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    " LA PULSIONE DI MORTE.

TRABANTEN DES TODES- Guardie del Corpo della Morte"

 

di Roberto Cheloni

 

 

 

 

                

Congruenza della Pulsione di Morte alla Teoria Transgenerazionale

                             

 

 

La grande unità dell’Io (“Die umfaβende Einheit des Ichs”) è costituita per Freud da pulsioni; altre singole pulsioni o componenti pulsionali (“Einzelne Triebe oder Triebenanteile”) sono incompatibili con le prime pulsioni nelle loro mete o nelle loro richieste (“Ansprüchen”).                                                     

Così vengono separate (dalla grande unità dell’Io) tramite la Rimozione e trattenute a livelli inferiori dello sviluppo psichico. Si apre una falla nel Principio di Piacere, quando tali pulsioni (ne sono un esempio quelle sessuali) trovano un soddisfacimento diretto o sostitutivo per vie traverse.

Ciò che poteva essere occasione di godimento per l’Io, viene all’opposto avvertito come dispiacere.

La nostra Teoria Transgenerazionale si è appoggiata sulla nozione di Io Onnicomprensivo, che appare anche in Al di là del Principio di Piacere (1920).

Occorre far chiarezza, scrive Freud nel Paragrafo 3, contrapponendo das zusammenmhängende Ich al Rimosso (das Verdrängte), piuttosto che istituire un contrasto tra Coscienza (das Bewuβte) ed Inconscio (das Unbewuβte).

 

 

La Pulsione di Morte nella teoria Transgenerazionale       

                

 

E’ tipico della umana specie che l’esperienza di piacere resti separata per un lungo tratto dalla funzione riproduttiva; l’ontogenesi pulsionale non coincide con la maturazione dei comportamenti riproduttivi.

Secondo Laplanche (1986) una sessualità non legata si muove verso un’afanisi del desiderio, nella quiete solenne della morte; nel Guadagno teorico freudiano dell’anno 1920 è sottesa un’economia pulsionale che marcia nel senso opposto al progresso.

E’ ancora Laplanche (1987) ad attirare l’attenzione degli studiosi sulla prima teoria pulsionale: quella che oppone le pulsioni “che servono alla sessualità” a quelle che hanno come scopo “l’auto conservazione dell’individuo” (Freud 1910, p. 291). Quanto alle vie d’accesso per le pulsioni di auto conservazione si può parlare di pre-formazione (cosicché la determinazione dell’oggetto del soddisfacimento è in re ipsa), tanto invece l’oggetto delle pulsioni sessuali è marcato dalla contingenza dell’oggetto e dalla variabilità della mèta.

Si comprende in tal modo la funzione di Anlehenung delle pulsioni di auto conservazione in relazione alle pulsioni sessuali, che si caratterizzano per essere segnale di un “ritardo”.

Si legge in Pulsioni e loro destini:

 

L’Io si trasforma così dall’ Io realtà primordiale (aus dem anfänglichen Real-Ich) che ha distinto l’interno dall’esterno in base a un buon criterio obiettivo, in un Io-Piacere allo stato puro (in ein purifiziertes Lust-Ich) che pone il carattere del piacere al di sopra di ogni altro” (Freud 1915, p. 31).

 

Rispetto alla Weltorientierung l’autoerotismo arretra: un Rückgang che lo qualifica come stadio iniziale della sessualità; la pulsione sessuale transita attraverso il narcisismo: diventa autoerotica grazie ad una nuova azione dell’Io; la scelta oggettuale nella sessualità non è una Objektfindung, se non nel senso che l’oggetto è ri-trovato.

Lo psicologo evolutivo oggi storce il naso di fronte a questo quadro in cui Freud disegna un bambino “pulsionale”: si cerca attualmente la prova di un adattamento alla sopravvivenza slegato dall’organicismo ed afferente a modalità cognitive che mirano alla signoria sull’Um-welt, alla negoziazione degli stimoli. Come nella pedagogia scolastica la “competenza” ha assorbito e neutralizzato le “vecchie” componenti che misuravano il profitto, così nella psicologia evolutiva il bambino “competente” ha messo la sordina a quello “pulsionale”.

Ma il “bambino pulsionale” freudiano, a ben vedere, possiede una “competenza” del tutto perspicua e particolare, volta maggiormente a quelle che si definiscono “relazioni d’oggetto”, relazioni capaci di imprimere una via allo sviluppo psichico: gli stati emotivi del caregiver (come oggi si direbbe), la tonalità che assume la sua inevitabile seduzione, le sue aspettative (e, aggiungiamo noi, i fantasmi che accompagnano le generazioni da cui proviene) ne “marchiano” il destino. La bambina che Freud descrive nel 1919 (Un bambino viene picchiato) è –a dire di Freud- “irretita” negli “eccitamenti del proprio complesso parentale” tanto da essere “impostata già verso un futuro atteggiamento” di “odio e di rivalità” nei riguardi della madre. Freud tratteggia le due vie del destino della “bimbetta”: o l’odio e la rivalità verso la madre diverrà più intenso o si declinerà in una “reazione amorosa eccessiva nei confronti della madre stessa” (Freud 1919, p. 48).

Solo un’analisi condotta sul padre (e sui rapporti di costui coi nonni!) della “bimbetta”, può far luce sulla vera e propria “conquista” della figlioletta da parte del padre.

Freud annuncia a Ferenczi di aver  terminato l’articolo in esame nel momento in cui aveva già posto mano all’opera Al di là del principio del piacere. Ovvio che la pulsione di morte, così come è dedotta nel saggio, non può sacrificare i guadagni del lavoro del 1919. Ma c’è di più: Freud non ha mai abbandonato l’idea che la nostra sorte si giuochi nel tentativo della coppia parentale di rendersi immortale attraverso il figlio, di sovvertire la caducità che ritma le “prese di coscienza” dell’essere umano circa il suo destino nelle varie epoche della sua maturazione.

Prendiamo ad esempio la questione dell’omosessualità di Leonardo Da Vinci, al quale è dedicato il famoso saggio del 1910: la scelta omosessuale di Leonardo è operata sulla sostituzione di un se stesso amato con dei giovani; la scelta lo rende omosessuale; rileva altresì che “in verità” è di nuovo scivolato nell’autoerotismo. Nell’apparato iconografico che sottende il lavoro (“Sant’Anna con due altri”) si suggerisce tra la vergine Maria e sua madre Anna la presenza di una relazione omosessuale, che la confluenza dei tratti e - sovra tutto - la posizione contigua dei volti atteggia ad investimento speculare di matrice narcisistica, ciò che Kohut definirebbe “oggetto-Sé” investito della libido narcisistica. D’altronde, Freud stesso ci avverte che “chi ama ha perduto (…) una parte del narcisismo e può riconquistarlo solo se è amato a sua volta (Freud 1914, p. 468).

La posizione in cui fu collocato il Piccolo Leonardo -quella del padre- da una “povera madre abbandonata”, provocò una parossistica, precoce spinta alla maturazione dell’erotismo e “lo spogliò della sua virilità”.

Ma si sa: “L’amore parentale (Elternliebe) non è altro che il narcisismo dei genitori tornato a nuova vita (ist nicht Anderes als der wiedergeborene Narziβmus der Eltern) (Freud 1914, p. 461).

Il destino della “bimbetta” (Freud 1919), come quello del piccolo Leonardo, non sono l’effetto di una reviviscenza della ormai abbandonata teoria della seduzione, bensì il primo germe di quell’affermazione che ritroveremo nel 1932, nella Lezione XXXIII: i bambini fanno propria “l’indicazione che proviene loro dalla predilezione sessuale dei genitori” (den Winken… die ihnen die geschlechtliche Bevorzugung der Eltern gibt) (Freud 1932, p. 221); parlando in prima persona, nel 1929 Freud aveva scritto che qualcuno meritava il suo amore, se gli assomigliava in certi aspetti importanti “talché in lui io possa amare me stesso” (Freud 1929, p. 597).

E’ anche vero che il Trieb (questo misterioso oggetto di cui ci occupiamo) riduce il narcisismo ad un declinarsi della libido e così ad un’ascitizia estrinsecazione pulsionale.

Nel 1929 Ferenczi sembra però suggerire che non occorre abbandonare la teoria pulsionale (neanche l’ultima, quella del 1920) per dar conto di quella che egli denomina “frattura nella (…) volontà di vivere” (Ferenczi 1929, p. 362) e che oggi faremmo derivare unicamente dalla teoria delle relazioni oggettuali quale si declina (soprattutto) in Kohut come “Psicologia del Sé”.

Parlandoci degli “ospiti indesiderati della famiglia” (Ibidem) Ferenczi allude ad una casistica che pare essere lo stigma contemporaneo dei nostri attuali “pazienti gravi”. Non sarà che molte attuali teorie psicoanalitiche condividono l’assunto (improbabile) che, non solo non ci sono più “i pazienti di una volta”, ma che i nostri pazienti sono tutti (o quasi) “gravi”? Forse pazienti “difficili” li aveva solo Ferenczi? I suoi “ospiti indesiderati” hanno recepito i “segni”, consapevoli o inconsapevoli, del rifiuto materno:

 

Nei periodi successivi, circostanze relativamente poco gravi si rivelarono quindi sufficienti a provocare la loro volontà di morire, anche se compensata da una forte volontà di adattamento” (Ferenczi 1929, p, 362).

 

Senza attendere Spitz, già Ferenczi poteva asserire che “i bambini accolti freddamente e senza affetto muoiono con facilità o hanno una propensione a morire” (p. 363; il corsivo è dello stesso Ferenczi).

Si diceva: Freud precursore di Kohut? Ci si chiedeva: vivente Freud, i migliori allievi e colleghi rilevavano aporie o contraddizioni insanabili nelle Teorie del Maestro o vedevano più in là di alcuni (molti) miopi “scopritori” di teorie psicoanalitiche oggi in voga?

Sottratti al destino di morte, gli sfortunati ospiti conservano quello che Ferenczi denominava “disposizione al pessimismo” e “svogliatezza di fronte alla vita”; essi sono in grado di “utilizzare” (s’intende inconsciamente) “una delle tante possibilità organiche per un rapido decesso” (Ibidem, p. 363).

Ferenczi si limita a “correggere il tiro” sulla concezione teorica dell’azione delle pulsioni di vita e di morte “nei diversi periodi della vita”:

 

Ingannati dagli imponenti fenomeni di crescita che si svolgono all’inizio della vita, si era inclini a credere che nel neonato gli istinti di vita avessero un netto sopravvento; anzi, si era propensi a rappresentare gli istinti di morte e di vita come serie complementari in cui immaginavamo che il massimo della vita coincidesse col suo inizio; quest’istinto sarebbe poi sceso a un punto zero con l’avanzare dell’età, ma sembra che le cose stiano altrimenti” (Ferenczi 1929, p. 363).

 

Sembrando smentire Freud, Ferenczi osserva che la vita “procede” in condizioni di protezione prima embrionale, poi infantile e che soltanto se l’amore parentale è senza limite e l’infante è “circondato” di cura e di tenerezze, i genitori sono in grado di farsi perdonare “di averlo messo al mondo senza sua richiesta”: in caso contrario, “entrano ben presto in azione gl’impulsi distruttivi (Ibidem).

Facciamo chiarezza seguendo ordinatamente Freud attraverso la teoria pulsionale che Ferenczi ha recepito ed alla quale apporta le varianti testé mostrate.

Per via oppositiva ricaviamo il significato delle pulsioni di vita, quali Freud descrive nel 1920. Si è detto sopra che il ritorno ad uno stato precedente è l’essenza del moto pulsionale; allora la pulsione di vita si muove per mantenere forme organizzate e maggiormente differenziate, laddove il Todestrieb mira a ristabilire forme meno differenziate. L’ultima parola di Freud (il suo Compendio del 1938) indica nel legame il principio sotteso alle pulsioni di vita (la meta di Eros è stabilire unità via via più grandi e conservarle), laddove la meta del Todestrieb è indicata nel “dissolvere nessi” (Zusammenhänge aufzulösen) ed “in questo modo distruggere le cose” (und so die Dinge zu zerstören) (Freud 1938, p. 575).

Pontalis ha osservato acutamente che spesso la pulsione di morte è analogata sia all’aggressione nei riguardi dell’oggetto interno (Klein), che ad un ritorno allo zero (si veda tale tendenza nella pressoché ubiquitaria ripresa della tesi freudiana nel primo Simposio F.E.P. – 1984 – di Marsiglia). Pontalis rincara la dose rilevando le aporie in cui incappa chi costruisce la teoria del Todestrieb a partire dalla patologia narcisistica; si produce in tal caso a vederne gli estremi nella rabbia esercitata sull’oggetto e nell’autosufficienza fascinatrice; come dire: tutto ed il contrario di tutto (Pontalis 1976). Il testo freudiano riprende, nell’originale rivelatrice formulazione, la particella inseparabile zusammen ed il suo correlato verbale hängen, che da tempo vado indicando come nodo teorico sostanziale legato alla posizione centrale dello Zusammenhängende Ich nel pensiero di Freud.

Come scrissi altrove, è il senso della compossibilità degli elementi strutturali dell’Io che Freud pone a tema (Cheloni 2002, p. 64); per la risoluzione dell’enigma dell’Es Ereditario (das erbliche Es) risulta centrale l’intenzione legata al “tentativo di una Versöhnung tra le diverse esigenze”, la cui parola finale doveva essere lasciata all’Io onnicomprensivo “grazie al quale, ricondotti alle relazioni familiari, i rapporti tra Io e Super- Io (il cespite del destino, il fondamento dell’Άnάgkh)” divengono, come scrive Freud nel Compendio, “perfettamente intelligibili” (Cheloni 2002, p. 97). Tra i precursori del Super-Io (cfr. Infra) vi sarà dunque, come già intuito da qualcuno (Tagliacozzo 1993), un “sentimento di rifiuto all’esistenza”, che “favorisce una spinta all’indietro alla precedente condizione di non esistenza” (Ibidem, p. 16).

Anche in questo caso è adombrato il ruolo fondamentale del c.d. “caregiver”.

E’ stato giustamente scritto come “Una ricerca di calore (..) cui corrisponde freddezza, fonda (..) un precursore arcaico del Super-Io” (Tagliacozzo 1993); si può quindi dare l’ipotesi di una “formazione di un Super-Io arcaico che destina più alla morte che alla vita del sé” (Ibidem).

I primi oggetti sessuali, dice Freud, sono “le persone che hanno a che fare con la nutrizione, la cura e la protezione del bambino, cioè in primo luogo la madre o chi ne fa le veci” (Freud 1914, p. 457). Fin dai Tre Saggi, lo psichico emerge (attraverso la mediazione dell’oggetto) dal somatico.

E’ la steresi oggettuale che marca il transito da bisogno (Bedürfnis), ossia dalle pulsioni di autoconservazione a desiderio (non si dimentichi che nell’opera del 1905 fa la sua comparsa il concetto di Anlehnung - cfr. supra -). All’edificio dell’affetto, ci insegna Green col suo neologismo rappresentante-affetto, occorre attribuire (nel piano urbanistico della psiche in statu nascendi) una valenza rappresentativa (Green 1973). Non occorre una Versöhnung per pacificare la teoria delle relazioni oggettuali con quella pulsionale. Fosse vivo Freud, risponderebbe ai sicofanti della prima teoria nel modo in cui si esprimeva col Pastore Pfister, ribadendo che il Todestrieb non era “un bisogno del cuore”, ma un’ipotesi ”irrepetibile”:

 

“(…)ho stipulato un matrimonio di testa con le mie fosche teorie, mentre gli altri vivono con le loro teorie un matrimonio “d’amore”” (Freud – Pfister 1909-1939 – lettera del 7 febbraio 1930).

 

Il Todestrieb, è pure qualificato come “diminuzione dell’energia vitale”; in generale la pulsione è una misura del lavoro che viene richiesta alla mente in quanto embricata al corpo. Il controinvestimento primario sortisce l’effetto di suddividere la spinta pulsionale nelle componenti dell’affetto e della rappresentazione.

Sin dall’epoca degli Studî sull’Isteria Freud sosteneva che la minaccia alla costanza poteva provenire o da uniformi stati di eccitazione, oppure dagli affetti attraverso i quali l’eccitazione si ripartisce in modo ineguale (nel VII capitolo della Traumdeutung egli ipotizza un apparato psichico in cui il lavoro è regolato “dalla tendenza ad evitare l’accumularsi dell’ eccitazione”). I processi inconsci presuppongono un deflusso-non legato- della quantità di energia, laddove nel processo secondario l’energia viene legata dall’Io.

Passano gli anni e l’introduzione del concetto di pulsione, come visto, deve dar conto delle prime grandi intuizioni (Laplanche e Pontalis parlano di “metafore” di “genesi mitica” dell’organismo): così facendo Freud è costretto a forzare le prime tesi, postulando che l’in sé della pulsione sia la tendenza al ritorno all’”inorganico”, inteso come stato di quiete.

Le mai dimesse Pulsioni di autoconservazione divengono così in Al di là del Principio di Piacere delle “Pulsioni parziali destinate a garantire all’organismo una sua propria via che conduce alla morte” (“es sind Partialtriebe, dazu bestimmt den eigenen Todesweg des Organismus zu sichern”).

Freud anticipa eventuali obiezioni relative ad un’indistinzione con una tendenza verso l’inorganico priva di mediazioni e scrive sottilmente:

 

l’organismo non vuol morire che a modo suo (“der Organismus nur auf seine Weise sterben will”). Anche questi custodi  della vita sono stati in origine “ Guardie del corpo della Morte” (“Auch diese Lebenswächter sind ursprünglich Trabanten des Todes gewesen”).

 

Non possiamo che asseverare alla confidenza che la figlia Anna faceva a Lou Andreas Salomé nel 1926:

Papà ed io siamo stati d’accordo sul fatto che l’analisi non è un compito di semplici esseri umani, ma richiede qualcosa di molto meglio: chi sa cosa! Non è il lavoro analitico a essere così difficile, perché con qualche risorsa umana è possibile svolgerlo; è il continuo rapportarsi con il destino degli esseri umani! (Young – Bruel 1988; la citazione si trova a p. 189 della tr. italiana).

 

Se Tizio (come molti altri pazienti) ci ripete incessantemente di voler morire, lui, che non doveva nascere, che sua madre tentò di far morire quando ancora era nel suo ventre, non potrà trovar sollievo dall’interpretazione dell’analista, che punta a mostrargli che ha sconfitto la morte; sarà l’analista a dover impersonare il Trabant des Todes, finché Tizio non esplorerà a fondo il desiderio di morire che la nonna aveva instillato in Mevia, sua madre, facendole odiare quel feto che sarebbe un giorno diventato Tizio. Così il paziente, che ha messo incinta la sua ragazza, rinuncerà a farla abortire, non prima di aver ricordato (e ripetuto, seduta dopo seduta) l’unico “gioco” che sua madre faceva con lui: apparirgli tutto d’un tratto mentre si guardava allo specchio, solo per fargli paura.

Tizio odiava la vita quanto amava la madre incestuosa, che chiedeva rifugio in lui per il timore di nonna Lesbia.

Fu scritto, forse senza intenderne per intero la portata, che “sono le madri a vegliare di generazione in generazione sulla trasmissione della forma umana” (Safouan 1980); una lunga serie che si apre con l’imago parentale, la cui “ultima figura” (“die letze Gestalt”) è l’“oscuro potere del destino” (“die dunkle Macht des Schicksals”) che soltanto “pochissimi di noi sono capaci di intendere in modo impersonale” (“die wenigsten von uns unpersönlich zu erfassen vermögen”) (Freud 1924).

Prima della “letzte Gestalt” la trasmissione che perviene dall’imago parentale testimonia la permanenza dell’organizzazione narcisistica; si ricorderà che nel 1912 (in Totem e Tabu) Freud avanzava l’ipotesi che il sovrainvestimento degli atti psichici fosse parte essenziale del narcisismo, che permane anche se l’essere umano indirizza la propria libido verso l’oggetto; dirà Freud che la “perfezione” che non è stata serbata andrà riconquistata nella nuova forma dell’ “IchIdeal” (Freud 1914, p. 464).

Nelle Precisazioni (Freud 1911), una nota (è la quarta del breve articolo) riprende le movenze dell’Entwurf (1895) e della Traumdeutung (1899), precisando che il lattante (“der Säugling”) realizza, in uno con le cure materne (“wenn man nur die Mutterpflege hinzunimmt” – “se vi si includono solamente le attenzioni della madre”), un modello che non è, ma può ricordarlo, il “sistema psichico” retto dal principio di piacere, dall’autore stesso collocato in un quadro di Fiktion, astrazione che funge da mezzo atto a “ritardare” l’instaurazione dell’Io-Realtà.

L’infante, per di più, pur ricevendo sicurezza, la restituisce attraverso quella stessa “finzione”; Freud è qui più esplicito: sono i genitori medesimi ad ottenere sicurezza rifugiandosi nel bambino (più esattamente:

 

-Der heikelste Punkt des narziβtischen Systems- “il punto più delicato del sistema narcisistico”, -die von der Realität hart bedrängte Unsterblichkeit des Ichs- “l’immortalità dell’Io seriamente minacciata dalla realtà” -hat ihre Sicherung in der Zuflucht zum Kinde gewonnen- ha guadagnato la propria sicurezza rifugiandosi nel bambino (Freud 1914, p. 461).

 

Allorché la libido è indirizzata all’ Umwelt, il narcisismo non scompare; occorre, nel nostro quadro, tenere conto dei rapporti tra narcisismo e mondo esterno. Nel 1915, in Pulsioni e loro destini l’Io narcisistico è cespite del “ripudio primordiale” (“der uranfängliche Ablehnung”) opposto al “mondo esterno come sorgente di stimoli” (“der reizspendenden Auβenwelt”).

Ponendo in appendice alla biografia di Freud una lettera a Marie Bonaparte, Jones ci conferma la “tenuta” di questa posizione fino al 1937, con riguardo all’aggressività; alla Principessa vien detto che l’argomento dell’aggressività non è stato ancora interamente trattato (Freud 1937). I “narziβtische Interessen” di cui Freud parla in Introduzione al narcisismo non vengono dunque mai abbandonati.

Si ricorderà che in Jenseits si rinviene, quale sinonimo di Todestrieb, il termine Aggressionstrieb, che indicherebbe l’orientamento verso il mondo esterno della pulsione di morte.

Anche nel setting, silentemente, si perfeziona un’indicazione caratterizzata dalla steresi oggettuale: l’identificazione primaria, che anticipa l’assunzione della separatezza, ineludibile correlato dell’apprensione (da parte della mente) del funzionamento fisiologico dell’organismo che, lo ricordiamo (cfr. supra), al momento aurorale della vita psichica, è un tutt’uno con le cure materne (Freud 1911, nota 4). Da una ricostruzione sistematica non è azzardato sostenere che l’identificazione primaria trova la propria fonte nelle pulsioni di autoconservazione: “narcisismo di vita”, per dirla con Green (Green 1982); secondo i guadagni teorici dello scritto del 1914, il legame stretto delle pulsioni di autoconservazione nei riguardi delle pulsioni sessuali, farà sì che l’identificazione primaria venga, nel tempo, pulsionalizzata, orientandosi ugualmente verso la vita; esiste tuttavia una quota pulsionale non legata, che mantiene il proprio orientamento: tende cioè ad azzerare le tensioni; il narcisismo dell’identificazione primaria si muta in narcisismo mortifero che entra nel setting in contatto con il suo soggetto correlato:l'analista, chiamandolo ad individuare in questa simbiosi kenotica il grado di analizzabilità del paziente.

Spesso il transfert investe il cespite relazionale (“Im Anfang war der Tat”) e la parola è feciale all’agire.

Nel mio paziente, “Giorgio” (il cui tragico destino è trattato diffusamente in Cheloni 2002), la dimensione disforia “acquistava la trasparenza di una superficie, al di là della quale una disperazione sconfinata permetteva una intelligibile richiesta d’aiuto; il rigoglio sintomatico era il precipitato di una Ǘbername di lutti e di psicosi” (Cheloni 2002, p. 74). Da principio la cupezza della Weltorientierung del paziente non trovò esito in una rivolta rabbiosa, ma cercò di risolversi in una “Grenzuntersuchung”, attuata nei modi tipici della c.d. “sindrome borderline”: farsi male, tentare di automutilarsi il fallo, annaspare in una ricerca del “doppio” che ricucisse i lembi della ferita originaria.

Fece seguito il passaggio all’azione: la creazione di famiglie fittizie, che ogni sera Giorgio andava ad importunare “suonando i campanelli” (Cheloni 2002, p. 89) ed introducendosi in casa altrui come ospite indesiderato; a dirla con Austin: How to Do Things with Words (Austin 1962). Stava a me metabolizzare un transfert che non investiva la parola (per l’intera storia clinica cfr. Cheloni 2002, pp. 40-111). E’ stato efficacemente scritto (Napolitano 1998) che “l’equazione personale” dell’essere umano trae incognite e coefficienti da un “intervallo lineare chiuso”, i cui estremi sono la costituzione individuale (da un lato) e gli eventi relazionali (dall’altro). Dal lato del “congenito” si assiste alla coniugazione di due fattori: l’intensità della spinta pulsionale e l’altezza delle soglia di contenimento (ambedue congenite).

 

Una grande dotazione pulsionale di base accompagnata a soglie di contenimento basse (…) fa presagire la necessità di un controinvestimento massiccio (…) Una madre con un profilo ossessivo in questo caso potrebbe (…) essere il complice occulto e vicariante di una rimozione primaria andata apparentemente a segno, dimostrando così, ironia della sorte, che due disturbi possono sommarsi in un’assenza manifesta di sintomi” (Napolitano 1998, p. 509).

 

Richiederebbe all’opposto una madre di “vulcanica pulsionalità” il soggetto fornito di una tenue spinta pulsionale congenita “combinata con una ragguardevole altezza delle soglie di contenimento” (Ibidem,pp. 509-510).

S’intende che per noi analisti soglia sta per difesa; l’analista si pone nella condizione della madre che favorisce la posizione economica di ciò che altrove chiamiamo “stadio aurorale”: egli “abbassa” la soglia dell’affetto, “approssimando” quella di rappresentazione (nella nostra “lingua” parliamo di “regressione controllata”). Che gli “stati primitivi” possano “sempre essere ripristinati” è un’affermazione che riposa sull’assunto dell’immortalità dello stato psichico primitivo (cfr. Freud 1915 a); ci si chiede allora: la pulsione parla? Nella Negazione (1925) Freud fa intendere che la regressione indotta in analisi fa accostare il paziente, attraverso le parole (ma anche nei gesti, nel complessivo atteggiarsi) al linguaggio della pulsione orale (cfr. infra, il caso del bambino autistico Freud 1925, p. 345). 

Ho mostrato (nella completa illustrazione della storia clinica di “Giorgio”) che “la condizione disforica” si sviluppa per l’incapacità del paziente di operare un investimento narcisistico: l’amore, grande assente nel mondo di tali pazienti (la presenza ubiquitaria di una rabbia distruttiva li qualifica spesso come “borderline”) passa attraverso una corretta funzionalità dell’“Io onnicomprensivo”, su cui l’analista ha da far leva; rileggiamo un passo di Pulsioni e loro destini:

 

L’Amore nasce dalla capacità propria dell’Io di soddisfare una parte dei suoi moti pulsionale in guisa autoerotica (“ einen Anteil seiner  Treibregungen Autoerotisch…zu befriedigen”) mediante il conseguimento di un piacere d’orgasmo. Tale piacere è originariamente narcisistico (“sie ist ursprünglich narziβtisch”), trapassa quindi sugli oggetti che sono stati incorporati nell’Io allargato (“Die dem erweiterten Ich einverleibt worden sind”), ed esprime l’impulso motorio verso questi oggetti quali fonti di piacere” (Freud 1915, p. 33 corsivo mio).

 

In questi pazienti “l’Io combatte una lotta senza tregua atta a distruggere oggetti interni che si presentano quale pura coltura dell’odio. Le situazioni precipitanti sono, non occorre dirlo, quelle relative all’abbandono o ad un rifiuto amoroso (Cheloni 2002, p. 84).

Ricordiamo sempre: il lavoro di Todestrieb è silente; consideriamo il prototipo la Pulsione di morte ed il Destruktionstrieb sotto l’ottica di un nesso tra causa ed effetto. Il Todestrieb si distacca dal soggetto a causa dell’investimento effettuato dalla libido narcisistica;così la pulsione di morte si rivolge verso il mondo esterno e si manifesta “come pulsione distruttiva rivolta contro l’esterno e contro altri esseri viventi” (“als Destruktions trieb gegen die Auβenwelt und andere Lebewesen äuβern” – corsivo di Freud).   

Ricordiamo ancora – a compimento del lavoro pulsionale – che Freud nel 1932 (nelle Neue Folge der Vorlesungen) include nel suo sistema la Selbstdestruktion (si legga il mio commento sul suicidio di “Giorgio” in Cheloni 2002 pp. 90 – sgg.). Secondo Freud la pulsione di aggressione, così come la Selbstdestruktion, non può che essere colta nella sua perspicua fusione con la sessualità (nell’evoluzione della sessualità l’aggressività si pone al servizio della pulsione sessuale).

Nel Compendio Freud è esplicito:

 

Le modificazioni del rapporto di mescolanza delle pulsioni (Veränderung im Mischungverhältnis der Triebe) hanno conseguenze assai tangibili.  Un forte incremento dell’aggressività sessuale (Ein stärkerer Zusatz zur sexuellen Aggression) può trasformare un uomo appassionato in un delinquente sessuale mentre una forte diminuzione del fattore aggressivo (eine starke Herabsetzung des aggressiven Faktors) può renderlo timoroso od impotente (Freud 1938, p. 576).

 

I tragici finali di esistenza che si ripetono attraverso le generazioni rendono conto della rivoluzione (copernicana!) freudiana, attuata identificando il principio dell’aggressività nell’autoaggressione (cfr. supra riguardo ad un passa de L’Io e l’Es): l’aggressività non è più un modo di declinazione dei rapporti con l’altro, giacché il Todestrieb all’origine, è localizzato nello stesso soggetto (ciò che in Francia è stato denominato come “persona propria”); Freud stesso sembra obliarlo, quando ne Il Disagio della Civiltà tratteggia un ennesimo ritratto dell’uomo malvagio “per natura”.

Abbiamo scritto più indietro che la trasmissione che proviene dall’imago parentale, testimonia la permanenza dell’organizzazione narcisistica, fino all’ultima “ figura” (Gestalt), l’“oscuro potere del Destino” (Freud 1924). Queste “figure” non vanno necessariamente ipostatizzate: i precursori del Super-Io (cfr. supra) possono fungere da “Guardiani della morte”, se è vero che la genesi del Super-Io si svolge a notevole livello di profondità. “Cinzia” iniziò a parlare molto tardi per un motivo molto semplice: sua madre, “Chiara”, meticolosa igienista, la trasformava in una bambolina profumata, ma, come tutte le bambole, in un oggetto; la nonna materna di Cinzia aveva deciso di non parlare più con il marito quando, incinta di Chiara, scoprì con raccapriccio l’uomo con un’amante occasionale che suturava la “mancanza di sfogo”, dovuta all’indisponibilità  sessuale della donna. Cinzia seppe soltanto in analisi dell’episodio, quando infatuata del “metodo psicoanalitico”, iniziò ad indagare tra parenti e conoscenti, l’enigma della “nonna-muta” (Cinzia vedeva i nonni sempre assieme e sentì la nonna parlare soltanto durante le rare volte che il nonno si assentava dalla stanza), che Cinzia credeva “matta”. Sua madre, Chiara, non le aveva mai parlato della “pazzia” della nonna, ma ora se la immaginava questa nonna, che parlava a sua madre Chiara soltanto quando il marito non c’era (costui, com’è ovvio, taceva sempre in presenza della moglie).

Cinzia aveva intrapreso analisi dopo il divorzio dal marito, chiesto da costui dopo aver scoperto la relazione extraconiugale di Cinzia; ai fondati sospetti dell’uomo, Cinzia reagiva con mesi di silenzio; a posizioni capovolte, il destino della terza generazione riproduceva quello della generazione n-2 (Cheloni 1996; Cheloni 2002). La freddezza di Cinzia le rendeva impossibile la vita: aveva più volte tentato il suicidio, anche in presenza dell’amante; sessualmente era frigida (diceva di far sesso di “testa”). Quanto da piccola aveva odiato sua madre Chiara, tanto (divenuta adolescente) la idolatrava, obbedendole ciecamente per evitare qualsivoglia rimprovero. Quando un giorno sua madre sentenziò: “Puzzi! Con tutto quello che ti ho insegnato…” Cinzia si scompensò ed iniziò a nutrire un’ideazione suicidarla che per un soffio non mise in atto. L’ultimo Freud (1938) fece notare che “con l’istituzione del Super-Io importi considerevoli della pulsione aggressiva (ansehnliche Beträge des Aggressionstriebes) vengono fissati all’interno dell’Io (im Innern des Ichs fixiert), ove operano in senso autodistruttivo” (und wirken dort selbstzerstörend) (Freud 1938 p. 577).

Si sa che Freud, sin dall’antica conferenza (1893): Meccanismo psichico dei fenomeni isterici sostenne che trattenere l’aggressività “fa ammalare”. Nel 1938 così si esprimerà:

 

Zurückhaltung von Aggression (l’inibizione dell’aggressività) ist uberhaupt ungesund (“è in ogni modo malsano”) wirkt krankmachend (Kränkung) (“fa ammalare”-“mortificazione”).

(Freud 1938, p. 577; traduzione modificata).

 

Nel prosieguo del saggio del 1938 Freud, con un esempio tratto da una comune osservazione, rende perspicuo il suo pensiero: l’attacco di rabbia, la collera distruttiva, palesa il trapasso da un’aggressività impedita alla Selbstzerstörung: il soggetto rivolge l’aggressività verso la propria persona, strappandosi i capelli e graffiandosi il volto con i pugni; è chiaro che quel trattamento sarebbe riservato a qualcun altro. Una parte di tale autodistruttività (ein Anteil von Selbstzerstörung) rimane comunque all’interno (im Innern) fino a quando porta alla morte dell’individuo (gelingt das Individuum zu töten).

Mai, come alla fine del suo lungo lavoro, Freud fu così chiaro: “Si può dunque supporre che l’individuo in genere, muoia a causa dei propri conflitti interni” (das Individuum stirbt an seinen innern Konflikten), (Freud 1938, p. 577; traduzione modificata). Occorre – è opportuno dirlo – che l’investimento operato dal soggetto sia patologico. Freud reputa difficile asserire qualcosa di definitivo circa il comportamento della libido nell’Es e nel Super-Io.

Si sa che nel “narcisismo primario” è ammassato “tutto l’importo libidico disponibile” (der ganze verfügbare Betrag von Libido aufgespeichert ist), ma tutto ciò che si sa (è il 1938) si riferisce all’Io. Noi aggiungiamo: all’Io onnicomprensivo da cui promanano gli investimenti (nel linguaggio freudiano ciò corrisponde alla trasformazione della libido narcisistica in libido oggettuale).

Alla luce di tali premesse non sembra paradossale un’altra affermazione di quegli stessi anni (1937-1938) che leggiamo in Analisi terminabile e interminabile:

 

“ (…) Riteniamo attendibile l’ipotesi che per l’Io non ancora esistente siano già determinate le direzioni dello sviluppo, le tendenze e le reazioni che esso in seguito mette in risalto.

(Freud 1937, p. 523).

 

E’ sempre l’Io (onnicomprensivo) a confliggere con le pulsioni; lo afferma chiaramente Freud in una correctio: “Un conflitto pulsionale (o per dir meglio un conflitto dell’Io con la pulsione)” (ibidem, p. 506).

Mi sono dedicato (ne: L’ordine della generazione) al problema dell’Es ereditario (Cheloni 2002, pp.117- sgg.), mostrando la lontananza di tale concetto da quello Junghiano di “inconscio collettivo”. Das erbliche Es diviene depositario “per stratificazioni successive, sia del patrimonio personale, che delle turbolenze generate dalle interazioni personali” (Ibidem, p. 117).

Non sono il primo a sostenere che il c.d. “modello relazionale” (per tutti: Conrotto 1995) non esclude il “modello pulsionale”.

Un processo come la maturazione, a fondamento eminentemente pulsionale, subisce un arresto traumatico qualora la parola dell’adulto infranga, laceri lo schermo antistimolo; quella “parola fatidica” si iscriverà dunque in una catena di significati (e di significanti) determinata geneticamente. L’Unlust investe le tracce ri-significandole come “prove” dell’après-coup di una condizione di beata fusionalità tutta “costruita”.

Gli “interessi narcisistici”, il “bagaglio” pulsionale e la trasmissione (patologica o meno) tra le generazioni sembrerebbero opporre una difesa inespugnabile ad altre modalità d’approccio; ma –come si usa dire– il condizionale “è d’obbligo”: l’A. A. I. (Adult Attachment Interview), approdata alla sua ultima frontiera, si conferma strumento attendibile non soltanto per valutare il significato dell’esperienza del soggetto con le figure parentali, ma anche per saggiare la trasmissione, di generazione in generazione, delle peculiarità psichiche delle figure genitoriali che si avvicendano nel tempo.

Ho in mente una persuasiva ricerca uscita nel ponderoso nono volume dei Psychoanalytic Dialogues (1999) ad opera di M. Cortina: Causality, Adaptation and Meaning: A Perspective from Attachmen Theory and Research.

Cortina riprende la teoria dei “modelli interni di lavoro” di Bowlby, per mostrare il sorgere di credenze sulle figure genitoriali. Attraverso tali “narrative” possiamo seguire il sorgere e l’interiorizzarsi di attitudini (adattative o meno), in grado di modificarsi nel corso dell’esperienza, esistenziali. La predittività di tali “narrative” (schemi logico-deduttivi, per lo più) si palesa (credo, ma non è detto, a seguito di follow-up) nell’individuazione della tipologia di attaccamento che il soggetto svilupperà con i propri figli. Si evince dal saggio di Cortina (condiviso dal commento di D. Silverman, a seguire) che vi è complementarietà tra scienze “naturali” (ricerca empirica) e scienze “sociali”: l’ermeneutica psicoanalitica è decisiva nel validare la peculiarità dell'accennato nesso. Nello stesso numero due psicoanaliste americane: R. Silverman  ed A. Lieberman, presentano un caso di trasmissione della violenza familiare (evito, conformemente alla teoria che sostengo, di usare l’aggettivo: “transgenerazionale”; cfr. almeno Cheloni 2002, Cheloni 2004, Cheloni 2005) giustamente nel titolo definita “intergenerazionale”, esaminando una tipologia invasiva e violentemente coercitiva del caregiver. (E’ l’articolo: “Negative Maternal Attributions, Projective Identification and the Intergenerational Trasmission of Violent Relational Pattern”, nello stesso volume dei Psycoanalytic Dialogues).

Soltanto una teoria della psiche “orientata” verso la difesa avrebbe potuto ridare centralità all’Io (ed al Super-Io), ma è stato giustamente osservato che “la psicologia dell’Io fu erede della pulsione di morte” (Sulloway 1979). La tassatività dei traumi presente in Inibizione, Sintomo ed Angoscia (1926) dà fiato alla teoria dell’angoscia risalente nientemeno che all’Entwurf (1895) e centralizza il ruolo dell’Io onnicomprensivo, “avvertito” dall’angoscia della presenza di un pericolo e spinto alla soppressione sia di moti pulsionali che di situazioni ambientali traumatiche (Eros è capace di “aggressione di adattamento”).

Si legge in “Analisi terminabile e interminabile”:

 

“ (…) soltanto la cooperazione e il contrasto di entrambe le pulsioni originarie, l’Eros e la pulsione di morte, e mai l’azione di una sola di esse, può spiegare le variopinte manifestazioni dell’esperienza”. (Freud 1937, p. 526).

 

            L’interazione pulsionale va letta come un dinamico sovrapporsi (“cooperazione” e “contrasto”) di tendenze che non “tagliano fuori” l’Umwelt. Herbert Rosenfeld, in Stati psicotici (1964) fu esplicito nel presentare l’azione del Todestrieb come una forma di organizzazione “interna” di carattere persistente, di movenza relazionale, di fondamento narcisistico, capace di sciogliere il legame tra Io ed oggetto, aggredendoli entrambi; una posizione che Rosenfeld mantiene sino al 1987 (Rosenfeld 1987), “traghettando” così il rinato affannarsi degli psicoanalisti a recuperare la teoria della pulsione di morte, che sembrava scomparsa dalla scena teorica sin dalla grande “kermesse” viennese del 1971 (se ne legga l’interessante testimonianza nei numeri monografici dedicati all’evento internazionale della Rivista di Psicoanalisi nell’anno 1972 e prima dal n° 52 dell’International Journal of Psycho-Analisis del 1971).

La perfezione, dell’illusione fusionale, la “sopravvalutazione” degli oggetti psichici (così in Totem e Tabù) ribadiscono la permanenza dell’organizzazione narcisistica all’interno di un continuo dispiegarsi delle spinte pulsionali.

L’ultimo Freud non esita a parlare di “etiologia mista” come cespite dell’intergamma dei disturbi psichici:

 

Tutti i sintomi nevrotici hanno in verità un’etiologia mista; o si tratta di pulsioni troppo forti che perciò stentano ad essere imbrigliate dall’Io o dell’effetto di traumi antichi, ossia precoci, che l’Io immaturo del soggetto non è riuscito a padroneggiare” (Freud 1937, p. ..)

 

Pur tenendo massimamente conto del fattore costituzionale delle pulsioni, Freud suppone che un rafforzamento pulsionale, la “forza pulsionale del momento” sia in grado di esitare nei medesimi effetti patogeni. Si tratta di iniezioni di odio che provengono dalle figure fondamentali che assistono la crescita psichica del soggetto.

Rieccoci all’“ein purifiziertes Lust-Ich” di “Pulsioni e loro destini” (cf. supra): l’odio proiettato è il guardiano della morte che veglia sul soggetto nelle vesti dell’estraneità assoluta, che richiede una collocazione figurale disegnata dalle attese altrui, dal dover essere ritmato dalle continue aspettative.

Mai come in questi casi i pazienti avvertono la loro esistenza come marchiata dalle stigmate del destino. Nei percorsi autodistruttivi più tipici, la “passione” per l’oggetto si coniuga nella duplice movenza della declinazione pulsionale: l’analista diventa il doppio speculare idealizzato, mentre il mondo esterno è l’oggetto privilegiato dell’odio.

Riguardo alla psicosi  paranoica, bene si è espresso André Green ne Il discorso vivente:

 

La paranoia, di cui è tipica per noi la psicosi passionale, assomiglia alle nevrosi narcisistiche per il combattimento intorno a un oggetto (…) La fissazione omosessuale nella paranoia, al contrario dell’odio distruttivo che si riversa sull’oggetto, si rivolge, di fatto, al doppio speculare che rappresenta l’oggetto della passione (…) lo scopo del paranoico non è tanto questo possesso amoroso distruttivo dell’oggetto passionale quanto l’autodistruzione mediante l’annichilimento dell’immagine del doppio capovolto che è il suo oggetto” (Green, 1973, p. 142).

 

L’Io onnicomprensivo lotta, ci dice Freud, per la propria affermazione e conservazione: “Gli autentici archetipi della relazione di odio”, traggono vita proprio da questo, non dalla “vita sessuale” (Freud 1915, p. 31); è per questo che l’odio, nato dal ripudio dell’Io narcisistico per l’Umwelt, è più antico dell’amore. Tuttavia nel 1914 Freud aveva sottolineato con forza che “prima o poi bisogna ben cominciare ad amare per non ammalarsi” (Freud 1914, p. 455).

E’ qui chiaro il senso dell’“egoismo” come “fattore di protezione contro la malattia” (Ibidem).

Nella Autobiografia Freud non smentirà ancora una volta la centralità del tema del narcisismo per la comprensione dei disturbi più gravi:

 

Gli sforzi degli analisti per giungere a una comprensione delle psicosi non sono più cessati. Soprattutto da quando lavoriamo  con il concetto di narcisismo siamo riusciti, ora qua e ora là, a gettare uno sguardo oltre il muro. Abraham è colui che più di ogni altro è andato innanzi su questa strada, con la sua spiegazione delle melanconie” (Freud 1924, p.  ).

 

Altre volte, quando l’analista non è in grado di fungere da “doppio” (ossia nei casi più gravi) è un lavoro di costruzione che lo attende, fin all’estremo limite della cura costituente un legame, prima inesistente, tra un eccitamento ed una rappresentazione.

Mi colpisce (e colpì anche François Duparc, che lo riportò in uno scritto) un bel lavoro di Botella, apparso nel 1982 sulla Revue française de Psychanalyse (Botella S. e C. 1982).

Si trattava di un piccolo paziente autistico, nato con difficoltà, il cui parto aveva provocato danni somatici relativi all’apparato respiratorio, tanto da costringere il personale curante a sottoporlo all’intollerabile terapia intensiva attuata con mezzi macchinari all’avanguardia. Il bambino non parla; emette soltanto, fuori da qualsiasi contesto motivato, un rauco: “cra–cra!”.

Inizia una costruzione analitica, che punta a circoscrivere il trauma originario: “Era duro respirare quando eri all’ospedale: tutto faceva cra–cra!”. Vedendolo in seguito completamente depersonalizzato, l’analista (a legame ormai convalidato) verbalizza la situazione drammatica del piccolo: “ Cra–cra! Hai paura del lupo che c’è fuori!”. Il bambino è ricoverato in un istituto; è lì che si svolge la cura e lo psicoanalista ha modo di osservare il piccolo quando, per giuoco, impaurisce gli altri bambini gridando: “Cra – cra! Il lupo!”. Da quel momento la cura si svolge nell’orizzonte del linguaggio.

Anni dopo (nel 1999, all’VIII Colloquio franco-italiano di Toulouse) François Duprac ha modo di commentare il bel lavoro del Botella affermando che, poiché non vi è alcun contenuto latente da rendere manifesto, l’analista, nominando il “lupo” e il “fuori”, ha introdotto formazioni preconosce atte a “calamitare” altre rappresentazioni, fungendo così da “contenuto manifesto”. I vissuti traumatici del bambino erano rimasti allo stato di tracce mnestiche, assai prossime alla rappresentazione di cosa. Lasciamo la parola a Duprac:

 

Nella stessa formazione di queste figurazioni l’analista opera una ‘scissione’, una discriminazione tra il piacere e il dispiacere proponendo il lupo come polo proiettivo, ed il “cra-cra” come vocalizzazione giubilatoria. Egli attiva in questo modo un ancoraggio dell’eccitamento ad una rappresentazione, costruendo un primo organizzatore pulsionale orale (essere mangiato dal lupo, mangiare come il lupo). In questo senso si potrebbe parlare, oltre che di una costruzione della rappresentazione, di una vera e propria costruzione della pulsione orale, tra fame somatica e voracità immaginaria, permettendo così la propria ‘respirazione’ simbolica”. (Duprac 1999).

 

La “costruzione pulsionale” è l’eccezione alla regola di una costruzione che faccia tesoro dell’eredità “dei padri”, intesa nel senso superegoico ed in quello di un ideale. E’ lo stesso Duprac (che pure non si occupa del Transgenerazionale) a sostenere che il soggetto in cura deve avere esplorato “tutti i fantasmi originari che costituiscono la sua straordinaria struttura edipica, nelle varie versioni o varianti possibili della sua storia familiare lungo almeno tre generazioni” (Duprac 1999, p. 793). Attraverso le generazioni si avverte- nei casi più disperati- (ogni analista, purtroppo, prima o poi ha a che fare con un caso che si conclude tragicamente), il transitare di scene (non necessariamente “primarie”) in grado di “accompagnare” il paziente verso l’autodistruzione, vigilando in modo che (come un guardiano inflessibile)  le modalità kenotiche si ripetano con un “salto” di generazionale: è il segreto del transgenerazionale, che spesso (sempre) si presenta in analisi come scena od emblema da ricostruire. Vissuto storico o fantasma delle origini, esso abbisogna di un ostinato, pervicace lavoro (si pensi ai ripetuti, inesausti tentativi di Freud nel ricercare la “purezza” della scena raccontata dall’Uomo dei lupi).

Un formidabile caso capitatomi anni or sono, di cui ho dato estesa trattazione altrove (Cheloni 2003), potrà illustrare il cespite di una grave psicosi paranoica, che conduce il paziente all’isolamento sociale ed alla catastrofe nella vita civile. Oscar mentì ripetutamente nei colloquî preliminari, ribadendo che chiedeva analisi per una pervicace coazione all’onanismo.  

Fu alla prima (vera!) seduta che ebbi certezza della genuina patologia che si nascondeva dietro un visus apparentemente depressivo. Il paziente entrò nella stanza di analisi e subito si bloccò, riaprì l’uscio, sogguardando sospettosamente nella direzione delle porte che si aprivano nel corridoio; alla seconda seduta, stavolta chiuse la porta, ma, arrestatosi, compì mezzo giro su di sé per volgere la parte sinistra del corpo (è un mancino) verso l’uscio della stanza di analisi, come se si ponesse in ascolto.

Il sentimento della vergogna, che trapelava fin dai primi mesi ed alcuni suoi pregressi agiti mi resero certo che si trattava di una sindrome paranoidea, Oscar non riusciva ad avere un rapporto fisso con una donna e ricorreva a prestazioni contra naturam  con prostitute compiacenti, oppure alla coazione masturbatoria che lo lasciava carico di vergogna; acquistava riviste pornografiche per gay, pur asserendo di essere eterosessuale.

Si vergognava anche di aver portato, cucito all’interno della giacca, il “brevetto” di Sant’Antonio, che sua madre gli impose (per anni, fino all’età adulta) di portare con sé.

Strana donna questa Adelina, tutta Chiesa, “ma anche puttana”, a detta di Oscar, o “almeno così diceva mio padre”. La collocheremo – seguendo Bergeret – nella grande struttura di base psicotica, caratterizzata da un Io fissato ad un’economia pregenitale, in cui la componente anale (nel suo “primo sottostadio”) è dominante.

Di Adelina, la madre, Oscar porta due emblematiche scene (scenari ?) che la vedono protagonista: nel primo (un evento storico, senza dubbio) Mario, il padre di Oscar, irrompe in cucina dove il paziente e la sorella, ancora bambini, aiutano la madre (“sempre ammalata”), gridando con feroce sarcasmo: “Savè, fioi, cossa che la voleva – quea vaca?” (“Sapete, ragazzi, cosa pretendeva da me quella puttana?”). A quel punto Adelina inizia a farfugliare preghiere, tra le quali quella inserita nel ‘Brevetto’ succitato. Mario, sghignazzando, prosegue raccontando ai figli atterriti le pretese sessuali della madre, secondo Mario relative ad un rapporto contra naturam.

L’altro ricordo è più “nebuloso”: “Un giorno eravamo in campagna e vidi mia mamma acquattarsi dietro una siepe. Lei lo sa, dottore: quando si è piccoli si ha una curiosità morbosa per certe cose. Quando ce ne siamo andati, sono corso a vedere e trovo una merda … mi scusi: un escremento giallo, molto grande, pieno di sangue e brulicante di vermetti bianchi”.

Associo immediatamente un sogno ricorrente che Oscar aspettò molto a raccontarmi, benché lo avesse turbato da sempre: piccoli animali invadono il mondo, assalendo a morsi soltanto le mucche (“vaca”, in Veneto) e lasciandole agonizzanti in un lago di sangue. Dopo aver suggerito un possibile nesso, Oscar mi racconta di aver sempre pensato che fossero formiche ed aggiunge che, col passare degli anni, una volta appresa la lettura, nel sogno verrà introdotto un elemento linguistico. Una voce fuori campo tuona: “Scorrerà del sangue”. Sia Oscar che io siamo discreti cultori di storia del cinema. Io penso (e lui lo cita direttamente) alla voce tonante che annuncia la fine del mondo nel lungometraggio “Il giudizio universale” (1961) di Vittorio de Sica.

Mi è possibile allora trasformare scenario e ricordi in un conglomerato formato dalle precoci letture imposte ad Oscar nella scuola, retta da religiosi, che frequentava, formato altresì dalla conoscenza del disturbo di cui sua madre Adelina soffriva: le emorroidi.

Oscar, che leggiucchiava di psicoanalisi, aveva sempre affermato di “essersi identificato” col padre Mario, soprattutto per la “sua forza fisica” e per l’incapacità “a controllare gli impulsi”.

Scordava di dirmi che lui e suo padre si sentivano perseguitati “dal destino” e da tutti coloro che li circondavano. L’invasione delle formiche assassine non è l’irruzione di “oggetti bizzarri” di cui parla Bion, ma la trasformazione di un’imago in un enunciato, in origine riferentesi ad una richiesta di ‘assalto sessuale’ contro natura.

Che la ricostruzione sia corretta è validato dallo stesso Oscar, quando accogliendo la (prudente!) interpretazione offertagli, racconta che da ragazzino la precaria, insufficiente alimentazione, gli aveva causato disturbi che comportavano perdite di sangue nel corso della defecazione. Accompagnandolo dal proctologo, il padre lo aveva così dileggiato, sogghignando:

“El te dirà che te lo bèchi par dadrìo!” (“Ti dirà che lo prendi nel sedere!”).

Si noti che il ’Brevetto di Sant’Antonio’ presenta una croce di luce che si accampa su un’immagine inquietante di un cuore che gronda sangue.

La psicoanalisi tedesca (pur ignorando il transgenerazionale) ha intuito la correlazione tra il corredo pulsionale e la formazione di quelli che denomina “ricordi dell’esperienza interiore” (Loch 1975) p. 69:

 

Sono i predicati forniti dal proprio ‘ modus pulsionale’ come pure dalla ‘modalità d’azione’ della persona di riferimento (la quale, da parte sua, ha un irriducibile radice pulsionale, ma naturalmente possiede anche innumerevoli impronte socialmente determinate), a rappresentare i ‘ricordi dell’esperienza interiore’, le ‘rappresentazioni di cosa’ o i ‘rapporti oggettuali’. Essi lasciano ‘tracce’ che erano consce e che diventano inconsce a causa dell’attività di difesa.

 

In base a quanto esposto finora possiamo concludere che sono tre gli obiettivi della Psicoanalisi:

 

1) Rendere consce le rappresentazioni rimosse, con una terminologia più moderna, i significanti rimossi.

2) Rendere consce le tracce mnestiche e le relazioni oggettuali e

3) rendere conscio il ’nucleo dell’Io’. “Tra ciò che viene chiamato ‘ rappresentazione di cosa ’ da una parte, e quello che si trova di fronte a questa, dalla parte del soggetto, ovverosia il ’nucleo dell’Io’ (l’elemento costante degli ‘investimenti’) dall’altra, sussiste una nuova corrispondenza ”.

 

La duplice radice del “concetto limite” Trieb, non è un’eredità che si presenti con un tratto joculatorio (come tale soggetta alla rinuncia, mercé l’alibi della “mitologia”), bensì un nucleo complesso capace di scarica e di “ appetitus ad rappresentandum .

E’ l’effetto che investe la traccia, acciocché essa divenga segno (forse ciò che Piera Aulagnier denominava “pittogramma”); ci si chieda – per offrire un esempio – se è mai esistito lo stato di beatitudine fusionale di cui noi analisti parliamo: possiamo rispondere di sì, purché non si scordi che è soltanto après-coup che la psiche edifica tale situazione edenica; non prima, cioè, che le tracce vengano investite di affetto. La rappresentazione inconscia viene sempre costruita (Freud non ha mai pensato che l’affetto fosse solo il portato di un urgere della scarica); la pulsione (come spiegò persuasivamente Green ne Il discorso vivente) si volge verso la scarica e verso la rappresentazione (già all’altezza dei “Due principî…” Freud sosteneva la valenza comunicativa della scarica affettiva del lattante).

Ancora una volta: è l’entrata nella relazione oggettuale a determinare aumento di tensione.

L’Io onnicomprensivo percepisce l’altro come steresi del (in tal senso è possibile discorrere di “dispiacere ” e di “ necessità di liberarsi da un accumulo di tensione ”); l’ingresso dell’altro nell’Io onnicomprensivo corrisponde all’iscrizione della relazione con l’altro nell’ordine pulsionale (seguendo lo stesso percorso, l’identificazione primaria – anoggettuale – viene pulsionalizzata); sarà compito del linguaggio operare la metabolè da affetti a rappresentazioni (occorrerà – come, il concetto di Vorstellungs repräsentant).

Ricostruendo la storia degli “altri rappresentativi”, per Oscar la questione della trasmissione transgenerazionale che fluisce nell’apparizione del primo psicotico di famiglia (Oscar, per l’appunto) diventa perspicua. Va da sé che la ricostruzione segna il passo laddove il paziente non è  in grado di pensarla, ne agisce i lacerti, comprendendone in analisi il significato grazie alla costruzione proposta dall’analista.

Occorre partire da un’ipotesi, che le ricerche d’archivio cui è avvezzo un criminologo permettono di suffragare: il panico omosessuale acuto cui Oscar è periodicamente esposto (quando dorme fuori casa si scompensa, terrorizzato all’idea di poter essere sodomizzato) proviene dalla storia della famiglia del paziente.

Quando Oscar aveva 11 anni, la bisnonna gli racconta che il figlio Ménego (nonno di Oscar) era tornato a casa in stato confusionale, ma non era riuscito a raccontare ciò che gli fosse accaduto; la madre, esaminando (nell’atto di ’ fare il bucato’) la biancheria del figlio Ménego, aveva notato tracce di sangue sulle mutande.

Nel 1917 era stato ricoverato nell’allora manicomio criminale N. F. noto pedofilo abitante a Z., il paesino dell’entroterra veneziano da dove proveniva la famiglia di Oscar.

Poiché l’episodio narrato dalla bisnonna era accaduto nel 1916, si può presumere che Ménego sia stata una delle tante vittime di N. F. (alcune delle quali – come accade – non avevano denunziato l’episodio).

Fatto sta che non è Ménego ad andarsene da Z., ma Mario, padre di Oscar che aveva raccontato:

 

Mio padre diceva che non ne poteva più di quei risolini, di quelle occhiate in tralice, da quando era bambino”.

 

Si può allora sostenere che l’ideazione paranoide fa il suo esordio con Mario e non con Ménego, in questa martoriata famiglia? Se la risposta è affermativa, occorre ricordare che Mario non era psicotico come il figlio e che era riuscito ad ottenere un posto di grande responsabilità presso un importante laboratorio in cui si effettuavano ricerche scientifiche. I guai erano iniziati quando Mario (ma l’erotomania è tutta da provare) perdette il lavoro, a causa di un attacco pantoclastico, innescato (a suo dire) dalle continue ossessive profferte d’amore di una assistente (una foto di Mario, vero e proprio divo “anni cinquanta” sembra valicare la tesi). Nella lite Mario aveva distrutto importanti attrezzature scientifiche ed era stato licenziato in tronco.

Della scelta di Adelina come partner abbiamo già detto: c’è da supporre che per tempo la donna abbia accettato di buon grado i rapporti contra naturam che il marito le proponeva, proprio perché, per tacitare l’ubiquitaria disforia del marito, ella si propose –et pour cause– ancora una volta come soggetto passivo del suo desiderio; da lì la scena traumatica (cfr. supra) avvenuta in cucina, che aveva svelato ai figli ignari di quale stoffa fosse intessuto il “rapporto amoroso” dei genitori.

Le sedute rievocative di Oscar testimoniano della pressoché inesistente tollerabilità del padre alle frustrazioni, di cui la vergogna per l’innominabile relativo a Ménego era il cespite. “ Il matrimonio di mio padre con mia madre –raccontava Oscar– sarebbe servito per restaurare l’immagine di famiglia ”.

Racamier chiamerebbe gli agiti di Mario “manovre anti lutto”. Santa e Puttana Adelina, la madre di Oscar, che aveva sempre avuto un sacro orrore per i desideri libidici del figlio, che aveva esorcizzato nella scritta che si accampava nel “Brevetto” di Sant’Antonio: “Fuggite, o spiriti maligni, il figlio di David ha vinto: Alleluia, Alleluia”.

Sul principio dell’isolamento e sul culto del segreto si era difatti costruita la collusione di coppia tra i genitori di Oscar: era stato Mario a regalare il “Brevetto” ad Adelina, assecondandone i sintomi.

La croce di luce che si accampa su un cuore che gronda sangue costituiva per Mario l’emblema (in senso araldico) dell’innominabile segreto di famiglia sorto a seguito della violenza perpetrata sul padre Ménego.

I rapporti sessuali che Oscar intratteneva con prostitute compiacenti si limitavano a mimare l’episodio evocato del padre (nel suo attacco di rabbia agito in cucina) relativo al desiderio perverso della moglie Adelina ed – al contempo – costituivano una violenta teatralizzata escursione in una mansion (nel senso del teatro medioevale) in cui si era consumato il sacrificio del nonno Ménego; epicedio che Oscar riproponeva in una rappresentazione (secondo ciò che egli stesso narrava) formicolante di scatologia e di pornografia.

Il timore di una ‘pictura infamans’, da leggere quotidianamente sui volti dei compaesani, aveva indotto la madre di Ménego a lasciare in ombra, a non indagare sulla violenza subita dal figlio.

Scrissi altrove:

 

Mario (il padre di Oscar) nella tipica collusione patologica di coppia con la moglie Adelina, aveva colto (o creduto di cogliere) nel desiderio della donna (si ipotizza altresì che l’avesse indotto) una riproposizione -da agire nel ruolo attivo- del vergognoso segreto di famiglia di cui Oscar nulla poteva sapere, se non qualcosa di oscuro, metabolizzato attraverso l’udito: le voci che minacciavano di sodomizzarlo (negli attacchi di panico omosessuale); oppure qualcosa di metabolizzato secondo l’estrema libertà che presiede alla creazione delle immagini: i piccoli vermi che allignavano nel retto della madre, l’assalto mortale delle formiche alle ‘mucche’… In tal modo la voluttà nel far violenza ad una donna (Oscar odiava la madre ed attraverso lei la bisnonna, reticente, ‘porta segreti ’) precludeva al paziente il piacere sessuale, lasciandogli soltanto il reliquato di un godimento enigmatico, da cui sarebbe rimasto -per sempre- escluso”.

(Cheloni 2003, p. 315).

 

Non v’è alcun dubbio che la rappresentazione orgiastica, maniacale, messa in scena da Mario alla presenza dei figli e relativa alla richiesta sessuale di Adelina si presti a dar vita ad un (paradossale) tentativo di negazione del lutto per ciò che di innominabile Mario aveva intuito circa la violenza subita dal padre Ménego.

Nel mio paziente (Oscar) la progressione da indicibile a innominabile si presenta come materiale impensabile e (come tale) soggetto ad una metabolé, una sorta di giuoco inconsapevole, attraverso il quale Oscar mantiene/svela il segreto che ha ereditato, a costo di allucinazioni (e di attacchi di panico omosessuale acuto). Per il paziente ciò che non poteva essere pensato (una ‘favola’ della bisnonna con il nonno quale protagonista, raccontata ad un ragazzino di undici anni) costituiva dunque il sottofondo, la melodia che accompagnava la metabolé dell’immagine attraverso il tempo: dalle mutande insanguinate del nonno, alla fantasia sulla “perversione” materna (accesa dalla scenata folle del padre). Questa fantasia si concretizza nel sogno della mamma/mucca e nel ricordo di copertura dell’escremento brulicante di vermi, 'effetto' (fantasticato) dell’oltraggio desiderato e subito dalla madre Adelina.

Seguendo Racamier, è forse possibile parlare di dégradation fantasmatique: la regressione, innescherebbe un processo di degradazione formale (e funzionale) dei fantasmi, i quali, perdute le proprie qualità di elaborazione, sarebbero “ridotti allo stato bruto di derivati pulsionali” (Racamier 1989).

La bassa soglia di tollerabilità alle frustrazioni, la primazia della pulsione di aggressività sono eredità dirette che passano da Mario al figlio Oscar, il nostro paziente; ma che Oscar debba assumere il lascito (Cheloni 2002) del nonno Ménego sarà Mario a ‘deciderlo’ innescando nel figlio un sentimento di vergogna che non gli appartiene (si ricordi la frase detta ad Oscar dal padre, mentre lo accompagnava dal proctologo).

Grazie all’aiuto (inconscio) offerto al marito da Adelina, il cuore trafitto di Gesù accompagnerà Oscar per lungo tempo, servendo da usbergo contro il timore di essere sodomizzato: una scena modello che non “appartiene” al nostro paziente, ma al nonno Ménego e che tuttavia è bastata per trasformare la sospettosità del padre nel franco delirio persecutorio del figlio Oscar:

 

La ricerca di promiscuità sessuale perversa con le prostitute (…) riveste così lo scopo di rigettare questi messaggeri luciferini nell’inferno che li aveva partoriti ” (Cheloni 2004).

 

Iscritto nell’ordine pulsionale paterno (cif. supra), Oscar, tuttavia, eredita dal nonno l’immagine fontale della violenza, che nel nostro paziente si cristallizza nel terrore di essere sodomizzato e nella reazione attuata attraverso un godimento parossistico; la “vergogna” del nonno è smascherata dalla mamma/vacca nel desiderio di “ricevere” il marito. Il cuore dell’enigma si situa anche nel sogno ricorrente di Oscar, tentativo (da una parte), di affrontare decisivi nodi emotivi, e, oltre a ciò, sistema di “fissaggio” mnemonico, come dimostrato da due ricercatori americani su una tipologia di sogni ricorrenti (Fiss – Lichtman 1976). Nel suo linguaggio immaginifico Paul-Claude Racamier, in Antoedipe et ses destins parla di un “vuoto”, prodotto dall’elusione delle generazioni nella vita famigliare:

 

Tentativo di ritorno all’inanimato e predominio dell’istinto di morte, così avrebbe forse detto Freud. Eccesso di aggressività innata e predominio dell’istinto di morte, così avrebbe detto Melania Klein. Forse… e addirittura senza dubbio, qualora si riconosca all’istinto di morte (…) la funzione di guardiano dei limiti e contrappeso all’espansione indefinita dell’Eros”.

(Racamier 1989).

 

Nei pazienti gravi come Oscar, il cui destino è sovente il carcere o l’ospedale psichiatrico giudiziario, si coglie il nesso tra il “principio di sopravvivenza” (Racamier) ed il “principio di annientamento”; non occorre specificare, come fa Racamier, che il “Principio di sopravvivenza” regola innanzi tutto le pulsioni dell’Io, mobilita le difese di carattere vitale (pronte a mettersi in moto nelle psicosi). Ma la coazione che conduce quasi sempre tali pazienti all’annientamento (psichico, ma anche - spesso - fisico) non è estranea al giuoco dell’Eros.

Risulta più chiara l’affermazione sopraccitata di Racamier: il Todestrieb è veramente un “contrappeso” (cfr. supra) all’espansione “indefinita dell’ Eros” e, nel contempo “guardiano dei limiti”, o, come scrisse poeticamente Freud: “Guardia del corpo della morte”.

Perché nella Berceuse dei “Canti e delle danze della morte” di Mussorgskij è la Morte in persona a cantare la ninna-nanna al bambino? La domanda non trova risposta nel folklore, ma nel continuo ripetere, da parte di generazioni e generazioni di mamme, della medesima canzone, con il medesimo ritmo e le stesse pause, fino all’immancabile tentativo di interruzione.

Quasi sempre il bambino risponderà, se sa parlare: “Ancora una volta, per piacere, mamma!”.

L’operare cieco e silenzioso del Todestrieb si innesta nel ritmo del pulsare sempre uguale della ninna-nanna. Nel “Problema economico del masochismo”, pubblicato nel 1924, Freud scriveva che la caratteristica qualitativa dello stimolo possedeva una genesi particolare:

 

Forse è il ritmo (Vielleicht ist der Rhythmus) la sequenza temporale dei cambiamenti(die zeitliche Ablauf) degli aumenti e della diminuzioni (in den Veränderungen, Steigerungen und Senkungen) della quantità dello stimolo. Chissà.” (der Reizquantität; wir wissen es nicht).

 

Occorre scavare ancòra una volta nel terreno sempre fertile della natura polisemica del testo freudiano. Le guardie del corpo della morte chiamano sì all’origine, ma intesa come la situazione fusionale mai sperimentata della silente assenza di conflitti. In un lavoro intitolato: Ultrasonographic Study of Fetal Movements due studiosi di perinatologia hanno persuasivamente posto il dubbio di carattere edenico della vita fetale (Ianniruberto, Tajani 1981).

Rileggiamo più partecipi il nostro testo freudiano, che ha dato il via alla nostra indagine:

 

Auch diese Lebenswächter sind ursprünglich Trabanten des Todes gewesen”.

 

Anche questi custodi della vita sono stati in origine guardie del corpo della morte. Porsi “direttamente al servizio” del Lustprinzip colloca in vita sospesa (non certo “al di là del principio di piacere”) la coazione a ripetere; in questo senso quest’ultima “pone in questione” il Lustprinzip.

Nel “Problema economico del masochismo”, a ben vedere, il nucleo centrale è individuabile in “quell’oscuro potere del destino” (die dunkle Macht des Sckicksals) che Freud non esita a ricondurre ad “una concezione parentale” (elterliche Auffassung), ben connessa alla “realistica paura” (die reale Todesangst) che gli uomini hanno della morte.

Per provocare la punizione del destino, la “grande autorità parentale” (der groβe Elternmacht), non c’è che da “agire in modo dissennato” (das Unzweckmäβige tun)           e “contro i propri interessi”, distruggere le prospettive che si aprono nel mondo della realtà ed (eventualmente, la “propria reale esistenza” - eigene reale Existenz). La libido può ben “imbrigliare” il Todestrieb, ma l’impasto (die Vermischung) e la mescolanza (die Verquickung) delle due pulsioni, od il loro disimpasto (die Entmischung) non escludono la presenza all’interno dell’organismo di un “masochismo erogeno vero e proprio” (der eigentliche, erogene Masochismus), residuo di quella fase dello sviluppo in cui ha avuto luogo quel processo essenziale per la vita: la fusione di Eros con la pulsione di morte.

La ricerca di un destino di morte, di distruzione, attivato magari con sottili tecniche che ricordano quelle messe in atto dai “delinquenti per senso di colpa”, conduce alcuni soggetti a governare la loro incurabilità attraverso le ben note “tecniche di neutralizzazione”: negazione della propria responsabilità, minimizzazione del danno provocato, colpevolizzazione della vittima e condanna (anche morale) dei giudici  con l’ausilio del consulente tecnico del Pubblico Ministero.

Giova ricordare come la stabilità, la quiete dalle ambasce esistenziali , l’azzeramento degli stimoli distruttivi si percepiscano sin dall’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere e divengano effettivi dopo la condanna; abbiamo osservato come la minore afflittività degli arresti domiciliari,  (art. 284 c. p. c.) rispetto alla custodia in carcere, non emerge in questi pazienti, che si trovano assai più a loro agio in casa circondariale, dove spesso sono additati come “detenuti modello”.

Il nostro paziente, Oscar, una volta scontata la pena detentiva, uscì dal carcere ormai padrone del suo destino: sia il padre Mario, che la madre Adelina erano morti.

Non gli restava che trovare il sistema di fare della propria vita ormai vuota la propria fortezza; così tornò a delinquere, ma stavolta ottenne gli arresti domiciliari. Decorsi i termini massimi per la custodia cautelare (art. 307 c. p. c.) Oscar non volle più uscire di casa; e là ancora si trova, nonostante la misura cautelare avesse perduto efficacia perché la pena irrogata era stata condizionalmente sospesa. La rottura dell’ordine della generazione era avvenuta in concomitanza dell’episodio pantoclastico di cui era stato protagonista Mario; in seguito al suo licenziamento tutto era cambiato ed Oscar aveva potuto ereditare dal nonno Ménego il timore della ripetizione infamante dell’episodio della sodomia.  Mario “distruggeva”, per poter parlare del padre, mentre ad Oscar, che non poteva usufruire di quella parte (Anteil) della pulsione di morte “che non è stata estroflessa sotto forma di pulsione distruttiva” (welcher der Auswärtswendung als Destruktionstrieb entging) non restava che portare a compimento quel destino di autodistruzione richiesto dall’ordine della generazione. Ancora una volta: anche i custodi della vita sono stati, in origine, guardie del corpo della morte.


 

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