Freud fu un gran lavoratore.
Non lo dico secondo il deprecabile
costume dell’italietta post-settantottina, per il quale essere “gran
lavoratori” serve alla “causa” ideologica di turno, per cui o si è
cavalieri del liberismo o eroi del collettivo. Lo dico invece come lo
sentivo dire dai nostri “vecchi” di qualcuno verso cui si nutriva
stima per la dedizione, l’integrità, la tenacia, il sacrificio verso
la vita e il destino in cui ci si impegnava.
Freud lavorava molto.
La sua capacità elaborativa era enorme:
le analisi, la ricerca scientifica, la corrispondenza, tutte le
attività legate alla società di psicoanalisi, le riunioni del
mercoledì, i congressi, le imprese redazionali.
Ma come ce la faceva quest’uomo? Staccava mai la “spina”?
Certo è che non v’erano ai suoi tempi
tutte quelle varianti del “tempo libero” che oggi saturano i nostri
occhi e le nostre orecchie grazie al 'golem' tecnologico: la
televisione, i videogiochi, internet, le discoteche.
Come accadeva per i nostri nonni, il
tempo non era pieno e quindi da svuotare né vuoto e quindi da
riempire; insomma anche il tempo libero, per dir così, era un tempo
“generativo” secondo cui il piacere del “buon riposo” non si
soddisfaceva nella riduzione del pensiero da tre a due dimensioni.
C’era insomma intelligenza in quel che si faceva nel divertimento,
dedicandosi a quel che apparentemente altro degli impegni quotidiani
non se ne separava ma vi si integrava e veniva poi restituito nel
cosiddetto “ritorno” alla quotidianità. Si tornava a lavorare
rinfrancati e non depressi o astiosi.
Ed era cosi che Freud tornava dalle
“vacanze” e dalle “gite”, di cui ci ha parlato Alessio Visentin nel
suo intervento, al suo studio.
“Per ciascuno dei più o meno
illustri pazienti di Freud, il viaggio a Vienna aveva un peso di
desiderio. Alcune donne vi cercavano una immagine paterna aureolata di
gloria. Per tutta la vita", scrisse Marie Bonaparte nel suo
"Diario", " avrei attribuito importanza solo all’opinione,
all’approvazione, all’amore di qualche padre scelto sempre più in alto
e l’ultimo dei quali sarebbe stato il mio grande maestro Freud". Ella
desiderava soprattutto guarire dai suoi fallimenti amorosi, trovare
quella che Freud stesso chiamò appositamente per lei normalità
orgasmica. Invece per Hilda Doolittle, poetessa americana, si
trattava di scavare, sterrare, sradicare le erbe cattive. Aveva
bisogno di qualcuno che aiutasse il parto della sua anima, di un
saggio piccolo padre, 'paparino', nonno , salutava in lui il vecchio
uomo di mare e fu sorpresa quando Freud interpretò il suo attaccamento
per lui come quello a una madre e non ad un padre. E confessò:
"e…bisogna che glielo dica, non amo essere la madre in un transfert" .
Abram Kardiner, uno psichiatra ebreo americano, diede fondo a
tutti i suoi risparmi per offrirsi la psicoanalisi didattica che gli
avrebbe permesso di esercitare meglio la sua professione e insieme di
affermarsi di fronte all’immagine di un genitore collerico, che lo
aveva sempre spaventato e di cui trasferirà il ricordo e il timore
sulla persona di Freud. Smiley Blanton, un sudista e rigido
presbiteriano, desiderava offrire a Freud e solo a lui, perché era un
artista oltre che uno scienziato , la sua incertezza di fronte alla
vita, le sue manie alimentari, la sua estrema sensibilità per il
rumore e mostrargli come aveva pensato di superare le proprie
debolezze mettendo da parte l’inconscio . Alla prospettiva di
cominciare un’analisi lo invase una forte angoscia. Il suo primo
appuntamento fu fissato alle ore 15; egli la mattina, dapprima si
tagliò un dito e poi soffrì tutto il giorno di una violenta colite.
Nonostante tutte queste precauzioni, arrivò semiesanime allo studio
della Bergasse solo con qualche istante di ritardo. Invece Lou
Andreas Salomè scelse direttamente di alloggiare praticamente in
casa di Freud, presso lo Zita Hotel, le cui finestre garantivano piena
visibilità sulle stanze del Professore.
Cosa attendeva nello studio di Freud tutte queste persone? Horus, il dio egiziano dalla testa di
sparviero, Anubis e Osiride, divinità legate agli inferi e alla morte,
Neith, la dea guerriera, il dio Pan, signore del panico, la Gradiva,
Edipo, una sfinge, una dea alata, un sileno, un centauro….ciascuno di
questi oggetti sembravano esortare malati e allievi a ricordarsi dei
frammenti sparsi del loro passato. Varcando la soglia di quella
singolare stanza i pazienti scoprivano prima di tutto un comodo
divano carico di tappeti orientali collocato contro un muro dove è
appeso un altro tappeto persiano. Su un tavolino e sul pavimento
ancora tappeti dai colori rosso, ocra e tabacco che illuminano quel
luogo protetto da ogni luce cruda. Nell’angolo della stanza, accanto
al divano, ci sono una stretta stufa di maiolica marrone e la cassetta
del carbone. In fondo alla stanza, di fronte all’ingresso, c’è una
morbida poltrona di felpa dagli alti braccioli, munita anche di
poggiapiedi. Proprio accanto alla porta principale che dà sulla sala
d’aspetto, ce n’è un'altra, più piccola. Serve per passare
direttamente in corridoio senza dover attraversare la sala d’aspetto e
garantire così ai pazienti di Freud la privacy della loro presenza in
cura. Di fronte alla “porta segreta” c’è quella che conduce allo
studio privato di Freud: tutt’intorno le pareti sono ricoperte di
libri che arrivano fino al soffitto, e ci sono anche lì vetrine e
armadietti colmi di statuine, vasi , ciotole, maschere di creta e
teste di pietra che sembrano fissare da ogni parte chi entrasse in
quella stanza. Per Freud, che era partito solitario alla conquista di
uno spazio psichico invisibile, l’archeologia offriva una presa sul
visivo – sulla pulsione scopica capace di muovere rappresentazioni di
parola e di cosa. Sugli scaffali ci sono delle fotografie: sono i
ritratti di Lou-Andreas Salomè, della principessa Marie Bonaparte e
di Yvette Guilbert ma la fotografia più bella è quella di Wolf, il
cane pastore di Anna Freud che fissa con attenzione l’obiettivo.. Fra
lo studio e sala d’aspetto c’è una rettangolare zona di disbrigo dove
dorme la più nota tra le domestiche di casa Freud, Paula Fichtel che
negli anni passerà le sue notti accanto alla “porta segreta”, vicino
alle stanze di Sigmund Freud, come un cane fedele.
Solo il contenuto di una vetrina
parrebbe non adattarsi all’atmosfera dello studio privato: una
raccolta di accendisigari (Freud utilizzava solo fiammiferi) regalati
da amici e andata perduta ai tempi della fuga a Londra.
Nello studio, dove riceveva i suoi
pazienti, accompagnava Freud un componente affezionatissimo della sua
famiglia: Jofie, la cagnetta chow-chow. Jofie presenziava a ogni
seduta di analisi, standosene sdraiata vicino al lettino, accanto a
Freud. Annunciava abbaiando la fine di ogni seduta, avventandosi verso
la porta: e quasi sempre Freud si congedava dai pazienti in ritardo
rispetto all’orario fissato. Il giudizio che Jofie manifestava sui
visitatori era spesso indicativo. Un visitatore dal quale Jofie si
discostasse dopo averlo sospettosamente annusato o dal quale cercasse
scampo ringhiando sotto la scrivania, non sarebbe riuscito ad entrare
facilmente nelle buone grazie di Freud.
Era compito della domestica anche
quello di evitare incontri imbarazzanti in sala d’attesa o nel
corridoio. La povera Paula Fichtel non avendo ricevuto istruzioni
specifiche improvvisava creativamente: dirottava in cucina le persone,
insistendo con ferma cordialità affinché nel frattempo mangiassero
qualcosa. Freud ignorerà l’esistenza di questo “pre-trattamento” per
lungo tempo, fino al giorno in cui un paziente osservò in tono
scherzoso: "E’ davvero premuroso da parte sua che la parcella sia
comprensiva d’un trattamento di mezza pensione" . Freud rimase alquanto
sorpreso da questa arbitrarietà da parte della domestica che
interrogata sui fatti rispose: "Per i signori i colloqui con Lei sono
un’impresa faticosa, mi è parso opportuno che facessero prima uno
spuntino" . Freud che considerava la Fichtel la sua piccola perla
rimase sbalordito dalla risposta della stessa ma rientrò nello studio
senza aggiungere una sola parola.
In questo piccolo mondo in cui
ognuno desiderava ottenere l’amore del maestro e sognava di averne
l’esclusività, i suoi figli, per dir così, del divano si
confrontavano, si osservavano ed erano gelosi. Marie Bonaparte si
sentiva minacciata dalla bella dama proveniente dall’aristocrazia
zarista, Louise Salomè . Freud le disse un giorno, forse per
rassicurarla, forse per compiacerla: "Lou è come uno specchio: non ha
né virilità, né la sua sincerità né il suo stile". A Kardiner invece
parlò di lei, alla quale era legato da una vecchia amicizia in questo
modo: "Ci sono persone che hanno una superiorità intrinseca, una
distinzione innata. Lei è una di queste". Nel 1921-22 gli americani e
gli inglesi che Freud aveva sul divano si ritrovavano nei caffè della
'Wahringerstrasse' per discutere delle loro rispettive sedute. Un giorno
due inglesi, James Strachey, suo traduttore, e John Rickman invitarono Kardiner a prendere il tè con loro per fargli una domanda che li
preoccupava enormemente: "Abbiamo sentito dire che Freud parla con lei.
Lei come fa?". Essi sospettavano che il loro psicoanalista si
addormentasse alle loro spalle. Kardiner commentò quelle esperienze
frustranti come elaborative ed avanzò l’ipotesi che avrebbero forse
dato origine ad una scuola inglese di psicoanalisi per la quale il
silenzio dell’analista era essenziale. Altri pazienti- allievi, al
contrario, si lamentavano che Freud fosse addirittura troppo loquace.
Lo svizzero Raymond de Saussure, affascinato dalla lucidità e dal
genio di Freud, gli rimproverava di aver praticato la suggestione
troppo a lungo per non averne conservato certi riflessi: quando era
convinto di una verità stentava ad aspettare che essa si risvegliasse
nella mente del paziente; voleva convincerlo subito e a causa di ciò
parlava troppo. Joan Riviére si scandalizzò della sua impudenza quando
fin dal primo incontro Freud le annunciò: "Bene…io so già qualcosa su
di lei; lei ha avuto un padre e una madre". Lungi dalla benevola
neutralità della cosiddetta tecnica contemporanea, Freud non esita a
mettersi in causa personalmente nella cura, a fare riflessioni
personali, su personaggi che conosce o opere che ha letto. Segni di
amicizia, incoraggiamenti, espressioni di un contro-transfert di cui
non avrebbe valutato, secondo alcuni, tutta la portata tecnica. Freud
faceva dei piccoli doni ai suoi analizzati: in pieno inverno regala
alla Doolittle un ramo d’arancio coi frutti, portato dal sud della
Francia da uno dei suoi figli. Al dottor Blanton regala le sue opere
in 4 volumi scatenando una serie di sogni complessi in cui i lavori di
Freud si associano alla guerra, a una cassa di esplosivo e a un verso
di Shakespeare. Freud amava anche illustrare le sue interpretazioni
raccontando una barzelletta ebraica o mostrando una statuetta della
sua collezione. Scrisse la Doolittle: "Il professore mi fece andare
nell’altra stanza e mi mostrò gli oggetti che erano sul suo tavolo". Freud le mise tra le mani un Visnù d’avorio incoronato di serpenti,
poi scelse una piccola Atena di bronzo, con un copricapo a casco e
vestita da capo a piedi di una veste a pieghe, una mano tesa come se in
origine tenesse un bastone. Freud spiegò: "E’ la mia preferita, è
perfetta, purtroppo ha perso la sua lancia" . Pronunciò quelle parole in
un inglese senza tracce d’accento tedesco, con voce calda e musicale. Hilda ne rimase sedotta ma ancora 10 anni dopo si interrogava sul
senso di quelle incursioni nell’altra stanza.
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