leggi. Nel primo caso considero la castrazione come
il fattore organizzatore, mentre nel secondo le regole e le
istituzioni. Nella prima sono proibiti l'incesto ed il parricidio,
nella seconda l'anomia e l'omicidio di chiunque.
Penso che dovremmo risolvere certe
questioni concernenti il comportamento e la sua inclusione entro la
cornice di una teoria psicoanalitica. Dovremmo anche riconoscere che
l'"azione sociale" nelle differenti istituzioni, in cui il soggetto ha
una collocazione, produca certi fenomeni delle cui radici inconsce
siamo ancora inconsapevoli. Qual è la specificità delle relazioni
sociali inconsce? Ci imbarcheremo in un nuovo programma di ricerca se
considereremo la socializzazione come il risultato di un processo che
è indipendente dalle prime relazioni oggettuali genitoriali? Stabilire
che la realtà sociale venga mediata dal super-io dei genitori equivale
a formulare una ipotesi differente rispetto a quella che afferma che
il bambino piccolo acceda alla realtà direttamente. Queste due ipotesi
non sono compatibili all'interno del nucleo duro della teoria di un
singolo programma di ricerca (Lakatos, 1970).
Per lavorare con la seconda ipotesi
dovremo accettare che il soggetto sia una parte di un insieme di cui
egli ha una rappresentazione mentale, e che questo insieme contenga
dei sottosistemi ciascuno dei quali abbia specifici aspetti
organizzativi. Come conseguenza suggeriremmo che i soggetti sono
immersi in un mondo di stimoli che possono direttamente percepire
senza la mediazione di oggetti genitoriali, e che questi ultimi
formino solo un elemento del macro-cosmo socio-culturale. La
concentrazione sugli oggetti genitoriali si determina attraverso la
prima perdita, quella dell'appartenenza ad un insieme. Ciò può essere
la base della primitiva relazione e dell'origine del sentimento
oceanico.
Queste ipotesi mi portano ad
ascoltare con molta attenzione ciò che mi sembra essere una rinascita
del senso di appartenenza sociale dei pazienti e ad interpretare le
risonanze inconsce tra il macro-contesto individuale e quello sociale
nella loro specificità.
Il discorso delle figure genitoriali
e il discorso sociale suggeriscono differenti dialoghi all'io. Saremo
particolarmente interessati al discorso sociale. L'identità
dell''individuo' dipende da questo, e l'identità del 'soggetto'
dipende dal discorso edipico. Quest'ultimo si basa sulla castrazione,
il primo sulle regole che proteggono dall'anomia (Puget, 1987).
VIOLENZA SOCIALE
La violenza e la violenza sociale
sono due concetti strettamente prossimi anche se appartengono a
differenti contesti. Cercheremo di stabilire una comune base
metapsicologica per loro. Tenteremo anche di capire gli effetti della
violenza sociale perpetrata da una struttura di potere
dittatoriale ed in particolare dal terrorismo di stato. Il
significante di questa violenza era il terrore. Il suo diniego
quindi ha creato uno 'stato di terrorismo' con il suo equivalente
nell'apparato mentale.
I problemi inerenti alla relazione
dell'individuo con la società risiedono nelle relazioni stabilite da
patti ed accordi inconsci che, seppure silenti in certe epoche della
vita, restano attivi. Son questi che fissano l'identità trascendente
del soggetto culturale umano (l'individuo). Essi possono facilmente
dar luogo a patti ripetitivi e perversi. Se studiamo la
letteratura psicoanalitica sul tema della violenza, troviamo
formulazioni che cercano di capire la violenza come una manifestazione
dell'aggressività, dell'istinto di morte o di una differente pulsione,
vestita da Eros o da Thanatos (Bergeret, 1986). Altre visioni
concettuali la collegano al narcisismo (Green, 1983; Decobert, 1984) o
ad un meccanismo inerente allo stato di essere indifeso del bambino ed
al suo bisogno di ricevere significati da un io genitoriale protesico
(Aulagnier, 1975-85). Altri ancora sono convinti che la violenza
origini nella contraddizione psichica (Diatkine, 1984) o nei paradossi
(Anzieu, 1975; Decobert, 1984).
Sembra che tutti considerino che un
certo grado di violenza sia necessario ed inerente alla condizione
umana. Cercheremo quindi di identificare e concettualizzare i suoi
eccessi, la sua orchestrazione e le sue conseguenze per l'apparato
mentale.
Qualsiasi sia la teoria, a livello
descrittivo la violenza sociale è assimilata ad una manifestazione
discontinua, che tende a stabilire o a rinforzare un legame tra un
protettore ed una persona indifesa, annullando o piuttosto
annichilendo chiunque sia o diventi il più debole. Di conseguenza lo
spazio delle relazioni e della socializzazione viene ridotto al punto
più piccolo; qualcosa di strano e di estraneo si sta imponendo
sull'io, il soggetto che desidera viene annullato, ignorato, e la
relazione diventa quella tra padrone e schiavo. Gli assi della
appartenenza sociale vengono sconnessi. Non c'è più alcun dilemma o
questione dato che ciò che è in pericolo è la stessa vita. La capacità
di pensiero viene confinata a quelle aree che affermano l'esistenza.
Chiunque in ogni tempo può diventare
un significante che deve essere eliminato. Lo scopo del terrorismo di
stato è di annichilare ognuno, e qualcuno in particolare poiché
potrebbe diventare un segno che potrebbe essere inscritto nella sfera
immaginaria della società con la connotazione del panico. La
popolazione annichilata è parte di una 'classe naturale' che, come
quella degli schiavi nella visione di Aristotele, non è umana, e
quindi non ha diritti. I risultati della violenza sociale sono la
morte e l'alienazione.
Quando il paradosso, fonte di
violenza, deriva da un contesto sociale di dittatura che l'analista e
l'analizzando condividono, il dialogo analitico è disturbato. Non è
più possibile lavorare 'senza desiderio o memoria', così la relazione
diventa più limitata. Sembra con tutta probabilità che le
interpretazioni basate sul principio di continuità genetica diventino
una sorta di bastione di difesa.
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CATASTROFE SOCIALE
Gli anni della dittatura sono
stati definiti una 'catastrofe sociale'. Usiamo questo concetto
per definire uno stato la cui rappresentazione mentale è la
disarticolazione di qualche parametro condizionante il 'contratto
narcisistico' (Aulagnier, 1975) stabilito tra l'individuo e la
società, che ha luogo in un contesto di violenza sociale.
Foto: Piera Aulagnier
Improvvisamente o
gradualmente le regole che governano l'interdipendenza dei membri
del gruppo in relazione alla vita ed alla morte, al crimine ed
alla punizione non sono più riconosciute. Il senso di colpa perde
il suo ordine causale storico-genetico e viene trasformato in
colpa sociale. Il contesto sociale diviene incoerente.
Incomprensibile ed
inafferabile
Il discorso autoritario
proveniente dalle istituzioni di potere adotta una logica causale
basata su false ipotesi, supportata da valori etici perversi che
promuovono azioni corrotte. Di conseguenza i gruppi di
appartenenza o cadono a pezzi oppure, al contrario, aumentano la
loro coesione difensiva, e si perdono i gruppi di riferimento.
Vorremmo avanzare le seguenti ipotesi: una larga fetta di
popolazione entra in uno stato di alienazione, concetto che usiamo
qui in un senso simile a quello dato da Aulagnier (1979). Aulagnier
lo usa per descrivere un modo patologico di idealizzazione in
relazione ai fenomeni sociali, scatenante uno stato massiccio di
alienazione, con cui il soggetto si identifica usando tutta la
potenza della forza alienante. I soggetti sono sostenuti in questo
da un desiderio di alienazione e diventano lottatori per una 'causa',
a cui attribuiscono il potere delirante di garantire la verità, la
supremazia e la generosità. Da un punto di vista descrittivo,
questo processo è rassicurante, fornisce certezze e vieta la
'libertà di pensiero'.
Secondo lo stesso meccanismo
e per motivi soggettivi, gli altri alienano il loro pensiero in
un'ideologia dominante, una setta, un gruppo o un micro-gruppo.
Così abbiamo visto un rinforzarsi difensivo di qualche gruppo di
appartenenza con un valore dato a quelle ideologie che evitano il
conflitto con la struttura di potere. In alcuni casi la
sottomissione agli organi di potere ha prodotto comportamenti
irrazionali e violenti o ha portato la gente a rivolgersi al
misticismo. Un'altra fetta di popolazione è stata capace di
mantenere la capacità di pensare e di percepire i segnali della
realtà esterna. Essi per questo hanno pagato con una sofferenza
interiore. La tendenza ad adattarsi alla realtà, che risultava da
una certa ambivalenza, nondimeno restava forte. Un'altra fetta di
popolazione ha apertamente sostenuto la dittatura senza alcuna
contraddizione e si è identificata totalmente con essa.
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ALIENAZIONE
Dobbiamo prima porre la
seguente domanda: l'alienazione è necessariamente legata ad un
desiderio di alienare? Questa forza deriva dal desiderio?
L'individuo che può essere annichilato riceve qualcosa di
misterioso dal contesto sociale a cui non può dare significato?
Per il perpetratore della violenza, l'altro è semplicemente un
oggetto che deve essere neutralizzato, fatto diventare una
cosa. L'impulso a dominare trae alimento in un modo violento e
perverso. Le azioni del terrorismo di Stato vengono definite dalla
violenza e dalla perversione. Possiamo identificare due livelli di
analisi:
1) il livello narcisistico,
in cui una struttura di relazioni si stabilisce sul modello
dell'Oggetto Unico, con l'anaclisi della pulsione da dominare (Berenstein
& Puget, 1984). Ciò che è coinvolto qui è una struttura primaria
corrispondente ad uno stato primario di disagio, che richiede la
presenza di un oggetto come protezione dall'eccitamento. Questa è
la prima struttura di relazione oggettuale ed è ancora impregnata
di narcisismo primario. Il desiderio ardente di ricreare questa
relazione potrebbe stare alla radice dell'eccesso di violenza. Il
desiderio di preservare la vita a qualsiasi prezzo, qualsiasi
siano le condizioni, può render possibile il tollerare questo
eccesso. Possiamo vedere che c'è un eccesso di violenza
quando un soggetto diviene il 'protettore-difensore' di un altro e
trasforma quest'ultimo in un oggetto debole ed indifeso.
Ricordiamo il discorso megalomanico della dittatura, che si pose
come protettrice di tutti i cittadini dell'Argentina.
Vediamo l'eccesso di violenza
come ciò che annulla l'altro e lo trasforma in un riflesso
trasparente (potenzialità psicotica); causa separazione e rompe le
relazioni. Questa ultima forma di violenza è basata sul modello
del trauma della nascita e della fine della simbiosi.
2) I patti inconsci
tra il gruppo ed il soggetto che è obbligato a prendere un posto
particolare all'interno di esso. Questa imposizione è il risultato
della violenza necessaria, che diventa eccessiva quando il luogo
imposto al soggetto non è dipendente dalla sua naturale
integrazione nel gruppo, ma semplicemente viene incontro ai
bisogni di autoritarismo per creare segregazione e capri
espiatori. La violenza del gruppo dipende dal messaggio che viene
trasmesso e dalla forza che deriva da certi tipi di funzionamento
gruppale, in cui il potere delle emozioni, dei sentimenti e delle
azioni viene rinforzato. Un tipo di funzionamento basato sulla
fusione viene allora scatenato, rendendo difficile distinguere tra
spazio individuale e spazio condiviso del gruppo. Un altro fattore
che si dovrebbe considerare è l'impunità che conferisce il gruppo
di appartenenza. I singoli membri hanno un anonimato che permette
loro di evitare sentimenti di responsabilità per le loro azioni.
Tutti questi fattori generano un eccesso di violenza e creano una
struttura relazionale del tipo protetto-debole.
L'appartenenza ad un gruppo
che rappresenta la totalità della collettività è una necessaria
condizione di vita. C'è una scelta binaria tra l'alleanza e
l'esclusione. La seconda scelta viene esperita come una 'non
appartenenza' alla struttura sociale. L'esperienza
dell'emigrazione forzata è direttamente legata ad una 'perdita di
appartenenza'. In condizioni di violenza sociale, l'alleanza
contrattata dipende da un funzionamento paranoide e porta ad
un'esperienza di 'alleanza forzata'.
Il potenziale distruttivo di
un gruppo non deriva dalla somma dei suoi membri. Diviene una
nuova entità, in cui originano gli affetti e le azioni
incontrollabili. E' superfluo dire che quando un gruppo procede
compatto nel distruggere, il suo potere aumenta in una
progressione geometrica. Nella violenza sociale questi due livelli
dell''Oggetto Unico' ed i patti inconsci tra l'individuo ed il
gruppo sono intrecciati tra di loro.
Riassumendo, gli assi del
disagio-protezione e dell'anomia-appartenenza sono entrambi
rafforzati dalla violenza sociale.
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Lo Stato di MINACCIA
Quando la violenza sociale si
stabilisce permanentemente, nasce uno stato sociale di minaccia.
Questa è una condizione mentale in cui l'io perde la capacità di
riconoscere quei segnali che lo rendono abile a percepire e a
classificare gerarchicamente i pericoli provenienti dal mondo
esterno e a distinguere tra immaginazione e realtà, vita e morte.
Quando gli individui perdono
questa capacità essi entrano in uno stato di confusione o di
paralisi. Essi hanno bisogno di identificare se un attacco è reale
o immaginario, ma confondono la realtà interna con quella esterna.
Essi affrontano il compito impossibile di effettuare azioni al
fine di proteggere se stessi da probabili attacchi, quando il
nemico è senza volto. La loro esperienza del tempo è alterata: il
presente dipende da un futuro in cui la logica del 'se, allora'
non è più operativa. La loro scelta di opzioni è compromessa
poiché è impossibile per loro vederle in un contesto. Il nuovo
codice e le regole del gioco non sono noti. Quando questo accade
al livello macro-sociale, l'io sente che i punti di certezza su
cui si basa la sua identità sociale sono stati minati.
L'incertezza e l'associata ansietà diventano uno stato la cui
forza disorganizzante attacca quei punti di riferimento che in
precedenza avevano dato consistenza all'identità ed al sentimento
di appartenenza. Un sentimento di dipendenza si stabilisce tra
l'io indifeso ed un altro ignoto: il gruppo, la società. Tutte le
relazioni sono impregnate da un'esperienza di minaccia.
Quando si stabilisce uno
stato di minaccia, esso porta un aumento delle ansietà
confusionali e schizo-paranoidi. La mente è in preda
all'esperienza del pericolo e ad un pensiero circolare, ripetitivo
che è associato con gravi pensieri di futuro penoso o di morte.
Congiuntamente a questo l'azione diventa inibita o limitata.
Quando un intero gruppo
condivide questo stato, esso viene amplificato, portando il gruppo
a riattivare processi irrazionali ed il loro corollario
consistente in inibizione del pensiero. Un paziente che era
'scomparso' per un certo tempo e che allora era stato dichiarato
prigioniero, ricordava gli intervalli tra ogni seduta di tortura
come periodi di tempo di intensa sofferenza mentale che egli
associava con una mancanza di limiti al dolore mentale. Egli si
sentiva preso da uno stato di panico in cui qualcosa a cui
non si poteva dare alcun significato, qualcosa di inimmaginabile e
terrificante poteva accadere a lui senza che egli potesse
conoscere né il quando né il perché. Egli sentiva questa
incertezza come qualcosa di sufficiente a farlo diventare matto,
e mentre durante le sedute di tortura egli cercava di difendere se
stesso dal dolore fisico e mentale, questo metteva un limite al
suo panico (Puget & Wender, 1986).
Lo stato di minaccia può
incoraggiare un desiderio di essere morto, al fine di riguadagnare
certezza, un limite all'angoscia che tutto consuma. Questo si può
paragonare al 'desiderare di non desiderare' che si mette in atto
come difesa nei confronti del dolore intollerabile.
Abbiamo osservato un'angoscia
di questo genere in pazienti vicini alla morte che erano pieni di
un sentimento di non poter essere aiutati nella loro lotta contro
la malattia in seguito ad una diagnosi di morte imminente. Essi
sentivano un urgente bisogno di recuperare qualche segnale di
certezza rispetto alla loro morte, in un tentativo maniacale di
controllarla. In questi casi non era tanto la morte che li
atterriva quanto l'incertezza. Quando essi si convinsero che la
morte è un atto solitario, al meglio accompagnato da un altro
potenziale, essi entrarono in uno stato di grande confusione. Un
prigioniero - una persona scomparsa - ci disse che egli era capace
di riguadagnare una certa serenità quando faceva in modo da dare
alla sua personale sofferenza un significato universale. Non era
più solo.
Comunque c'è una differenza
tra queste due situazioni: colui che sta morendo può ricevere cura
ed aiuto, la sua sofferenza viene riconosciuta all'interno del
gruppo familiare e sociale; al contrario, la sofferenza della
persona scomparsa è causata da altre persone, e l'ambiente
sociale, invece di approvare la sua condotta, lo attacca. Per
coloro che vivono in uno stato di minaccia politica, la sofferenza
è immaginata, è mentale, e non esiste più né un oggetto-protettore
né una rappresentazione mentale. Non c'è più alcun segnale chiaro
e la non prevedibilità diventa un carattere della vita quotidiana,
mentre scompaiono i necessari punti di certezza. Quando
l'ambiente sociale giustifica ed impone il crimine e la sofferenza
sui soggetti che sono al suo interno, un particolare elemento di
disagio si aggiunge alla loro sofferenza. In casi in cui questo
stesso ambiente condanna alla sofferenza utilizzando la sua
funzione di protezione o di sostegno, non resta che la sofferenza
e la solitudine delle situazioni estreme; l'umiliazione ed i
sentimenti associati ad essa non appaiono.
Sul piano sociale, la morte
di un gruppo viene rappresentata da una rottura nelle relazioni di
appartenenza e dalla diminuzione del senso di appartenenza alla
società.
La dittatura militare creò
una situazione sociale il cui modello venne sovrapposto alla
situazione che abbiamo già descritto. La struttura di potere
istituì un'interrelazione tra predominio e debolezza sociale al
fine di annichilare gli individui sia fisicamente sia, dato che
alla loro esperienza di annichilamento non si poteva dare alcun
significato, mentalmente. Gli effetti patogenici sono
probabilmente più gravi quando obbligano l'individuo ad accettare
ogni sorta di restrizione, e ancora di più quando vengono
attaccati il pensiero e la capacità di agire. Comunque, in ogni
contesto sociale abbiamo bisogno di poter distinguere quei
significanti che possono mettere in pericolo l'apparato percettivo
dell'io e quindi restringere le relazioni umane.
Per riassumere, e ritornando
al contesto sociale argentino, possiamo dire che la dittatura agì
deliberatamente per generare ignoranza; per creare false speranze;
per ridurre al silenzio ogni pensiero contrario al regime; per
usare il terrore ed il panico come strumenti; per trasformare
l'informazione in disinformazione o in informazione perversa
utilizzando messaggi paradossali il più possibile. Un certo
tipo di linguaggio progressivamente scomparì dal vocabolario
quotidiano.
Per uno psicoanalista il
linguaggio è di primario valore nel trasmettere conoscenza, nel
chiarire i malintesi e nel trasformare immagini ed affetti in
comunicazione. Così possiamo dire che siamo stati attaccati
mediante i nostri stessi strumenti primari, ossia le parole, la
conoscenza ed il pensiero. Vorrei sottolineare la differenza tra
questa ed altre catastrofi sociali in cui è possibile parlare,
pensare e conoscere. Vorrei fare un'importante distinzione tra
situazioni sociali che attaccano il linguaggio e la conoscenza da
una parte, e dall'altra quelle che rendono possibili questi, o
almeno non li impediscono.
Siamo soliti pensare in
termini di forza identificatoria del discorso genitoriale, ma ne
sappiamo di meno riguardo alla forza identificatoria del discorso
sociale. La formazione del Sé in una relazione dialettica con l'alterità
dipende fondamentalmente da questi due discorsi. Questo è il
motivo per cui abbiamo bisogno di guardare ai modelli
identificatori proposti dalla dittatura ed al genere di valori che
essa ha trasmesso.
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La registrazione mentale dello stato di minaccia
Per quanto tempo l'apparato
mentale può tollerare di vivere in uno stato di minaccia senza
ricorrere al diniego ed alla sottomissione masochistica,
abbandonando certi valori o addirittura adottando come propri i
valori del potere che tortura?
Possiamo vedere un aspetto
del contesto sociale argentino durante la dittatura nella
registrazione mentale di uno 'stato di minaccia', le cui
caratteristiche descriveremo. Possiamo dire che lo stato di
minaccia:
1) impone restrizioni all'io
tanto a lungo quanto quest'ultimo non riesce a recuperare uno
spazio mentale per le relazioni, costruito su una consapevolezza
dei valori che lo aiuteranno a stabilirsi in un'organizzazione
sociale;
2) produce inibizioni,
confusione o iperlucidità. Esso apre la porta ad un certo tipo di
immagini correlate al misterioso, al vuoto, all'impensabile;
3) dà luogo ad un disturbo
nelle funzioni di previsione e di anticipazione;
4) riempie lo spazio mentale
di emozioni che non possono essere tradotte in parole, che sono
veicoli di un'esperienza 'intollerabile'. I meccanismi primordiali
vengono riattivati;
5) interrompe o
improvvisamente modifica le relazioni sociali di appartenenza e di
riferimento. 'Condivisione' diventa equivalente di 'pericolo'.
Lo stato di minaccia è una
situazione estrema che può essere trasformata in qualcosa che un
analista può osservare. L'intera popolazione ne soffriva in un
modo o nell'altro e ovviamente la situazione psicoanalitica non
rimaneva indifferente. Più noi avremmo riconosciuto questo, più
saremmo stati in grado di preservare la nostra capacità di
pensiero e con meno probabilità di soccombere a questo tipo di
fenomeno che continua ad esistere nel mondo. |
L'elaborazione
mentale dello 'stato di minaccia'
L'elaborazione mentale di una
minaccia attraversa differenti fasi. Nel primo stadio
l'organizzazione mentale diviene disorganizzata, dando luogo ad
un'esperienza di panico o di terrore. Nel secondo stadio,
l'individuo cerca di trovare un nome o dei segnali che potrebbero
rendere più facile dare significato alla minaccia, nell'illusione
di risolverla, di evitarla, o di usare sistemi difensivi per
controllarla o annullarla. Allora, nella fase successiva, c'è
un'oscillazione tra negazione e comprensione con, nel migliore
dei casi, il ri-stabilirsi di un'organizzazione appropriata alla
vita, il cui asse illusorio consiste nell'evitare che la minaccia
diventi concreta. I meccanismi di adattamento assicurano la
sopravvivenza a qualsiasi costo. E' probabilmente a questo punto
che certe vittime della tortura si abbandonino ai loro torturatori
in un'estrema speranza di salvare la pelle. Questo è anche il
punto in cui i bastioni difensivi ed i miti vengono creati.
In queste situazioni estreme
l'io acquisisce una rappresentazione del tempo futuro, il tempo
dell'intenzione (Jaques, 1982) che è associato alla sofferenza o
alla morte. Il tempo vissuto diventa più breve. Il soggetto
entra in uno stato di iperlucidità o attenzione momentanea
rispetto al presente che è soprattutto correlato ad un tempo
artificiale direttamente collegato nella mente al preservare la
vita. Esperienze associate ad un tempo infinito o illimitato
diventano pertinenti. La sicurezza che dipende da un progetto per
il futuro viene rimpiazzata da un altro sistema di credenze,
sostenuto dal pensiero magico ed istantaneo. Le situazioni
critiche e lo 'stato di minaccia' danno luogo ad un analogo tipo
di funzionamento mentale.
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