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Foto: locandina del film di Ingmar Bergman "La vergogna"
I poeti, i creatori di
linguaggio, gli artisti « sono i nostri maestri » scriveva Freud.
Perché dicono «le cose prima degli altri » aggiungeva Lacan
inaugurando il suo ritorno a Freud. Eppure non si tratta di una
padronanza, né di un controllo da padrone come lo si ritrova nella
dialettica hegeliana del signore e dello schiavo. Nè si tratta di una
posizione di padronanza quale la rileva Lacan nei Quattro discorsi
fondamentali della psicanalisi, discorso, quello del maestro,
di un sapere totalitario sulla cosa, e quindi usurpatore di godimento...
Un sapere al quale noi dovremmo riferirci ciecamente, venendo da
colui-che-sa e che dovremmo reperire come delle oscure lucciole
attirate dalla luce per risplendere di riflesso noi stessi. Non è di
questo sapere esterno al soggetto, che pure il discorso
universitario fa suo, che si tratta in analisi. E’ piuttosto di un
sapere-insaputo, l’insaputo che sa, come Lacan definisce l’inconscio,
che è in
questione nel creativo poetico o artistico.
Una breve sequenza clinica di
un’analizzanda
intrappolata fin dall’infanzia nelle reti del discorso
del signore assoluto, maestro e padrone della sua identità, mi
permetterà di congiungere clinica e arte. La vergogna servendo da
'trait d'union'
tra le due. Senza soffermarmi sulla sua
sintomatologia nevrotica, di tipo fobico, rileverò
alcuni
significanti. In particolare una frase pronunciata anni dopo l’inizio
dell’analisi. « Ho avuto dei
demoni che hanno determinato la mia vita :
Hitler e mia nonna ». Hitler per aver scatenato l’inferno della
seconda guerra mondiale con il suo corteo di drammi familiari, e
personali di cui ancora oggi porta le tracce traumatiche. Sua nonna
per aver dominato la famiglia con una barbarie
e un autoritarismo
fascista. Ricorda ancora con vergogna una delle più umilianti
punizioni inflitte dalla nonna dittatoriale ai suoi due fratelli. Essa
li mandava a scuola con le mutande sporche dei loro escrementi,
attaccate alle loro cartelle con delle mollette da bucato. L’analogia
con la stella gialla cucita sugli abiti degli ebrei non vi sfuggirà.
Si tratta qui di due spazi
psico-totalitari, l’uno politico, l’altro familiare. Ma entrambi
utilizzano la stessa ferocia dalle ripercussioni traumatiche che l’analisi
mette anni ad evidenziare. Decenni dopo è ancora questa vergogna
inibitrice che l’attanaglia. I suoi desideri repressi, sottomessi
all’arbitrario dell’altro dominante, il suo congiunto, intellettuale
contorto, anzi perverso,
la legano ancora a un torturatore come una
preda al predatore, con una sottomissione quasi totale al potere del
padrone. Come se portasse ancora e sempre attaccati al dorso, nella
sua traiettoria esistenziale e ontalogica (nel senso che
seguiva nella sua esistenza la logica inconscia della vergogna) queste
mutande sporche di merda. Le fobie, per
un certo verso, sono degli
indumenti intimi troppo sporchi che pure il soggetto si obbliga ad
indossare e a mostrare agli altri. Come dice Freud in una lettera a
Fliess « anche il ricordo puzza » ! Ci son voluti anni di raccordo al
simbolico della parola, articolata al terzo,
l’analista, affinché
questa vergogna immaginaria si rielabori in un confronto con
la forza
della legge del significante, e non si sottoponga più alla legge della
forza insignificante, forza dell’imposizione dall’esterno,
dell’impostura del signore, padrone. Fu in questo riconoscimento di
una parola libera da ogni imposizione e impostura, libera del cosa-si-
dirà-di-me che la mia analizzanda
chiese e ottenne rapidamente il
divorzio. Quest’altro padrone, maestro assoluto,
segue il fobico come
fosse la sua ombra, fino a che l’ombra non si confonde più con la
preda ! La dimensione sadica-anale delle mutande sporche di merda è
una costante della vergogna originaria. Il soggetto è ridotto al rango
di spazzatura, di rifiuto: nel senso di essere lui stesso un
oggetto-rifiuto e un soggetto-rifiutato dall’altro, dallo sguardo
dell’altro. Ridotto ad essere un riflesso reale della dominazione
anale, immaginaria,
dunque, del dominatore. La stella gialla accollata
agli ebrei durante la fine degli anni trenta e la seconda guerra
mondiale non indicava forse, tramite la trasposizione dell’erotismo
anale propria alle derive autoritarie e fasciste, questo essere votato
alla « discarica » da un regime dove la « purezza » o la purificazione
razziale altro non era che una proiezione a contrario
dell’insudicia identificazione ? Il padre del Presidente Schreber è a
questo riguardo
un precursore.
La Vergogna,
di Ingmar Bergman
Nel film di Bergman, La
Vergogna, Eva e Jan, una coppia di musicisti,
vivono, si direbbe,
felici su un’isola quasi deserta da qualche parte nel Nord. Il nome
della protagonista, Eva, farebbe pensare a un paradiso, un luogo
sferico di unità e fusione ideale. Lo spettatore scopre fin dalla
prima scena del risveglio la nudità di Eva, la sua perfetta
adeguazione all’ideale femminile, rotonda di perfezione e di desiderio
vitale. Mentre Jan si mostra più rugginoso, più lento ad aderire al
movimento dello spuntar del giorno. Di questo primo giorno che pare
una metafora della Creazione. Al posto della biblica mela del giardino
di Eden, Eva e Jan coltivano il loro orto per rivendere i prodotti
agli altri abitanti dell’isola. Ecco l’inizio della vergogna,
l’origine bergmaniana della storia che dà il titolo al film. La
vergogna apparirà all’uscita del loro giardino. All’apparizione
dell’altro. L’apparizione dell’altro è come un rivelatore di conflitto.
Ed è la guerra. Conflitto evidenziato da Bergman tra i due amanti e la
guerra che cade loro addosso direttamente dal cielo. Un paracadutista
isolato viene infatti a morire nel loro giardino. Da allora il film si
snoda su due assi : quello della coppia fusionale, narcisisticamente
chiusa sul loro io, isolani e isolati, tragicamente prigionieri di un
destino mortale per le loro identità ; e come un riflesso nello
specchio del conflitto interpsichico l’apparizione della guerra tra i
popoli. Bergman, si sa, è un maestro del conflitto di coppia. Ed è
questa esplosione della coppia, e
poi la messa a fuoco, se posso dire,
delle fratture interne a Eva e a Jan che il regista si applica meglio
ad evidenziare. La vergogna ci apparirà come l’elemento psicologico
che mette in luce, come ho già detto, ciò
che era latente, oscuro.
Non c’è pace che tenga nel soggetto singolo e isolato, alienato in sé
stesso, quando l’altro, il terzo,
gli impone di rivelare la sua
identità profonda, la più segreta. Certo per Sartre « l’enfer c’est
l’autre ». Ma Alain risponde che « non c’è felicità da soli », senza
l’altro. Quindi ? Il dramma umano è tutto in questa ambivalenza
dell’essere umano. Ciò
che Lacan ha formulato con la celebre frase
« il desiderio è il desiderio dell’Altro ».
Qui nel film di Bergman il
nome del Malefico Maestro Assoluto, Hitler, non è mai pronunciato,
eppure il riferimento alla sua follia distruttrice totale appare
sottinteso. Anche se quello che Bergman sembra denunciare è la
dittatura in se
stessa, la dittatura di se
stessi, direi, foss’anche
quella dei sentimenti, nobili o amorosi che siano.
E’
così
che la brutale
discesa all'
inferno di Eva e Jan a causa della guerra, produce e rivela ciò
che è ognuno nel suo stato affettivo-sentimentale : un infermo
della vita e della vita un inferno. L’inesorabile decadenza di
Eva (Liv Ullman, moglie, a quel tempo, di Bergman) e di Jan (Max von
Sydow) prende avvio nella sessualità, come ogni psicanalista si
accorda ad ammettere. Eva è obbligata ad offrirsi al tiranno locale in
compenso di una somma di denaro, e per sfuggire alla deportazione e
alla morte. Mentre Jan, accortosi del maneggio, non esita a sottrarre
e a nascondere il denaro della vergogna. Lo spostamento sul denaro
della collera di Jan ha tutte le caratteristiche della deportazione
che Eva aveva voluto evitare per sé e per il suo uomo. Il denaro
sottratto, investito immaginariamente come oggetto fallico di potere e
di salvezza, si rivelerà per cio’ che è,
l’oro del diavolo
che si trasforma in merda. Poiché per mantenerlo in suo possesso dovrà
uccidere l’uomo che lo aveva rimesso alla sua donna, per poi, alla
fine,
darlo a un barcaiolo che dovrebbe portarli in salvo al di
là
dell’isola, ma la cui barca si perde in mare, circondata da cadaveri.
E’ in questo contesto che Eva pronuncia la frase che dà un senso al
dramma. In un momento di calma pulsionale Eva si rivolge a Jan e gli
soffia all’orecchio : « E’ come se vivessi nel sogno di un altro. Vi
partecipo. Quando si sveglierà, avrà lui vergogna ? ».
La vergogna è appannaggio
dell’altro. Il soggetto si ritrova ostaggio del desiderio distruttore
di un altro, sottomesso alla sua volontà la più primitiva, violenta,
senza speranza di uscirne se non…Se non attraverso la vergogna che l’altro
proverà al risveglio della sua coscienza di soggetto umano. Forse. La
vergogna è quindi la speranza, l’attesa speranzosa di un’ipotetica
apparizione del terzo simbolico che metterà fine al magma caotico,
immaginario, quindi fusionale di una uniforme stessità, per
dirla
con un neologismo che confonde la vittima e l’aggressore, la
loro fusione identitaria. Non v’è nella questione di Eva nessuna
attesa di un rimorso da colpevolezza risentito dall’altro – il tiranno,
ma anche Jan - per i crimini commessi, come ci si potrebbe aspettare.
Né un desiderio di punizione, né di vendetta. Eva non pronuncia alcun
risentimento di odio, come lo proverebbe una vittima della barbarie
che lo distrugge. Anzi il negativo non si
manifesta. Come se lei
pronunciasse quella frase che si dice ai bambini che hanno commesso
qualcosa di riprovevole : « Ma non hai vergogna ? »
Cosa
che sembra
poca cosa rispetto alla violenza fisica, sessuale, psicologica,
identitaria mostruosa che sta
subendo. « Quando si sveglierà – quando
il mostro si sveglierà – avrà forse vergogna ? » Ecco la pena suprema
che lei sembra invocare per la belva infame che l’ha incorporata,
inghiottita nel suo sogno mostruoso, nel suo fantasma
perverso, come
in un corpo famelico. La vergogna dell’altro, quella provata
dall’altro - ciò
che non è lo stesso della vergogna che si prova nei
riguardi dell’altro – sarebbe allora la suprema riparazione, la
restaurazione ultima non dell’integrità del soggetto allo stato di
prima del suo passaggio nel sogno mostruoso dell’altro, ma
restaurazione dell’essere, soltanto per continuare, riprendere a
riconoscersi come essere umano. Riprendere il corso della propria
esistenza, riappropriarsi della propria storia su una via
dove l’identità
fracassata può
ricostruirsi un viso, una vita interiore, una
traiettoria di nuovo umana. Cioè simbolicamente liberata dalla
vergognosa oppressione dell’altro immaginario. Siamo qui
con Bergman,
con Eva la prima donna, agli albori di una vergogna originaria,
anteriore all’odio e alla costruzione della rivalità e della
colpevolezza edipica. L’odio,
che sarebbe anteriore all’amore, secondo
Freud e Lacan, sono entrambi
preceduti, comunque fondati su una
vergogna originaria il cui riconoscimento - sembra affermare Bergman -
ci rende umani, o semplicemente ci allontana dalla ferocia selvaggia
e ci tiene nella civiltà e nella cultura. Nel desiderio erotico
vero, insomma. A contrario è la perdita o il diniego di questo
sentimento (magari più un affetto che un sentimento) di vergogna,
fondamentale in
quanto fondatore dell’umanità,
che è la causa del Male
che si abbatte sull’isola, come su Jan e Eva. In questo Bergman non
sarebbe d’accordo con Claude Janin, se vogliamo mettere in prospettiva,
come questo convegno ci invita a fare, gli psicanalisti e gli artisti e i
creativi. Claude Janin scrive : « la vergogna è un legame negativo che
cementa le relazioni inter-individuali » ("Pour une théorie
psychanalytique de la honte", in <<Revue Française de Psychanalyse>>,
2003/5, volume 67,PUF, p. 1665. Mia traduzione). Oppure quando lo
stesso Janin scrive nello stesso articolo che la rimozione e il
diniego della vergogna « avrebbero un ruolo nel lavoro di
civilizzazione ». Personalmente sarei più vicino alla « visione » di
Bergman che all’analisi di Janin.
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L’Inferno
di Dante
Tratterò
ora della visione
poetica, dantesca, di una vergogna (poiché ci sono più versioni della
vergogna) legata ad altre passioni umane, altrettanto mortali
di
quelle rilevanti dal discorso e dalla logica del dominatore, Maestro
Assoluto, dall’altro immaginariamente omnipotente. Qui si tratterà,
ogniqualvolta il tema della vergogna appare, ed appare spesso nei
gironi infernali attraversati da Dante e dalla sua guida Virgilio, della
vergogna provata dallo stesso Dante. Mai provata dai dannati. Ciò
in
quanto, si potrebbe dire riprendendo il desiderio di Eva, mai queste
anime si sveglieranno nell’Inferno eterno in cui vanno. Salvo forse in
un solo canto, il Canto quinto, in un solo personaggio, Francesca da
Rimini, figura emblematica del desiderio femminile e della passione
amorosa, la sola che Dante sembra osservare con indulgenza e
compatimento. Vi tornerò.
Mi sembra
di
poter affermare che
per Dante la vergogna sia un elemento determinante, essenziale per
giudicare dell’altezza di intenti, della delicatezza dei sentimenti,
della sensibilità e dell’intelligenza dei comportamenti di colui e colei che la
provano. Mai la bassezza, l’ignominia, la perversità si accompagnano
a
vergogna. Allo stesso modo della pietà, la tristezza
per le sofferenze altrui, oppure la gioia che prova all’avvicinarsi
alle sfere superiori e luminose della coscienza (seguendo
in ciò
la concezione di San Tommaso d’Aquino, nel suo commento all’Etica
di Nicomaco di Aristotele in cui parla della felicità come
bene supremo : « Felicitas principium omnium bonorum humanorum »),
questi sentimenti superiori hanno un valore analogo alla vergogna.
In questo senso possiamo dire che la vergogna per Dante è la
vergogna di Dante. Quell’affetto che il poeta prova è proprio
dell’uomo etico, anche dinanzi alle sofferenze e alle disgrazie delle
anime dell’Inferno.
Fin dal Canto Primo, fin dal
primo incontro con il sommo poeta Virgilio che gli servirà di guida,
Dante afferma la sua esaltazione dinanzi a tal Maestro, nei confronti
del quale egli riconosce il suo più grande debito po-etico (lo scrivo
con un "trait d'union"
prima di etico). Non si tratta qui del
Maestro inteso nel senso precedente di dominatore, sovrano omnipotente
e dittatoriale, ma del grande Altro sorgente di significanti (poetici).
Colui che diffonde …di parlar si largo fiume (…si grand fleuve de
langage) (Ch.1, v.80). Fin dalle prime parole pronunciate Dante ci
dà una testimonianza del grande valore etico che assume per lui la
vergogna quando, indirizzandosi a Virgilio che ha appena riconosciuto,
gli risponde : « …con vergognosa fronte » ( … avec la honte
au front.v. 81) (traduzione
di
Jacqueline Risset). La funzione di
Grande Altro di Virgilio, possiamo avanzare come proposta, rappresenta insomma l’ideale
dell’io di Dante. La vergogna dantesca sarebbe quindi un
riconoscimento ideale dell’Altro. La sua assenza implicherebbe un
livellamento immaginario del medesimo, la perdita dei valori supremi
ai quali l’io si confronta.
Nel Canto Terzo, dinanzi a
Virgilio che lo redarguisce severamente, come lo farebbe un maestro di
scuola, chiedendogli di essere paziente nel suo desiderio di sapere,
Dante prova vergogna per aver contrariato il suo illustre Maestro :
Allora con li occhi
vergognosi e bassi…
Infino al fiume del
parlar mi trassi (v.79)
(Alors les yeux
baissés, honteux…
je m’abstins de parler
jusqu’au fleuve »
Si tratta, beninteso, del fiume
Acheronte, che Freud mette in esergo dell’Interpretazione dei sogni :
« Si nequeo Superos Acheronta movebo ». Forse a conferma, se ve ne
fosse ancora bisogno, che, come per Dante, l’ideale di Freud è Virgilio.
L’ideale della psicanalisi è il Poeta…Cosa che Lacan afferma nella
conferenza sull’RSI dell’8 luglio, di cui vi parlavo in apertura del
convegno, e che precede di due mesi il famoso Discorso di Roma.
Lacan dice : « …il sintomo (isterico) è equivalente ad una
attività sessuale, ma mai un equivalente univoco. Al contrario esso è
sempre plurimo, sovrapposto, sovradeterminato, e per dirla tutta, molto
esattamente costruito alla maniera in cui le immagini sono costruite
nei sogni, come rappresentanti una concorrenza, una superposizione di
simboli, cosi’ complessa che lo è una frase poetica
(miei
grassetti) che vale per il suo tono,
la sua struttura, i suoi calembours o giochi di parole, i suoi ritmi,
la sua sonorità, quindi essenzialmente su molti piani, e dell’ordine e
del registro del linguaggio ».
Ma ritorniamo all’episodio più
celebre e celebrato dell’Inferno. L’episodio di Paolo e
Francesca, ma infine
potremmo dire di Francesca sola, poiché Paolo
mai prende la parola nel dialogo tra Dante e la sua amante. Dicevo che
mai Dante offre la vergogna alle parole dei Dannati. Troppo eticamente
elevata per affidarla ai peccatori. Salvo forse che per Francesca, nei
cui riguardi, e nei riguardi del suo peccato passionale, Dante sembra
esitare, mostrando una certa indulgenza, una clemenza che resta unica
in tutto il poema. La figura di Francesca sembra affascinarlo, come
Freud lo fu nei riguardi di Anna O. Dante prova un sentimento di « pietà »
per lei, come lo afferma nel verso 139 :
…di pietade
io venni
men cosi’ com’io morisse
(vv. 140-141)
(…de pitié
je m’évanouis comme si
je mourais)
Il sentimento è così
forte, come se
andasse al di
là della pietà e svegliasse il suo desiderio passionale,
sessuale, che le parole gli
mancano, e il suo corpo si mette a parlare
in maniera isterica, al punto da svenire. Il Canto termina con un
verso che rammenta la petite mort, la piccola morte,
come è chiamata l’orgasmo :
E caddi
come corpo morto cade
(v. 142)
(Et je tombai comme
tombe un corps mort)
Cosa, a
proposito di Francesca, lo
mette in un tale stato orgasmico ? Al punto da dargli in dono un
sentimento che riserva solo a se stesso ? Questa vergogna che non ha
vergogna a esprimere in tante circostanze del suo viaggio nell’oscura
umanità ? Certo,
Francesca è stata punita per il suo « peccato carnale »,
come si
è detto. Per essere stata l’amante del suo genero. La sua è
quindi una colpa ben definita dal canone etico-religioso degli amori
impossibili al quale Dante si ricollega. Ciò
che resterà fino al
XVII secolo, ed oltre, con Racine per dare un’esempio della sua
longevità. Ora,
se la colpevolezza è ben stabilita e non si discute, la
passione di Francesca è però
tradotta da Dante con una condiscendenza
che ci fa
avanzare la proposta
che la vergogna esiste quale che sia la colpa, che
la vergogna non è un suddito della colpa, ma un sentimento a parte che
ha a
che vedere con l’amore, magari anche narcisistico. E’ così
che
Dante, anche se non attribuisce a Francesca un chiaro sentimento di
vergogna, le
offre lo stesso una variante, un Ersatz, un
surrogato (come il sintomo lo è dell’opera d’arte), un succedaneo che
ha nome pudore. Non glielo offre dicendolo o chiamandolo tale
esplicitamente. Bisogna leggere Dante tra
le righe
per ritrovarlo.
Come se Dante non avesse voluto o potuto sporcarsi le mani, direi,
agli occhi del suo Tempo dando a Francesca un attributo psicologico e
affettivo riservato alle Grandi Figure, e all’amor puro. Ma i
commentatori più titolati non si sono lasciati sfuggire che Dante dice
in modo latente quello che non esprime in modo trasparente. Al momento
del loro passionale incontro Francesca e Paolo, ricordate, leggevano
il libro "star"
o culto per l’epoca, Lancillotto. Un bacio ne scaturì, diciamo pure un rapporto sessuale che il termine francese esprime
meglio che l’italiano. Paolo le baciò
la bocca « tutto tremante »
(in francese « me baisa (la bouche) tout tremblant »
, v. 136). E fu così
che :
quel giorno
più non vi leggemmo avante
(v.138)
(ce jour-là nous ne
lumes pas plus avant)
E’ all’evocazione di questo rapporto
sessuale appena travestito che Dante sviene. Ed è a
questo momento
cardine che i commentatori quali Umberto Bosco e Giovanni Reggio (La
Divina Commedia, Inferno, Mondadori, 2002) riconoscono che : « Francesca
interrompe il suo racconto stendendo un velo pudico sul proprio
peccato, ed è questa un’altra connotazione - aggiungono i commentatori
– della squisita delicatezza del personaggio ». Solo che il « velo
pudico », il pudore per dirlo chiaramente, è quello di Dante.
E’ lui che scrive il poema, come nei sogni, in analisi, i personaggi
vivono quello che l’analizzando
ci mette di suo. Il pudore provato ed
espresso in modo latente, come nel sogno, da Francesca è il suo, di
Dante, come sua è altrove la vergogna.
Che tra
vergogna e pudore ci sia un rapporto di parentela
connotativa, quasi una sinonimia, non è solo un dato scovato nel poema
di Dante, e nel poeta lui stesso. E’ una familiarità semantica che si
ritrova anche nell’opera di Freud. La traduzione inglese delle Opere
Complete (Gesammelte Werke) non distingue infatti le due
accezioni in quanto, ci ricorda Claude Janin nell’articolo che
chiamerei di base sulla vergogna (Pour une théorie psychanalytique
de la honte…op.c.), la lingua inglese ha lo stesso termine per
dire la vergogna e il pudore, shame. Mentre in tedesco,
francese e in italiano due parole diverse specificano vergogna e
pudore. Il problema di traduzione dal tedesco di Freud è comunque
stato pienamente rilevato
e non è qui il caso che mi attardi.
Per concludere
su questo Canto Quinto sull’episodio di Paolo e Francesca - al
punto che non lo chiamerei più che l’episodio di Dante e Francesca
- Dante stesso stende un velo pudico sul suo canto in
quanto si accascia come un corpo morto, e chiude il poema. In
ciò penso che sia stato affetto dall’identificazione alienante e
dalla confusione isterica con i suoi personaggi, così come lo afferma
per noi psicanalisti nell'inizio del Canto VI che segue, ove parla del
ricordo e dell’oblio, diciamo della rimozione nella quale era
caduto l’avvenimento che tanto l’aveva rattristato :
Di
trestizia tutto mi confuse
(C.VI, v. 3)
(en me confondant
de tristesse).
Questo esplicita, si può
dire, l’analogia
di cui parla Lacan, e che ho citato poc’anzi, tra il sintomo isterico
e la poesia. La vergogna innalzando questo verso Quella.
E’ il Canto
XXX che porta più acqua al mulino della psicanalisi, per una sottile
distinzione tra rimorso, colpevolezza e vergogna. In pochi versi Dante
esprime la sua vergogna a due riprese. La prima volta quando il suo
Maestro Virgilio si rivolge a lui con collera :
Quand’io ‘l
senti’ a me parlar con ira,
Volsimi verso lui
con tal vergogna,
Ch’ancor per la
memoria mi si gira.
(vv.133-135)
Dante ci indica che le
ferite della memoria legate alla vergogna ci girano in mente in
maniera indelebile. Come diceva Freud in una lettera a Fliess : « Il
ricordo puzza ». A maggior ragione i ricordi di vergogna provata tempo
addietro, e quale che sia la distanza dall’avvenimento. Come se la
rimozione non funzionasse.
Ma a questo punto
Virgilio, Gran Signore e non Potente Maestro, lo rassicura dicendogli
che la vergogna che prova può lavare una colpa ben più grande di
quella che ha commesso.
Maggior
difetto men vergogna lava
(v.142)
Alla stregua di Eva nel
film di Bergman, Dante considera la vergogna, già sette secoli prima,
come un procedimento di espiazione e di purificazione della colpa
commessa. Sia questa reale o immaginaria. Come per l’applicazione
della pena al colpevole di un delitto, Dante introduce un principio di
proporzionalità che il diritto penale del suo tempo era lungi dal
riconoscere. Più grave è la colpa, più profonda è la vergogna, ci dice.
Solo che, lo si constata nel verso « Maggior difetto men vergogna
lava », la vergogna immaginaria è slegata dalla colpa reale. La
sua risonanza va al di
là dell’avvenimento colpevole. Se la colpa, il
sentimento di colpa è reale, la vergogna, il sentimento vergognoso è
immaginario. Ma la distinzione non è così semplice. Per Dante si
tratta di dare alla vergogna una struttura simbolica di redenzione
attraverso la poesia, la parola vera, una sorta di evoluzione nella
risoluzione dell’Edipo, diremmo in psicanalisi. Ciò nel senso in cui
alcune correnti psicanalitiche pongono « l’Edipo al di là della
vergogna » (cf. Claude Janin, op.c., p.1685). Io aggiungerei che la
vergogna si trasforma e si simboleggia dopo la strutturazione edipica.
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M’Palermu,
di Emma Dante
Foto: "M'palermu" di
Emma Dante
Dopo la poesia
e il cinema, il teatro interroga l’analista. Il teatro di Dante, Emma
Dante, una omonima del grande poeta col suo cognome. Giovane autrice
siciliana, già invitata molte volte a Parigi. Una sua pièce,
M’Palermu (Dentro Palermo), rappresentata di nuovo
quest’anno al théâtre du Rond Point, diretto da Jean-Michel
Rives, racconta la storia di una famiglia siciliana che si appresta ad
uscire di casa per una passeggiata, ma che non riesce a passare l’uscio.
La vergogna glielo impedisce ! Vergogna di non avere le scarpe che ci
vogliono, le scarpe buone. A questa vergogna sintomatica se ne allacciano
altre. Vergogna per non saper parlare il buon italiano, per non
abitare al Nord, ma al Sud, per non aver l’acqua corrente ogni giorno,
per non avere la cattedrale più grande del mondo, né la squadra di
calcio che rivaleggi con le più quotate squadre del Nord. La vergogna
di esser nudo come un feto prematuro, non ancora pronto ad uscire, la
vergogna per essere una bocca famelica in questo gran ventre che è
Palermo, che espelle i suoi vomiti e escrementi. La vergogna per una
autenticità linguistica, dialettale - lo spettacolo teatrale è in
dialetto siciliano – che scopre tutto del soggetto, che toglie agli
interpreti, piuttosto straccioni, ogni ornamento di civiltà, alla
maniera di uno scultore che però
toglie il marmo che ricopre la sua
statua. Vergogna della loro incapacità a vestire di convenzioni il
loro essere, a ricoprire le loro pulsioni di un velo di pudore, come
un pittore che
dipinge la sua tela. Poichè la verità umana che vuol
trasmettere Emma Dante, la soggettività più parlante, rischia di
essere un grande urlo vergognoso alle orecchie di coloro che dalla
loro umanità si distolgono.
Con questo
spettacolo senza concessioni al buon pudore benpensante, ci ritroviamo
nel cuore della scoperta freudiana. Quella scoperta che consiste
essenzialmente nell' ascoltare, grazie al transfert, il nostro « dialetto
interiore ». Quel dialetto che ci permette di dire, parafrasando
Lacan, che « l’inconscio è strutturato come un… dialetto ».
Come lo afferma Andrea Camilleri nella sua prefazione, il dialetto è
« lingua personale », « una voce che risuona di autenticità ».
Per la
famiglia Carollo si tratta di passare la soglia della sua intimtà
difettosa - necessariamente difettosa poichè l’uso della lignua
dialettale è uno specchio dell’anima, cioé della psiche - senza « vergogna
né colpa » (p. 25), a testa alta, adornata della sola dignità umana,
come un re della sua corona. Eppure ecco che, al momento di passare la
soglia di casa, felici, e cercando il sole che li attende, un elemento
apparentemente insignificante inceppa il meccanismo familiare, come l’apparizione
di un sintomo in ogni nevrosi. Questo elemento impercettibile spalanca
non l’uscio di casa, ma le porte della vergogna che, invece, lo
richiudono sui suoi abitanti. Lo sguardo dell’altro appare prima che
appaia l’altro. Quello che direbbe la gente, il chiacchiericcio
immaginario degli altri passeggiatori entra in casa loro, prima che
loro ne escano. Ed anzi impedisce loro
di uscire. Questo perché Rosalia,
che ha il marito che lavora al Nord, non ha scarpe ai piedi, ma solo
le sue pantofole. Tutta la famiglia si inchina sui « tappini »
di Rosalia e arrossisce di vergogna. Il silenzio cade come un verdetto
su di loro. L’inibizione ad uscire è insormontabile. E la vergogna non
li lascerà più fino al dramma finale. Di vergogna si può morire,
purché sia a testa alta! Così finisce in tragedia un’uscita
domenicale. La nonna « Nonna Citta (che poi citta vuol
dire che tace) muore dritta. Si curva mentre esala l’ultimo
respiro, ma non cade. La sua è una morte in dialetto. <<Assurda e
volgare >> (op.c. p. 70). Volgare forse, ma nel senso di Dante, l’Alighieri,
nel De vulgari eloquentia, un’impossibile rettitudine
dell’eloquenza volgare. Quella dell’origine del linguaggio, quella
lingua volgare che il fanciullo apprende fin dalla « balia »
dice l’Alighieri. Intendiamo quella lingua originaria alla quale l’analista
non cessa di riferirsi. Prima ancora della lingua grammaticale,
la lingua perfetta - o supposta tale - dell’élite, è questa
lingua paratassica e volgare – cioè del volgo, del popolo, che
interessa la psicanalisi, come già accennato in apertura del convegno.
C’è in
questa morte in piedi di Nonna Citta una specie di elogio della lingua
moribonda che è il dialetto, come il timore che anch’essa diventi
lingua morta. Come avviene al Gattopardo, di Tommaso di
Lampedusa, nobile in via di estinzione. Del resto per Dante Alighieri stesso, la lingua nobile, la lingua illustre, cardine della porta
del linguaggio, la sola che promuova l’uomo nella sua singolarità
storico-familiare - e direi anche psicologica – è la lingua volgare.
Come per Freud la sola lingua che abbia a riconoscere l’analista è il
« dialetto interiore » del suo analizzando. Anche lui, dialetto
interiore, minacciato di sparizione dalla rimozione.
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Conclusioni
Il percorso
tra le opere poetiche, cinematografiche e teatrali della questione
della vergogna mette in evidenza, a mio avviso, tre assi di lavoro :
1
La vergogna reale nel caso di
avvenimenti esterni al soggetto, che riducono e a
volte cancellano la
dignità umana delle vittime. Che poi hanno una risonanza soggettiva,
come avviene ai personaggi di Bergman, Eva e Jan.
2
La vergogna immaginaria,
sintomatica, come nella situazione familiare descritta e messa in
scena da Emma Dante in M’Palermu. Le pantofole (tappini)
come metonimia dei fantasmi sessuali e incestuosi che dragano i
conflitti all’interno di un nucleo familiale, narcisisticamente chiuso
su se stesso, nel quale si alienano i vari componenti fino al
soffocamento.
3
La vergogna simbolica, infine,
quella che prende il linguaggio - poetico nella circostanza del poema
di Dante - come supporto di una elaborazione psichica soggettiva, atta
a dominare le passioni nel loro estremismo mortale e mortificante. La
sola ad avere un effetto civilizzatore, cioè metaforico e strutturante
dell’identità personale.
E’ così che il
treppiedi lacaniano RSI, come quello della Sibilla, offre tutta la
misura, mi sembra di
poterlo affermare, del suo valore operativo, non
soltanto nell’approccio clinico della vergogna, ma anche - e questo
non c'è senza quello - come basamento sul quale scrivere le nuove o
rinnovate concezioni dei mutamenti dell’identita soggettiva.
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Note dell'Autore:
Tra tutti i volgari italiani, Dante Alighieri ne
cerca uno che sia "illustre, cardinale, aulico e curiale."
0.
"Illustre" perché doveva dare lustro a chi lo parlava
0.
"cardinale" così come il cardine è il punto fisso attorno al quale
gira la porta, allo stesso modo la lingua deve essere il fulcro
attorno al quale tutti gli altri dialetti possono ruotare
0.
"aulico"
e "curiale" perché dovrebbe essere degno di essere parlato in una
corte e in
tribunale.
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