Mi trovavo, un giorno di alcuni anni
fa, a visitare il museo d’arte moderna di Dijon, in Francia.
Sulla parete di una sala del museo era
posto, fra altre opere, quasi nascosto, un quadro di dimensioni
piuttosto piccole. Nero.
La mia curiosità fu attratta da questa
tela nera, essendo posta in basso rispetto alle altre opere mi chinai
per leggerne l’autore ed il titolo; non ricordo il nome dell’autore,
anzi dell’autrice, il titolo era: “Silenzio”.
Come spesso accade di fronte a certe
opere contemporanee il mio primo pensiero andò a quelle cartoline
burlesche che spesso si trovano nei luoghi di turismo nelle quali la
dicitura indica il nome della città “di notte”.
Il secondo pensiero, da fruitore ma
inesperto d'arte, eppure fu: “Sono capace anch’io”, ma essendo, come
già detto curioso e spesso sopraffatto dalla mia curiosità mi
avvicinai maggiormente alla tela notando che in un angolo in alto a
destra si potevano notare dei piccoli, quasi invisibili punti bianchi
distribuiti in “disordine”.
Allora un terzo pensiero mi venne alla
mente che forse quella tela davvero rappresentava ciò che ognuno di
noi percepisce nelle occasioni nelle quali si trova immerso nel
silenzio.
Il silenzio non è mai totale: che li si
chiami “rumori bianchi”, che siano echi di qualcosa che giunge da
qualche remoto luogo, dall’ambiente o, cambiando prospettiva, pensieri
che proprio grazie al silenzio giungono in superficie da uno spazio
altro interno, il silenzio non può farli tacere; al contrario,
permette di udirli, mentre i rumori che tanto spesso ci assordano, o
che creiamo allo scopo di non udire, rappresentano il vero silenzio,
in cui la parola non trova più posto.
E’ stato osservato in questa sede come
fra i pazienti di Freud, alcuni si lamentassero del fatto che egli non
dicesse una parola, altri che parlasse persino troppo.
Lo studio di Freud, all’interno della
sua casa, era appartato, distante dai rumori, all’epoca per altro meno
invadenti di oggi, della strada.
Non sappiamo veramente quanto in realtà
Freud parlasse ai propri pazienti e quanto rimanesse in silenzio, ciò
che di certo sappiamo è però che “la cura attraverso la parola” che
Freud aveva scoperto va intesa principalmente nel senso dell’ascolto
che alla parola va dato.
Vi è una premessa da fare, credo,
riguardo al linguaggio e alle scoperte della Psicoanalisi: così come
l'inconscio, di cui è il veicolo, il linguaggio si svolge in un tempo,
possiede degli spazi, ma non risiede nello spazio, né nel
tempo del qui ed ora, pare venire e tornare dal proprio
luogo d'origine senza che questi sia identificabile, è un prisma che
decompone il tempo, un momento extratemporale ma non perpetuo, nel
quale sorge una memoria che non corrisponde alla somma dei ricordi,
esso parla nel presente quale intervallo fra memoria del passato e
attesa del futuro, fra presenza e assenza nel loro mutuale richiamo.
Vi è un altro aspetto sul quale mi
preme porre l'accento: l'uso degli strumenti di comunicazione ci ha
ormai portato, spesso, a considerare il linguaggio come un mero
sistema di trasmissione di dati, nel quale le parole sarebbero le
informazioni destinate a portare un contenuto da un luogo all'altro,
da un parlante ad un uditore.
Ma il linguaggio sfugge sempre ad ogni
tentativo di categorizzarlo, esso porta certamente contenuti,
altrimenti non avrebbe senso parlare, permette di scambiarci elementi
d'informazione, ma questo è solo un piccolo frammento di ciò che il
linguaggio è in realtà. Possiamo immaginare la parola come un cono di
luce proiettato sulle cose; ma oltre i confini di quel cono di luce,
di ciò che la parola illumina, vi è una zona d'ombra nella quale luce
ed ombra s' intersecano e, più in là ancora l'immensità del mistero
che si cela dietro ogni parola detta. Paradossalmente, è proprio
quella zona d'ombra che permette la condivisione di ciò che non
è nell'enunciato preciso, e che si situa nello spazio della distanza
fra chi parla e chi ascolta.
Tornando al tema, Freud (l'analista) è
lì, fisicamente presente, e nello stesso tempo assente, di quell'"assenza"
che lascia spazio e tempo ai pensieri per sorgere e chiedere di essere
espressi in parole ed armonizzati in un linguaggio coerente con il
vissuto, ponendo fine al caos e al dolore per il quale i suoi pazienti
si rivolgono a lui. Freud comprese che il linguaggio si situa in
quest'esperienza fondamentale: si muove fra ciò che ha da dire, e
dice, e ciò che ha da dire e non è in grado di dire.
Semplifichiamo: il grido di aiuto
rivolto all'analista è nient'altro che un grido, sebbene sia già in
qualche modo strutturato, qualunque ne sia il vissuto esistenziale, nè
è destinato di per sé a stabilire una qualche relazione
particolare, è , semmai, la modalità nella quale la parola esplode, è
un grido esistenziale, generato dal linguaggio quando questi si trova
di fronte alla propria impotenza; è un appello che si manifesta nella
domanda "perché? Da dove mi viene tutto questo?", rivolta a
qualcun altro. Freud non cadde (forse s'ingannò in parte ai primi
inizi del suo lavoro) nella trappola della mera ricostruzione storica
degli eventi passati per spiegare ciò che i suoi pazienti gli
raccontavano. Eppure il linguaggio rimane veicolo della permanenza di
una coscienza e di una memoria della propria condizione e della
propria storia. E Freud era ben conscio di ciò, e su questo fondò la
psicoanalisi.
Sappiamo che Freud non apprezzava
particolarmente la musica, ma ci chiediamo in questa sede se egli non
abbia piuttosto sacrificato un gusto, o una passione, che appartiene a
molti, per ricercare lo stesso gusto di armonia, di melodia e di ritmo
nell'ascoltare, nello scrivere e nel parlare. Soprattutto nell'offrire
il proprio ascolto.
Vogliamo qui affermare come i vissuti
esistenziali di cui il linguaggio è portatore si manifestino nelle
differenti modulazioni ed intonazioni, tratti e ritmi che ad essi
corrispondono quando parliamo. Ciò perché il linguaggio è inscindibile
da tali vissuti: gioia, tristezza, angoscia, paura, calma, incarnano
il linguaggio (mi si consenta di rovesciare e di parafrasare, in
questo contesto, l'annuncio dell'Evangelista Giovanni), che però
rimane insufficiente nel tentativo di colmare ciò che è incolmabile,
eppure sempre aperto a molteplici risonanze con chi ascolta e,
contemporaneamente, con un in-finito cui sempre rimanda, ad altre
parole, ad altri vissuti, ad altre memorie.
Il grido si fa appello, e quest'appello,
raccolto dall'ascolto, ritmato dai silenzi e dalle parole, poco a poco
armonizzato da assonanze e consonanze tra parole e vissuti, assume
sempre più le sembianze di un canto nella ricerca di una risonanza con
l'altro cui la parola si rivolge e, se vogliamo, di un cantico alla
memoria ri-scoperta.
Tale ricerca, nella modulazione e nel
tono, esprime il tentativo di armonizzare presenza e assenza delle
cose in una distanza che può trovare (la musica è il tema della
serata) il suo corrispondente nell'intervallo musicale, in molto di
più, cioè, di un numero o di un tempo che si possa calcolare o
formalizzare in equazioni o formule, se non pensando il linguaggio
solamente per ciò che ha da dire del mondo e delle cose, dei ricordi
(non sovrapponiamo i ricordi alla memoria), in una totale sordità e
disattenzione per ciò che di sacrale il linguaggio porta con sé: il
fatto che intenda (in ogni accezione) molto più di quanto
possa, o voglia, dire.
Non fu però questa la grande scoperta
di Freud: la sua grande scoperta fu di teorizzare, e far accettare in
termini moderni la possibilità di applicare ciò che ogni uomo ha da
sempre saputo, da quando la parola è comparsa sulle sue labbra,
supplice ed indigente, per fare appello ad altrui secondo, e in
funzione di un ri-trovamento di qualcosa di già dato, di già presente,
di una ri-composizione delle esperienze date in un'armonia sempre così
fragile e così facile a smarrirsi.
Così, mi permetto di tornare
all'apertura di questo intervento e -chiarendo che non sono nemmeno un
critico dell'arte e che, di conseguenza mi assumo fin d'ora ogni
responsabilità in merito ad eventuali stupidaggini, accettando
qualunque obiezione in proposito- immaginare che ognuno di noi, in
musei od esposizioni, libri o riproduzioni, abbia senz'altro avuto
l'occasione di osservare opere, alcune costruite da oggetti -mi rendo
conto scrivendo di aver detto poco sopra "costruite da" e non
con oggetti- quasi, se non del tutto, deformi, quando non
informi, fastidiosamente rumorosi nella presentazione, stridenti nei
colori e nei materiali di composizione, i quali oggetti se, come si
sente affermare, vogliono "stupire", o "denunciare" o "destrutturare",
"uccidere l'accademismo" e quant'altro, quasi sempre ciò viene offerto
in funzione della rappresentazione di un'epoca, e ciò mi spinge a
riflettere su di una semplice idea: che in fondo, se esiste una Babele
delle lingue -e l'arte è anch'essa un linguaggio e come tale si
esprime attraverso le proprie lingue- ciò riposa nel fatto che siamo
sempre sulla soglia del rischio di lasciar parlare gli oggetti per
noi, di perderci noi stessi nei rumori di un mondo in cui l'invasione
degli oggetti e del loro rumore sembra deformare ogni cosa e
sostituirsi ad un'interiorità invece evacuata. E in questa sorta
d'inferno (la memoria corre al celebre trittico nel quale compare
L'inferno del musicista di H. Bosch) ci perdiamo persino
volentieri, anzi, volenti, illudendoci di far tacere in tal modo ogni
sofferenza ed ogni angoscia; ma tale Pandemonio (non uso questo
termine a caso), cui chiediamo di aprire la strada a quanto ci
permetta di spogliarci del nostro io, porta con sé l'ombra di un mondo
nel quale il canto e l'intreccio di parole, e suoni, e i silenzi
gravidi della meraviglia di ritrovare, come in scale armoniche
ascendenti, nelle proprie parole e nelle parole dell'altro, qualcosa
di mai perduto e qualcosa di ancora aperto sull'attesa e sulla
speranza scompaiono, e nel quale sembra apparire il lamento dolente
del fantasma in uno dei secondi Caprichos di Goya o nel quale
non rimane che urlare, per far udire la propria voce.
Forse è tempo di porgere l'orecchio a
ciò che un fecondo silenzio può offrirci.
Grazie per non aver mai amato molto la
musica, Herr Professor!
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