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Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività

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   "MUSICA MAESTRO!"

" Armonie del silenzio".

di Giovanni Reginato

 

 

 

                                             

 

      

 

Mi trovavo, un giorno di alcuni anni fa, a visitare il museo d’arte moderna di Dijon, in Francia.

Sulla parete di una sala del museo era posto, fra altre opere, quasi nascosto, un quadro di dimensioni piuttosto piccole. Nero.

La mia curiosità fu attratta da questa tela nera, essendo posta in basso rispetto alle altre opere mi chinai per leggerne l’autore ed il titolo; non ricordo il nome dell’autore, anzi dell’autrice, il titolo era: “Silenzio”.

Come spesso accade di fronte a certe opere contemporanee il mio primo pensiero andò a quelle cartoline burlesche che spesso si trovano nei luoghi di turismo nelle quali la dicitura indica il nome della città “di notte”.

Il secondo pensiero, da fruitore ma inesperto d'arte, eppure fu: “Sono capace anch’io”, ma essendo, come già detto curioso e spesso sopraffatto dalla mia curiosità mi avvicinai maggiormente alla tela notando che in un angolo in alto a destra si potevano notare dei piccoli, quasi invisibili punti bianchi distribuiti in “disordine”.

Allora un terzo pensiero mi venne alla mente che forse quella tela davvero rappresentava ciò che ognuno di noi percepisce nelle occasioni nelle quali si trova immerso nel silenzio.

Il silenzio non è mai totale: che li si chiami “rumori bianchi”, che siano echi di qualcosa che giunge da qualche remoto luogo, dall’ambiente o, cambiando prospettiva, pensieri che proprio grazie al silenzio giungono in superficie da uno spazio altro interno, il silenzio non può farli tacere; al contrario, permette di udirli, mentre i rumori che tanto spesso ci assordano, o che creiamo allo scopo di non udire, rappresentano il vero silenzio, in cui la parola non trova più posto.

E’ stato osservato in questa sede come fra i pazienti di Freud, alcuni si lamentassero del fatto che egli non dicesse una parola, altri che parlasse persino troppo.

Lo studio di Freud, all’interno della sua casa, era appartato, distante dai rumori, all’epoca per altro meno invadenti di oggi, della strada.

Non sappiamo veramente quanto in realtà Freud parlasse ai propri pazienti e quanto rimanesse in silenzio, ciò che di certo sappiamo è però che “la cura attraverso la parola” che Freud aveva scoperto va intesa principalmente nel senso dell’ascolto che alla parola va dato.

Vi è una premessa da fare, credo, riguardo al linguaggio e alle scoperte della Psicoanalisi: così come l'inconscio, di cui è il veicolo, il linguaggio si svolge in un tempo, possiede degli spazi, ma non risiede nello spazio, né nel tempo del qui ed ora, pare venire e tornare dal proprio luogo d'origine senza che questi sia identificabile, è un prisma che decompone il tempo, un momento extratemporale ma non perpetuo, nel quale sorge una memoria che non corrisponde alla somma dei ricordi, esso parla nel presente quale intervallo fra memoria del passato e attesa del futuro, fra presenza e assenza nel loro mutuale richiamo.

Vi è un altro aspetto sul quale mi preme porre l'accento: l'uso degli strumenti di comunicazione ci ha ormai portato, spesso, a considerare il linguaggio come un mero sistema di trasmissione di dati, nel quale le parole sarebbero le informazioni destinate a portare un contenuto da un luogo all'altro, da un parlante ad un uditore.

Ma il linguaggio sfugge sempre ad ogni tentativo di categorizzarlo, esso porta certamente contenuti, altrimenti non avrebbe senso parlare, permette di scambiarci elementi d'informazione, ma questo è solo un piccolo frammento di ciò che il linguaggio è in realtà. Possiamo immaginare la parola come un cono di luce proiettato sulle cose; ma oltre i confini di quel cono di luce, di ciò che la parola illumina, vi è una zona d'ombra nella quale luce ed ombra s' intersecano e, più in là ancora l'immensità del mistero che si cela dietro ogni parola detta. Paradossalmente, è proprio quella zona d'ombra che permette la condivisione di ciò che non è nell'enunciato preciso, e che si situa nello spazio della distanza fra chi parla e chi ascolta.

Tornando al tema, Freud (l'analista) è lì, fisicamente presente, e nello stesso tempo assente, di quell'"assenza" che lascia spazio e tempo ai pensieri per sorgere e chiedere di essere espressi in parole ed armonizzati in un linguaggio coerente con il vissuto, ponendo fine al caos e al dolore per il quale i suoi pazienti si rivolgono a lui. Freud comprese che il linguaggio si situa in quest'esperienza fondamentale: si muove fra ciò che ha da dire, e dice, e ciò che ha da dire e non è in grado di dire.

Semplifichiamo: il grido di aiuto rivolto all'analista è nient'altro che un grido, sebbene sia già in qualche modo strutturato, qualunque ne sia il vissuto esistenziale, nè è destinato di per sé a stabilire una qualche relazione particolare, è , semmai, la modalità nella quale la parola esplode, è un grido esistenziale, generato dal linguaggio quando questi si trova di fronte alla propria impotenza; è un appello che si manifesta nella domanda "perché? Da dove mi viene tutto questo?", rivolta a qualcun altro. Freud non cadde (forse s'ingannò in parte ai primi inizi del suo lavoro) nella trappola della mera ricostruzione storica degli eventi passati per spiegare ciò che i suoi pazienti gli raccontavano. Eppure il linguaggio rimane veicolo della permanenza di una coscienza e di una memoria della propria condizione e della propria storia. E Freud era ben conscio di ciò, e su questo fondò la psicoanalisi.

Sappiamo che Freud non apprezzava particolarmente la musica, ma ci chiediamo in questa sede se egli non abbia piuttosto sacrificato un gusto, o una passione, che appartiene a molti, per ricercare lo stesso gusto di armonia, di melodia e di ritmo nell'ascoltare, nello scrivere e nel parlare. Soprattutto nell'offrire il proprio ascolto.

Vogliamo qui affermare come i vissuti esistenziali di cui il linguaggio è portatore si manifestino nelle differenti modulazioni ed intonazioni, tratti e ritmi che ad essi corrispondono quando parliamo. Ciò perché il linguaggio è inscindibile da tali vissuti: gioia, tristezza, angoscia, paura, calma, incarnano il linguaggio (mi si consenta di rovesciare e di parafrasare, in questo contesto, l'annuncio dell'Evangelista Giovanni), che però rimane insufficiente nel tentativo di colmare ciò che è incolmabile, eppure sempre aperto a molteplici risonanze con chi ascolta e, contemporaneamente, con un in-finito cui sempre rimanda, ad altre parole, ad altri vissuti, ad altre memorie.

Il grido si fa appello, e quest'appello, raccolto dall'ascolto, ritmato dai silenzi e dalle parole, poco a poco armonizzato da assonanze e consonanze tra parole e vissuti, assume sempre più le sembianze di un canto nella ricerca di una risonanza con l'altro cui la parola si rivolge e, se vogliamo, di un cantico alla memoria ri-scoperta.

Tale ricerca, nella modulazione e nel tono, esprime il tentativo di armonizzare presenza e assenza delle cose in una distanza che può trovare (la musica è il tema della serata) il suo corrispondente nell'intervallo musicale, in molto di più, cioè, di un numero o di un tempo che si possa calcolare o formalizzare in equazioni o formule, se non pensando il linguaggio solamente per ciò che ha da dire del mondo e delle cose, dei ricordi (non sovrapponiamo i ricordi alla memoria), in una totale sordità e disattenzione per ciò che di sacrale il linguaggio porta con sé: il fatto che intenda (in ogni accezione) molto più di quanto possa, o voglia, dire.

Non fu però questa la grande scoperta di Freud: la sua grande scoperta fu di teorizzare, e far accettare in termini moderni la possibilità di applicare ciò che ogni uomo ha da sempre saputo, da quando la parola è comparsa sulle sue labbra, supplice ed indigente, per fare appello ad altrui secondo, e in funzione di un ri-trovamento di qualcosa di già dato, di già presente, di una ri-composizione delle esperienze date in un'armonia sempre così fragile e così facile a smarrirsi.

Così, mi permetto di tornare all'apertura di questo intervento e -chiarendo che non sono nemmeno un critico dell'arte e che, di conseguenza mi assumo fin d'ora ogni responsabilità in merito ad eventuali stupidaggini, accettando qualunque obiezione in proposito- immaginare che ognuno di noi, in musei od esposizioni, libri o riproduzioni, abbia senz'altro avuto l'occasione di osservare opere, alcune costruite da oggetti -mi rendo conto scrivendo di aver detto poco sopra "costruite da" e non con oggetti- quasi, se non del tutto, deformi, quando non informi, fastidiosamente rumorosi nella presentazione, stridenti nei colori e nei materiali di composizione, i quali oggetti se, come si sente affermare, vogliono "stupire", o "denunciare" o "destrutturare", "uccidere l'accademismo" e quant'altro, quasi sempre ciò viene offerto in funzione della rappresentazione di un'epoca, e ciò mi spinge a riflettere su di una semplice idea: che in fondo, se esiste una Babele delle lingue -e l'arte è anch'essa un linguaggio e come tale si esprime attraverso le proprie lingue- ciò riposa nel fatto che siamo sempre sulla soglia del rischio di lasciar parlare gli oggetti per noi, di perderci noi stessi nei rumori di un mondo in cui l'invasione degli oggetti e del loro rumore sembra deformare ogni cosa e sostituirsi ad un'interiorità invece evacuata. E in questa sorta d'inferno (la memoria corre al celebre trittico nel quale compare L'inferno del musicista di H. Bosch) ci perdiamo persino volentieri, anzi, volenti, illudendoci di far tacere in tal modo ogni sofferenza ed ogni angoscia; ma tale Pandemonio (non uso questo termine a caso), cui chiediamo di aprire la strada a quanto ci permetta di spogliarci del nostro io, porta con sé l'ombra di un mondo nel quale il canto e l'intreccio di parole, e suoni, e i silenzi gravidi della meraviglia di ritrovare, come in scale armoniche ascendenti, nelle proprie parole e nelle parole dell'altro, qualcosa di mai perduto e qualcosa di ancora aperto sull'attesa e sulla speranza scompaiono, e nel quale sembra apparire il lamento dolente del fantasma in uno dei secondi Caprichos di Goya o nel quale non rimane che urlare, per far udire la propria voce.

Forse è tempo di porgere l'orecchio a ciò che un fecondo silenzio può offrirci.

Grazie per non aver mai amato molto la musica, Herr Professor!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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