L'atelier
dell'artista resta nell'immaginario personale e collettivo un luogo al
contempo mitico e fantasmagorico, uno spazio di rappresentazioni
multiple: dipinto e poi fotografato. Un luogo in cui tutto il mondo
non è invitato ad entrare. Per parte mia, quando un artista mi ammette
nel suo atelier, sono sempre un po' impressionata poiché penso che si
tratti di uno spazio veramente intimo. La pittrice americana Joan
Mitchell parlava molto giustamente di <<territorio>>1, anche se nel
corso del 20° secolo l'atelier è diventato un luogo mobile, aperto,
meno condizionato come solo spazio di creazione e di scambi, e che si
può in certi casi ridurre, per certi artisti contemporanei, ad un
semplice spazio di lavoro, di ricezione sprovvisto di opere da vedere.
E' risaputo, la fine degli anni '60 segna una nuova tappa nella
configurazione dell'atelier. Si parla della <<uscita dall'atelier>>
per gli artisti della "Land art", quando quelli della 'performance'
non ne hanno più. Ho
scelto di trattare dell'atelier dello scultore poiché lo scultore ha
bisogno, per eccellenza, di un atelier, che si tratti oggi di artisti
come Richard Deacon, Didier Vermeiren o Tony Cragg. Ma qui si tratta
di ateliers di artisti attivi negli anni '50. Si tratta di quelli di
Germaine Richier e di Alberto Giacometti che erano contemporanei.
Germaine Richier dato che era un'artista che si conosce meno di
Alberto Giacometti, e per la quale l'atelier era un luogo cruciale al
quale io ho dato molto spazio nel libro che le ho appena dedicato2.
Alberto Giacometti, le cui immagini d'atelier ci sono più conosciute e
per il quale il luogo di creazione era del tutto fondamentale. Si
tratta dunque di mettere a confronto questi due spazi di creazione
contemporanei.
Vorrei cominciare leggendovi un
estratto di "L'Atelier contemporain" di Francis Ponge; d'altronde
citerò diversi estratti relativi a queste rappresentazioni
dell'atelier.
<<Chi guarda dall'alto una città,
sarà solo per l'immaginazione, percepisce certi edifici, elementi o
serie di edifici, il cui aspetto singolare è di essere, per intero o
per una parte della loro superficie (muri e tetti) traslucidi. [...]
Ed ecco dunque ciò che chiamiamo un atelier: sul corpo di un edificio
come una varietà di ampolla, tra vetrata e verruca. [...] Sono quelli
generalmente si formano al piano superiore, o mettono sulla falange
estrema di certi immobili borghesi, per il resto piuttosto opachi e
tristi. [...] Diciamolo: questa sorta di ateliers ci è molto meglio
nota. Più volte attirato o ammesso in certi tra di loro, nulla di ciò
che vi abbiamo potuto vedere ha potuto invalidare la nozione generale
che abbiamo appena definito, ma si tratta qui ancora di una sorta di
bolle o di ampolle, certamente anche d'altro. [...] Ah! per spiegarci
in modo più rapido, diciamo che si tratta, sul corpo di certi edifici,
come talora sul ramo di un albero o sulla foglia del gelso, di una
sorta di nido d'insetti, - di una sorta di bozzolo. E dunque,
sicuramente, di un locale o di un vaso organico, ma costruito dallo
stesso individuo per rinchiudervisi a lungo, senza cessare di trarre
beneficio tuttavia, per trasparenza, della luce del giorno. E a quale
attività si dedica dunque? Bene, molto semplicemente (e tragicamente)
alla sua metamorfosi. Che ci si perdoni se, concepita questa
idea, subito ci si chiude la bocca. Perché certo potremmo avere da
ridire a lungo. Mostrare come con l' aiuto di tali membra gracili e
sparse, scale, cavalletti e pennelli o compassi, grazie anche ad
esempio a quelle piccole ghiandole secretorie che sono i tubetti dei
colori, laboriosamente o talora freneticamente, l'artista (è il
nome di questa specie di uomini, che si deve nutrire di un 'patée'
reale: nature mort, nudi, paesaggi qualche volta) si trasforma
e palpita e si strappa le proprie opere. Che bisogna considerare come
la loro pelle3 >>.
Questo testo famoso di Francis
Ponge, dalla prosa davvero <<pongiana>>, caratteristica per il suo uso
di numerose metafore, è stato pubblicato nel 1948. Egli descrive in
maniera molto organica lo spirito di un atelier d'artista, chiunque
sia, intercambiabile, con la sua architettura, con il suo spazio e la
sua atmosfera. Egli lo pone all'inizio della sua raccolta "L'atelier
contemporain" che riunisce studi critici, note e pensieri sugli
artisti che egli ha incontrato, tra i quali figurano Georges Braque,
Alberto Giacometti, Jean Hélion, ma anche Germain Richier.
Germain Richier (1902-1959) ebbe
due ateliers, quello di Hirschengraben a Zurigo, dove lavorò dal 1939
al 1945, e quello di "37 avenue de Chatillon" a Parigi, dal 1933 alla
sua morte nel 1959. Questi luoghi ci sono noti per le testimonianze di
scrittori (Georges Limbour, Franz Hellens, René de Solier, Dominique
Rolin), di artisti (Hermann Hubacher, Brassai, Maria Vieira da Silva),
ma anche grazie alle fotografie di Ernst Scheidegger, tra gli altri,
per quello di Zurigo, e di Luc Joubert, Denise Colomb e Brassai per
quello di Parigi.
E' sorprendente evidenziare che
l'universo dell'atelier sembra avere interessato gli scrittori ed i
fotografi più degli storici d'arte, come se il mondo che circonda
l'artista, la fabbrica in cui l'opera prende corpo fosse più dominio
della letteratura o dell'immagine fotografica che non della storia
dell'arte che non si interesserebbe se non all'opera compiuta e non al
contesto della sua realizzazione. Le parole fanno risaltare in modo
differente l'atmosfera del luogo rispetto all'immagine. Esse
descrivono lo spazio, il modo con cui è occupato, i materiali
utilizzati, le sculture esposte, senza mai nominarli. Si possono
leggere i nomi: Donna-ragno, Uomo-foresta, e ci si diverte a
riconoscere le sculture sulla base della descrizione che ci lascia
l'autore, così come a confrontare le parole con le immagini che
fissano l'atelier come è stato e non sarà mai più. La fotografia è qui
considerata come una testimonianza. Non è più necessario immaginare
l'atelier; essa ce lo consegna nella sua più diretta letteralità, cui
siamo direttamente messi a confronto, senza lo spazio intermedio che
suscita l'immaginario delle parole; la fotografia come certificato di
presenza, secondo le parole di Roland Barthes. E' questo che si prova
guardando le immagini dell'atelier di Germaine Richier. Si vedono il
modello, le sculture finite, in gesso, in terracotta, in bronzo, e
quelle che si formano sotto lo sguardo e la mano dello scultore. E' un
luogo in cui la creazione è in perpetuo divenire: <<Ogni volta che,
per il piccolo viale dal terreno scuro con ai bordi dei cespugli
verdi, arrivavo nel suo atelier>> ricorda Brassai <<Germaine si
affrettava a mostrarmi le sue ultime creazioni anche se incompiute.
Liberandole dei loro panni umidi e facendole girare sui loro
piedistalli, mi ripeteva: "Vedi, sono sempre dedita alle mie ricerche.
Mi lascio andare alla mia fantasia"4>>.
Ci sono anche gli strumenti e la
collezione di oggetti naturali (ossa, insetti, pezzi di legno, pietre)
nelle vetrine che costituiscono la sua biblioteca di forme naturali.
Nulla sembra esser stato spostato dopo la sua morte5 nel
1959, manca solo la presenza dello scultore. Non si distrugge un
atelier, lo si conserva così come l'artista l'ha lasciato, talora lo
si reinstalla, non senza difficoltà, come quello di Brancusi, qusto
grande acquario di sculture. Esso è la memoria dell'opera. René de
Solier, critico e scrittore, scriverà qualche anno dopo la morte
dell'artista: << L'atelier: luogo segreto, austero, pieno di calore,
di vita; i differenti ateliers di Maine, li sogniamo tutti6>>.
Oggi, ancora, continuiamo ad immaginarli .
Nell'atelier di Zurigo, racconta
lo scultore svizzero Hermann Hubacher, la Richier aveva <<ricreato, in
poco tempo, l'atmosfera di quello di Parigi. C'erano poche cose,
sculture in fase di costruzione, qualche foto, una bandiera francese
e, al di sopra della porta, un ferro di cavallo. In questo luogo,
Germaine Richier ha formato, senza compromessi né pedanteria, qualche
artista svizzero7.>>
Ci sono meno testimonianze su
questo luogo provvisorio rispetto all'atelier parigino, più carico ed
occupato in quanto questo fu quello di tutta la sua vita. Franz
Hellens, scrittore belga post-surrealista, ne nota l'occupazione densa
degli spazi da parte di numerose sculture che lo punteggiano come
tante forme: << Se si lancia uno sguardo all'atelier dello scultore,
le figure che sembrano spingersi tra di loro, si muovono al contrario
come gli astri di una costellazione in un ordine di cui solo l'artista
possiede il segreto, ma che non è meno evidente di quello che noi
constatiamo nell'universo8>>.
E' uno spazio in cui la creazione
e la materia traboccano, un luogo intimo in cui solo l'artista può
penetrare, ed in cui gli eletti sono rari, a meno di esservi invitati.
Si sa d'altronde che non vi si entrava senza esservi invitati in
quello di Germaine Richier, che la mattina era dedicata al lavoro, al
proprio ed a quello degli allievi, e il pomeriggio riservato alle
visite.
Ma è soprattutto grazie al lungo
testo di Georges Limbour, "Visite à Germaine Richier9", che
noi lo scopriamo così come era negli anni del dopo guerra, nel 1947:
<<Come in ogni atelier di
scultore regnava un grande disordine, tutto schizzato o ricoperto di
polvere di gesso, e della creta si incollava al pavimento. Dentro
delle vetrine scure, ma polverose, lungo le pareti, delle scatole di
insetti straordinari di cui si vedrà il ruolo che giocano nella
scultura di Germaine Richier.
Foto:
"La Donna-Mantide" esposta alla Fondazione Guggenheim di Venezia
Sulle tavole, tra le opere che
l'artista non si preoccupava di mostrare, c'erano dei busti classici,
eleganti e raffinati, dei visi rigorosamente modellati, delle
statuette di donne accovacciate, che mostravano che la nostra ospite
aveva della scuola e della perizia. [...] Sul loro piedistallo, un po'
dappertutto, si ergevano dei piccoli monumenti recenti ricoperti di
una stoffa umida e che l'artista aveva bagnato con un vaporizzatore
prima che noi uscissimo10>>.
Georges Limbour passa
gradualmente da una visione generale dell'atelier ad un approccio
descrittivo, per concentrarsi in seguito sull'analisi di certe
sculture. Egli procede allo stesso modo quando parla di quello di
Alberto Giacometti, al 46 di "rue Hippolyte Maindron" a Parigi, che
egli chiama simbolicamente <<il carnaio di gesso>>. E' anch'esso il
luogo di tutta una vita, quaranta anni passati in questo atelier (dal
1927 al 1966), tranne gli anni di guerra passati in Svizzera
(1940-45). Michel Leiris parla del legame dell'artista all'atelier
come di <<un Diogene al suo barile11 >>. Anche in questo
caso si hanno molteplici testimonianze scritte (Limbour, Genet...) e
fotografiche (Scheidegger, Brassai ...), gli stessi nomi che condivide
con Germaine Richier. Si trova, come in Germaine Richier, la presenza
del gesso, materiale comune a tanti scultori dell'epoca e lo stesso
disordine di sculture. <<Quando si penetra nel piccolo atelier di
Giacometti>> scrive Limbour <<non si sa all'inizio come camminare: si
ha paura di far cadere questi esseri slanciati e fragili (almeno si
crede), ritti sulle tavole, o di cadere su un enorme cumulo di gesso
addossato al muro decrepito sotto un tavolo fino a sollevarlo dal
basso. In questo punto, l'atelier di Giacometti sembra più un campo di
demolizione che un cantiere di costruzione12>>.
Jean Genet, dal canto suo, nel
suo meraviglioso testo "L'Atelier d'Alberto Giacometti", illustrato
dalle fotografie di Ernst Scheidegger, evoca un luogo piuttosto cupo
in cui <<Giacometti rispetta a tal punto tutte le materie che egli si
arrabbierebbe se Annette distruggesse la polvere del vetro13>>.
Un luogo pieno, ingombrato di sculture, di bottiglie, di attrezzi sui
tavoli. Un luogo rudimentale, senza comodità, che Brassai descrive di
una semplicità monacale, unicamente votato all'oggetto della
creazione, con terracotta, gesso, tele e fogli di carta, illuminato da
una luce cruda, proveniente da un'ampolla spoglia che, si dice,
bruciava fino all'alba.
Da Alberto Giacometti c'è il
gesso, molto gesso, più ancora che da Germaine Richier. Le fotografie
di Scheidegger, di Brassai mostrano dei cumuli di detriti di
sculture in gesso, distrutte. Ci sono anche delle figurine disposte su
dei ripiani ed altre più grandi posate sul pavimento; un universo
verticale in cui regna un sentimento di saturazione, di disordine:
quello dell'artista. Tutto l'atelier è popolato di questo mondo <<giacomettiano>>;
persino le pareti sono ricoperte di disegni dipinti, incisi nel muro.
<<Questo atelier>> precisa Jean Genet << peraltro al pianterreno,
sembra sprofondare da un momento all'altro. E' in legno decrepito,
pieno di polvere grigia, le statue sono di gesso [...], le tele hanno
perduto da tempo quella tranquillità che avevano dal loro venditore,
tutto è macchiato e in disordine, tutto è precario, e sembra
sprofondare>>.
Alberto Giacometti e Germaine
Richier condividono anche gli stessi fotografi (Brassai, Colomb,
Scheidegger) che immortalano l'atelier e loro mentre sono in procinto
di creare. Era un'epoca in cui sembra che fosse molto di moda
fotografare l'artista in procinto di lavorare. Certamente oggi non si
farebbe lo stesso tipo di foto!
Luoghi affascinanti, resi
immortali dai testi e dalle immagini. Luoghi di creazione, ma anche di
vita che non ci sono più. Quello di Germaine Richier esiste sempre,
chiuso per trenta anni, dopo la morte dell'artista nel 1959, ma
inaccessibile al pubblico. Quanto a quello di Alberto Giacometti, è
stato smantellato dopo la sua morte, nel 1966. Dal maggio al settembre
1972 le pareti furono staccate e trattate come delle opere; degli
affreschi (disegni, pitture, graffiti) che fu necessario ad ogni costo
recuperare dato che incarnavano la memoria, la sopravvivenza
dell'opera14. Certe parti sono d'altronde incredibilmente
somiglianti a certi affreschi antichi e sono state d'altronde esposte
come opere indipendenti.
Così, questi due ateliers ci
interrogano sulla scomparsa di un luogo. Quando invece quelli di altri
artisti, come Bourdelle e Zadkine, son diventati musei che conservano
la memoria del creatore e della sua opera.
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