L'Esistenza di
Dio.
2005 - By: www.paginecattoliche.it
1. Introduzione. Il problema di Dio.
Salendo attraverso i vari gradi della
vita ci siamo fermati a studiare l'uomo, la creatura che poggia sul
vertice degli esseri materiali ed è al confine del mondo spirituale,
anello di congiunzione tra lo spirito e la materia. Ma lo studio
dell'uomo si completa in Dio. Egli infatti viene immediatamente da
Dio, tende immediatamente a Dio, è costituito con un'anima
spirituale fatta a Sua immagine e somiglianza. Dio perciò è
coronamento e termine necessario del nostro studio filosofico.
Prima di tutto ci domandiamo: esiste Dio? Questione principalissima
che si affaccia inesorabile alla mente di ogni uomo, e dalla cui
soluzione molte altre questioni dipendono.
Essa è tuttora al centro della filosofia, come apparve in un recente
Congresso filosofico (Firenze 1940) ove, contro alcuni pochi (come
Fazio, Allmayer e Calogero) i quali dicevano che il problema di Dio
è ormai superato e non interessa più perché ciò che oggi interessa è
l'estetica, l'economia e la politica, fu invece affermata e difesa
la vitalità di questo problema centrale da parte dei numerosi
filosofi presenti, pur nella varietà delle opinioni e nella
diversità del linguaggio. Ma, se il problema è sempre vivo e
attuale, purtroppo i filosofi non si accordano nella soluzione.
Mentre l'umanità dalle sue origini, come dimostreremo naturalmente
guidata dalla ragione che la fede confermava, ha affermato
l'esistenza di Dio e gli ha sempre innalzato altari e templi, ed
anche l'umanità di oggi, ove la violenza non lo impedisce, manifesta
la sua comune credenza in Dio, non sono mancati e non mancano
pensatori che negano l'esistenza di Dio: da Democrito, che per primo
pronunciò la frase fatale: “Non est Deus naturae immortalis”
agli odierni negatori di Dio, quale il Rensi, che si assumeva
l'ardua e vana fatica (tanto evidenti sono gli argomenti in
contrario) di fare un'Apologia dell'ateismo, (Roma,
Formiggini), opera nella quale la facilità e piacevolezza
dell’eloquio non riesce a nascondere la fragilità e l’inconsistenza
delle argomentazioni.
Platone, nel X libro delle Leggi scriveva: “Come si può senza
indignazione vedersi ridotti a provare l'esistenza di Dio?”. Eppure,
di fronte all'ateismo militante è necessario dare e ripetere la
dimostrazione, sia per confutare l'avversario, sia per confermare il
credente di fronte al dubbio imprudente che talora può affiorare
alla sua coscienza nelle alterne vicende della vita.
Per evitare fin dal principio ogni equivoco, avvertiamo che quando
diciamo Dio, con questo nome augusto, “la più grande parola del
linguaggio umano”, intendiamo un
Essere supremo, personale, distinto dal mondo, dal quale tutto
l'universo dipende.
2. Avversari.
A) Negano
l'esistenza di Dio:
1) I
materialisti. Essi affermano: tutto è materia, tutto viene dalla
materia e ad essa ritorna. Ecco la dottrina che deve sciogliere
tutti gli enigmi, contentare tutti i bisogni, soddisfare a tutte le
aspirazioni. Su una concezione materialistica della realtà si
basa anche l'ateismo del Rensi che, nelle prime pagine della sua
Apologia dell'ateismo, dà questa definizione dell'Essere:
“Essere significa ciò che si può vedere, toccare, percepire. E'
soltanto ciò che può essere visto, toccato, percepito” (pag. 15); e
prosegue spiegando: “quel può non va inteso nel senso che
esista solo ciò sopra cui sia effettivamente possibile mettere
l'occhio e la mano, ma nel senso che anche quando questo fatto non
possa accadere, pure la cosa che è deve possedere una natura tale
per cui sia per sé suscettibile di essere vista, toccata, percepita”
(pag. 15?16). Ora, siccome soltanto l'essere materiale ha tale
natura, il Rensi conclude che Dio, come essere spirituale, non
esiste. Ma, quanto categorica, altrettanto falsa è la definizione di
essere data dal Rensi: al contrario, essere dice
solamente ciò che esiste o può esistere, sia materiale, come il
mondo che vediamo, sia spirituale, come per es. la nostra anima, di
cui già dimostrammo l'esistenza nella lez. XII (1).
2) I monisti e panteisti, che dicono di ammettere Dio, ma lo
identificano col mondo e quindi praticamente lo negano. A ragione
disse il Gratry: “Il panteismo è l'ateismo più una menzogna”. Si
distingue il panteismo realistico di Scoto Eriugena, Giordano
Bruno, Spinoza, ecc., e il panteismo idealistico della
filosofia post-kantiana con Fichte, Schelling, Hegel, e in Italia
con Croce, Gentile, Carabellese, ecc.
Il Gentile per es. scrive: “Dio non può essere tanto Dio che non sia
lo stesso uomo” (2) e “Dio è spirito; ma è spirito in quanto l'uomo
è spirito; e Dio e l’uomo nella realtà dello spirito sono due e sono
uno; sicché l'uomo è veramente uomo soltanto nella sua unità con Dio
(...) e Dio da parte sua è il vero Dio in quanto è tutto uno con
l'uomo che lo compie nella sua essenza”(3). E' vero che talora
afferma la distinzione tra Dio e uomo, ma la spiega, piuttosto, come
distinzione di termini astratti nell’unica realtà concreta
che è la sintesi 4 secondo i principi dell'idealismo che abbiamo
altrove esposto (Lez. VI).
Orbene il panteismo non è accoglibile, perché Dio, per sua natura
infinito, immutabile e perfettissimo, non può identificarsi né con
la realtà materiale né col nostro spirito che sono realtà finite,
mutabili e imperfette.
3) Dubitano dell'esistenza di Dio anche gli agnostici,
i quali dichiarano impossibile sciogliere razionalmente il
problema religioso. La questione dell'esistenza e della natura di
Dio – affermano – supera le forze della nostra debole mente: Dio non
può essere oggetto di scienza. L'agnosticismo – come dicemmo – è in
fondo un atto di sfiducia nelle forze della ragione, sfiducia che
nasce da una falsa concezione del valore e dei limiti della
conoscenza razionale. Secondo questa impostazione, noi non possiamo
oltrepassare il mondo sensibile, e siccome Dio non cade sotto
l'esperienza sensibile, non lo possiamo in alcun modo raggiungere.
Nella lezione III abbiamo già confutato l'agnosticismo, mostrando
come dalle cose sensibili possiamo razionalmente raggiungere una
realtà sovrasensibile e lo vedremo meglio provando di fatto
l'esistenza di Dio.
B) Affermano l'esistenza di Dio, ma
appoggiandosi su falsi principi:
1) I fideisti, modernisti,
ecc., che ritengono non potersi raggiungere Dio per la via del
ragionamento, ma piuttosto per quella dei bisogni e delle
aspirazioni della volontà e del cuore. Nel sentimento religioso
dicono riscontrarsi un certo “intuito del cuore” per mezzo del quale
l'uomo immediatamente entra in contatto con Dio e acquista, della
esistenza di Lui e della Sua azione dentro e fuori di noi, una tale
convinzione che supera ogni altra. Non neghiamo che motivi affettivi
possano aiutare a raggiungere Dio, ma affermiamo che i motivi
veramente validi e degni dell'uomo, essere ragionevole, per
affermare Dio sono gli argomenti razionali, che conservano ancora
tutto il loro valore assoluto.
2) I tradizionalisti; essi
insegnano che l'esistenza di Dio non può essere dimostrata dalla
ragione se Dio stesso prima non ci ha già rivelato questa verità che
gli uomini si tramandano di generazione in generazione. Anche in
questo caso non neghiamo che la rivelazione e la tradizione
facilitino all'uomo la conoscenza di Dio, ma rifiutiamo l’idea che
la ragione umana sia incapace di dimostrare l'esistenza di Dio:
anzi, il fondamento su cui deve poggiare la nostra affermazione di
Dio sono precisamente gli argomenti della ragione.
3) Gli ontologisti, che vanno
all'eccesso opposto e affermano che noi abbiamo la cognizione
immediata di Dio, l'intuizione della sua essenza. Proposta dal
Malebranche, questa dottrina fu difesa in Italia dal Gioberti e dal
Rosmini. Ma fu condannata dalla Chiesa, perché non solo non abbiamo
di fatto questa intuizione dell'essenza divina (come l'esperienza
chiaramente ci insegna), ma neppure possiamo averla, essendo questa
superiore alle forze della natura e dono da Dio concesso solo nella
visione intuitiva ai Beati.
4) Quelli che, con S. Anselmo,
Descartes, Leibnitz ecc., con un argomento detto a simultaneo,
pretendono dedurre l'esistenza di Dio dall'analisi del semplice
concetto di Dio.
S. Anselmo così ragionava: Dio è l'Essere di cui non se ne può
concepire uno maggiore; ma se non esistesse, se ne potrebbe
concepire un altro maggiore che abbia anche la perfezione
dell'esistenza. Dunque Dio deve esistere. Ma a chi ben lo considera,
appare che l'argomento prova solo che Dio deve essere concepito come
esistente; ma dal fatto che io debbo concepirlo come esistente, non
ne segue che realmente esista. L'argomento di S. Anselmo fu ripreso
e modificato da Descartes e da Leibnitz, ma rimane sempre
inefficace. Infatti l'argomento avrebbe valore se noi avessimo un
concetto proprio e intuitivo di Dio, ma siccome ne abbiamo solo un
concetto improprio e analogico, ogni argomento che dai concetti si
voglia dedurre implica un passaggio vizioso dall'ordine ideale al
reale.
Noi vogliamo arrivare a Dio con la
ragione, vogliamo dimostrarne l'esistenza, ma la sola dimostrazione
valida è quella a posteriori, cioè dagli effetti alle cause.
E' questa la vera via, che, unica, ci conduce sicuramente a Dio, la
via degna dell'uomo dotato di ragione, la via additataci già da S.
Paolo:
“Invisibilia enim Ipsius a
creatura mundi per ea quae facta sunt, intellecta conspiciuntur” (Ep.
ad Rom., 1, 20),
raccomandata e consacrata autorevolmente nelle dichiarazioni solenni
della Chiesa, nonché seguita costantemente non solo dai grandi
apologeti cristiani, ma anche dai più illustri teisti di qualunque
epoca, scuola e religione.
Considerando i fatti reali che cadono
sotto la nostra esperienza sensibile, noi vedremo che non c'è modo
di interpretarli razionalmente senza ammettere Dio, poiché:
1) la natura delle cose che costituiscono il mondo esige un Dio
Creatore;
2) l'ordine che
regna in tutto l'universo esige un Dio sapiente e ordinatore;
3) la voce di
tutti i popoli proclama unanimemente un Dio supremo Signore.
Questi argomenti, studiati e discussi
nel corso di lunghi secoli, hanno convinto le menti più elette
dell'umanità; se certi moderni non ne percepiscono la forza, non è
per difetto di luce della verità, ma per molte cagioni che, rendono
le menti indisposte: tali sono le prevenzioni contrarie, la mancanza
di attenzione, la scarsezza di ingegno, l'affetto che l'intelletto
lega, l'uso di seguire gli altri fra i quali si vive, il non volere
essere trascinati a conseguenze temute e la particolare inclinazione
a studi più materialmente determinati nei fatti storici e nei
fenomeni sensibili, apprendendo quasi avvolto di nebbia tutto ciò
che si presenta come ragione astratta”. (4).
Note.
1) Cfr. Valentini, La dottrina
ateistica di G. Rensi, in Civiltà Cattolica, 1943, 3, p.
103 ss.
2) Teoria generale dello Spirito, Bari, Laterza, p. 45.
3) Cfr. La mia religione, Firenze, Sansoni.
4) Mattiussi, Veleno kantiano.
Bibliografia.
Ballerini, L'esistenza di Dio di
fronte alla scienza e al pensiero moderno, Firenze, Libr. Ed.
Fiorentina;
Daffara, Dio. Esposizione e valutazione delle prove, Torino,
SEI;
Farges, L'idea di Dio secondo la ragione e la scienza, Siena,
S. Bernardino;
Franchi, Ultima critica, Vol. III, Milano, Palma;
Gaetani, Dio, Roma, Univ. Gregoriana, 1944;
Giovannozzi, Il problema dell'esistenza, Vol. I, Firenze,
Calasanziana;
Marcozzi, Il problema di Dio e le scienze naturali, Brescia,
Morcelliana;
Mattiussi, Credo in unum Deum, Milano, Tip. S. Giuseppe;
Sertillanges, Dio o niente?, Torino, SEI;
Zacchi, Dio, Vol. I, Roma, Ferrari.
L’ESISTENZA DI DIO
(I: PROVA
METAFISICA)
Prove metafisiche
sono quelle che poggiano sui primi ed universali principi della
ragione, che hanno quindi un valore assoluto e causano nella mente
un'adesione perfetta che si dice appunto certezza metafisica. Gli
argomenti metafisici, se ben compresi, costituiscono sempre la
dimostrazione più bella e più solida dell'esistenza di Dio: perciò
cominciamo da questi. Essi, solitamente, vengono proposti in varie
forme; celebri sono le cinque vie di S. Tommaso (Summa theol., I, q.
2, a. 3) con le quali si prova l'esistenza di Dio, come primo motore
immobile, prima causa incausata, essere necessario, essere
perfettissimo, sapientissimo ordinatore. Non potendo svilupparle
tutte, in questa lezione fisseremo il nostro sguardo sulla terza
via, la più facile ed evidente, che brevemente si può riassumere nel
seguente argomento.
1. L’argomento.
L'universo è
un complesso di esseri contingenti. Ma l'essere contingente esige
l'Essere necessario come sua prima causa. Dunque oltre l'universo
esiste un Essere necessario, creatore dell'universo, che è appunto
Dio.
Esaminiamo le
singole proposizioni della nostra argomentazione:
1) L'universo è un complesso di
esseri contingenti.
Noi scorgiamo
nell'universo un'infinita quantità di cose: noi stessi, gli altri
uomini, animali, piante, minerali di tante specie, composti di
molecole, atomi, ecc., che costituiscono la terra, il sole, gli
astri, e così via. Tutti questi esseri non sono esseri necessari,
perché essere necessario è quello che necessariamente è (quindi non
può non essere) e che necessariamente è quello che è (quindi non può
mutarsi). Invece tutte le cose che compongono l'universo sono
mutabili e di fatto continuamente mutano. I viventi nascono,
crescono e muoiono; e durante la loro vita si evolvono e si
modificano sempre. Le sostanze inorganiche anch'esse sono soggette a
continue trasformazioni. Inoltre a nessuna delle cose che
costituiscono il mondo compete l'essere in modo che le ripugni
intrinsecamente il non essere. Dunque tutti gli esseri che
costituiscono l'universo sono contingenti, cioè possono essere e non
essere e, quando sono, possono modificare accidentalmente il loro
modo di essere.
2) Ma l'essere contingente esige
l'Essere necessario come sua prima causa.
Infatti essere
contingente, come abbiamo detto, significa che può essere e non
essere, essere in un modo ovvero in un altro; il che vuol dire che
quella cosa non è di natura sua determinata ad essere, ma di natura
sua è indifferente all'essere e al non essere. Per esempio alla
natura dell'uomo appartiene la razionalità (per cui un uomo senza
razionalità è assurdo) ma non appartiene alla natura dell'uomo la
bontà, per cui può essere buono e cattivo, e molto meno appartiene
alla natura dell'uomo l'esistenza, per cui ogni uomo è, ma non era e
non sarà; vive, ma è nato e morirà.
Se per sua natura l'essere contingente è indifferente ad essere e a
non essere, vuol dire che non ha in sé la ragione sufficiente della
propria esistenza, cioè non ha in sé quello che è necessario e
sufficiente per poter esistere; ed allora è chiaro che questa sua
esistenza deve averla ricevuta da un altro, cioè ci deve essere un
altro ente che sia la ragione sufficiente della sua esistenza, la
causa che l'abbia determinato ad essere. Questa causa che l'ha
determinato ad essere o è un essere contingente o è un essere
necessario. Se è contingente, neppure esso ha in sé la ragione
sufficiente della propria esistenza, che perciò deve essere causata
da un altro essere; e riguardo a questo si riproduce la medesima
questione. Orbene non si può procedere all'infinito nella serie
delle cause essenzialmente subordinate, altrimenti si avrebbe una
serie infinita di anelli che stanno sospesi senza un fulcro di
attacco, si avrebbe, cioè, una serie infinita di specchi che
riflettono la luce senza un corpo per sé lucente, una somma di zeri
che, per quanto prolungata, non può dare l'unità.
3)
Dunque ci deve essere un essere necessario, che abbia in sé la
ragione sufficiente del proprio essere e che sia ragione sufficiente
di tutti gli altri, causa prima dell'universo. Ed allora è evidente
la conclusione: oltre l'universo esiste un Essere necessario,
creatore dell'universo, che è appunto DIO.
2. Il principio di causalità.
L'argomento, come si vede, è fondato sopra il principio di
causalità, che si può e si suole esprimere in vari modi; il più
esatto è: ogni ente
contingente è causato.
Questo principio, salvo
rare eccezioni, era comunemente ammesso sia nella filosofia antica
(Platone, Aristotele), sia nel Medio Evo (S. Tommaso) come principio
di per sé evidente, che non esigeva lunghe dimostrazioni per essere
giustificato. Nella filosofia moderna, quando cominciarono a sorgere
i pregiudizi critici sul valore delle nostre cognizioni, si cominciò
a negare valore oggettivo anche al principio di causalità; lo si
disse frutto dell'abitudine di associare i fenomeni successivi (Hume),
ovvero lo si considerò come giudizio sintetico a priori (Kant), e
quindi legge della mente che non può pensare in altro modo, ma il
cui valore non oltrepassa il campo fenomenico.
Noi
invece sosteniamo che il principio di causalità, nonostante tutte le
critiche che se ne sono fatte, conserva il suo pieno e assoluto
valore. Infatti, come già dicemmo, ogni ente contingente, appunto
perché contingente, non ha in sé la ragione sufficiente della
propria esistenza; dunque se esiste ci deve essere un altro ente che
sia la ragione sufficiente del suo esistere, in quanto ripugna che
possa esistere qualcosa senza che si dia ciò che è necessario e
sufficiente perché possa esistere. Questo, il nostro intelletto lo
afferma non per cieca necessità soggettiva e a priori, ma perché
vede che così esige la natura delle cose stesse. Il mio intelletto
vede bene: allora il principio di causalità è vero ed ha valore
oggettivo; oppure vede male: allora non posso fidarmi del mio
intelletto, non avranno più valore i miei ragionamenti, ma neppure
quelli dei miei avversari che argomentano contro di me, utilizzando
quello stesso intelletto. Il risultato, quindi, sarebbe lo
scetticismo universale e la negazione di ogni scienza, che si fonda
sul principio di causalità. Né è difficile rispondere alle
suindicate obiezioni mosse sia dagli empiristi con Hume, sia dai
criticisti e dagli idealisti con Kant.
a)
Hume così argomenta: è oggettiva soltanto quella cognizione che
è attinta dai sensi; ma i sensi percepiscono soltanto la successione
dei fenomeni, non il nesso causale; per esempio coi sensi io
percepisco che dopo aver messo l'acqua sul fuoco l'acqua è calda, ma
l'influsso del fuoco nell'acqua non lo percepisco: quindi il
concetto di causa non ha un valore oggettivo, ma è qualcosa di
soggettivo dovuto all'abitudine di associare i fenomeni successivi.
Vedo che l'acqua, dopo essere stata messa sul fuoco, è sempre calda,
perciò dico che il fuoco ha scaldato l'acqua.
Rispondo: è falso che la nostra conoscenza oggettiva sia limitata
solo a quello che percepiamo direttamente coi sensi, perché oltre ai
sensi abbiamo l'intelletto, col quale legittimamente possiamo
valicare i confini del mondo fenomenico, come abbiamo dimostrato
nella lezione III. Inoltre è falso che l'esperienza ci dia soltanto
la successione dei fenomeni, perché per esempio l'esperienza interna
ci dice qualcosa di più: quando alzo un peso, non percepisco
soltanto il mio toccare il peso e poi l'alzarsi del peso, ma anche
lo sforzo che faccio per alzare il peso, la mia attività, la mia
causalità. Infine osservo che se la legge causale fosse dovuta
all'abitudine di associare i fenomeni successivi, dovremmo sempre
affermare un nesso causale ogni volta che vediamo una costante
successione di fenomeni e dire, per es., che la notte è causa del
giorno perché costantemente lo precede, mentre tutti riconosciamo
che si tratta di un sofisma:
post hoc, ergo propter hoc.
b)
Kant, nelle sue argomentazioni, così procede: il principio di
causalità è un principio universale e necessario (ogni ente che
cominci ad esistere deve essere causato). Ma tutta la nostra
conoscenza sensitiva è conoscenza di enti singolari e contingenti,
i quali possono darci materia per giudizi a loro volta particolari e
contingenti, e non per principi universali e necessari. Il principio
di causalità, quindi, è una legge stabilita dalla mente, e non
attinta dalla realtà: ha quindi un valore soggettivo, non oggettivo.
Rispondo: è vero che tutte le cose che conosciamo con i sensi
sono singolari e contingenti ma, come abbiamo già osservato, oltre
ai sensi abbiamo l'intelletto, col quale possiamo penetrare l'intima
natura delle cose e scoprire le leggi universali e necessarie che
regolano la realtà. Gli uomini che conosco sono singolari e
contingenti, ma penetrando la loro natura vedo, per es., che la
razionalità appartiene alla loro essenza, mentre non appartiene alla
loro essenza la bontà e allora, mentre non posso dire che tutti gli
uomini sono necessariamente buoni, posso bensì dire che tutti gli
uomini sono necessariamente ragionevoli, anche se di fatto non
sempre ragionano, e la mia affermazione universale e necessaria ha
pieno valore oggettivo, perché non stabilita dalla mia mente, ma
attinta dalla natura della realtà; in questo caso dalla natura
dell'uomo. Lo stesso può dirsi del principio di causalità, affermato
dalla mente non aprioristicamente, ma dopo aver veduto che
l'esigenza di una causa è qualcosa che appartiene all'essenza
dell'ente contingente e che perciò ogni ente contingente ha
necessariamente una causa; il principio di causalità ha dunque pieno
valore oggettivo.
3. Il principio di causalità e la fisica moderna.
Anche
fisici moderni hanno impugnato il principio di causalità e hanno
affermato: “Il principio di causalità, che ritenevasi stesse a base
inamovibile della nostra scienza, crolla nella fisica atomica; la
natura, nei suoi processi elementari, non si lascerebbe più seguire
coi consueti concetti di determinismo presi dalla meccanica
macroscopica, e l'uomo non vi trova più che la legge del caso”. Così
il Castelfranchi nella prima edizione della sua Fisica moderna (1) e
insieme a lui i sostenitori più spinti dell’indeterminismo, benché
nelle successive edizioni dell'opera abbia sentito il bisogno di
attenuare le espressioni e di ammettere la possibilità che dietro le
leggi statistiche vi siano leggi nascoste alle quali obbediscano i
singoli corpuscoli, esista dunque una nascosta causalità (2).
Ma il
contrasto è apparente, non reale, e dovuto più che altro ad una
confusione di termini. Ci pare infatti di poter riassumere
l'argomentazione dei fisici moderni contro il principio di causalità
nei termini seguenti: il principio di causalità si identifica col
principio di determinazione della fisica classica. Ma tale principio
è stato superato dal principio di indeterminazione della fisica
moderna. Dunque anche il principio di causalità è superato e non ha
più valore.
Rispondiamo che il principio di causalità si
distingue nettamente sia dal principio di determinazione
della fisica classica, sia dal principio di indeterminazione
della fisica moderna, e non è in contrasto né con l'uno né con
l'altro. Infatti:
a)
Principio di causalità e principio di determinazione si
distinguono perché il principio di causalità afferma solamente che
ogni effetto (ogni nuovo fenomeno) deve avere necessariamente una
causa, ma non dice quale sia la causa né se la causa abbia
necessariamente prodotto quell'effetto. Invece il principio di
determinazione afferma che conoscendo l'effetto io posso conoscere
la causa che l'ha prodotto, e conoscendo la causa io posso conoscere
gli effetti che produrrà. Come si vede, il principio di
determinazione dice molto più del principio di causalità; da esso
quindi si distingue, però lo suppone e ad esso non si oppone.
b)
Principio di causalità e principio di indeterminazione si
distinguono in quanto il principio di indeterminazione della fisica
moderna afferma che, essendo imperfetta la nostra conoscenza delle
particelle subatomiche (elettroni, ecc.), non abbiamo modo di
determinare con precisione, per es., la posizione e lo stato di
movimento dei singoli corpuscoli, non possiamo conoscere e quindi
neppure prevedere con certezza i fenomeni che seguiranno, ma solo
con una maggiore o minore probabilità; in altre parole, non potendo
noi nel mondo subatomico conoscere perfettamente la causa, non
possiamo prevederne con certezza gli effetti. Orbene, se questa
affermazione può contrastare col principio di determinazione (nel
senso che tale principio non può essere da noi applicato al mondo
subatomico), in nessun modo esso contrasta col principio di
causalità, secondo il quale i fenomeni, anche nel mondo subatomico,
devono avere una qualche causa, sia che la conosciamo sia che non la
conosciamo; e che tali fenomeni abbiano una causa, nessun fisico
l'ha mai negato né mai lo negherà. Negarlo, infatti, sarebbe negare
non solo il principio di causalità, ma rinnegare la scienza
medesima, la quale, come dice la sua stessa definizione, è la
conoscenza dei fenomeni mediante le cause che li hanno determinati
(3).
4. Alcune obiezioni.
1) La
materia è eterna, dunque non è causata.
Rispondiamo in tal modo: che la materia sia eterna è affermazione
gratuita, la scienza non lo dimostra, anzi la scienza sembra provare
il contrario, se è vera la legge di entropia (trasformazione
progressiva di tutta l'energia in calore, pur restando
quantitativamente costante). Ma anche dato e non concesso che la
materia sia eterna (il che per la Rivelazione sappiamo non essere
vero), il nostro argomento conserva tutto il suo valore. Noi non
diciamo infatti: il mondo ha avuto inizio, dunque è stato causato,
ma: il mondo è contingente, dunque è creato. Se esiste ab aeterno,
ab aeterno deve essere creato.
2) Ma
forse la materia stessa è l'ente necessario ragione sufficiente di
tutte le cose che costituiscono l'universo.
Così
rispondiamo: è assurdo che la materia sia l'ente necessario, poiché
essa:
a)
è imperfetta, incapace di essere la causa adeguata delle perfezioni
che si trovano nell'universo (moto, vita, intelligenza, ecc.),
perché nessuno può dare quel che non ha;
b)
è mutabile, mentre l'essere necessario è assolutamente immutabile
in quanto determinato dalla sua essenza ad essere quello che è:
mutabilità comporta contingenza;
c)
è composta; le singole parti della materia sono contingenti (non
ripugna infatti che questa o quella parte non esista), ma una somma
di contingenti non dà il necessario, come una somma di zeri non dà
l'unità.
3)
Infinito e finito, Dio e mondo non possono coesistere.
“Dio,
per essere lui, rende impossibile il mondo e non può far essere o
lasciar essere questo senza rinunziare a sé medesimo” (4).
A questa obiezione già abbiamo
risposto nella lezione IV. L'essere Dio infinito non impedisce che
ci siano creature finite che partecipino della sua perfezione, come,
per es., l'avere un sovrano assoluto tutto il potere, non impedisce
che ci siano altri nel regno che partecipino del suo potere.
Note.
1) Castelfranchi, Fisica moderna,
1a ed., Milano, Hoepli, p. 583.
2) Fisica moderna, 5a ed., pp. 528-529.
3) Cfr. Marcozzi, Il problema di Dio e le scienze naturali,
Milano, Bocca, p. 20; Martegani, Dal rigido determinismo al
principio di indeterminazione, in Civiltà Cattolica,
1938, 3, p. 432 ss. e 4, p. 116 ss.
4) Gentile, I problemi della Scolastica.
L’ESISTENZA DI DIO
(II: PROVA
FISICA)
Uno
dei fenomeni che più colpisce chi si pone a contemplare lo
spettacolo della natura è l'ordine che vi riluce, ordine
meraviglioso e costante. Di qui la mente arguta della gente semplice
trae uno degli argomenti più profondi per risalire a Dio, argomento
che lo scienziato analizza e perfeziona dandogli forma di rigorosa
dimostrazione scientifica. Così provarono l'esistenza di Dio
Platone, Aristotele, Cicerone fra i pagani; così nei tempi cristiani
usarono questo argomento i primi apologeti, i Padri lo ampliarono
eloquentemente e S. Tommaso lo espose in forma nitida e rigorosa
nella sua Summa, così come tutta la sua scuola lo espose e lo
difese. Anche i razionalisti ne sentirono la forza. Voltaire diceva:
«L'universo
mi imbarazza e io non posso sognare che questo orologio esista e non
abbia orologiaio».
L'argomento si può brevemente compendiare nel seguente modo: nella
natura esiste un mirabile ordine teleologico. Dunque necessariamente
esiste una suprema intelligenza ordinatrice. Ma questa intelligenza
ordinatrice deve essere anche creatrice dell'universo. Dunque esiste
un Dio creatore e ordinatore dell'universo.
Esaminiamo ora le singole affermazioni.
1. L’ordine cosmico.
Esso
ci appare chiaramente considerando la scala degli esseri dai più
semplici ai più complessi.
1)
Regno vegetale.
Un piccolo seme: uno dei tanti di
quei minuscoli granellini sparsi nella natura: quale mirabile ordine
nella sua struttura, nel suo progressivo sviluppo, nella formazione
della pianta! Per es., la disposizione delle foglie lungo il
picciolo secondo un ciclo determinato in modo da ricoprirsi il meno
possibile e che tutte possano ricevere la maggior quantità di luce.
«Se
voi mi volete salvare da una miserabile morte – scriveva Darwin ad
un botanico – ditemi perché l'angolo fogliare è sempre di 1/2, 1/3,
2/5, 3/8 (...) e non mai diverso. Basterebbe questo solo fatto per
fare impazzire l'uomo più tranquillo». Disposizioni non meno
complesse e sapienti si trovano nei fiori per favorire
l'impollinazione di piante diverse e impedire l'autofecondazione,
che sarebbe nociva alla specie per il manifestarsi di caratteri
difettosi; disposizioni ancor più mirabili per assicurare, ottenuta
la fecondazione e la formazione dei semi, la disseminazione in modo
che non cadano tutti in un terreno sterile e ombroso, ma siano
trasportati in terreno adatto e sia assicurata la sopravvivenza
della specie.
2)
Regno animale,
dai più minuscoli viventi ai più
complessi ed evoluti. La struttura dell'organismo, i vari organi
della nutrizione, della riproduzione, del movimento, della
sensazione; la loro adattabilità secondo l'ambiente e le circostanze
o nei casi di malattia; tutto ciò presenta un evidente finalismo. I
mirabili istinti in virtù dei quali gli animali agiscono e operano
con tanta sicurezza, precisione e perfezione di mezzi, risolvendo
con la massima semplicità i problemi più difficili: le formiche
(organizzazione del lavoro), le api (la struttura dell'alveare), i
ragni (l'ingegnosa costruzione della tela), gli uccelli (il nido, la
cura della prole), e così via.
3)
L’uomo.
Il corpo e le sue parti: sono milioni di cellule differenziate fra
loro, riunite in tessuti diversi che formano i vari organi,
ciascuno dei quali sapientemente costituito per la sua funzione che
esercita spontaneamente, naturalmente, senza che ce ne accorgiamo.
La mirabile struttura dei singoli organi; l'orecchio, l'occhio
(Newton diceva che chi ha fatto l'occhio dell'uomo doveva conoscere
bene le leggi dell'ottica), ecc. Il grande anatomista americano
Alexis Carrell, in un libro che ebbe grande successo, L'uomo,
questo sconosciuto, cita molti esempi di tali meraviglie nel
corpo umano e conclude: «L'esistenza di una finalità nell'organismo
è innegabile: tutto avviene come se ogni organo conoscesse i bisogni
presenti e futuri dell'insieme e si modificasse secondo questi».
4) La
terra.
La sua posizione rispetto
al sole (per una temperatura conveniente alla vita); il duplice moto
di rotazione e di traslazione (per l'avvicendarsi dei giorni e delle
notti, per l'alternarsi delle stagioni a vantaggio dei viventi); le
terre glaciali e la zona torrida (per i dislivelli di temperatura
necessari per le correnti benefiche dell'aria e degli
oceani), ecc.
5) L’universo.
Gli astri: il loro numero, la loro grandezza, la loro distanza, i
movimenti che compiono, ecc.
I vari regni della natura sono l'uno all'altro subordinati
armonicamente per il bene universale. Ordine e subordinazione hanno
sempre colpito i più geniali osservatori. Già Aristotele scriveva:
«Tutto nell'universo è sottoposto a un determinato ordine (...) Le
cose non vi sono disposte in modo che una non abbia alcun rapporto
con l'altra, che anzi tutte sono in relazione fra loro, concorrono
con perfetta regolarità ad un unico risultato. Si verifica
nell'universo quello che vediamo in una casa ben governata».
2. L’argomento.
Nell'universo, considerato nelle
singole sue parti come nel suo complesso, vi è un'evidentissima
ordinazione dei mezzi ai fini prossimi, e dei fini particolari ai
fini superiori e di questi al fine generale che è il bene del tutto.
a)
Ordinare i mezzi al fine è proprio del solo intelletto. Infatti, per
adattare qualche cosa al fine è necessario conoscere il fine, la
natura del mezzo che si impiega e la relazione che passa tra il
mezzo e il fine. Ma conoscere tutto questo è solo degli esseri
intelligenti. Quindi la finalità non può spiegarsi se non si ammette
una mente ordinatrice; perciò l'universo, così mirabilmente
ordinato, esige una mente ordinatrice (la mente o nous di
Anassagora). L'argomento è semplicissimo; come dinanzi a un
orologio, a una statua, ad una macchina, l'intelletto non può
rifiutarsi dall'affermare l'esistenza di un'intelligenza che è la
causa di quell'ordine, quanto più dinanzi all'universo così
complesso e tuttavia ordinato.
b)
Ma questa intelligenza ordinatrice non è nell'universo. Infatti, non
può essere nella materia inorganica, né nelle piante, né negli
animali, in quanto tutti esseri materiali, mentre l'intelligenza,
come vedemmo nella lezione XII, è prerogativa dell'essere
spirituale. Neppure può trattarsi dell’intelligenza dell'uomo,
perché l'ordine del mondo esisteva prima che esistesse l'uomo, e
l'uomo è tanto lontano dall'essere ordinatore del mondo che si
considera genio chi ha scoperto (non creato) qualche
nuova meraviglia già esistente nell'universo. Dunque, l'intelligenza
ordinatrice del mondo è l'intelligenza di un Essere spirituale
distinto dall'universo.
c)
Ma dobbiamo ancora osservare che l'ordine dell'universo non è
puramente un ordine estrinseco e accidentale, bensì intrinseco ed
essenziale, che risulta dalla natura stessa delle cose; per cui, chi
ha ordinato il mondo deve averlo anche creato, deve avere costituito
in quel determinato modo e per quel determinato fine tutti gli
esseri che lo compongono e le loro parti. Dobbiamo dunque concludere
che il supremo ordinatore del mondo è anche il creatore
dell'universo, è Dio.
Esiste dunque un Dio creatore e ordinatore dell'universo.
Così, questa è la conclusione di
tutti i grandi scienziati che non chiudono gli occhi dinanzi alle
bellezze dell'universo e che sanno, spogliandosi dei pregiudizi,
guardare in faccia la verità. Il grande naturalista Linneo diceva:
«Il Dio eterno, il Dio immenso, sapientissimo e onnipotente è
passato dinanzi a me. Io non l'ho veduto in volto, ma il riverbero
della sua luce ha ricolmato di stupore l'anima mia. Io ho studiato
qua e là le tracce dei suo passaggio nelle creature e in tutte le
sue opere, anche le più piccole, le più impercettibili: quale forza,
quale sapienza, quale immensa perfezione»; Newton: «L'astronomia
trova ad ogni passo la traccia dell'azione di Dio»; e finalmente
ecco come Keplero terminava la sua opera: «Ti ringrazio, o mio
Creatore e Signore, di tutte le gioie che mi hai fatto gustare
nell'estasi in cui mi ha rapito la contemplazione delle opere della
Tua mano. La grandezza di queste io mi sono studiato di proclamare
dinanzi agli uomini, e ho posto cura di far conoscere quanta sia la
Tua sapienza, la Tua potenza, la Tua bontà».
3. Obiezioni.
1) Al giorno d’oggi, per gli spiriti
che hanno familiarità con la vera filosofia, i cieli non cantano se
non la gloria di Ipparco, di Keplero e di Newton. Così Comte e i
positivisti.
Risposta:
gli astronomi si limitano a scoprire
le leggi della natura, ma non le costituiscono. Forse che colui il
quale ha compreso sufficientemente il meccanismo di un orologio nega
l’orologiaio per spiegarne l’origine?
2) Le cose agiscono in tal modo e con
tale ordine per intima necessità di natura.
Risposta:
questa è una semplice
constatazione di fatto, ma non la spiegazione del perché. Anche la
macchina artificiale esegue necessariamente i suoi movimenti, ma il
disporre la macchina in tale modo è dovuto alla sapienza e al volere
dell'artefice che l'ha congegnata.
3) I materialisti ricorrono al caso.
Il fortuito cozzare degli atomi per tempo infinito ha potuto
produrre quest'ordine di cose.
Risposta:
il più elementare buon senso si
rifiuta di accettare una simile spiegazione. Chi per
esempio potrebbe ammettere che la Divina Commedia di Dante o
l'Iliade di Omero sono sorte per un casuale incontrarsi di lettere
dell'alfabeto? Ma, oltre al buon senso, sono le stesse leggi del
caso che depongono in favore della finalità e dell’intelligenza
ordinatrice. Il calcolo delle probabilità dimostra che una
combinazione casuale ha tanto maggiore probabilità di riuscita
quanto più è semplice, e tanto minore quanto più è complessa; in tal
caso, accanto alla combinazione fortunata, quale cumulo di tentativi
che falliscono! Ebbene, ogni organo nella natura è un insieme
enormemente complesso di elementi: secondo le leggi dei caso quanto
rare dovrebbero essere le combinazioni fortunate di organi adatti
alle funzioni accanto al numero grandissimo di combinazioni mal
riuscite, di tentativi falliti, di organi senza funzione! Nella
natura, invece, avviene esattamente il contrario: tutti gli animali,
per esempio, dai più semplici al capolavoro della natura, cioè
l'uomo, hanno organi complessi e diversi, ma tutti adatti allo scopo
e alla funzione che compiono. Insomma, l'ordine che esiste
nell'universo è essenzialmente opposto al risultato del caso: le
cose che succedono bene per caso sono poche e rare,
mentre l'ordine che esiste nell'universo è universale e
costante. Paolo Enriques, nella sua opera Il problema della
vita termina il capitolo sul finalismo con queste parole: «Il
finalismo è evidente; negarlo significherebbe negare l'esistenza
stessa della vita degli animali e delle piante. E se questo
carattere finalistico della vita è dovuto ai capricci del caso, che
ha fatto le cose così, ricorderò la frase del vecchio maestro che
diceva: il caso, ragazzi miei, è qualche cosa che l'uomo non è
riuscito a spiegare».
4)
Nel mondo ci sono cose inutili, nocive e disordinate. Dunque ...
Risposta:
l’universo racchiude ancora troppe incognite perché possiamo
giudicare della finalità di tutti gli esseri. Tante cose nella
natura e nello stesso organismo umano sembravano un tempo inutili,
dannose e disordinate mentre oggi, col progredire della scienza,
appaiono avere la loro finalità ed occupare degnamente il loro posto
nella natura. Del resto, qualche male o disordine potrà provare che
il mondo potrebbe essere migliore, ma non distruggere l'ordine
mirabile che è in esso e che incessantemente canta la gloria di
Colui che tutto move (Dante).
L’ESISTENZA DI DIO
(II: PROVA
MORALE)
Alla voce della
ragione, che proclama l'esistenza di Dio, al concerto armonico della
natura, che canta la gloria del suo Creatore, si unisce la
testimonianza del genere umano, che con plebiscito solenne dà
testimonianza a favore della divinità. Analizziamo il fatto, poi ne
vedremo il valore probante.
1. Il fatto. Tutti i popoli della terra hanno sempre
ammesso l'esistenza di Dio.
1) I popoli
antichi.
a)
Lo attestano le esplicite affermazioni degli antichi scrittori.
Cicerone: «Nessuna nazione è così grossolana e così selvaggia che
non creda all'esistenza degli Dei, anche quando si inganni sulla
loro natura». E Plutarco: «Percorrendo la terra voi potrete trovare
città prive di mura, di palazzi, di scuole, di teatri, di leggi, di
arti e di monete (...) ma una città priva di templi, una nazione
senza Dei, un popolo che non preghi (...) nessuno l'ha veduto mai».
b)
Così attestano anche i numerosi monumenti religiosi che sono giunti
fino a noi. Le antiche e gloriose civiltà degli Assiro-Babilonesi,
degli Egiziani e dei Greci sono sparite per sempre, travolte nel
vortice del tempo, ma ancora rimangono i segni eloquenti della loro
religiosità: edifici religiosi, statue, inni alle divinità.
c)
E' vero che l'idea razionale dell'ente supremo è spesso alterata per
i miti che l'immaginazione vi ha aggiunto, ma sotto questa veste
talora stravagante del
sentimento e della fantasia, vi è un substrato costante, razionale,
universale, che testimonia a favore della divinità, anzi di una
Divinità suprema e unica. Questa si chiama Ammon-Ra nell'Egitto,
Brahma in India, Assur a Ninive, Mardouk in Babilonia, Baal in
Francia, Ormuzd in Persia, Zeus in Grecia, Jupiter a Roma, ecc.
d) Il fatto si estende anche agli uomini preistorici. Alcuni moderni
scienziati (G. de Mortillet e figlio, ecc.) hanno affermato che
l'uomo del periodo paleolitico (periodo umano remotissimo, della
selce solo scheggiata, che precede il periodo neolitico o della
pietra levigata) era completamente areligioso. Ma le recenti
scoperte di scheletri di uomini del periodo paleolitico, sepolti con
riti religiosi, attesta con certezza storica che anche l'uomo di
quell’epoca era religioso, benché i dati non siano sufficienti per
dire quale fosse la sua religione, se monoteista o no. Tali dati ci
sono forniti dallo studio dei popoli primitivi tuttora esistenti dei
quali tra poco parleremo.
2) I popoli
moderni.
Noi conosciamo
ora tutti i popoli della terra, sappiamo con certezza che
dappertutto si adora, si prega, si invoca l'Altissimo. Il
Quatrefages, nell'opera La specie umana, scrive: «Obbligato dal mio
insegnamento a passare in rassegna tutte le razze umane, io cercai
l'ateismo presso i popoli più rozzi come presso i popoli più colti.
Io non lo trovai in nessun luogo se non in qualche individuo – come
dice altrove – allo stato erratico». Dovunque sempre la massa delle
popolazioni è sfuggita all'ateismo, anche là dove con la violenza si
tentò di imporlo. La propaganda atea, accompagnata dall'incentivo
dell'immoralità e dalla proibizione di ogni manifestazione
religiosa, possono in una nazione aumentare il numero degli atei,
dare anche l'impressione esterna di un popolo ateo; ma appena la
violenza cessa, le rifiorenti manifestazioni religiose dimostrano
come la massa sia sfuggita all'ateismo.
Non meno viva
e profonda è la credenza in Dio presso i popoli primitivi, cioè quei
popoli che sono rimasti al livello culturale di quelli antichissimi,
che hanno conservato il modo di lavorare, gli utensili, il genere di
vita, ecc., simile a quello dei primi uomini: non hanno né
agricoltura, né allevamento di bestiame, ma vivono della raccolta di
ciò che dà la natura.
Popoli primitivi
sono, per es., i Pigmei e i Boscimani dell'Africa, gli Andamanesi
dell'Asia e i Negritos delle Filippine, alcune tribù della Terra del
Fuoco di America e alcune tribù sud‑orientali dell'Australia.
Orbene, lo studio oggettivo della religione di questi popoli
primitivi ha portato alle seguenti conclusioni: «In tutti i gruppi
etnici della cultura primitiva esiste la credenza in un Essere
supremo, se non dappertutto nella stessa forma e potenza, certo
dappertutto con forza sufficiente da escludere ogni dubbio intorno
alla sua nozione predominante» [SCHMIDT, Manuale di Storia comparata
delle religioni, Brescia, Morcelliana, p. 421].
La credenza in
un Essere supremo è chiarissima presso tutte le tribù di Pigmei
dell'Africa e dell'Asia: anzi è notevole il fatto che l'idea di
questo Essere supremo sia tanto più pura e meno offuscata da idee di
altre divinità minori, quanto più la tribù presenta caratteri
primitivi. I nomi con cui l'Essere viene chiamato esprimono o la
paternità (Padre) o l'opera creatrice (Fattore, Creatore della
terra, Costruttore dei mondi) o la sua dimora in cielo o qualche suo
attributo (Colui che abita in cielo, l'Onnipotente, l'Eterno, ecc.).
Il concetto elevato di Dio e della morale dei popoli primitivi
dimostra che primitivo non è sinonimo di barbaro e che la loro
inferiore cultura materiale e semplicità di vita non è effetto di
degenerazione o decadenza; essi sono la vivente confutazione della
teoria evoluzionistica nei riguardi dell'uomo.
3) I grandi
uomini.
Il fatto cresce
di importanza se si considera il consenso degli uomini più grandi e
delle menti più elevate di tutti i tempi. Essi formano la parte
eletta della società ed hanno il diritto di rappresentare l'umanità
stessa. Ricordiamo alcuni nomi. Nell'antichità, per es., Socrate,
Platone, Aristotele e Cicerone, che hanno scritto pagine immortali
sopra la divinità. Nell'epoca cristiana, oltre tutti i Padri, tutti
i Dottori, tutti i Filosofi e Teologi cristiani, geni sublimi dalla
vita intemerata e dagli studi profondi, bisognerebbe ricordare i
nomi di quasi tutti gli scienziati dal XVI al XIX secolo, che
credettero in Dio: Copernico, Galileo, Bacone, Keplero, Newton,
Leibnitz, Réaumur, Buffon, Linneo, Jussieu, Eulero, Herschel, Cauchy,
Faye, Laplace, Ampère, Oerstedt, Fresnel, Faraday, Liebig, Biot,
Becquerel, Gay-Lussac, Secchi, Hermite, Cuvier, Agassiz, Pasteur,
Marconi, ecc. Si veda l’opera del Farges L’idea di Dio, e
specialmente quella, bellissima, del Kneller: Il cristianesimo e i
naturalisti moderni.
2. L’argomento.
Abbiamo
esaminato il fatto: ora consideriamone alcune circostanze. Tutti i
popoli di tutti i tempi e di tutte le civiltà credono nell'esistenza
di Dio. Questa credenza non è qualcosa di puramente speculativo: al
contrario, essa pervade intimamente tutte le manifestazioni della
vita umana. Infatti la religione, specialmente presso i popoli
antichi, è il centro della vita domestica e sociale: le guerre e le
alleanze, i matrimoni e i funerali, i giuochi e le feste sono resi
sacri dall'invocazione della divinità, i cui disprezzatori sono
severamente puniti.
Infine, questa
idea di Dio come garante della morale e che punisce le colpe, è in
contrasto con le inclinazioni dell'uomo, con le sue passioni, per le
quali sarebbe molto più comodo che Dio non esistesse. Invece si
contano a centinaia di migliaia coloro che in ogni tempo hanno
affrontato per Dio i più gravi pericoli e combattuto le più belle
battaglie, respingendo le lusinghe del piacere e dell'interesse,
vincendo la violenza delle passioni, e immolando sull'altare del
sacrificio ogni bene: bellezza, gioventù, ricchezze, onori, perfino
la vita stessa.
Orbene, questo
fatto così universale e costante non ha sufficiente e adeguata
spiegazione se non nella facilità e quasi spontaneità
che ha l'uomo di risalire a Dio partendo dalla considerazione
dell'universo, e nella forza persuasiva degli argomenti che provano
l'esistenza di Dio.
In questo senso i SS. Padri dicevano talora innata l'idea di Dio,
come spiega S. Tommaso: «Si dice che l'idea di Dio sia innata perché
mediante i princìpi (facoltà) a noi innati, facilmente possiamo
percepire l'esistenza di Dio»; e altrove: «La conoscenza di Dio è
innata, in quanto tutti hanno innato qualche cosa con cui possono
pervenire all'idea di Dio» [S.
Tommaso, In Boet. de Trinit., q. I, a. 3, ad 6; De Verit., q. 10, a.
12, ad 1].
E' la natura stessa che ci conduce
a Dio. Omnes natura duce eo
vehimur, Deos esse, ha detto Cicerone, il quale prosegue dicendo che
ciò a cui la natura spinge tutti gli uomini non può non essere vero,
altrimenti dovremmo dire che la nostra natura ci conduce
inesorabilmente all'errore, e non potremmo più fidarci della nostra
ragione: l’esito ultimo sarebbe lo scetticismo universale.
3. Obiezioni.
1) Vi sono molti atei: non è quindi
universale il consenso degli uomini circa l'esistenza di Dio.
Risposta:
quando si parla di «consenso universale», il termine «universale»
deve intendersi in senso morale, non matematico. Non è necessario,
cioè, che tutti gli uomini affermino l’esistenza di Dio, ma basta
che siano «tutti» moralmente (cioè la stragrande
maggioranza). Orbene, una statistica del 1934 (vedi Guida delle
missioni cattoliche, Roma, Prop. Fide, p. V.) mostra come il 95%
degli uomini professino almeno una religione; solo il 5% sono
areligiosi (e questi ultimi sono quasi tutti in Europa e in
America). Dunque il consenso universale nel senso spiegato sussiste
tuttora, tanto più se si considera che non tutti gli uomini
areligiosi sono atei, ma solamente non professano una determinata
religione, sono aconfessionali, e non necessariamente atei.
Inoltre, anche fra gli atei bisogna distinguere gli atei pratici
e gli atei speculativi (negativi e positivi). Atei pratici
sono coloro che direttamente non negano Dio, ma vogliono prescindere
da Lui, vivendo come se Dio non esistesse solo perché è più comodo.
La maggior parte degli atei sono atei pratici, i quali non fanno
difficoltà al nostro argomento. Atei speculativi possono essere
negativi, cioè coloro che assolutamente ignorano Dio: si discute
se ce ne possano essere, ma non sembra impossibile che un uomo,
almeno per un certo tempo della sua vita o a causa dell'educazione,
dell'ambiente, ecc., ignori Dio; ma il loro numero, se ce ne sono, è
certamente così limitato da non compromettere il nostro argomento.
Neppure esso è compromesso dagli atei speculativi positivi,
cioè da coloro che sostengono, argomentando esplicitamente, che Dio
non esiste. Anche prescindendo dalla sincerità della loro
affermazione (perché troppo spesso la negazione di Dio proviene non
da motivi intellettuali, ma morali: passioni, ecc.), il loro numero
è quanto mai ristretto; il motivo è sempre lo stesso: che l'uomo ha
la ragione e la ragione lo fa naturalmente risalire dalla cognizione
delle cose create alla cognizione di Dio Creatore e Signore
dell'universo.
2) L'uomo, nei
riguardi della religione, ha subìto un processo evolutivo: dallo
stadio areligioso (l'uomo primitivo era troppo vicino al bruto per
assurgere al concetto di vita ultraterrena) è passato allo stadio
dell'animismo (dando anima a tutte le cose e moltiplicando gli
spiriti), quindi al politeismo, poi al monoteismo, per ritornare con
l'uomo moderno all'ateismo. Così gli evoluzionisti.
Risposta:
l’etnologia ci attesta proprio il contrario. I primitivi, come
abbiamo visto, hanno una religione e la loro religione è il
monoteismo, che solo più tardi degenerò nel politeismo.
3) La credenza
in Dio deriva dalla paura: Primus in orbe Deos timor fecit.
(Lucrezio)
Rispondiamo
che il timore non basta a spiegare un fatto così universale e
costante, e inoltre contrasta con i sentimenti religiosi dell'anima
che non solo teme Dio, ma ama, ringrazia e benedice. Anzi, nella
religione dei primitivi l'attributo di Dio messo più in risalto è
quello della bontà. L'Essere supremo è esclusivamente ed
essenzialmente buono; da Lui non può venire che il bene e la
felicità. Per questo alcuni popoli, per spiegare il male fisico e
morale del mondo, ricorrono ad un altro principio, operatore del
male.
4) L'ignoranza
delle forze della natura ha dato origine alla credenza in Dio.
Rispondiamo
che, al contrario, i più grandi conoscitori della natura hanno
creduto in Dio, perché meglio hanno potuto ammirare la sapienza
delle Sue opere.
5)
L'infinita varietà delle religioni nel mondo, opposte fra loro,
toglie ogni valore all'argomento del consenso universale.
Risposta:
il disaccordo riguarda la natura di Dio, non la sua esistenza. Né
questo deve meravigliare, perché se è facile affermare l'esistenza
di Dio, non è altrettanto facile spiegarne la natura (essendo Essere
infinito) se non è Egli stesso a rivelarcela. A noi, per ora, basta
avere dimostrato il fatto dell'universale affermazione di Dio, cosa
inspiegabile se Dio non esistesse.
Concludiamo ancora una volta con le parole di un pagano, Cicerone:
«Se quello che la ragione dimostra lo confermano i fatti, lo
proclamano i popoli civili e barbari, antichi e moderni, lo hanno
creduto i filosofi e i poeti e gli uomini più sapienti che hanno
governato stati e che hanno fondato città, aspettiamo forse che gli
animali parlino e ci dicano che esiste Dio, non contenti del
consenso universale degli uomini?»
Bibliografia.
Si veda la bibl. della lez. XVI.
Anche C. Schmidt, L'anima dei primitivi, Roma, Studium;
Boccassino, La religione dei primitivi, in Storia delle
religioni ( a cura di P. Tacchi-Venturi, S. J.), Torino, Utet,
Vol I.
ESISTENZA E NATURA DI DIO
1. La voce della coscienza.
Oltre
agli argomenti che abbiamo svolto finora, molti ancora solitamente
se ne portano, a conferma della verità dimostrata; ne accenneremo
due che, sulle menti moderne, in varia misura imbevute di
soggettivismo, fanno maggiore impressione, benché invece abbiano
bisogno di un accurato svolgimento per non essere fraintesi e non
divenire puri sofismi o petizioni di principio.
1) Argomento eudemonologico (dal termine greco che
significa felicità). L'uomo sente un desiderio naturale di
felicità che i beni finiti non possono saziare: il desiderio di un
bene sommo, senza limiti, puro, senza mescolanza di mali e capace di
soddisfare tutti i nostri bisogni. E' un fatto di esperienza che è
facile constatare. Ma questo desiderio non può essere vano, perché
se – al contrario di tutte le altre tendenze naturali, che possono
raggiungere il loro fine – questo desiderio dell'uomo fosse
frustrato, l'uomo, re del creato, sarebbe l'essere più infelice
della terra. Dunque esiste questo bene puro, infinito, capace di
saziare il desiderio naturale dell'uomo: esiste Dio.“Fecisti nos ad
Te, Domine, et inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te”.
(S. Agostino, Confessiones).
2) Argomento
deontologico (dal
termine greco che significa dovere), secondo il quale
dall'esistenza della legge morale, in due modi possiamo risalire
fino a Dio.
a)
C'è una legge morale che si impone alla nostra condotta,
indipendentemente da ogni nostra soddisfazione e vantaggio, da ogni
pericolo esterno, anche della vita, in modo assoluto, universale, in
tutti i tempi in tutte le età e presso tutti i popoli. Ora, una tale
legge domanda un legislatore supremo e universale, cioè Dio.
Infatti, quella legge non è fondata nella ragione, che la scopre ma
non la crea; non nell'istinto, che spesso si oppone alla legge; e
neppure negli altri uomini, che da quella stessa legge sono
dominati. Essa non può che fondarsi, dunque, su un essere superiore
a tutti: Dio.
b) L'argomento è rafforzato dalla necessità della sanzione.
Il bene e il male meritano premio e castigo; ma non sono sufficienti
le sanzioni di questa vita; è dunque necessaria una sanzione
ordinata da un giudice ultramondano. Senza Dio il reo potrà vantarsi
di aver violato l'ordine impunemente, il giusto avrà vanamente
sofferto e il suo grido contro lo scandalo dell'empietà trionfante
si sarà perduto nel deserto. Ancora una volta la coscienza proclama
l'esistenza di Dio.
2. Natura di Dio.
Abbiamo
risposto alla prima domanda: an sit Deus, dimostrando
l'esistenza di Dio; ci resta da rispondere ad una seconda domanda:
quid sit Deus, cioè quale ne sia la natura.
1)
Possiamo conoscere la natura di Dio?
Direttamente no, ma indirettamente possiamo conoscere qualcosa
attraverso quelle stesse creature che ce ne hanno rivelata
l'esistenza. Contemplando un'opera d'arte, leggendo la Divina
Commedia, esaminando una complicata e ingegnosa macchina, non solo
io comprendo che ci deve essere stato qualcuno che le ha fatte, ma
anche che questo qualcuno deve essere un grande artista, un grande
poeta, un grande scienziato, conosco insomma l'esistenza della causa
e insieme quel tanto della sua natura che mi si manifesta attraverso
la sua opera. Così l'universo mi attesta non solo l'esistenza di
Dio, ma mi rivela anche le perfezioni della sua natura, almeno per
quel tanto che queste si riflettono e risplendono nel mondo. In tal
modo noi possiamo avere non un concetto proprio e perfetto della
natura di Dio, ma un concetto imperfetto ed analogo, risalendo dalle
creature al Creatore per le tre vie che ci addita S. Tommaso:
a) per la via della causalità: conosciamo che in Dio,
causa prima, ci devono essere tutte le perfezioni delle creature
(l'essere, la vita, l'intelligenza, la bontà, l'amore, la libertà,
ecc.) perché da Lui le hanno ricevute e nessuno può dare ciò che non
ha.
b)
per la via della rimozione:
sappiamo che quelle perfezioni (che, essendo nelle creature, devono
trovarsi anche in Dio) sono però in Lui senza le imperfezioni che si
trovano nelle creature; bisogna purificare queste perfezioni,
rimuovendone le imperfezioni e attribuendole a Dio nella loro
assoluta purezza; e con ciò è anche dissipata ogni accusa di
antropomorfismo.
c) per la via della eminenza: conosciamo che in Dio,
essere infinito, le perfezioni delle creature devono trovarsi non
solo senza imperfezioni, ma anche senza limiti, in modo quindi
infinitamente o eminentemente superiore. In Dio, dunque, c'è
l'essere, la vita, la bontà, ecc., ma in grado infinito e senza
alcuna imperfezione.
2)
Qual è dunque la natura di
Dio?
Dio è, innanzi tutto,
l'Essere sussistente. Tutte le cose sono, l'essere è la loro
prima perfezione, benché in esse limitata. Dio pure è, ma è l'Essere
infinito e perfettissimo; questo è l'intimo costitutivo della Sua
natura, per il quale Egli si distingue infinitamente da tutte le
cose create. Dio stesso, a Mosè, che gli domandava il Suo nome,
rispondeva dal roveto ardente: “ Io sono Colui che è”(Ex. 3,
14).
Da questa radice hanno, per così dire, origine tutte le altre Sue
perfezioni che noi conosciamo: l'infinità, la semplicità,
l'immutabilità, l'immensità, l’eternità, ecc.
3) La vita di Dio.
Dio, come ha la
perfezione dell'essere, così ha la perfezione del vivere, e come è
lo stesso Essere sussistente, così è la stessa pienezza della vita.
La vita di Dio, purissimo spirito, è quella propria di un essere
spirituale e la vita dell'essere spirituale è intendere e volere,
conoscere ed amare. Dio conosce e ama se stesso, perfettamente si
conosce e perfettamente si ama, e in questa infinita cognizione
della sua infinita verità, in questo infinito amore della Sua
infinita bontà, sta la Sua felicità, il Suo paradiso. Conoscendo e
amando se stesso, nella Sua stessa essenza, Dio conosce ed ama tutte
le cose possibili ed esistenti, presenti, passate e future, la cui
essenza è un’imperfetta partecipazione e imitazione dell'essenza
divina. Anzi, la vita divina è così perfetta che Dio, conoscendo se
stesso, genera un'Idea o Verbo sussistente nella stessa
natura divina, e amando se stesso spira un Amore pure
sussistente nella stessa divina natura; questo è l'insegnamento
della Fede nella Rivelazione del profondissimo Mistero della SS.
Trinità, nella quale il Padre genera il Figlio (il Verbo) e il Padre
e il Figlio spirano lo Spirito Santo (l'Amore), mistero che supera
la capacità della nostra mente, ma che ad essa non ripugna, anzi
sublima il nostro concetto della vita intima di Dio senza
contraddire le nostre conclusioni filosofiche.
4)
L'opera di Dio.
Essa è il frutto della conoscenza e dell'amore di Dio. Dio vede la
possibilità di creature che partecipino del Suo essere e della Sua
perfezione e, amandole, desidera dare loro questa partecipazione,
creandole con un atto libero. La creazione è appunto l'atto
con cui Dio, dal nulla, fa essere l'universo e le cose che lo
compongono e che in vario grado partecipano della Sua perfezione: i
viventi più dei minerali, gli animali più delle piante e l'uomo più
di tutti gli esseri materiali, perché dotato di un'anima spirituale
con cui naturalmente partecipa in qualche modo alla vita di Dio,
essendo capace di conoscerLo e di amarLo; molto più perfettamente
l’uomo vi partecipa per la Grazia (partecipazione alla natura
divina), misericordiosamente datagli da Dio, e per la quale diviene
capace di conoscerLo per visione intuitiva e di amarLo con amore
beatifico. In questo consiste il paradiso: nella visione di Dio
verità infinita e nell'amore di Dio bontà infinita. L'uomo e tutto
l'universo è opera di Dio, che non solo l'ha creato ma
incessantemente continua la Sua azione creatrice conservando
alle creature l'essere e le perfezioni che loro ha dato; senza il
Suo influsso ogni cosa ricadrebbe nel nulla, come un oggetto
sollevato e tenuto sospeso ricadrebbe a terra se non più sorretto.ù
Ma oltre alla creazione e alla conservazione, Dio assiste le Sue
creature aiutandole in tutte le loro azioni, poiché senza il
concorso divino sarebbe impossibile ogni loro attività, e
guidandole paternamente con la Sua Provvidenza affinché si
compiano i disegni di amore per cui esse sono state create.
3. Dio e il problema del male.
Una
delle più comuni difficoltà contro l'esistenza di Dio, e in
particolare contro la Sua Provvidenza, è l'esistenza del male nel
mondo. Come si concilia l'esistenza di Dio con l'esistenza del male?
Ecco il problema.
Vi è chi lo risolve negando semplicemente l'esistenza di Dio: ma
erroneamente, perché l'esistenza di Dio è evidentemente provata, e
la difficoltà di conciliarla con l'esistenza del male non dà il
diritto di metterla in dubbio. Vi è
anche chi ha supposto che, accanto a Dio, principio del Bene, esista
un essere maligno principio del male, indipendente da Lui e a Lui
contrario; la terra sarebbe il teatro della lotta fra questi due
primi princìpi. Ma anche questa soluzione (di non pochi antichi:
Manichei, ecc.) è allo stesso modo erronea, perché non si può dare
un essere che non dipende da Dio, il quale è necessariamente unico
principio e creatore di tutto. Altri,
allora, pur ammettendo l'esistenza di Dio, ne hanno negato la
Provvidenza, affermando che Dio non si interessa del mondo, avendo
abbandonata a se stessa l'opera delle sue mani. Soluzione erronea
anche questa, perché contraria agli attributi divini, specie al Suo
amore per le creature, amore che è l'unica ragione della creazione.
Per
altra via si deve dunque trovare la conciliazione tra l'esistenza di
Dio e il fatto del male nel mondo. Per facilitare la soluzione del
problema giova distinguere il male fisico e il male morale.
Il male fisico è dovuto all'essenza finita delle cose di cui
si compone l'universo ed al corso normale e ordinario delle leggi
della natura. Non ripugna quindi a Dio, come non ripugna il dolore
che al male fisico suole accompagnarsi; il rendere l'uomo, e in
generale l'animale, sensibile agli agenti nocivi è spesso mezzo
provvidenziale per la conservazione della vita nella natura; la
morte stessa degli individui è necessaria per dare posto alle nuove
generazioni.
La
colpa, poi, cioè il male morale, è effetto della manchevole
volontà dell'uomo: essa non è voluta da Dio, ma solo permessa,
perché Dio vuole che liberamente lo rispettiamo e lo amiamo e non
vuole fare violenza alla nostra volontà.
Ma – si
osserva – Dio non potrebbe, con la Sua Provvidenza, impedire il
male? E se lo può, perché non lo impedisce?
Sì,
parlando in termini assoluti, lo potrebbe impedire e se, nonostante
questo, lo permette, vuol dire che nella Sua infinita sapienza vede
che è meglio permetterlo. Senza volere penetrare più in là di quel
che alle nostre deboli forze è concesso (S. Paolo esclamava: “ O
altezza della scienza di Dio: Come sono imperscrutabili i Tuoi
giudizi!”: Ep. ad Rom., 11, 33), abbiamo dalla ragione, e più
ancora dalla fede, gli elementi per rispondere alla domanda.
L'immortalità dell'anima – che abbiamo già dimostrato – ci ha dato
la certezza naturale (confermata dalla fede) di una vita futura ed
eterna, alla quale la vita presente è ordinata e nella quale i
desideri del nostro cuore saranno soddisfatti, a meno che la
giustizia non esiga la pena del male da noi compiuto. Alla luce di
questa verità, per cui la vita dell'uomo si inizia nel tempo ma si
continua nell'eternità, deve essere risolto il problema del dolore,
che acquista, nella Provvidenza divina, una mirabile finalità. Il
dolore, innanzi tutto, distacca l'uomo dalle cose terrene e lo
avvicina a quelle eterne; se, nonostante le frequenti infelicità
della terra, così pochi pensano all'eternità, quanti sarebbero
quelli che si ricorderebbero del loro ultimo fine, se nella vita non
vi fossero che gioie? Inoltre, il dolore fa sì che l’uomo possa
espiare: chi, nella vita, non ha mai trasgredito la legge del
Signore? L'infinita misericordia di Dio è sempre disposta a
perdonare, ma la Sua giustizia esige una riparazione, un compenso
per l'ordine morale rovesciato, e il dolore ristabilisce quest'ordine
purificando l'anima che si è ribellata a Dio. Infine il dolore
santifica, perché attraverso la prova del dolore l'uomo si
merita quella felicità eterna che Dio vuol donarci quale premio da
conquistare col sacrificio e con la lotta, sostenuti dalla pace
della coscienza e dalla gioia del cuore con cui Dio conforta il
giusto nelle pene della vita. Così la
ragione, ed assai meglio la fede, mostrano nel dolore la paterna
Provvidenza di Dio che “non turba mai la gioia dei Suoi figli se non
per prepararne loro una più certa e più grande” (Manzoni).
Bibliografia.
Si veda la bibl. della lez. XVI.
Anche Gaetani, La Provvidenza divina, Roma, Univ. Gregoriana,
1944; Zacchi, Il problema del dolore dinanzi all'intelligenza e
al cuore, Roma, Ferrari, 1930.
4. Conclusione.
Riandando con la mente al cammino fin qui percorso, possiamo fissare
il nostro sguardo su alcuni punti fondamentali per trarne qualche
conclusione.
Risolto il problema della conoscenza, affermata e mostrata la nostra
capacità di conoscere la verità, cioè la realtà come veramente è,
abbiamo studiato l'universo materiale nel quale viviamo, i viventi
nelle varie loro specie, in particolare l'uomo, e siamo poi saliti
fino a Dio, dimostrandone l'esistenza e indagandone un poco la
natura. L'uomo, composto di anima spirituale e di corpo materiale,
ci è apparso l'anello di congiunzione fra il mondo della materia e
il mondo dello spirito, re del creato ma insieme creatura di Dio.
Per sua stessa natura l'uomo ha quindi delle relazioni col mondo
materiale e con Dio, con se stesso e con gli altri uomini; lo studio
di queste relazioni è l'oggetto dell'altra parte della filosofia, la
filosofia morale. Fra
queste relazioni, hanno una particolare importanza le relazioni con
Dio, sua causa prima e fine ultimo, che ha creato tutto l'universo
per l'uomo e l'uomo affinché egli, attraverso il creato, a Lui
ritorni. Il complesso di queste relazioni che stringono l'uomo a Dio
costituisce la religione.
L'uomo deve perciò riconoscere la sua dipendenza da Dio, piegare il
ginocchio per adorarlo, rendendoGli l'omaggio della sua mente e del
suo cuore. Ma in quale modo? Nel modo che la retta ragione gli
insegna, sebbene Dio abbia voluto stabilirlo Egli stesso nella
pratica di una religione da Lui rivelata: religione soprannaturale o
rivelata. Esiste
questa religione rivelata? Un uomo di nome Gesù Cristo, di cui la
storia ci attesta l'esistenza e l'opera, propria non di un semplice
uomo ma di un Dio, Gesù Cristo, Uomo-Dio, ha rivelato agli uomini la
vera religione: la Religione cristiana. Questa
religione insegnata dal Cristo non si trova nella sua integrità e
purezza nelle sette protestanti o scismatiche che si dicono
cristiane, ma solo nella Chiesa cattolica, apostolica, romana, per
cui l'unica vera religione è la Religione cattolica. In
questo modo appare alla retta ragione non solo legittimo, ma anzi
doveroso l'atto della nostra fede cattolica. Dimostrare la
ragionevolezza e obbligatorietà della nostra fede è compito non più
del corso di filosofia ma del corso di Teologia fondamentale o, come
suole chiamarsi, di Apologetica.
Bibliografia.
Devivier, Corso di apologetica
cristiana, Venezia, Emiliana, 1937; Giacon, La verità
cattolica, Vol. I (La divinità del cristianesimo, la
Chiesa, i Dogmi), Como, Marzorati 2a ediz., 1943; Sitti,
Corso di teologia per i laici, Vol. I (La Rivelazione),
Roma, Studium, 1940.
Il grande problema del male e del libero arbitrio.
E coniugare il concetto del Dio
infinitamente buono ed anche infinitamente giusto.
Secondo Sant’Agostino Dio, il Bene, non è autore del male, ma né è
origine, è autore della mia anima destinata a peccare. Dio, per
conseguire un bene maggiore - la nostra libertà - non poteva non
farci capaci anche di peccare, di commettere del male.
Ciò crea aporie e problemi, ma non possiamo conoscere Dio e il suo
"progetto".Se io faccio del bene, è perché Dio ha fatto in modo che io possa
fare del bene e lo stesso, all’inverso, dicasi del male; ma non
possiamo conoscere le sue finalità.
Secondo Platone: "del male, del nostro far male, il Dio non può
essere ritenuto causa. Dio è bene, Dio è immutabile, è semplice, è
veritiero, ed è causa di tutti i beni: thèos anaìtios, Dio è
innocente". E’ ritenuto innocente dei mali del mondo, del nostro far
male e pecchiamo per nostra scelta e libertà e non siamo determinati
da Dio ad agire male; le nostre imperfezioni, le nostre miserie,
sono frutto e prodotto della nostra libertà / libero arbitrio.
Dice Agostino: "I peccati sono tuoi, i meriti sono di Dio", ossia, i
meriti attraverso i quali posso esser salvato non provengono da me,
perché dal baratro del mio peccato io non potrò usare nessun mezzo
per salvarmi, ma provengono da Dio. Siamo gli autori del male ma
non possiamo salvarci da questo male. Tutto ciò pone dei problemi,
come ad esempio il fatto che Dio ci vuole tutti salvi malgrado il
nostro libero arbitrio. Sant’Agostino e San Tommaso, affermano che
non tutti si salvano, quindi alcuni vengono salvati e altri no per
motivi a noi ignoti: "Nessun uomo si salverà se non colui che Egli
vuole si salvi", dice Agostino e ripete Tommaso.
Non si può, anche per questo, credere però alla predestinazione. (Pietro
Musilli)
|