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   GERMAIN RICHIER

 

Foto: Germaine Richier

In occasione della mostra di Germaine Richier in corso presso la Fondazione Guggenheim di Venezia proponiamo uno scritto di Valérie da Costa "L’atelier du sculpteur : Germaine Richier et Alberto Giacometti vus par les écrivains et les photographes" pubblicato in francese sul sito dell'Università di Strasburgo alla vigilia dell'uscita del libro "Germaine Richier, un art entre deux mondes" , Paris : Editions Norma, 2006. Valérie Da Costa è docente di Storia dell'Arte Contemporanea all'Università "Marc Bloch" di Strasburgo ed è critico d'arte.
"Germaine Richier", dal 28 ottobre 2006 al 5 febbraio 2007, è la prima mostra antologica che l’Italia dedica alla grande scultrice francese. L’esposizione segna per il grande pubblico la riscoperta dell’artista, considerata uno dei più importanti protagonisti, insieme a Alberto Giacometti e Marino Marini, dell’avanguardia artistica del dopoguerra. In vita, Germaine Richier (1902-1959) è ospite delle più importanti esposizioni dell’epoca ed è ritenuta un maestro dai più grandi critici e collezionisti internazionali, ruolo ancora più significativo perché tra le rare figure femminili a raggiungere simili virtuosismi nella scultura.

La Collezione Peggy Guggenheim è onorata di poter presentare al pubblico italiano e internazionale la più ampia retrospettiva sull’artista mai realizzata dopo la mostra del 1966 alla Fondazione Maeght, Saint Paul (Francia). Luca Massimo Barbero ha condotto la selezione delle oltre 60 opere, tra sculture in bronzo, piccoli gessi, litografie e disegni, prediligendo una lettura cronologica e analitica del tortuoso sentiero artistico della Richier. L’esposizione prende spunto dalla presenza nel giardino del museo dell’opera La tauromachia (1953), emblematica dell’amore di Peggy Guggenheim per il lavoro della scultrice, che la collezionista acquista già nel 1960. L’esposizione, che si estenderà dagli spazi delle mostre temporanee al giardino, è realizzata in collaborazione con l’Archivio Françoise Guiter, Parigi.

Germaine Richier attraversa la prima metà del ‘900 scrutando le rotte di anni convulsi che finiscono con il divenire silenziose ispirazioni al suo percorso di ricerca. Nata nel 1902 a Grans (Bouches-du-Rhone, Francia) si trasferisce a Parigi nel 1926 dopo aver frequentato l’Accademia di Belle Arti di Montpellier, dove lavora nell’atelier di Louis Guigues, uno degli assistenti di Auguste Rodin. Nella capitale francese inizia a frequentare lo studio di Emile-Antoine Bourdelle, apprendendo la difficile tecnica della scultura dei busti, da cui la mostra alla Collezione Peggy Guggenheim prende avvio. Infatti si potranno ammirare, tra gli altri, il Busto di Cristo (1931), il Busto n. 12 (1933-34) e La régodias (1938), plastici e ancora carichi di realismo. Nel 1934, la Galleria di Max Kaganovitch le dedica la prima personale e due anni dopo riceve il prestigioso Premio Blumenthal per la scultura. Nel 1937 è invitata all’Esposizione Universale di Parigi, nel 1939 alcune sue opere sono presentate all’Esposizione Universale di New York. Pur non abbracciando alcun movimento artistico o politico, Germaine Richier partecipa al fermento culturale di quegli anni frequentando a Montparnasse Henri Favier, Celebonovic Marko, Massimo Campigli, Alberto Giacometti, Raymond-Jacques Sabouraud e il suo fraterno amico Marino Marini. La guerra la porta a Zurigo dove prende con sé degli allievi e ricreando l’atmosfera del suo atelier, ritrova le conversazioni con gli amici che avevano lasciato la capitale, come Jean Arp, Le Courbusier e Fritz Wotruba. Nel 1945 Richier torna a Parigi: il secondo conflitto mondiale le ha consegnato una sperimentazione di forme e ambienti che non tarderanno a fare emergere la potenza espressiva delle sue sculture bloccate nel ricordo di movimenti svaporati ma indelebili.

Dal 1945 al 1959, anno della sua scomparsa, Germaine Richier completa un intenso cammino muovendo da una analisi espressionista delle figure, come ne L’uomo foresta, grande (1945-46), L’ orco (1949), L’uragana (1948-49), che testimoniano di una avvenuta osmosi tra uomo e natura, ad una composizione più ascetica ma affascinata dalla rappresentazione della deformità (Il diavolo, 1950, La coppia, La formica, 1953) metafora dell’impatto brutale tra le creature viventi e l’ambiente che le circonda. Giunge infine a una composizione surrealista che completa l’ibridizzazione di essere umano e animale - La tauromachia e Idra entrambe del 1954 - in cui la metamorfosi è parte integrante del linguaggio scultoreo. “Il ‘fantastico’ è semplicemente uno stato dialettico della coscienza che vede nell’ibrido la constatazione della realtà e delle sue contraddizioni” - ebbe a dire Pierre Restany descrivendo queste stesse sculture che, insieme a quelle degli anni quaranta, saranno esposte nella mostra alla Collezione Peggy Guggenheim. La mostra GERMAINE RICHIER si propone di avviare in Italia la riscoperta della scultrice francese che fino ad oggi ha visto le sue rare opere custodite gelosamente nelle più importanti collezioni pubbliche, come la Tate Modern, Londra, il Centre Georges-Pompidou, Parigi, il MOMA, New York, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma.

Germaine Richier era solita ripetere “Amo la tensione, il secco, il nervoso”. I piccoli bronzi del 1946 Il combattimento e La Lotta, ma anche Il griffu (1952) declinano questa predilezione per “esseri” privati della “carne” metabolizzata dall’ambiente che tutto divora e nei confronti del quale è necessario disporre di uno schermo, la ragnatela di fili attorno alle sculture, in grado di definire uno spazio intermedio di protezione della figura umana. Le opere di Richier esprimono, oltre la sofferenza delle torture, l’angoscia della deformità, il senso imperativo della posizione nello spazio, il rigore elegante della postura, in altre parole il senso dell’umanità. “Tutte le mie sculture – ha lasciato scritto l’artista – anche quelle che sembrano essere ispirate dall’immaginazione, si basano su qualcosa di vero, su una verità organica…l’immaginazione necessita di un punto di partenza”. L’essere umano è il punto di partenza e di arrivo della ricerca di Germaine Richier che ha disegnato i drammi e i sogni della sua epoca combinando, in maniera rivoluzionaria, la violenza del linguaggio espressionista al mistero fantastico delle sculture “surrealiste” degli anni cinquanta. E per arrivare a questo risultato, l’artista usava pochissimi strumenti: “bisogna sentire le proprie mani, le proprie passioni, (…) perché la scultura è qualcosa di intimo e privato. E’ qualcosa che vive e che ha le proprie regole”.

In occasione della mostra alla Collezione Peggy Guggenheim, vengono esposte per la prima volta, grazie alla generosità dell’Archivio Françoise Guiter, le opere grafiche della scultrice -incisioni, acqueforti, acquetinte-, che permettono di ricostruire l’appassionante ricerca che l’artista dedica per anni alle tecniche di incisione. L’esposizione sarà inoltre l’occasione per sperimentare la dimensione “ambientale” delle sculture di Richier attraverso il dialogo tra queste e il giardino di Palazzo Venier dei Leoni. L’Archivio Françoise Guiter ha acconsentito al prestito dell’imponente gruppo scultoreo La grande scacchiera (1959), le cui figure alte oltre due metri, del Re, la Regina, il Cavallo, la Torre e l’Alfiere interpretano una sorta di mandala della contraddittorietà dell’esistenza umana. GERMAINE RICHIER è accompagnata da un catalogo edito dalla Collezione Peggy Guggenheim, con saggi del curatore e del critico Giorgio Mastinu. Attenta la ricerca dedicata ai materiali iconografici, tra cui spicca la riproduzione di stampe originali delle foto delle opere che Richier fece realizzare a Brassaï.

(fonte: Fondazione Guggenheim Venezia)

 

L'ATELIER DELLO SCULTORE: GERMAINE RICHIER ED ALBERTO GIACOMETTI VISTI DAGLI SCRITTORI E DAI FOTOGRAFI.

                                             di Valérie Da Costa


 

 

L'atelier dell'artista resta nell'immaginario personale e collettivo un luogo al contempo mitico e fantasmagorico, uno spazio di rappresentazioni multiple: dipinto e poi fotografato. Un luogo in cui tutto il mondo non è invitato ad entrare. Per parte mia, quando un artista mi ammette nel suo atelier, sono sempre un po' impressionata poiché penso che si tratti di uno spazio veramente intimo. La pittrice americana Joan Mitchell parlava molto giustamente di <<territorio>>1, anche se nel corso del 20° secolo l'atelier è diventato un luogo mobile, aperto, meno condizionato come solo spazio di creazione e di scambi, e che si può in certi casi ridurre, per certi artisti contemporanei, ad un semplice spazio di lavoro, di ricezione sprovvisto di opere da vedere. E' risaputo, la fine degli anni '60 segna una nuova tappa nella configurazione dell'atelier. Si parla della <<uscita dall'atelier>> per gli artisti della "Land art", quando quelli della 'performance' non ne hanno più.

Ho scelto di trattare dell'atelier dello scultore poiché lo scultore ha bisogno, per eccellenza, di un atelier, che si tratti oggi di artisti come Richard Deacon, Didier Vermeiren o Tony Cragg. Ma qui si tratta di ateliers di artisti attivi negli anni '50. Si tratta di quelli di Germaine Richier e di Alberto Giacometti che erano contemporanei. Germaine Richier dato che era un'artista che si conosce meno di Alberto Giacometti, e per la quale l'atelier era un luogo cruciale al quale io ho dato molto spazio nel libro che le ho appena dedicato2. Alberto Giacometti, le cui immagini d'atelier ci sono più conosciute e per il quale il luogo di creazione era del tutto fondamentale. Si tratta dunque di mettere a confronto questi due spazi di creazione contemporanei.

Vorrei cominciare leggendovi un estratto di "L'Atelier contemporain" di Francis Ponge; d'altronde citerò diversi estratti relativi a queste rappresentazioni dell'atelier.

<<Chi guarda dall'alto una città, sarà solo per l'immaginazione, percepisce certi edifici, elementi o serie di edifici, il cui aspetto singolare è di essere, per intero o per una parte della loro superficie (muri e tetti) traslucidi. [...] Ed ecco dunque ciò che chiamiamo un atelier: sul corpo di un edificio come una varietà di ampolla, tra vetrata e verruca. [...] Sono quelli generalmente si formano al piano superiore, o mettono sulla falange estrema di certi immobili borghesi, per il resto piuttosto opachi e tristi. [...] Diciamolo: questa sorta di ateliers ci è molto meglio nota. Più volte attirato o ammesso in certi tra di loro, nulla di ciò che vi abbiamo potuto vedere ha potuto invalidare la nozione generale che abbiamo appena definito, ma si tratta qui ancora di una sorta di bolle o di ampolle, certamente anche d'altro. [...] Ah! per spiegarci in modo più rapido, diciamo che si tratta, sul corpo di certi edifici, come talora sul ramo di un albero o sulla foglia del gelso, di una sorta di nido d'insetti, - di una sorta di bozzolo. E dunque, sicuramente, di un locale o di un vaso organico, ma costruito dallo stesso individuo per rinchiudervisi a lungo, senza cessare di trarre beneficio tuttavia, per trasparenza, della luce del giorno. E a quale attività si dedica dunque? Bene, molto semplicemente (e tragicamente) alla sua metamorfosi. Che ci si perdoni se, concepita questa idea, subito ci si chiude la bocca. Perché certo potremmo avere da ridire a lungo. Mostrare come con l' aiuto di tali membra gracili e sparse, scale, cavalletti e pennelli o compassi, grazie anche ad esempio a quelle piccole ghiandole secretorie che sono i tubetti dei colori,  laboriosamente o talora freneticamente, l'artista (è il nome di questa specie di uomini, che si deve nutrire di un 'patée' reale: nature mort, nudi, paesaggi qualche volta) si trasforma e palpita e si strappa le proprie opere. Che bisogna considerare come la loro pelle3 >>.

Questo testo famoso di Francis Ponge, dalla prosa davvero <<pongiana>>, caratteristica per il suo uso di numerose metafore, è stato pubblicato nel 1948. Egli descrive in maniera molto organica lo spirito di un atelier d'artista, chiunque sia, intercambiabile, con la sua architettura, con il suo spazio e la sua atmosfera. Egli lo pone all'inizio della sua raccolta "L'atelier contemporain" che riunisce studi critici, note e pensieri sugli artisti che egli ha incontrato, tra i quali figurano Georges Braque, Alberto Giacometti, Jean Hélion, ma anche Germain Richier.

Germain Richier (1902-1959) ebbe due ateliers, quello di Hirschengraben a Zurigo, dove lavorò dal 1939 al 1945, e quello di "37 avenue de Chatillon" a Parigi, dal 1933 alla sua morte nel 1959. Questi luoghi ci sono noti per le testimonianze di scrittori (Georges Limbour, Franz Hellens, René de Solier, Dominique Rolin), di artisti (Hermann Hubacher, Brassai, Maria Vieira da Silva), ma anche grazie alle fotografie di Ernst Scheidegger, tra gli altri, per quello di Zurigo, e di Luc Joubert, Denise Colomb e Brassai per quello di Parigi.

E' sorprendente evidenziare che l'universo dell'atelier sembra avere interessato gli scrittori ed i fotografi più degli storici d'arte, come se il mondo che circonda l'artista, la fabbrica in cui l'opera prende corpo fosse più dominio della letteratura o dell'immagine fotografica che non della storia dell'arte che non si interesserebbe se non all'opera compiuta e non al contesto della sua realizzazione. Le parole fanno risaltare in modo differente l'atmosfera del luogo rispetto all'immagine. Esse descrivono lo spazio, il modo con cui è occupato, i materiali utilizzati, le sculture esposte, senza mai nominarli. Si possono leggere i nomi: Donna-ragno, Uomo-foresta, e ci si diverte a riconoscere le sculture sulla base della descrizione che ci lascia l'autore, così come a confrontare le parole con le immagini che fissano l'atelier come è stato e non sarà mai più. La fotografia è qui considerata come una testimonianza. Non è più necessario immaginare l'atelier; essa ce lo consegna nella sua più diretta letteralità, cui siamo direttamente messi a confronto, senza lo spazio intermedio che suscita l'immaginario delle parole; la fotografia come certificato di presenza, secondo le parole di Roland Barthes. E' questo che si prova guardando le immagini dell'atelier di Germaine Richier. Si vedono il modello, le sculture finite, in gesso, in terracotta, in bronzo, e quelle che si formano sotto lo sguardo e la mano dello scultore. E' un luogo in cui la creazione è in perpetuo divenire: <<Ogni volta che, per il piccolo viale dal terreno scuro con ai bordi dei cespugli verdi, arrivavo nel suo atelier>> ricorda Brassai <<Germaine si affrettava a mostrarmi le sue ultime creazioni anche se incompiute. Liberandole dei loro panni umidi e facendole girare sui loro piedistalli, mi ripeteva: "Vedi, sono sempre dedita alle mie ricerche. Mi lascio andare alla mia fantasia"4>>.

Ci sono anche gli strumenti e la collezione di oggetti naturali (ossa, insetti, pezzi di legno, pietre) nelle vetrine che costituiscono la sua biblioteca di forme naturali. Nulla sembra esser stato spostato dopo la sua morte5 nel 1959, manca solo la presenza dello scultore. Non si distrugge un atelier, lo si conserva così come l'artista l'ha lasciato, talora lo si reinstalla, non senza difficoltà, come quello di Brancusi, qusto grande acquario di sculture. Esso è la memoria dell'opera. René de Solier, critico e scrittore, scriverà qualche anno dopo la morte dell'artista: << L'atelier: luogo segreto, austero, pieno di calore, di vita; i differenti ateliers di Maine, li sogniamo tutti6>>. Oggi, ancora, continuiamo ad immaginarli .

Nell'atelier di Zurigo, racconta lo scultore svizzero Hermann Hubacher, la Richier aveva <<ricreato, in poco tempo, l'atmosfera di quello di Parigi. C'erano poche cose, sculture in fase di costruzione, qualche foto, una bandiera francese e, al di sopra della porta, un ferro di cavallo. In questo luogo, Germaine Richier ha formato, senza compromessi né pedanteria, qualche artista svizzero7.>>

Ci sono meno testimonianze su questo luogo provvisorio rispetto all'atelier parigino, più carico ed occupato in quanto questo fu quello di tutta la sua vita. Franz Hellens, scrittore belga post-surrealista, ne nota l'occupazione densa degli spazi da parte di numerose sculture che lo punteggiano come tante forme: << Se si lancia uno sguardo all'atelier dello scultore, le figure che sembrano spingersi tra di loro, si muovono al contrario come gli astri di una costellazione in un ordine di cui solo l'artista possiede il segreto, ma che non è meno evidente di quello che noi constatiamo nell'universo8>>.

E' uno spazio in cui la creazione e la materia traboccano, un luogo intimo in cui solo l'artista può penetrare, ed in cui gli eletti sono rari, a meno di esservi invitati. Si sa d'altronde che non vi si entrava senza esservi invitati in quello di Germaine Richier, che la mattina era dedicata al lavoro, al proprio ed a quello degli allievi, e il pomeriggio riservato alle visite.

Ma è soprattutto grazie al lungo testo di Georges Limbour, "Visite à Germaine Richier9", che noi lo scopriamo così come era negli anni del dopo guerra, nel 1947:

<<Come in ogni atelier di scultore regnava un grande disordine, tutto schizzato o ricoperto di polvere di gesso, e della creta si incollava al pavimento. Dentro delle vetrine scure, ma polverose, lungo le pareti, delle scatole di insetti straordinari di cui si vedrà il ruolo che giocano nella scultura di Germaine Richier.

Foto: "La Donna-Mantide" esposta alla Fondazione Guggenheim di Venezia

Sulle tavole, tra le opere che l'artista non si preoccupava di mostrare, c'erano dei busti classici, eleganti e raffinati, dei visi rigorosamente modellati, delle statuette di donne accovacciate, che mostravano che la nostra ospite aveva della scuola e della perizia. [...] Sul loro piedistallo, un po' dappertutto, si ergevano dei piccoli monumenti recenti ricoperti di una stoffa umida e che l'artista aveva bagnato con un vaporizzatore prima che noi uscissimo10>>.

Georges Limbour passa gradualmente da una visione generale dell'atelier ad un approccio descrittivo, per concentrarsi in seguito sull'analisi di certe sculture. Egli procede allo stesso modo quando parla di quello di Alberto Giacometti, al 46 di "rue Hippolyte Maindron" a Parigi, che egli chiama simbolicamente <<il carnaio di gesso>>. E' anch'esso il luogo di tutta una vita, quaranta anni passati in questo atelier (dal 1927 al 1966), tranne gli anni di guerra passati in Svizzera (1940-45). Michel Leiris parla del legame dell'artista all'atelier come di <<un Diogene al suo barile11 >>. Anche in questo caso si hanno molteplici testimonianze scritte (Limbour, Genet...) e fotografiche (Scheidegger, Brassai ...), gli stessi nomi che condivide con Germaine Richier. Si trova, come in Germaine Richier, la presenza del gesso, materiale comune a tanti scultori dell'epoca e lo stesso disordine di sculture. <<Quando si penetra nel piccolo atelier di Giacometti>> scrive Limbour <<non si sa all'inizio come camminare: si ha paura di far cadere questi esseri slanciati e fragili (almeno si crede), ritti sulle tavole, o di cadere su un enorme cumulo di gesso addossato al muro decrepito sotto un tavolo fino a sollevarlo dal basso. In questo punto, l'atelier di Giacometti sembra più un campo di demolizione che un cantiere di costruzione12>>.

Jean Genet, dal canto suo, nel suo meraviglioso testo "L'Atelier d'Alberto Giacometti", illustrato dalle fotografie di Ernst Scheidegger, evoca un luogo piuttosto cupo in cui <<Giacometti rispetta a tal punto tutte le materie che egli si arrabbierebbe se Annette distruggesse la polvere del vetro13>>. Un luogo pieno, ingombrato di sculture, di bottiglie, di attrezzi sui tavoli. Un luogo rudimentale, senza comodità, che Brassai descrive di una semplicità monacale, unicamente votato all'oggetto della creazione, con terracotta, gesso, tele e fogli di carta, illuminato da una luce cruda, proveniente da un'ampolla spoglia che, si dice, bruciava fino all'alba.

Da Alberto Giacometti c'è il gesso, molto gesso, più ancora che da Germaine Richier. Le fotografie di Scheidegger, di Brassai  mostrano dei cumuli di detriti di sculture in gesso, distrutte. Ci sono anche delle figurine disposte su dei ripiani ed altre più grandi posate sul pavimento; un universo verticale in cui regna un sentimento di saturazione, di disordine: quello dell'artista. Tutto l'atelier è popolato di questo mondo <<giacomettiano>>; persino le pareti sono ricoperte di disegni dipinti, incisi nel muro. <<Questo atelier>> precisa Jean Genet << peraltro al pianterreno, sembra sprofondare da un momento all'altro. E' in legno decrepito, pieno di polvere grigia, le statue sono di gesso [...], le tele hanno perduto da tempo quella tranquillità che avevano dal loro venditore, tutto è macchiato e in disordine, tutto è precario, e sembra sprofondare>>.

Alberto Giacometti e Germaine Richier condividono anche gli stessi fotografi (Brassai, Colomb, Scheidegger) che immortalano l'atelier e loro mentre sono in procinto di creare. Era un'epoca in cui sembra che fosse molto di moda fotografare l'artista in procinto di lavorare. Certamente oggi non si farebbe lo stesso tipo di foto!

Luoghi affascinanti, resi immortali dai testi e dalle immagini. Luoghi di creazione, ma anche di vita che non ci sono più. Quello di Germaine Richier esiste sempre, chiuso per trenta anni, dopo la morte dell'artista nel 1959, ma inaccessibile al pubblico. Quanto a quello di Alberto Giacometti, è stato smantellato dopo la sua morte, nel 1966. Dal maggio al settembre  1972 le pareti furono staccate e trattate come delle opere; degli affreschi (disegni, pitture, graffiti) che fu necessario ad ogni costo recuperare dato che incarnavano la memoria, la sopravvivenza dell'opera14. Certe parti sono d'altronde incredibilmente somiglianti a certi affreschi antichi e sono state d'altronde esposte come opere indipendenti.

Così, questi due ateliers ci interrogano sulla scomparsa di un luogo. Quando invece quelli di altri artisti, come Bourdelle e Zadkine, son diventati musei che conservano la memoria del creatore e della sua opera.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

 

1 Cfr. Catherine Lawless, Artistes et ateliers, Nîmes : Editions Jaqueline Chambon, 1990, p. 14.
2 Valérie Da Costa, Germaine Richier, un art entre deux mondes, Paris : Editions Norma, 2006.
3 Francis Ponge, « L’Atelier » dans L’Atelier contemporain, Paris : Gallimard, 1977, p. 1-4.
4 Brassaï, Les Artistes de ma vie, Paris : Denoël, 1982, p. 194-195. 
5 Si vedano le fotografie di  Pierre-Olivier Deschamps pubblicate in  « L’Atelier de Germaine Richier » (testo di Elisabeth Lebovici), Beaux-Arts magazine, n°73, novembre 1989, p. 94-99.
6 René de Solier, « Germaine Richier », cat. expo. Germaine Richier, Kunsthaus, Zurich, 1963, p. 6-7.
7 Hermann Hubacher, « Die Zürcher Zeit der Bildhauerin Germaine Richier » nel cat. Expo. Germaine Richier, Kunsthaus, Zurich, 1963, p. 8-10. Il catalogo di questa retrospectiva-omaggio a Germaine Richier contiene anche delle testimonianze di amici, di allievi  (Nelly Bär, Hildi Hess) che erano a lei vicini a Zurigo.
8 Franz Hellens, « Germaine Richier », Les Beaux-Arts, n°577, 13 juin 1952, p. 1-4.
9 Questo testo, pubblicato per la prima volta in Arts de France, n°17-18, 1947, p.51-58 è stato riedito nel numero speciale della rivista Derrière le miroir, n°13, 1948, np, accompagnando la mostra personale dell’artista alla galleria Maeght a Parigi, dal 22 ottobre al 10 novembre 1948. Esso compare ugualmente nella raccolta di testi, Dans le secret des ateliers, L’Elocoquent, Paris, 1986, p. 43-46, che riunisce le sue visite a  differenti ateliers di artistei come  Masson, Giacometti, Dubuffet, Picasso.
10 Georges Limbour, Dans le secret des ateliers, op. cit., p. 43.
11 Michel Leiris, « Autre heure, autres traces », in cat. expo. Alberto Giacometti, Fondation Maeght, St Paul de Vence, 1978.
12 Ibid., p. 39.
13 Jean Genet, L’Atelier d’Alberto Giacometti, op.cit., n.p.
14 Si veda il testo di  Michel Leiris, « Autre heure, autres traces », in cat. expo. Alberto Giacometti, Fondation Maeght, St Paul de Vence, 1978.


 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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