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L'Esistenza di Dio.                                      2005 - By: www.paginecattoliche.it

1. Introduzione. Il problema di Dio.

Salendo attraverso i vari gradi della vita ci siamo fermati a studiare l'uomo, la creatura che poggia sul vertice degli esseri materiali ed è al confine del mondo spirituale, anello di congiunzione tra lo spirito e la materia. Ma lo studio dell'uomo si completa in Dio. Egli infatti viene immediatamente da Dio, tende immediatamente a Dio, è costituito con un'anima spirituale fatta a Sua immagine e somiglianza. Dio perciò è coronamento e termine necessario del nostro studio filosofico.
Prima di tutto ci domandiamo: esiste Dio? Questione principalissima che si affaccia inesorabile alla mente di ogni uomo, e dalla cui soluzione molte altre questioni dipendono.
Essa è tuttora al centro della filosofia, come apparve in un recente Congresso filosofico (Firenze 1940) ove, contro alcuni pochi (come Fazio, Allmayer e Calogero) i quali dicevano che il problema di Dio è ormai superato e non interessa più perché ciò che oggi interessa è l'estetica, l'economia e la politica, fu invece affermata e difesa la vitalità di questo problema centrale da parte dei numerosi filosofi presenti, pur nella varietà delle opinioni e nella diversità del linguaggio. Ma, se il problema è sempre vivo e attuale, purtroppo i filosofi non si accordano nella soluzione. Mentre l'umanità dalle sue origini, come dimostreremo naturalmente guidata dalla ragione che la fede confermava, ha affermato l'esistenza di Dio e gli ha sempre innalzato altari e templi, ed anche l'umanità di oggi, ove la violenza non lo impedisce, manifesta la sua comune credenza in Dio, non sono mancati e non mancano pensatori che negano l'esistenza di Dio: da Democrito, che per primo pronunciò la frase fatale: “Non est Deus naturae immortalis” agli odierni negatori di Dio, quale il Rensi, che si assumeva l'ardua e vana fatica (tanto evidenti sono gli argomenti in contrario) di fare un'Apologia dell'ateismo, (Roma, Formiggini), opera nella quale la facilità e piacevolezza dell’eloquio non riesce a nascondere la fragilità e l’inconsistenza delle argomentazioni.
Platone, nel X libro delle Leggi scriveva: “Come si può senza indignazione vedersi ridotti a provare l'esistenza di Dio?”. Eppure, di fronte all'ateismo militante è necessario dare e ripetere la dimostrazione, sia per confutare l'avversario, sia per confermare il credente di fronte al dubbio imprudente che talora può affiorare alla sua coscienza nelle alterne vicende della vita.
Per evitare fin dal principio ogni equivoco, avvertiamo che quando diciamo Dio, con questo nome augusto, “la più grande parola del linguaggio umano”, intendiamo un Essere supremo, personale, distinto dal mondo, dal quale tutto l'universo dipende.

 

2. Avversari.

A) Negano l'esistenza di Dio:

1) I materialisti. Essi affermano: tutto è materia, tutto viene dalla materia e ad essa ritorna. Ecco la dottrina che deve sciogliere tutti gli enigmi, contentare tutti i bisogni, soddisfare a tutte le aspirazioni. Su una concezione materialistica della realtà si basa anche l'ateismo del Rensi che, nelle prime pagine della sua Apologia dell'ateismo, dà questa definizione dell'Essere: “Essere significa ciò che si può vedere, toccare, percepire. E' soltanto ciò che può essere visto, toccato, percepito” (pag. 15); e prosegue spiegando: “quel può non va inteso nel senso che esista solo ciò sopra cui sia effettivamente possibile mettere l'occhio e la mano, ma nel senso che anche quando questo fatto non possa accadere, pure la cosa che è deve possedere una natura tale per cui sia per sé suscettibile di essere vista, toccata, percepita” (pag. 15?16). Ora, siccome soltanto l'essere materiale ha tale natura, il Rensi conclude che Dio, come essere spirituale, non esiste. Ma, quanto categorica, altrettanto falsa è la definizione di essere data dal Rensi: al contrario, essere dice solamente ciò che esiste o può esistere, sia materiale, come il mondo che vediamo, sia spirituale, come per es. la nostra anima, di cui già dimostrammo l'esistenza nella lez. XII (1).
2) I monisti e panteisti, che dicono di ammettere Dio, ma lo identificano col mondo e quindi praticamente lo negano. A ragione disse il Gratry: “Il panteismo è l'ateismo più una menzogna”. Si distingue il panteismo realistico di Scoto Eriugena, Giordano Bruno, Spinoza, ecc., e il panteismo idealistico della filosofia post-kantiana con Fichte, Schelling, Hegel, e in Italia con Croce, Gentile, Carabellese, ecc.
Il Gentile per es. scrive: “Dio non può essere tanto Dio che non sia lo stesso uomo” (2) e “Dio è spirito; ma è spirito in quanto l'uomo è spirito; e Dio e l’uomo nella realtà dello spirito sono due e sono uno; sicché l'uomo è veramente uomo soltanto nella sua unità con Dio (...) e Dio da parte sua è il vero Dio in quanto è tutto uno con l'uomo che lo compie nella sua essenza”(3). E' vero che talora afferma la distinzione tra Dio e uomo, ma la spiega, piuttosto, come distinzione di termini astratti nell’unica realtà concreta che è la sintesi 4 secondo i principi dell'idealismo che abbiamo altrove esposto (Lez. VI).
Orbene il panteismo non è accoglibile, perché Dio, per sua natura infinito, immutabile e perfettissimo, non può identificarsi né con la realtà materiale né col nostro spirito che sono realtà finite, mutabili e imperfette.
3) Dubitano dell'esistenza di Dio anche gli agnostici, i quali dichiarano impossibile sciogliere razionalmente il problema religioso. La questione dell'esistenza e della natura di Dio – affermano – supera le forze della nostra debole mente: Dio non può essere oggetto di scienza. L'agnosticismo – come dicemmo – è in fondo un atto di sfiducia nelle forze della ragione, sfiducia che nasce da una falsa concezione del valore e dei limiti della conoscenza razionale. Secondo questa impostazione, noi non possiamo oltrepassare il mondo sensibile, e siccome Dio non cade sotto l'esperienza sensibile, non lo possiamo in alcun modo raggiungere.
Nella lezione III abbiamo già confutato l'agnosticismo, mostrando come dalle cose sensibili possiamo razionalmente raggiungere una realtà sovrasensibile e lo vedremo meglio provando di fatto l'esistenza di Dio.

 

B) Affermano l'esistenza di Dio, ma appoggiandosi su falsi principi:

1) I fideisti, modernisti, ecc., che ritengono non potersi raggiungere Dio per la via del ragionamento, ma piuttosto per quella dei bisogni e delle aspirazioni della volontà e del cuore. Nel sentimento religioso dicono riscontrarsi un certo “intuito del cuore” per mezzo del quale l'uomo immediatamente entra in contatto con Dio e acquista, della esistenza di Lui e della Sua azione dentro e fuori di noi, una tale convinzione che supera ogni altra. Non neghiamo che motivi affettivi possano aiutare a raggiungere Dio, ma affermiamo che i motivi veramente validi e degni dell'uomo, essere ragionevole, per affermare Dio sono gli argomenti razionali, che conservano ancora tutto il loro valore assoluto.

2) I tradizionalisti; essi insegnano che l'esistenza di Dio non può essere dimostrata dalla ragione se Dio stesso prima non ci ha già rivelato questa verità che gli uomini si tramandano di generazione in generazione. Anche in questo caso non neghiamo che la rivelazione e la tradizione facilitino all'uomo la conoscenza di Dio, ma rifiutiamo l’idea che la ragione umana sia incapace di dimostrare l'esistenza di Dio: anzi, il fondamento su cui deve poggiare la nostra affermazione di Dio sono precisamente gli argomenti della ragione.

3) Gli ontologisti, che vanno all'eccesso opposto e affermano che noi abbiamo la cognizione immediata di Dio, l'intuizione della sua essenza. Proposta dal Malebranche, questa dottrina fu difesa in Italia dal Gioberti e dal Rosmini. Ma fu condannata dalla Chiesa, perché non solo non abbiamo di fatto questa intuizione dell'essenza divina (come l'esperienza chiaramente ci insegna), ma neppure possiamo averla, essendo questa superiore alle forze della natura e dono da Dio concesso solo nella visione intuitiva ai Beati.

4) Quelli che, con S. Anselmo, Descartes, Leibnitz ecc., con un argomento detto a simultaneo, pretendono dedurre l'esistenza di Dio dall'analisi del semplice concetto di Dio.
S. Anselmo così ragionava: Dio è l'Essere di cui non se ne può concepire uno maggiore; ma se non esistesse, se ne potrebbe concepire un altro maggiore che abbia anche la perfezione dell'esistenza. Dunque Dio deve esistere. Ma a chi ben lo considera, appare che l'argomento prova solo che Dio deve essere concepito come esistente; ma dal fatto che io debbo concepirlo come esistente, non ne segue che realmente esista. L'argomento di S. Anselmo fu ripreso e modificato da Descartes e da Leibnitz, ma rimane sempre inefficace. Infatti l'argomento avrebbe valore se noi avessi­mo un concetto proprio e intuitivo di Dio, ma siccome ne abbiamo solo un concetto improprio e analogico, ogni argomento che dai concetti si voglia dedurre implica un passaggio vizioso dall'ordine ideale al reale.

Noi vogliamo arrivare a Dio con la ragione, vogliamo dimostrarne l'esistenza, ma la sola dimostrazione valida è quella a posteriori, cioè dagli effetti alle cause. E' questa la vera via, che, unica, ci conduce sicuramente a Dio, la via degna dell'uomo dotato di ragione, la via additataci già da S. Paolo:
“Invisibilia enim Ipsius a creatura mundi per ea quae facta sunt, intellecta conspiciuntur” (Ep. ad Rom., 1, 20), raccomandata e consacrata autorevolmente nelle dichiarazioni solenni della Chiesa, nonché seguita costantemente non solo dai grandi apologeti cristiani, ma anche dai più illustri teisti di qualunque epoca, scuola e religione.

Considerando i fatti reali che cadono sotto la nostra esperienza sensibile, noi vedremo che non c'è modo di interpretarli razionalmente senza ammettere Dio, poiché:
1) la natura delle cose che costituiscono il mondo esige un Dio Creatore;
2) l'ordine che regna in tutto l'universo esige un Dio sapiente e ordinatore;
3) la voce di tutti i popoli proclama unanimemente un Dio supremo Signore.

Questi argomenti, studiati e discussi nel corso di lunghi secoli, hanno convinto le menti più elette dell'umanità; se certi moderni non ne percepiscono la forza, non è per difetto di luce della verità, ma per molte cagioni che, rendono le menti indisposte: tali sono le prevenzioni contrarie, la mancanza di attenzione, la scarsezza di ingegno, l'affetto che l'intelletto lega, l'uso di seguire gli altri fra i quali si vive, il non volere essere trascinati a conseguenze temute e la particolare inclinazione a studi più materialmente determinati nei fatti storici e nei fenomeni sensibili, apprendendo quasi avvolto di nebbia tutto ciò che si presenta come ragione astratta”. (4).

Note.
1) Cfr. Valentini, La dottrina ateistica di G. Rensi, in Civiltà Cattolica, 1943, 3, p. 103 ss.
2) Teoria generale dello Spirito, Bari, Laterza, p. 45.
3) Cfr. La mia religione, Firenze, Sansoni.
4) Mattiussi, Veleno kantiano.

Bibliografia.
Ballerini, L'esistenza di Dio di fronte alla scienza e al pensiero moderno, Firenze, Libr. Ed. Fiorentina;
Daffara, Dio. Esposizione e valutazione delle prove, Torino, SEI;
Farges, L'idea di Dio secondo la ragione e la scienza, Siena, S. Bernardino;
Franchi, Ultima critica, Vol. III, Milano, Pal­ma;
Gaetani, Dio, Roma, Univ. Gregoriana, 1944;
Giovannozzi, Il problema dell'esistenza, Vol. I, Firenze, Calasanziana;
Marcozzi, Il problema di Dio e le scienze naturali, Brescia, Morcelliana;
Mattiussi, Credo in unum Deum, Milano, Tip. S. Giuseppe;
Sertillanges, Dio o niente?, Torino, SEI;
Zacchi, Dio, Vol. I, Roma, Ferrari.

 

 

 

L’ESISTENZA DI DIO   (I: PROVA METAFISICA)

Prove metafisiche sono quelle che poggiano sui primi ed universali principi della ragione, che hanno quindi un valore assoluto e causano nella mente un'adesione perfetta che si dice appunto certezza metafisica. Gli argomenti metafisici, se ben compresi,  costituiscono sempre la dimostrazione più bella e più solida dell'esistenza di Dio: perciò cominciamo da questi. Essi, solitamente, vengono proposti in varie forme; celebri sono le cinque vie di S. Tommaso (Summa theol., I, q. 2, a. 3) con le quali si prova l'esistenza di Dio, come primo motore immobile, prima causa incausata, essere necessario, essere perfettissimo, sapientissimo ordinatore. Non potendo svilupparle tutte, in questa lezione fisseremo il nostro sguardo sulla terza via, la più facile ed evidente, che brevemente si può riassumere nel seguente argomento.

 

1. L’argomento.

L'universo è un complesso di esseri contingenti. Ma l'essere contingente esige l'Essere necessario come sua prima causa. Dunque oltre l'universo esiste un Essere necessario, creatore dell'universo, che è appunto Dio.

Esaminiamo le singole proposizioni della nostra argomentazione:

1) L'universo è un complesso di esseri contingenti.
Noi scorgiamo nell'universo un'infinita quantità di cose: noi stessi, gli altri uomini, animali, piante, minerali di tante specie, composti di molecole, atomi, ecc., che costituiscono la terra, il sole, gli astri, e così via. Tutti questi esseri non sono esseri necessari, perché essere necessario è quello che necessariamente è (quindi non può non essere) e che necessariamente è quello che è (quindi non può mutarsi). Invece tutte le cose che compongono l'universo sono mutabili e di fatto continuamente mutano. I viventi nascono, crescono e muoiono; e durante la loro vita si evolvono e si modificano sempre. Le sostanze inorganiche anch'esse sono soggette a continue trasformazioni. Inoltre a nessuna delle cose che costituiscono il mondo compete l'essere in modo che le ripugni intrinsecamente il non essere. Dunque tutti gli esseri che costituiscono l'universo sono contingenti, cioè possono essere e non essere e, quando sono, possono modificare accidentalmente il loro modo di essere.

2)  Ma l'essere contingente esige l'Essere necessario come sua prima causa.
Infatti essere contingente, come abbiamo detto, significa che può essere e non essere, essere in un modo ovvero in un altro; il che vuol dire che quella cosa non è di natura sua determinata ad essere, ma di natura sua è indifferente all'essere e al non essere. Per esempio alla natura dell'uomo appartiene la razionalità (per cui un uomo senza razionalità è assurdo) ma non appartiene alla natura dell'uomo la bontà, per cui può essere buono e cattivo, e molto meno appartiene alla natura dell'uomo l'esistenza, per cui ogni uomo è, ma non era e non sarà; vive, ma è nato e morirà.
Se per sua natura l'essere contingente è indifferente ad essere e a non essere, vuol dire che non ha in sé la ragione sufficiente della propria esistenza, cioè non ha in sé quello che è necessario e sufficiente per poter esistere; ed allora è chiaro che questa sua esistenza deve averla ricevuta da un altro, cioè ci deve essere un altro ente che sia la ragione sufficiente della sua esistenza, la causa che l'abbia deter­minato ad essere. Questa causa che l'ha determinato ad essere o è un essere contingente o è un essere necessario. Se è contingente, neppure esso ha in sé la ragione sufficiente della propria esistenza, che perciò deve essere causata da un altro essere; e riguardo a questo si riproduce la medesima questione. Orbene non si può procedere all'infinito nella serie delle cause essenzialmente subordinate, altrimenti si avrebbe una serie infinita di anelli che stanno sospesi senza un fulcro di attacco, si avrebbe, cioè, una serie infinita di specchi che riflettono la luce senza un corpo per sé lucente, una somma di zeri che, per quanto prolungata, non può dare l'unità.

3) Dunque ci deve essere un essere necessario, che abbia in sé la ragione sufficiente del proprio essere e che sia ragione sufficiente di tutti gli altri, causa prima dell'universo. Ed allora è evidente la conclusione: oltre l'universo esiste un Essere necessario, creatore dell'universo, che è appunto DIO.

 

2. Il principio di causalità.

L'argomento, come si vede, è fondato sopra il principio di causalità, che si può e si suole esprimere in vari modi; il più esatto è: ogni ente contingente è causato.
Questo principio, salvo rare eccezioni, era comunemente ammesso sia nella filosofia antica (Platone, Aristotele), sia nel Medio Evo (S. Tommaso) come principio di per sé evidente, che non esigeva lunghe dimostrazioni per essere giustificato. Nella filosofia moderna, quando cominciarono a sorgere i pregiudizi critici sul valore delle nostre cognizioni, si cominciò a negare valore oggettivo anche al principio di causalità; lo si disse frutto dell'abitudine di associare i fenomeni successivi (Hume), ovvero lo si considerò come giudizio sintetico a priori (Kant), e quindi legge della mente che non può pensare in altro modo, ma il cui valore non oltrepassa il campo fenomenico.

Noi invece sosteniamo che il principio di causalità, nonostante tutte le critiche che se ne sono fatte, conserva il suo pieno e assoluto valore. Infatti, come già dicemmo, ogni ente contingente, appunto perché contingente, non ha in sé la ragione sufficiente della propria esistenza; dunque se esiste ci deve essere un altro ente che sia la ragione sufficiente del suo esistere, in quanto ripugna che possa esistere qualcosa senza che si dia ciò che è necessario e sufficiente perché possa esistere. Questo, il nostro intelletto lo afferma non per cieca necessità soggettiva e a priori, ma perché vede che così esige la natura delle cose stesse. Il mio intelletto vede bene: allora il principio di causalità è vero ed ha valore oggettivo; oppure vede male: allora non posso fidarmi del mio intelletto, non avranno più valore i miei ragionamenti, ma neppure quelli dei miei avversari che argomentano contro di me, utilizzando quello stesso intelletto. Il risultato, quindi, sarebbe lo scetticismo universale e la negazione di ogni scienza, che si fonda sul principio di causalità. Né è difficile rispondere alle suindicate obiezioni mosse sia dagli empiristi con Hume, sia dai criticisti e dagli idealisti con Kant.

a) Hume così argomenta: è oggettiva soltanto quella cognizione che è attinta dai sensi; ma i sensi percepiscono soltanto la successione dei fenomeni, non il nesso causale; per esempio coi sensi io percepisco che dopo aver messo l'acqua sul fuoco l'acqua è calda, ma l'influsso del fuoco nell'acqua non lo percepisco: quindi il concetto di causa non ha un valore oggettivo, ma è qualcosa di soggettivo dovuto all'abitudine di associare i fenomeni successivi. Vedo che l'acqua, dopo essere stata messa sul fuoco, è sempre calda, perciò dico che il fuoco ha scaldato l'acqua.
Rispondo: è falso che la nostra conoscenza oggettiva sia limitata solo a quello che percepiamo direttamente coi sensi, perché oltre ai sensi abbiamo l'intelletto, col quale legittimamente possiamo valicare i confini del mondo fenomenico, come abbiamo dimostrato nella lezione III. Inoltre è falso che l'esperienza ci dia soltanto la successione dei fenomeni, perché per esempio l'esperienza interna ci dice qualcosa di più: quando alzo un peso, non percepisco soltanto il mio toccare il peso e poi l'alzarsi del peso, ma anche lo sforzo che faccio per alzare il peso, la mia attività, la mia causalità. Infine osservo che se la legge causale fosse dovuta all'abitudine di associare i fenomeni successivi, dovremmo sempre affermare un nesso causale ogni volta che vediamo una costante successione di fenomeni e dire, per es., che la notte è causa del giorno perché costantemente lo precede, mentre tutti riconosciamo che si tratta di un sofisma:
post hoc, ergo propter hoc.

b) Kant, nelle sue argomentazioni, così procede: il principio di causalità è un principio universale e necessario (ogni ente che cominci ad esistere deve essere causato). Ma tutta la nostra conoscenza sensi­tiva è conoscenza di enti singolari e contingenti, i quali possono darci materia per giudizi a loro volta particolari e contingenti, e non per principi universali e necessari. Il principio di causalità, quindi, è una legge stabilita dalla mente, e non attinta dalla realtà: ha quindi un valore soggettivo, non oggettivo.

Rispondo: è vero che tutte le cose che conosciamo con i sensi sono singolari e contingenti ma, come abbiamo già osservato, oltre ai sensi abbiamo l'intelletto, col quale possiamo penetrare l'intima natura delle cose e scoprire le leggi universali e necessarie che regolano la realtà. Gli uomini che conosco sono singolari e contingenti, ma penetrando la loro natura vedo, per es., che la razionalità appartiene alla loro essenza, mentre non appartiene alla loro essenza la bontà e allora, mentre non posso dire che tutti gli uomini sono necessariamente buoni, posso bensì dire che tutti gli uomini sono necessariamente ragionevoli, anche se di fatto non sempre ragionano, e la mia affermazione universale e necessaria ha pieno valore oggettivo, perché non stabilita dalla mia mente, ma attinta dalla natura della realtà; in questo caso dalla natura dell'uomo. Lo stesso può dirsi del principio di causalità, affermato dalla mente non aprioristicamente, ma dopo aver veduto che l'esigenza di una causa è qualcosa che appartiene all'essenza dell'ente contingente e che perciò ogni ente contingente ha necessariamente una causa; il principio di causalità ha dunque pieno valore oggettivo.

 

3. Il principio di causalità e la fisica moderna.

Anche fisici moderni hanno impugnato il principio di causalità e hanno affermato: “Il principio di causalità, che ritenevasi stesse a base inamovibile della nostra scienza, crolla nella fisica atomica; la natura, nei suoi processi elementari, non si lascerebbe più seguire coi consueti concetti di determinismo presi dalla meccanica macroscopica, e l'uomo non vi trova più che la legge del caso”. Così il Castelfranchi nella prima edizione della sua Fisica moderna (1) e insieme a lui i sostenitori più spinti dell’indeterminismo, benché nelle successive edizioni dell'opera abbia sentito il bisogno di attenuare le espressioni e di ammettere la possibilità che dietro le leggi statistiche vi siano leggi nascoste alle quali obbediscano i singoli corpuscoli, esista dunque una nascosta causalità (2).

Ma il contrasto è apparente, non reale, e dovuto più che altro ad una confusione di termini. Ci pare infatti di poter riassumere l'argomentazione dei fisici moderni contro il principio di causalità nei termini seguenti: il principio di causalità si identifica col principio di determinazione della fisica classica. Ma tale principio è stato superato dal principio di indeterminazione della fisica moderna. Dunque anche il principio di causalità è superato e non ha più valore.

Rispondiamo che il principio di causalità si distingue nettamente sia dal principio di determinazione della fisica classica, sia dal principio di indeterminazione della fisica moderna, e non è in contrasto né con l'uno né con l'altro. Infatti:

a) Principio di causalità e principio di determinazione si distinguono perché il principio di causalità afferma solamente che ogni effetto (ogni nuovo fenomeno) deve avere necessariamente una causa, ma non dice quale sia la causa né se la causa abbia necessariamente prodotto quell'effetto. Invece il principio di determinazione afferma che conoscendo l'effetto io posso conoscere la causa che l'ha prodotto, e conoscendo la causa io posso conoscere gli effetti che produrrà. Come si vede, il principio di determinazione dice molto più del principio di causalità; da esso quindi si distingue, però lo suppone e ad esso non si oppone.

b) Principio di causalità e principio di indeterminazione si distinguono in quanto il principio di indeterminazione della fisica moderna afferma che, essendo imperfetta la nostra conoscenza delle particelle subatomiche (elettroni, ecc.), non abbiamo modo di determinare con precisione, per es., la posizione e lo stato di movimento dei singoli corpuscoli, non possiamo conoscere e quindi neppure prevedere con certezza i fenomeni che seguiranno, ma solo con una maggiore o minore probabilità; in altre parole, non potendo noi nel mondo subatomico conoscere perfettamente la causa, non possiamo prevederne con certezza gli effetti. Orbene, se questa affermazione può contrastare col principio di determinazione (nel senso che tale principio non può essere da noi applicato al mondo subatomico), in nessun modo esso contrasta col principio di causalità, secondo il quale i fenomeni, anche nel mondo subatomico, devono avere una qualche causa, sia che la conosciamo sia che non la conosciamo; e che tali fenomeni abbiano una causa, nessun fisico l'ha mai negato né mai lo negherà. Negarlo, infatti, sarebbe negare non solo il principio di causalità, ma rinnegare la scienza medesima, la quale, come dice la sua stessa definizione, è la conoscenza dei fenomeni mediante le cause che li hanno determinati (3).

 

4. Alcune obiezioni.

1) La materia è eterna, dunque non è causata.

Rispondiamo in tal modo: che la materia sia eterna è affermazione gratuita, la scienza non lo dimostra, anzi la scienza sembra provare il contrario, se è vera la legge di entropia (trasformazione progressiva di tutta l'energia in calore, pur restando quantitativamente costante). Ma anche dato e non concesso che la materia sia eterna (il che per la Rivelazione sappiamo non essere vero), il nostro argomento conserva tutto il suo valore. Noi non diciamo infatti: il mondo ha avuto inizio, dunque è stato causato, ma: il mondo è contingente, dunque è creato. Se esiste ab aeterno, ab aeterno deve essere creato.

2) Ma forse la materia stessa è l'ente necessario ragione sufficiente di tutte le cose che costituiscono l'universo.

Così rispondiamo: è assurdo che la materia sia l'ente necessario, poiché essa:
a) è imperfetta, incapace di essere la causa adeguata delle perfezioni che si trovano nell'universo (moto, vita, intelligenza, ecc.), perché nessuno può dare quel che non ha;
b) è mutabile, mentre l'essere necessario è assolutamente immutabile in quanto determinato dalla sua essenza ad essere quello che è: mutabilità comporta contingenza;
c) è composta; le singole parti della materia sono contingenti (non ripugna infatti che questa o quella parte non esista), ma una somma di contingenti non dà il necessario, come una somma di zeri non dà l'unità.

3) Infinito e finito, Dio e mondo non possono coesistere. 

“Dio, per essere lui, rende impossibile il mondo e non può far essere o lasciar essere questo senza rinunziare a sé medesimo” (4).
A questa obiezione già abbiamo risposto nella lezione IV. L'essere Dio infinito non impedisce che ci siano creature finite che partecipino della sua perfezione, come, per es., l'avere un sovrano assoluto tutto il potere, non impedisce che ci siano altri nel regno che partecipino del suo potere.

Note.
1) Castelfranchi, Fisica moderna, 1a ed., Milano, Hoepli, p. 583.
2) Fisica moderna, 5a ed., pp. 528-529.
3) Cfr. Marcozzi, Il problema di Dio e le scienze naturali, Milano, Bocca, p. 20; Martegani, Dal rigido determinismo al principio di indeterminazione, in Civiltà Cattolica, 1938, 3, p. 432 ss. e 4, p. 116 ss.
4) Gentile, I problemi della Scolastica.

 

 

 

L’ESISTENZA DI DIO   (II: PROVA FISICA)

Uno dei fenomeni che più colpisce chi si pone a contemplare lo spettacolo della natura è l'ordine che vi riluce, ordine meraviglioso e costante. Di qui la mente arguta della gente semplice trae uno degli argomenti più profondi per risalire a Dio, argomento che lo scienziato analizza e perfeziona dandogli forma di rigorosa dimostrazione scientifica. Così provarono l'esistenza di Dio Platone, Aristotele, Cicerone fra i pagani; così nei tempi cristiani usarono questo argomento i primi apologeti, i Padri lo ampliarono eloquentemente e S. Tommaso lo espose in forma nitida e rigorosa nella sua Summa, così come tutta la sua scuola lo espose e lo difese. Anche i razionalisti ne sentirono la forza. Voltaire diceva: «L'universo mi imbarazza e io non posso sognare che questo orologio esista e non abbia orologiaio».

L'argomento si può brevemente compendiare nel seguente modo: nella natura esiste un mirabile ordine teleologico. Dunque necessariamente esiste una suprema intelligenza ordinatrice. Ma questa intelligenza ordinatrice deve essere anche creatrice dell'universo. Dunque esiste un Dio creatore e ordinatore dell'universo.

Esaminiamo ora le singole affermazioni.

1. L’ordine cosmico.

Esso ci appare chiaramente considerando la scala degli esseri dai più semplici ai più complessi.

1) Regno vegetale. Un piccolo seme: uno dei tanti di quei minuscoli granellini sparsi nella natura: quale mirabile ordine nella sua struttura, nel suo progressivo sviluppo, nella formazione della pianta! Per es., la disposizione delle foglie lungo il picciolo secondo un ciclo determinato in modo da ricoprirsi il meno possibile e che tutte possano ricevere la maggior quantità di luce.  «Se voi mi volete salvare da una miserabile morte –  scriveva Darwin ad un botanico –  ditemi perché l'angolo fogliare è sempre di 1/2, 1/3, 2/5, 3/8 (...) e non mai diverso. Basterebbe questo solo fatto per fare impazzire l'uomo più tranquillo».  Disposizioni non meno complesse e sapienti si trovano nei fiori per favorire l'impollinazione di piante diverse e impedire l'autofecondazione, che sarebbe nociva alla specie per il manifestarsi di caratteri difettosi; disposizioni ancor più mirabili per assicurare, ottenuta la fecondazione e la formazione dei semi, la disseminazione in modo che non cadano tutti in un terreno sterile e ombroso, ma siano trasportati in terreno adatto e sia assicurata la sopravvivenza della specie.

2) Regno animale, dai più minuscoli viventi ai più complessi ed evoluti. La struttura dell'organismo, i vari organi della nutrizione, della riproduzione, del movimento, della sensazione; la loro adattabilità secondo l'ambiente e le circostanze o nei casi di malattia; tutto ciò presenta un evidente finalismo. I mirabili istinti in virtù dei quali gli animali agiscono e operano con tanta sicurezza, precisione e perfezione di mezzi, risolvendo con la massima semplicità i problemi più difficili: le formiche (organizzazione del lavoro), le api (la struttura dell'alveare), i ragni (l'ingegnosa costruzione della tela), gli uccelli (il nido, la cura della prole), e così via.

3) L’uomo. Il corpo e le sue parti: sono milioni di cellule differenziate fra loro, riunite in tessuti di­versi che formano i vari organi, ciascuno dei quali sapientemente costituito per la sua funzione che eser­cita spontaneamente, naturalmente, senza che ce ne accorgiamo. La mirabile struttura dei singoli organi; l'orecchio, l'occhio (Newton diceva che chi ha fatto l'occhio dell'uomo doveva conoscere bene le leggi del­l'ottica), ecc. Il grande anatomista americano Alexis Carrell, in un libro che ebbe grande successo, L'uomo, questo sconosciuto, cita molti esempi di tali meraviglie nel corpo umano e conclude: «L'esistenza di una finalità nell'organismo è innegabile: tutto avviene come se ogni organo conoscesse i bisogni presenti e futuri dell'insieme e si modificasse secondo questi».

4) La terra. La sua posizione rispetto al sole (per una temperatura conveniente alla vita); il duplice moto di rotazione e di traslazione (per l'avvicendarsi dei giorni e delle notti, per l'alternarsi delle stagioni a vantaggio dei viventi); le terre glaciali e la zona torrida (per i dislivelli di temperatura necessari per le correnti benefiche dell'aria e degli oceani), ecc.

5) L’universo. Gli astri: il loro numero, la loro grandezza, la loro distanza, i movimenti che compiono, ecc.
I vari regni della natura sono l'uno all'altro subordinati armonicamente per il bene universale. Ordine e subordinazione hanno sempre colpito i più geniali osservatori. Già Aristotele scriveva:  «Tutto nell'universo è sottoposto a un determinato ordine (...) Le cose non vi sono disposte in modo che una non abbia alcun rapporto con l'altra, che anzi tutte sono in relazione fra loro, concorrono con perfetta regolarità ad un unico risultato. Si verifica nell'universo quello che vediamo in una casa ben governata».

 

2. L’argomento.

Nell'universo, considerato nelle singole sue parti come nel suo complesso, vi è un'evidentissima ordinazione dei mezzi ai fini prossimi, e dei fini particolari ai fini superiori e di questi al fine generale che è il bene del tutto.

a) Ordinare i mezzi al fine è proprio del solo intelletto. Infatti, per adattare qualche cosa al fine è necessario conoscere il fine, la natura del mezzo che si impiega e la relazione che passa tra il mezzo e il fine. Ma conoscere tutto questo è solo degli esseri intelligenti. Quindi la finalità non può spiegarsi se non si ammette una mente ordinatrice; perciò l'universo, così mirabilmente ordinato, esige una mente ordinatrice (la mente o nous di Anassagora). L'argomento è semplicissimo; come dinanzi a un orologio, a una statua, ad una macchina, l'intelletto non può rifiutarsi ­dall'affermare l'esistenza di un'intelligenza che è la causa di quell'ordine, quanto più dinanzi all'universo così complesso e tuttavia ordinato.

b) Ma questa intelligenza ordinatrice non è nell'universo. Infatti, non può essere nella materia inorganica, né nelle piante, né negli animali, in quanto tutti esseri materiali, mentre l'intelligenza, come vedemmo nella lezione XII, è prerogativa dell'essere spirituale. Neppure può trattarsi dell’intelligenza dell'uomo, perché l'ordine del mondo esisteva prima che esistesse l'uomo, e l'uomo è tanto lontano dall'essere ordinatore del mondo che si considera genio chi ha scoperto (non creato) qualche nuova meraviglia già esistente nell'universo. Dunque, l'intelligenza ordinatrice del mondo è l'intelligenza di un Essere spirituale distinto dall'universo.

c) Ma dobbiamo ancora osservare che l'ordine dell'universo non è puramente un ordine estrinseco e accidentale, bensì intrinseco ed essenziale, che risulta dalla natura stessa delle cose; per cui, chi ha ordinato il mondo deve averlo anche creato, deve avere costituito in quel determinato modo e per quel determinato fine tutti gli esseri che lo compongono e le loro parti. Dobbiamo dunque concludere che il supremo ordinatore del mondo è anche il creatore dell'universo, è Dio. Esiste dunque un Dio creatore e ordinatore dell'universo.

Così, questa è la conclusione di tutti i grandi scienziati che non chiudono gli occhi dinanzi alle bellezze dell'universo e che sanno, spogliandosi dei pregiudizi, guardare in faccia la verità. Il grande naturalista Linneo diceva:  «Il Dio eterno, il Dio immenso, sapientissimo e onnipotente è passato dinanzi a me. Io non l'ho veduto in volto, ma il riverbero della sua luce ha ricolmato di stupore l'anima mia. Io ho studiato qua e là le tracce dei suo passaggio nelle creature e in tutte le sue opere, anche le più piccole, le più impercettibili: quale forza, quale sapienza, quale immensa perfezione»; Newton: «L'astronomia trova ad ogni passo la traccia dell'azione di Dio»; e finalmente ecco come Keplero terminava la sua opera:  «Ti ringrazio, o mio Creatore e Signore, di tutte le gioie che mi hai fatto gustare nell'estasi in cui mi ha rapito la contemplazione delle opere della Tua mano. La grandezza di queste io mi sono studiato di proclamare dinanzi agli uomini, e ho posto cura di far conoscere quanta sia la Tua sapienza, la Tua potenza, la Tua bontà».

 

3. Obiezioni.

1) Al giorno d’oggi, per gli spiriti che hanno familiarità con la vera filosofia, i cieli non cantano se non la gloria di Ipparco, di Keplero e di Newton. Così Comte e i positivisti.
Risposta: gli astronomi si limitano a scoprire le leggi della natura, ma non le costituiscono. Forse che colui il quale ha compreso sufficientemente il meccanismo di un orologio nega l’orologiaio per spiegarne l’origine?

2) Le cose agiscono in tal modo e con tale ordine per intima necessità di natura.
Risposta: questa è una semplice constatazione di fatto, ma non la spiegazione del perché. Anche la macchina artificiale esegue necessariamente i suoi movimenti, ma il disporre la macchina in tale modo è dovuto alla sapienza e al volere dell'artefice che l'ha congegnata.

3) I materialisti ricorrono al caso. Il fortuito cozzare degli atomi per tempo infinito ha potuto produrre quest'ordine di cose.
Risposta: il più elementare buon senso si rifiuta di accettare una simile spiegazione. Chi per esempio potrebbe ammettere che la Divina Commedia di Dante o l'Iliade di Omero sono sorte per un casuale incontrarsi di lettere dell'alfabeto? Ma, oltre al buon senso, sono le stesse leggi del caso che depongono in favore della finalità e dell’intelligenza ordinatrice. Il calcolo delle probabilità dimostra che una combinazione casuale ha tanto maggiore probabilità di riuscita quanto più è semplice, e tanto minore quanto più è complessa; in tal caso, accanto alla combinazione fortunata, quale cumulo di tentativi che falliscono! Ebbene, ogni organo nella natura è un insieme enormemente complesso di elementi: secondo le leggi dei caso quanto rare dovrebbero essere le combinazioni fortunate di organi adatti alle funzioni accanto al numero grandissimo di combinazioni mal riuscite, di tentativi falliti, di organi senza funzione! Nella natura, invece, avviene esattamente il contrario: tutti gli animali, per esempio, dai più semplici al capolavoro della natura, cioè l'uomo, hanno organi complessi e diversi, ma tutti adatti allo scopo e alla funzione che compiono. Insomma, l'ordine che esiste nell'universo è essenzialmente opposto al risultato del caso: le cose che succedono bene per caso sono poche e rare, mentre l'ordine che esiste nell'universo è universale e costante. Paolo Enriques, nella sua opera Il problema della vita termina il capitolo sul finalismo con queste parole:  «Il finalismo è evidente; negarlo significherebbe negare l'esistenza stessa della vita degli animali e delle piante. E se questo carattere finalistico della vita è dovuto ai capricci del caso, che ha fatto le cose così, ricorderò la frase del vecchio maestro che diceva: il caso, ragazzi miei, è qualche cosa che l'uomo non è riuscito a spiegare».

4) Nel mondo ci sono cose inutili, nocive e disordinate. Dunque ...
Risposta: l’universo racchiude ancora troppe incognite perché possiamo giudicare della finalità di tutti gli esseri. Tante cose nella natura e nello stesso organismo umano sembravano un tempo inutili, dannose e disordinate mentre oggi, col progredire della scienza, appaiono avere la loro finalità ed occupare degnamente il loro posto nella natura. Del resto, qualche male o disordine potrà provare che il mondo potrebbe essere migliore, ma non distruggere l'ordine mirabile che è in esso e che incessantemente canta la gloria di Colui che tutto move (Dante).

 

 

 

L’ESISTENZA DI DIO   (II: PROVA MORALE)

Alla voce della ragione, che proclama l'esistenza di Dio, al concerto armonico della natura, che canta la gloria del suo Creatore, si unisce la testimonianza del genere umano, che con plebiscito solenne dà testimonianza a favore della divinità. Analizziamo il fatto, poi ne vedremo il valore probante.

1. Il fatto. Tutti i popoli della terra hanno sempre ammesso l'esistenza di Dio.

1) I popoli antichi.

a) Lo attestano le esplicite affermazioni degli antichi scrittori. Cicerone: «Nessuna nazione è così grossolana e così selvaggia che non creda all'esistenza degli Dei, anche quando si inganni sulla loro natura». E Plutarco: «Percorrendo la terra voi potrete trovare città prive di mura, di palazzi, di scuole, di teatri, di leggi, di arti e di monete (...) ma una città priva di templi, una nazione senza Dei, un popolo che non preghi (...) nessuno l'ha veduto mai».
b) Così attestano anche i numerosi monumenti religiosi che sono giunti fino a noi. Le antiche e gloriose civiltà degli Assiro-Babilonesi, degli Egiziani e dei Greci sono sparite per sempre, travolte nel vortice del tempo, ma ancora rimangono i segni eloquenti della loro religiosità: edifici religiosi, statue, inni alle divinità.
c
) E' vero che l'idea razionale dell'ente supremo è spesso alterata per i miti che l'immaginazione vi ha aggiunto, ma sotto questa veste talora stravagante del sentimento e della fantasia, vi è un substrato costante, razionale, universale, che testimonia a favore della divinità, anzi di una Divinità suprema e unica. Questa si chiama Ammon-Ra nell'Egitto, Brahma in India, Assur a Ninive, Mardouk in Babilonia, Baal in Francia, Ormuzd in Persia, Zeus in Grecia, Jupiter a Roma, ecc.
d) Il fatto si estende anche agli uomini preistorici. Alcuni moderni scienziati (G. de Mortillet e figlio, ecc.) hanno affermato che l'uomo del periodo paleolitico (periodo umano remotissimo, della selce solo scheggiata, che precede il periodo neolitico o della pietra levigata) era completamente areligioso. Ma le recenti scoperte di scheletri di uomini del periodo paleolitico, sepolti con riti religiosi, attesta con certezza storica che anche l'uomo di quell’epoca era religioso, benché i dati non siano sufficienti per dire quale fosse la sua religione, se monoteista o no. Tali dati ci sono forniti dallo studio dei popoli primitivi tuttora esistenti dei quali tra poco parleremo.

2) I popoli moderni.

Noi conosciamo ora tutti i popoli della terra, sappiamo con certezza che dappertutto si adora, si prega, si invoca l'Altissimo. Il Quatrefages, nell'opera La specie umana, scrive: «Obbligato dal mio insegnamento a passare in rassegna tutte le razze umane, io cercai l'ateismo presso i popoli più rozzi come presso i popoli più colti. Io non lo trovai in nessun luogo se non in qualche individuo – come dice altrove – allo stato erratico». Dovunque sempre la massa delle popolazioni è sfuggita all'ateismo, anche là dove con la violenza si tentò di imporlo. La propaganda atea, accompagnata dall'incentivo dell'immoralità e dalla proibizione di ogni manifestazione religiosa, possono in una nazione aumentare il numero degli atei, dare anche l'impressione esterna di un popolo ateo; ma appena la violenza cessa, le rifiorenti manifestazioni religiose dimostrano come la massa sia sfuggita all'ateismo.
Non meno viva e profonda è la credenza in Dio presso i popoli primitivi, cioè quei popoli che sono rimasti al livello culturale di quelli antichissimi, che hanno conservato il modo di lavorare, gli utensili, il genere di vita, ecc., simile a quello dei primi uomini: non hanno né agricoltura, né allevamento di bestiame, ma vivono della raccolta di ciò che dà la natura.
Popoli primitivi sono, per es., i Pigmei e i Boscimani dell'Africa, gli Andamanesi dell'Asia e i Negritos delle Filippine, alcune tribù della Terra del Fuoco di America e alcune tribù sud‑orientali dell'Australia.
Orbene, lo studio oggettivo della religione di questi popoli primitivi ha portato alle seguenti conclusioni: «In tutti i gruppi etnici della cultura primitiva esiste la credenza in un Essere supremo, se non dappertutto nella stessa forma e potenza, certo dappertutto con forza sufficiente da escludere ogni dubbio intorno alla sua nozione predominante» [SCHMIDT, Manuale di Storia comparata delle religioni, Brescia, Morcelliana, p. 421].

La credenza in un Essere supremo è chiarissima presso tutte le tribù di Pigmei dell'Africa e dell'Asia: anzi è notevole il fatto che l'idea di questo Essere supremo sia tanto più pura e meno offuscata da idee di altre divinità minori, quanto più la tribù presenta caratteri primitivi. I nomi con cui l'Essere viene chiamato esprimono o la paternità (Padre) o l'opera creatrice (Fattore, Creatore della terra, Costruttore dei mondi) o la sua dimora in cielo o qualche suo attributo (Colui che abita in cielo, l'Onnipotente, l'Eterno, ecc.).
Il concetto elevato di Dio e della morale dei popoli primitivi dimostra che primitivo non è sinonimo di barbaro e che la loro inferiore cultura materiale e semplicità di vita non è effetto di degenerazione o decadenza; essi sono la vivente confutazione della teoria evoluzionistica nei riguardi dell'uomo.

3) I grandi uomini. 

Il fatto cresce di importanza se si considera il consenso degli uomini più grandi e delle menti più elevate di tutti i tempi. Essi formano la parte eletta della società ed hanno il diritto di rappresentare l'umanità stessa. Ricordiamo alcuni nomi. Nell'antichità, per es., Socrate, Platone, Aristotele e Cicerone, che hanno scritto pagine immortali sopra la divinità. Nell'epoca cristiana, oltre tutti i Padri, tutti i Dottori, tutti i Filosofi e Teologi cristiani, geni sublimi dalla vita intemerata e dagli studi profondi, bisognerebbe ricordare i nomi di quasi tutti gli scienziati dal XVI al XIX secolo, che credettero in Dio: Copernico, Galileo, Bacone, Keplero, Newton, Leibnitz, Réaumur, Buffon, Linneo, Jussieu, Eulero, Herschel, Cauchy, Faye, Laplace, Ampère, Oerstedt, Fresnel, Faraday, Liebig, Biot, Becquerel, Gay-Lussac, Secchi, Hermite, Cuvier, Agassiz, Pasteur, Marconi, ecc. Si veda l’opera del Farges L’idea di Dio, e specialmente quella, bellissima, del Kneller: Il cristianesimo e i naturalisti moderni.

 

2. L’argomento.

Abbiamo esaminato il fatto: ora consideriamone alcune circostanze. Tutti i popoli di tutti i tempi e di tutte le civiltà credono nell'esistenza di Dio. Questa credenza non è qualcosa di puramente speculativo: al contrario, essa pervade intimamente tutte le manifestazioni della vita umana. Infatti la religione, specialmente presso i popoli antichi, è il centro della vita domestica e sociale: le guerre e le alleanze, i matrimoni e i funerali, i giuochi e le feste sono resi sacri dall'invocazione della divinità, i cui disprezzatori sono severamente puniti.
Infine, questa idea di Dio come garante della morale e che punisce le colpe, è in contrasto con le inclinazioni dell'uomo, con le sue passioni, per le quali sarebbe molto più comodo che Dio non esistesse. Invece si contano a centinaia di migliaia coloro che in ogni tempo hanno affrontato per Dio i più gravi pericoli e combattuto le più belle battaglie, respingendo le lusinghe del piacere e dell'interesse, vincendo la violenza delle passioni, e immolando sull'altare del sacrificio ogni bene: bellezza, gioventù, ricchezze, onori, perfino la vita stessa.
Orbene, questo fatto così universale e costante non ha sufficiente e adeguata spiegazione se non nella facilità e quasi spontaneità che ha l'uomo di risalire a Dio partendo dalla considerazione dell'universo, e nella forza persuasiva degli argomenti che provano l'esistenza di Dio.
In questo senso i SS. Padri dicevano talora innata l'idea di Dio, come spiega S. Tommaso: «Si dice che l'idea di Dio sia innata perché mediante i princìpi (facoltà) a noi innati, facilmente possiamo percepire l'esistenza di Dio»; e altrove: «La conoscenza di Dio è innata, in quanto tutti hanno innato qualche cosa con cui possono pervenire all'idea di Dio» [
S. Tommaso, In Boet. de Trinit., q. I, a. 3, ad 6; De Verit., q. 10, a. 12, ad 1].

E' la natura stessa che ci conduce a Dio. Omnes natura duce eo vehimur, Deos esse, ha detto Cicerone, il quale prosegue dicendo che ciò a cui la natura spinge tutti gli uomini non può non essere vero, altrimenti dovremmo dire che la nostra natura ci conduce inesorabilmente all'errore, e non potremmo più fidarci della nostra ragione: l’esito ultimo sarebbe lo scetticismo universale.

 

3. Obiezioni.

1) Vi sono molti atei: non è quindi universale il consenso degli uomini circa l'esistenza di Dio.
Risposta: quando si parla di «consenso universale», il termine «universale» deve intendersi in senso morale, non matematico. Non è necessario, cioè, che tutti gli uomini affermino l’esistenza di Dio, ma basta che siano «tutti» moralmente (cioè la stragrande maggioranza). Orbene, una statistica del 1934 (vedi Guida delle missioni cattoliche, Roma, Prop. Fide, p. V.) mostra come il 95% degli uomini professino almeno una religione; solo il 5% sono areligiosi (e questi ultimi sono quasi tutti in Europa e in America). Dunque il consenso universale nel senso spiegato sussiste tuttora, tanto più se si considera che non tutti gli uomini areligiosi sono atei, ma solamente non professano una determinata religione, sono aconfessionali, e non necessariamente atei.
Inoltre, anche fra gli atei bisogna distinguere gli atei pratici e gli atei speculativi (negativi e positivi). Atei pratici sono coloro che direttamente non negano Dio, ma vogliono prescindere da Lui, vivendo come se Dio non esistesse solo perché è più comodo. La maggior parte degli atei sono atei pratici, i quali non fanno difficoltà al nostro argomento. Atei speculativi possono essere negativi, cioè coloro che assolutamente ignorano Dio: si discute se ce ne possano essere, ma non sembra impossibile che un uomo, almeno per un certo tempo della sua vita o a causa dell'educazione, dell'ambiente, ecc., ignori Dio; ma il loro numero, se ce ne sono, è certamente così limitato da non compromettere il nostro argomento. Neppure esso è compromesso dagli atei speculativi positivi, cioè da coloro che sostengono, argomentando esplicitamente, che Dio non esiste. Anche prescindendo dalla sincerità della loro affermazione (perché troppo spesso la negazione di Dio proviene non da motivi intellettuali, ma morali: passioni, ecc.), il loro numero è quanto mai ristretto; il motivo è sempre lo stesso: che l'uomo ha la ragione e la ragione lo fa naturalmente risalire dalla cognizione delle cose create alla cognizione di Dio Creatore e Signore dell'universo.

2) L'uomo, nei riguardi della religione, ha subìto un processo evolutivo: dallo stadio areligioso (l'uomo primitivo era troppo vicino al bruto per assurgere al concetto di vita ultraterrena) è passato allo stadio dell'animismo (dando anima a tutte le cose e moltiplicando gli spiriti), quindi al politeismo, poi al monoteismo, per ritornare con l'uomo moderno all'ateismo. Così gli evoluzionisti.
Risposta: l’etnologia ci attesta proprio il contrario. I primitivi, come abbiamo visto, hanno una religione e la loro religione è il monoteismo, che solo più tardi degenerò nel politeismo.

3) La credenza in Dio deriva dalla paura: Primus in orbe Deos timor fecit. (Lucrezio)
Rispondiamo che il timore non basta a spiegare un fatto così universale e costante, e inoltre contrasta con i sentimenti religiosi dell'anima che non solo teme Dio, ma ama, ringrazia e benedice. Anzi, nella religione dei primitivi l'attributo di Dio messo più in risalto è quello della bontà. L'Essere supremo è esclusivamente ed essenzialmente buono; da Lui non può venire che il bene e la felicità. Per questo alcuni popoli, per spiegare il male fisico e morale del mondo, ricorrono ad un altro principio, operatore del male.

4) L'ignoranza delle forze della natura ha dato origine alla credenza in Dio.
Rispondiamo che, al contrario, i più grandi conoscitori della natura hanno creduto in Dio, perché meglio hanno potuto ammirare la sapienza delle Sue opere.

5) L'infinita varietà delle religioni nel mondo, opposte fra loro, toglie ogni valore all'argomento del consenso universale.
Risposta: il disaccordo riguarda la natura di Dio, non la sua esistenza. Né questo deve meravigliare, perché se è facile affermare l'esistenza di Dio, non è altrettanto facile spiegarne la natura (essendo Essere infinito) se non è Egli stesso a rivelarcela. A noi, per ora, basta avere dimostrato il fatto dell'universale affermazione di Dio, cosa inspiegabile se Dio non esistesse.
Concludiamo ancora una volta con le parole di un pagano, Cicerone: «Se quello che la ragione dimostra lo confermano i fatti, lo proclamano i popoli civili e barbari, antichi e moderni, lo hanno creduto i filosofi e i poeti e gli uomini più sapienti che hanno governato stati e che hanno fondato città, aspettiamo forse che gli animali parlino e ci dicano che esiste Dio, non contenti del consenso universale degli uomini?»

Bibliografia.
Si veda la bibl. della lez. XVI. Anche C. Schmidt, L'anima dei primitivi, Roma, Studium; Boccassino, La religione dei primitivi, in Storia delle religioni ( a cura di P. Tacchi-Venturi, S. J.), Torino, Utet, Vol I.

 

 

 

ESISTENZA E NATURA DI DIO

1. La voce della coscienza.       

Oltre agli argomenti che abbiamo svolto finora, molti ancora solitamente se ne portano, a conferma della verità dimostrata; ne accenneremo due che, sulle menti moderne, in varia misura imbevute di soggettivismo, fanno maggiore impressione, benché invece abbiano bisogno di un accurato svolgimento per non essere fraintesi e non divenire puri sofismi o petizioni di principio.
1) Argomento eudemonologico (dal termine greco che significa felicità). L'uomo sente un desiderio naturale di felicità che i beni finiti non possono saziare: il desiderio di un bene sommo, senza limiti, puro, senza mescolanza di mali e capace di soddisfare tutti i nostri bisogni. E' un fatto di esperienza che è facile constatare. Ma questo desiderio non può essere vano, perché se – al contrario di tutte le altre tendenze naturali, che possono raggiungere il loro fine – questo desiderio dell'uomo fosse frustrato, l'uomo, re del creato, sarebbe l'essere più infelice della terra. Dunque esiste questo bene puro, infinito, capace di saziare il desiderio naturale dell'uomo: esiste Dio.“Fecisti nos ad Te, Domine, et inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te”. (S. Agostino, Confessiones).
2) Argomento deontologico (dal termine greco che significa dovere), secondo il quale dall'esistenza della legge morale, in due modi possiamo risalire fino a Dio.
a) C'è una legge morale che si impone alla nostra condotta, indipendentemente da ogni nostra soddisfazione e vantaggio, da ogni pericolo esterno, anche della vita, in modo assoluto, universale, in tutti i tempi in tutte le età e presso tutti i popoli. Ora, una tale legge domanda un legislatore supremo e universale, cioè Dio. Infatti, quella legge non è fondata nella ragione, che la scopre ma non la crea; non nell'istinto, che spesso si oppone alla legge; e neppure negli altri uomini, che da quella stessa legge sono dominati. Essa non può che fondarsi, dunque, su un essere superiore a tutti: Dio.
b) L'argomento è rafforzato dalla necessità della sanzione. Il bene e il male meritano premio e castigo; ma non sono sufficienti le sanzioni di questa vita; è dunque necessaria una sanzione ordinata da un giudice ultramondano. Senza Dio il reo potrà vantarsi di aver violato l'ordine impunemente, il giusto avrà vanamente sofferto e il suo grido contro lo scandalo dell'empietà trionfante si sarà perduto nel deserto. Ancora una volta la coscienza proclama l'esistenza di Dio.

2. Natura di Dio.

Abbiamo risposto alla prima domanda: an sit Deus, dimostrando l'esistenza di Dio; ci resta da rispondere ad una seconda domanda: quid sit Deus, cioè quale ne sia la natura.

1) Possiamo conoscere la natura di Dio?  
Direttamente no, ma indirettamente possiamo conoscere qualcosa attraverso quelle stesse creature che ce ne hanno rivelata l'esistenza. Contemplando un'opera d'arte, leggendo la Divina Commedia, esaminando una complicata e ingegnosa macchina, non solo io comprendo che ci deve essere stato qualcuno che le ha fatte, ma anche che questo qualcuno deve essere un grande artista, un grande poeta, un grande scienziato, conosco insomma l'esistenza della causa e insieme quel tanto della sua natura che mi si manifesta attraverso la sua opera. Così l'universo mi attesta non solo l'esistenza di Dio, ma mi rivela anche le perfezioni della sua natura, almeno per quel tanto che queste si riflettono e risplendono nel mondo. In tal modo noi possiamo avere non un concetto proprio e perfetto della natura di Dio, ma un concetto imperfetto ed analogo, risalendo dalle creature al Creatore per le tre vie che ci addita S. Tommaso:
a) per la via della causalità: conosciamo che in Dio, causa prima, ci devono essere tutte le perfezioni delle creature (l'essere, la vita, l'intelligenza, la bontà, l'amore, la libertà, ecc.) perché da Lui le hanno ricevute e nessuno può dare ciò che non ha.
b) per la via della rimozione: sappiamo che quelle perfezioni (che, essendo nelle creature, devono trovarsi anche in Dio) sono però in Lui senza le imperfezioni che si trovano nelle creature; bisogna purificare queste perfezioni, rimuovendone le imperfezioni e attribuendole a Dio nella loro assoluta purezza; e con ciò è anche dissipata ogni accusa di antropomorfismo.
c) per la via della eminenza: conosciamo che in Dio, essere infinito, le perfezioni delle creature devono trovarsi non solo senza imperfezioni, ma anche senza limiti, in modo quindi infinitamente o eminentemente superiore. In Dio, dunque, c'è l'essere, la vita, la bontà, ecc., ma in grado infinito e senza alcuna imperfezione.

2) Qual è dunque la natura di Dio?
Dio è, innanzi tutto, l'Essere sussistente. Tutte le cose sono, l'essere è la loro prima perfezione, benché in esse limitata. Dio pure è, ma è l'Essere infinito e perfettissimo; questo è l'intimo costitutivo della Sua natura, per il quale Egli si distingue infinitamente da tutte le cose create. Dio stesso, a Mosè, che gli domandava il Suo nome, rispondeva dal roveto ardente: “ Io sono Colui che è”(Ex. 3, 14).
Da questa radice hanno, per così dire, origine tutte le altre Sue perfezioni che noi conosciamo: l'infinità, la semplicità, l'immutabilità, l'immensità, l’eternità, ecc.

3) La vita di Dio. 
Dio, come ha la perfezione dell'essere, così ha la perfezione del vivere, e come è lo stesso Essere sussistente, così è la stessa pienezza della vita. La vita di Dio, purissimo spirito, è quella propria di un essere spirituale e la vita dell'essere spirituale è intendere e volere, conoscere ed amare. Dio conosce e ama se stesso, perfettamente si conosce e perfettamente si ama, e in questa infinita cognizione della sua infinita verità, in questo infinito amore della Sua infinita bontà, sta la Sua felicità, il Suo paradiso. Conoscendo e amando se stesso, nella Sua stessa essenza, Dio conosce ed ama tutte le cose possibili ed esistenti, presenti, passate e future, la cui essenza è un’imperfetta partecipazione e imitazione dell'essenza divina. Anzi, la vita divina è così perfetta che Dio, conoscendo se stesso, genera un'Idea o Verbo sussistente nella stessa natura divina, e amando se stesso spira un Amore pure sussistente nella stessa divina natura; questo è l'insegnamento della Fede nella Rivelazione del profondissimo Mistero della SS. Trinità, nella quale il Padre genera il Figlio (il Verbo) e il Padre e il Figlio spirano lo Spirito Santo (l'Amore), mistero che supera la capacità della nostra mente, ma che ad essa non ripugna, anzi sublima il nostro concetto della vita intima di Dio senza contraddire le nostre conclusioni filosofiche.

4) L'opera di Dio.
Essa è il frutto della conoscenza e dell'amore di Dio. Dio vede la possibilità di creature che partecipino del Suo essere e della Sua perfezione e, amandole, desidera dare loro questa partecipazione, creandole con un atto libero. La creazione è appunto l'atto con cui Dio, dal nulla, fa essere l'universo e le cose che lo compongono e che in vario grado partecipano della Sua perfezione: i viventi più dei minerali, gli animali più delle piante e l'uomo più di tutti gli esseri materiali, perché dotato di un'anima spirituale con cui naturalmente partecipa in qualche modo alla vita di Dio, essendo capace di conoscerLo e di amarLo; molto più perfettamente l’uomo vi partecipa per la Grazia (partecipazione alla natura divina), misericordiosamente datagli da Dio, e per la quale diviene capace di conoscerLo per visione intuitiva e di amarLo con amore beatifico. In questo consiste il paradiso: nella visione di Dio verità infinita e nell'amore di Dio bontà infinita. L'uomo e tutto l'universo è opera di Dio, che non solo l'ha creato ma incessantemente continua la Sua azione creatrice conservando alle creature l'essere e le perfezioni che loro ha dato; senza il Suo influsso ogni cosa ricadrebbe nel nulla, come un oggetto sollevato e tenuto sospeso ricadrebbe a terra se non più sorretto.ù
Ma oltre alla creazione e alla conservazione, Dio assiste le Sue creature aiutandole in tutte le loro azioni, poiché senza il concorso divino sarebbe impossibile ogni loro attività, e guidandole paternamente con la Sua Provvidenza affinché si compiano i disegni di amore per cui esse sono state create.

 

3. Dio e il problema del male.

Una delle più comuni difficoltà contro l'esistenza di Dio, e in particolare contro la Sua Provvidenza, è l'esistenza del male nel mondo. Come si concilia l'esistenza di Dio con l'esistenza del male? Ecco il problema.
Vi è chi lo risolve negando semplicemente l'esistenza di Dio: ma erroneamente, perché l'esistenza di Dio è evidentemente provata, e la difficoltà di conciliarla con l'esistenza del male non dà il diritto di metterla in dubbio. Vi è anche chi ha supposto che, accanto a Dio, principio del Bene, esista un essere maligno principio del male, indipendente da Lui e a Lui contrario; la terra sarebbe il teatro della lotta fra questi due primi princìpi. Ma anche questa soluzione (di non pochi antichi: Manichei, ecc.) è allo stesso modo erronea, perché non si può dare un essere che non dipende da Dio, il quale è necessariamente unico principio e creatore di tutto. Altri, allora, pur ammettendo l'esistenza di Dio, ne hanno negato la Provvidenza, affermando che Dio non si interessa del mondo, avendo abbandonata a se stessa l'opera delle sue mani. Soluzione erronea anche questa, perché contraria agli attributi divini, specie al Suo amore per le creature, amore che è l'unica ragione della creazione.

Per altra via si deve dunque trovare la conciliazione tra l'esistenza di Dio e il fatto del male nel mondo. Per facilitare la soluzione del problema giova distinguere il male fisico e il male morale.
Il male fisico è dovuto all'essenza finita delle cose di cui si compone l'universo ed al corso normale e ordinario delle leggi della natura. Non ripugna quindi a Dio, come non ripugna il dolore che al male fisico suole accompagnarsi; il rendere l'uomo, e in generale l'animale, sensibile agli agenti nocivi è spesso mezzo provvidenziale per la conservazione della vita nella natura; la morte stessa degli individui è necessaria per dare posto alle nuove generazioni.

La colpa, poi, cioè il male morale, è effetto della manchevole volontà dell'uomo: essa non è voluta da Dio, ma solo permessa, perché Dio vuole che liberamente lo rispettiamo e lo amiamo e non vuole fare violenza alla nostra volontà.

Ma – si osserva – Dio non potrebbe, con la Sua Provvidenza, impedire il male? E se lo può, perché non lo impedisce?

Sì, parlando in termini assoluti, lo potrebbe impedire e se, nonostante questo, lo permette, vuol dire che nella Sua infinita sapienza vede che è meglio permetterlo. Senza volere penetrare più in là di quel che alle nostre deboli forze è concesso (S. Paolo esclamava: “ O altezza della scienza di Dio: Come sono imperscrutabili i Tuoi giudizi!”: Ep. ad Rom., 11, 33), abbiamo dalla ragione, e più ancora dalla fede, gli elementi per rispondere alla domanda.

L'immortalità dell'anima – che abbiamo già dimostrato – ci ha dato la certezza naturale (confermata dalla fede) di una vita futura ed eterna, alla quale la vita presente è ordinata e nella quale i desideri del nostro cuore saranno soddisfatti, a meno che la giustizia non esiga la pena del male da noi compiuto. Alla luce di questa verità, per cui la vita dell'uomo si inizia nel tempo ma si continua nell'eternità, deve essere risolto il problema del dolore, che acquista, nella Provvidenza divina, una mirabile finalità. Il dolore, innanzi tutto, distacca l'uomo dalle cose terrene e lo avvicina a quelle eterne; se, nonostante le frequenti infelicità della terra, così pochi pensano all'eternità, quanti sarebbero quelli che si ricorderebbero del loro ultimo fine, se nella vita non vi fossero che gioie? Inoltre, il dolore fa sì che l’uomo possa espiare: chi, nella vita, non ha mai trasgredito la legge del Signore? L'infinita misericordia di Dio è sempre disposta a perdonare, ma la Sua giustizia esige una riparazione, un compenso per l'ordine morale rovesciato, e il dolore ristabilisce quest'ordine purificando l'anima che si è ribellata a Dio. Infine il dolore santifica, perché attraverso la prova del dolore l'uomo si merita quella felicità eterna che Dio vuol donarci quale premio da conquistare col sacrificio e con la lotta, sostenuti dalla pace della coscienza e dalla gioia del cuore con cui Dio conforta il giusto nelle pene della vita. Così la ragione, ed assai meglio la fede, mostrano nel dolore la paterna Provvidenza di Dio che “non turba mai la gioia dei Suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande” (Manzoni).

Bibliografia.
Si veda la bibl. della lez. XVI. Anche Gaetani, La Provvidenza divina, Roma, Univ. Gregoriana, 1944; Zacchi, Il problema del dolore dinanzi all'intelligenza e al cuore, Roma, Ferrari, 1930.

 

4. Conclusione.

Riandando con la mente al cammino fin qui percorso, possiamo fissare il nostro sguardo su alcuni punti fondamentali per trarne qualche conclusione.
Risolto il problema della conoscenza, affermata e mostrata la nostra capacità di conoscere la verità, cioè la realtà come veramente è, abbiamo studiato l'universo materiale nel quale viviamo, i viventi nelle varie loro specie, in particolare l'uomo, e siamo poi saliti fino a Dio, dimostrandone l'esistenza e indagandone un poco la natura. L'uomo, composto di anima spirituale e di corpo materiale, ci è apparso l'anello di congiunzione fra il mondo della materia e il mondo dello spirito, re del creato ma insieme creatura di Dio. Per sua stessa natura l'uomo ha quindi delle relazioni col mondo materiale e con Dio, con se stesso e con gli altri uomini; lo studio di queste relazioni è l'oggetto dell'altra parte della filosofia, la
filosofia morale. Fra queste relazioni, hanno una particolare importanza le relazioni con Dio, sua causa prima e fine ultimo, che ha creato tutto l'universo per l'uomo e l'uomo affinché egli, attraverso il creato, a Lui ritorni. Il complesso di queste relazioni che stringono l'uomo a Dio costituisce la religione.
L'uomo deve perciò riconoscere la sua dipendenza da Dio, piegare il ginocchio per adorarlo, rendendoGli l'omaggio della sua mente e del suo cuore. Ma in quale modo? Nel modo che la retta ragione gli insegna, sebbene Dio abbia voluto stabilirlo Egli stesso nella pratica di una religione da Lui rivelata: religione soprannaturale o rivelata. Esiste questa religione rivelata? Un uomo di nome Gesù Cristo, di cui la storia ci attesta l'esistenza e l'opera, propria non di un semplice uomo ma di un Dio, Gesù Cristo, Uomo-Dio, ha rivelato agli uomini la vera religione: la Religione cristiana. Questa religione insegnata dal Cristo non si trova nella sua integrità e purezza nelle sette protestanti o scismatiche che si dicono cristiane, ma solo nella Chiesa cattolica, apostolica, romana, per cui l'unica vera religione è la Religione cattolica. In questo modo appare alla retta ragione non solo legittimo, ma anzi doveroso l'atto della nostra fede cattolica. Dimostrare la ragionevolezza e obbligatorietà della nostra fede è compito non più del corso di filosofia ma del corso di Teologia fondamentale o, come suole chiamarsi, di Apologetica.

Bibliografia.
Devivier, Corso di apologetica cristiana, Venezia, Emiliana, 1937; Giacon, La verità cattolica, Vol. I (La divinità del cristianesimo, la Chiesa, i Dogmi), Como, Marzorati 2a ediz., 1943; Sitti, Corso di teologia per i laici, Vol. I (La Rivelazione), Roma, Studium, 1940.

 

Il grande problema del male e del libero arbitrio.

E coniugare il concetto del Dio infinitamente buono ed anche infinitamente giusto. Secondo Sant’Agostino Dio, il Bene, non è autore del male, ma né è origine, è autore della mia anima destinata a peccare. Dio, per conseguire un bene maggiore - la nostra libertà - non poteva non farci capaci anche di peccare, di commettere del male. Ciò crea aporie e problemi, ma non possiamo conoscere Dio e il suo "progetto".Se io faccio del bene, è perché Dio ha fatto in modo che io possa fare del bene e lo stesso, all’inverso, dicasi del male; ma non possiamo conoscere le sue finalità.
Secondo Platone: "del male, del nostro far male, il Dio non può essere ritenuto causa. Dio è bene, Dio è immutabile, è semplice, è veritiero, ed è causa di tutti i beni: thèos anaìtios, Dio è innocente". E’ ritenuto innocente dei mali del mondo, del nostro far male e pecchiamo per nostra scelta e libertà e non siamo determinati da Dio ad agire male; le nostre imperfezioni, le nostre miserie, sono frutto e prodotto della nostra libertà / libero arbitrio.
Dice Agostino: "I peccati sono tuoi, i meriti sono di Dio", ossia, i meriti attraverso i quali posso esser salvato non provengono da me, perché dal baratro del mio peccato io non potrò usare nessun mezzo per salvarmi, ma provengono da Dio. Siamo gli  autori del male ma non possiamo salvarci da questo male. Tutto ciò pone dei problemi, come ad esempio il fatto che Dio ci vuole tutti salvi malgrado il nostro libero arbitrio. Sant’Agostino e San Tommaso, affermano che non tutti si salvano, quindi alcuni vengono salvati e altri no per motivi a noi ignoti: "Nessun uomo si salverà se non colui che Egli vuole si salvi", dice Agostino e ripete Tommaso.
Non si può, anche per questo, credere però alla predestinazione. 
(Pietro Musilli)