Vi sono però, situazioni critiche anche nel nord dell’Italia: a Milano una città con milioni di persone (e nella zona periferica un’estesa area industriale ed artigianale), manca il depuratore delle acque di scarico urbane!  

Andrea Poggio, presidente di Legambiente - Lombardia, ha detto recentemente: "Il sindaco Albertini eviti di prometterci per l’ennesima volta il depuratore. Lo realizzi. Ora, su tre cantieri previsti, solo uno risulta aperto". Il capoluogo lombardo, infatti, è il fanalino di coda per quanto riguarda la depurazione delle acque, con Imperia, Trapani, Rieti e Taranto - (Il Nuovo, Milano, 22/5/2002).

Pochi anni fa, l’architetto urbanista Pier Luigi Cervellati si esprimeva nei seguenti termini, parlando dell’Italia: più si continuerà a costruire attorno ai centri delle città, più si continuerà ad allargare le periferie senza razionalità e senza criterio e peggio sarà (…), credo nel rispetto di ciò che la natura ci ha dato e che con tanta tenacia noi violiamo. Credo sia meglio curare, restaurare, consolidare piuttosto che gonfiare le periferie.

Nella città di Pisa, poiché si è espansa come molte altre città, l’inquinamento è purtroppo presente e risulta sensibile, specie in alcuni periodi, misurato costantemente dalle centraline di controllo dell’ARPAT.

Solo per le polveri sottili (Pm10), è superata di 114 giorni l’anno, in alcune zone urbane, la soglia limite stabilita dalla normativa italiana che corrisponde, come media annua, a 40 microgrammi/m3. Questa soglia limite si riduce a 10 microgrammi/m3, per il benzene, che è una sostanza cancerogena.

La normativa comunitaria, recepita dall’Italia, prevede che in un anno le medie giornaliere non superino più di 35 volte questi valori: 65 microgrammi/metro3, dal 1° gennaio 2002, 60 dal 2003, 55 dal 2004, 50 dal 2005.

Quanto alla media annua di Pm10 non potrà superare i seguenti valori: 44.8 dal 1° gennaio 2002, 43.2 dal 2003, 41.6 dal 2004, 40 dal 2005.

Qui a Pisa, dall’inizio dell’anno 2002, in piazza del Rosso ci sono stati ben 13 superamenti della media giornaliera di 65 microgrammi/m3 (poco meno di metà di quelli ammissibili nel 2002). La media complessiva è stata 60.5, piuttosto lontana dalla prescritta media annuale di 4.8 microgrammi/ m3.

La stazione di Via Conte Fazio, che misura le polveri totali (circa il 90% delle quali sono Pm10), ha superato 13 volte il valore di 65 microgrammi/m3 e ben 27 volte ha sorpassato la soglia di 50 microgrammi/m3.

Per quanto riguarda l’origine delle polveri Pm10, è dimostrato che le principali cause sono imputabili al sollevamento della polvere causato dal traffico, il consumo dei freni, della frizione e dei pneumatici. Influiscono però, in modo notevole, le emissioni dei motori diesel (un’auto a gasolio produce 15 grammi di polveri Pm10 ogni cento chilometri, un furgone 36, un’auto a benzina 0,1 grammi), nonché quelle dei motorini a due tempi.

La moderna tecnologia "common rail" usata in alcuni motori diesel, per le particolari soluzioni meccaniche adottate e l'utilizzo di una centralina elettronica, migliora la combustione e quindi riduce, oltre al consumo, le emissioni inquinanti.

Occorre precisare che, se la normativa italiana prevede un obiettivo per la qualità dell’aria di 40 microgrammi/m3, come media annuale delle medie orarie, misurate dalle centraline dell’ARPAT, la Direttiva Comunitaria UE 1999/30 prevede il rispetto di un valore limite della media annuale dei PM10, pari a 40 microgrammi/m3, per il 2005, ed il limite di appena 20 microgrammi/m3, per il 2010.

Nell’inverno scorso, per avere un riferimento, la città di Milano ha avuto dei livelli d’inquinamento elevatissimi e per numerosi giorni. Solo per le polveri sottili PM10 sono stati raggiunti livelli di ben 398 mg/m3. In alcuni periodi è stata superata perfino la soglia dei 400 mg/m3. Un valore micidiale.

Considerando infine, che non sarà possibile superare in un anno più di 35 volte il valore di 50 microgrammi/m3 della media giornaliera di PM10, si può prevedere che la stessa città di Pisa, sarà fuorilegge già dal 2003.

Vi sono ampie zone urbane soprattutto nelle grandi città, in cui i valori limite, stabiliti dalle leggi, sono stati superati e continuativamente per molti giorni, già da vari anni, ripercotendosi in modo grave sulla salute dei cittadini.

Tutto questo senza che i relativi sindaci, garanti della salute degli stessi cittadini, abbiano preso tempestivamente dei provvedimenti adeguati per limitare l’inquinamento, dovuto soprattutto al traffico congestionato.

Questo è accaduto anche recentemente in varie città che presentavano un forte inquinamento, tanto da far intervenire il ministro dell’Ambiente, con un pubblico richiamo a coloro che sono preposti a far rispettare la legge.

Dal giornale "La Nazione" del 23 marzo 2001, riporto il seguente articolo. Il ministro dell’Ambiente deciso a far rispettare le leggi anti-inquinamento: «Se le amministrazioni non si adegueranno ci saranno diffide e poteri sostitutivi». «Ci sono limiti fissati dalla legge sia per il benzene sia per le polveri sottili - ha detto Bordon -, se le amministrazioni delle città non li fanno rispettare farò partire prima le diffide dopo di che ci saranno i poteri sostitutivi. Non possiamo continuare a vivere in città in cui la legge non viene rispettata».

Bordon ha ricordato che è previsto che di fronte a sforamenti dei limiti il sindaco debba provvedere, altrimenti -ha aggiunto- «qualcuno glielo deve ricordare». «Ogni sindaco - ha precisato Bordon - potrà decidere come intervenire per rientrare nei limiti: si potrebbero prevedere le targhe alterne oppure il blocco, ma non si può fare finta di niente: ci sono migliaia di morti ogni anno a causa dello smog».

Naturalmente, ha proseguito il ministro, «c’è bisogno di un nuovo attento monitoraggio del benzene e del Pm10 nelle città, in tempi molto rapidi e se gli sforamenti saranno confermati, credo che gli amministratori comunali siano sensibili al problema e riescano a mettere in campo misure adeguate per rientrare nei limiti». «Abbiamo preso provvedimenti drastici contro l’elettrosmog - ha concluso Bordon - tanto più dovremo prenderli nei confronti dell’inquinamento atmosferico, la cui dannosità per la salute dell’uomo è molto più certa e confermata da anni di ricerche».

***

Prendere certi provvedimenti, come la chiusura al traffico motorizzato, di varie strade cittadine è tuttavia antipopolare, le persone si sentono limitate nei loro spostamenti. L’economia inoltre, ha effetti negativi e vi è da parte di molti politici una sensibilità accentuata su questi aspetti. Probabilmente sono queste le cause che nel passato hanno portato a sottovalutare l’inquinamento notevole presente in molte città.

In ogni modo, i sindaci dovranno applicare sempre più rigorosamente sul proprio territorio comunale le nuove e più restrittive leggi antinquinamento, come si è visto lo scorso inverno.

Volendo ottenere dei risultati veramente efficaci, riguardo all’abbattimento delle emissioni inquinanti, occorrono misure da attuare prontamente, con un controllo attento sul territorio.

Purtroppo molte persone sottovalutano, oppure non conoscono, i danni prodotti dall’inquinamento atmosferico.

Abituati oramai da anni ad uno stile di vita, dove l’uso dell’automobile è posto alla base della propria mobilità, ne fanno un impiego continuo, minimizzando in molti casi, l’impatto ambientale prodotto da questo loro diffuso utilizzo. Occorre invece da parte di tutti noi, una maggiore informazione ed una salda coscienza civile.

Per sensibilizzare le persone, diffondendo le informazioni relative a queste tematiche, dovrebbe essere obbligatoria l’educazione ambientale nelle scuole elementari e superiori. In questo modo le generazioni future sarebbero educate a comportamenti adeguati, nei confronti della tutela dell’ambiente.

Lo sviluppo dell’economia, deve essere visto nel rispetto dell’ambiente in cui noi viviamo, senza mettere a rischio la salute delle persone. Da notare, che qui sono maggiormente a rischio, soprattutto le persone anziane ed i bambini.

Occorre la consapevolezza che operando com’è stato fatto nel passato, non è possibile attuare lo sviluppo delle città, nell’ottica della tutela ambientale.

Le previsioni dell’OMS (organizzazione mondiale della sanità) sono preoccupanti, per il prossimo futuro. Lo smog continua a mietere vittime. Nel 2020, la bronchite cronica sarà la terza causa di morte al mondo. Siamo a rischio tutti quanti, poiché in città veniamo esposti all’inquinamento ed in particolar modo i fumatori.

L’unica soluzione, secondo gli esperti, rimane il contenimento, degli agenti inquinanti e una riconversione del modo di circolare. Un futuro sviluppato su veicoli azionati da altri tipi di motori.

Sono anni che a livello mondiale si compiono studi medici sugli effetti dell’inquinamento. Studi che permettono analisi sempre più approfondite, non più solo chimico-fisiche come in passato, ma anche sanitarie. Le ricerche messe in atto, registrano in generale una diversa qualità della vita tra chi vive nel centro urbano e coloro che abitano in zone rurali, dove di sicuro non si trova l’inquinamento da traffico.

Per ogni incremento di 10 microgrammi di particelle per metro cubo d’aria, in pratica le polveri di gas di scarico prodotte dalle auto (PM10), i ricercatori possono misurare gli effetti in termini di una percentuale di mortalità cardio-respiratoria.

In pratica gli studiosi affermano che c’è una crescita proporzionale di mortalità, con ricoveri ospedalieri, malattie respiratorie e cardiovascolari, asma, allergie.

In particolare la bronchite cronica e l’enfisema polmonare,  nel 2020 secondo l’OMS saranno così diffusi da diventare la terza causa di mortalità al mondo, anche in soggetti non fumatori.

Secondo i medici ricercatori, le categorie più soggette a queste patologie sono i bambini fino a 14 anni e gli anziani sopra i 65 d’età ed infine, anche chi soffre di malattie dell’apparato respiratorio.

Indagini mediche specifiche, evidenziano che è ormai allergica ben un terzo della popolazione giovane e adulta. L’aumento delle allergie è in relazione alla crescita dell’inquinamento, dapprima industriale o da riscaldamento, oggi da traffico.

Purtroppo questo è un fenomeno cui è esposto maggiormente chi abita in strade ad alto traffico o percorse da mezzi diesel, come bus e camion, o i bambini delle grandi città.

L’unico rimedio possibile rimane quello di una diminuzione del traffico inquinante e una riconversione dei mezzi di circolazione, già oggi possibile con veicoli ad emissioni ridotte, creando quindi un mercato economicamente accessibile.

Da rimarcare che i valori delle polveri PM10 a Milano, nel 2001, hanno raggiunto ben 400 microgrammi su metro cubo (mentre la soglia d’attenzione fissata in Italia è di 40), gli stessi d’alcune grandi metropoli nel mondo. Tutto questo evidenzia il danno cui si è esposti.

Per quanto riguarda le soglie di tolleranza, gli esperti medici affermano che bisogna afferrare un concetto fondamentale in epidemiologia, vale a dire, che non esiste un effetto soglia valido per tutta la popolazione. Qualunque inquinante può essere nocivo alla salute, anche con il limite minimo, soprattutto per le persone suscettibili.

L’Europa ha in ogni modo fissato il limite di 20 microgrammi/m3, da attuare già  dal  2008.

Le industrie automobilistiche s’impegnano continuamente con le loro ricerche a produrre motori sempre meno inquinanti. Le tecnologie di fabbricazione tradizionali, oggi sono evolute e più ecologiche, in vista degli standard "euroquattro" del 2005.

Un veicolo fabbricato nel 1993 (anno in cui l’Italia ha introdotto l’obbligo di utilizzare le marmitte catalitiche), inquina almeno il 500% in più rispetto ai veicoli prodotti attualmente.

Le auto provviste di marmitta non catalizzata, del nostro paese sono il 40% del totale. Sostituendo queste auto, avremmo un sicuro effetto, di miglioramento della qualità dell’aria pari ad un valore dell’ottanta percento.

Esistono soluzioni alternative alla benzina ed al gasolio,  a bassa emissione d’inquinanti, sviluppate da alcuni costruttori. Per diminuire l’inquinamento può essere utilizzato il metano, un prodotto che sul mercato si trova ad un prezzo conveniente.

La combustione del metano non produce particolato (polveri) e neppure benzene e non contiene parti di zolfo e piombo. Inoltre i costi dell’impianto sono facilmente recuperabili con il risparmio sul carburante.

L’unica difficoltà relativa all’uso del metano per auto, riguarda solo il numero esiguo dei distributori di questo carburante sul territorio nazionale. In ogni modo c’è in progetto l’ampliamento, nel giro d’alcuni anni, della distribuzione di metano per auto, nelle venti città più inquinate.

Tutta l’industria automobilistica mondiale si sta impegnando nella realizzazione dell’auto a idrogeno, sicuramente la prospettiva più interessante ma purtroppo ancora lontana dalla diffusione commerciale.

La tecnologia attuale è indirizzata all’impiego dell’idrogeno nelle "fuel cell", in altre parole quei dispositivi che fanno combinare l’idrogeno puro con l’ossigeno dell’aria. Si ottiene in questo modo l’elettricità per far funzionare il motore elettrico dell’auto, mentre il gas di scarico è costituito da vapore acqueo.

Questa tecnologia però ha ancora un vasto campo d’esplorazione, non è ancora pronta per la realizzazione su vasta scala dei motori. Probabilmente vi sarà una graduale diffusione sul mercato, d’auto con questo motore ecologico, dal 2015. Il problema potrebbe essere il costo d’acquisto e d’esercizio per le auto con questi motori. Lo stesso carburante, l’idrogeno, potrebbe avere un costo elevato che ne limiterebbe l’uso.  

L’auto elettrica ha invece, il problema delle attuali batterie, che ne limitano l’utilizzo sia in termini d’autonomia sia di costo finale (un’auto elettrica ha in genere, un costo d’acquisto piuttosto elevato).

Occorre aggiungere che già oggi molte case automobilistiche sono orientate verso queste soluzioni innovative, nel rispetto ambientale.

Oltre ai motori, anche i carburanti debbono essere migliorati, poiché le benzine verdi hanno vari problemi d’inquinamento, relativamente ai loro prodotti della combustione.

Una possibilità attuata recentemente, è quella di utilizzare per energia propulsiva l’aria compressa. Una soluzione che non produce inquinamento nelle strade (fig. 5).

(fig. 5) - Il motore ad aria compressa progettato da Guy Negre (www.eoloauto.it).

 

Rimane però il problema alla base, dovuto alla necessità di dover produrre in ogni caso questi tipi di disponibilità di fonti energetiche ad uso locomozione. Esiste quindi il rischio di inquinare altrove, per produrre l’energia necessaria a questo tipo di motori.

E’ importante approfondire gli studi, trovare soluzioni che permettono di ottenere energia pulita, per cercare di minimizzare ulteriormente le emissioni di gas serra nell’atmosfera.

Già oggi quindi, possiamo limitare l’inquinamento nelle città, utilizzando i veicoli a metano. Con questo carburante vi sono pregi di convenienza e di bassissime emissioni di gas inquinanti, essendo tecnologie già consolidate.

Occorre incentivare in maniera adeguata la creazione di una rete distributiva efficiente su scala nazionale, mentre la conversione per passare dalla benzina al metano è incentivata, ma in maniera limitata.

In definitiva per ridurre l’inquinamento, dobbiamo abituarci ad utilizzare soprattutto mezzi di trasporto ecologici, in modo da non peggiorare la difficile situazione ambientale.

Oltre agli inquinanti menzionati in precedenza, vi si trova nell’atmosfera, in quantità notevole anche l’ozono, soprattutto con le temperature elevate.

Con il caldo estivo, si diffonde a bassa quota principalmente nelle città, provocando disagi e malesseri negli anziani e nei bambini, ed in tutte quelle persone che hanno problemi respiratori. Gli asmatici, e coloro che soffrono d’allergie, si trovano in difficoltà nel muoversi in città, specie nelle ore centrali della giornata.

Tutto questo accade in molte città dell’Italia, soprattutto le più grandi, in modo analogo alle altre nazioni industrializzate. Si può prevedere quindi, che gli interventi per limitare l’inquinamento prodotto dal traffico stradale, siano sempre più numerosi nelle singole città, com’è accaduto recentemente.

Molti Comuni, in Italia, hanno adottato i blocchi generalizzati e le targhe alterne per limitare nelle città, l’inquinamento delle polveri sottili (PM10).

L’inquinamento nei centri urbani avviene generalmente con l’alta pressione, a causa del ristagno dell’aria per le numerose auto che circolano nelle strade.

Le auto catalizzate d’attuale produzione, hanno delle limitate emissioni di PM10, soprattutto se messe a confronto con quelle prodotte dai motori diesel.

Un veicolo diesel di nuova generazione emette pressappoco 15 grammi di polveri ogni cento chilometri, mentre un’auto a benzina ne produce circa 0,1 grammi ed i furgoni diesel inquinano per un valore pari ad almeno 36 grammi.

Bloccare tutto il traffico, per limitare i PM10 è quindi eccessivo. Una soluzione migliore è quella di fermare tutti i diesel durante le emergenze e come misura strutturale a medio periodo, favorire la diffusione di carburanti ecologici, quali il gasolio bianco ed il biodisel.

Un’ulteriore utile misura da estendere negli anni, consiste nell’introdurre limiti per l’accesso ai centri storici, per i veicoli che non sono a basse emissioni d’inquinanti.

Le zone pedonalizzate, aperte solo ai pedoni, alle biciclette ed ai mezzi pubblici elettrici, dovrebbero essere allargate.

L’inquinamento atmosferico è una minaccia per tutti noi e purtroppo, è diffuso a livello mondiale, con un incremento continuo negli anni che genera problemi di difficile soluzione, soprattutto per la presenza dei gas serra.

Auguriamoci che si prenda sempre più coscienza di questo problema e che tutti s’impegnino efficacemente ad attenuarne gli effetti, altrimenti la situazione, potrebbe peggiorare in modo irreversibile.

E’ indubbio che occorre uno sviluppo sostenibile con l’ambiente, per garantire una qualità della vita accettabile alle generazioni future.

Da "Progettiamo il futuro" (una pubblicazione Legambiente - Wolkswagen) riferisco la seguente nota: il concetto di sviluppo sostenibile sintetizza un problema di notevole complessità, in altre parole, come rendere compatibili le esigenze dell’economia con le ragioni dell’ambiente, a livello dell’intero pianeta.

Le riflessioni intorno a questo nodo sono scaturite dalla consapevolezza, emersa nel corso degli anni Settanta di una "sostanziale contraddizione tra la crescita continua del prodotto lordo materiale dei diversi paesi e la limitatezza delle risorse, nonché della capacità dell’ambiente di assorbire i rifiuti e le emissioni inquinanti" (Presso M., 1995).

Il punto di partenza della presa d’atto della nuova situazione si può simbolicamente far risalire alla famosa pubblicazione a cura del Club di Roma I limiti dello sviluppo (Meadows D. 1972). Ed è sintomatico della cultura allora dominante che nella traduzione italiana del titolo il termine growth sia stato reso con sviluppo, piuttosto che con crescita, com’era nelle intenzioni degli autori. Da allora non è stato più possibile usare come sinonimi i termini crescita e sviluppo.

Con il primo ci si riferisce ormai solo ad un aumento puramente quantitativo degli indicatori economici, con il secondo ci si riferisce piuttosto all’evoluzione di un organismo complesso, con attenzione alla dimensione qualitativa. Storicamente questa distinzione di significati ha coinciso con l’affermarsi di un grande problema quello della limitatezza delle risorse energetiche. Sul banco degli imputati le risorse non rinnovabili (carbone, petrolio, uranio), che in una dimensione di semplice crescita sarebbero condannate ad un più o meno rapido esaurimento.

Con la conseguenza che le generazioni future si troverebbero di fronte all’impossibilità di seguire il nostro modello di sviluppo. Da qui la necessità di incentivare da subito la ricerca e l’utilizzo di risorse rinnovabili e di tecnologie adeguate. Tale prospettiva è rinforzata dal fatto che la produzione di energia tramite risorse non rinnovabili immette nell’ambiente sostanze nocive sia all’ambiente stesso che alla salute dell’uomo.

Se poi si allarga lo sguardo a livello planetario ci si accorge facilmente che una piccola parte del mondo, i paesi industrializzati, consuma la maggior parte delle risorse del pianeta (risorse energetiche, materie prime, risorse naturali, (…). Certamente occorre partire dal fatto che non esiste un metodo o una formula che ci consenta di definire, una volta per tutte, cosa sia sostenibile e cosa non lo sia.

Lo sviluppo sostenibile rappresenta piuttosto una visione globale del concetto di sviluppo, una strategia che si articola a diversi livelli: esso, in sintesi, potrebbe essere definito come una forma di sviluppo non solo economico ma anche sociale, in cui la crescita economica avviene entro i limiti delle possibilità ecologiche degli ecosistemi e della loro capacità di soddisfare i bisogni delle generazioni future.

Infatti, tutti gli esseri umani, al di là della loro struttura sociale, politica ed economica, hanno bisogno di materiali naturali biologi per soddisfare i loro bisogni inerenti l’alimentazione, l’abitazione, l’energia, i medicinali ed in generale per raggiungere un buon livello di qualità della vita. Poiché lo sviluppo economico dipende dallo stock di risorse naturali della terra, mantenerne la riproducibilità rappresenta la chiave per la sostenibilità.

Tale riproducibilità viene mantenuta solo da un uso razionale delle risorse che tenga conto dei meccanismi di funzionamento degli ecosistemi e in generale delle capacità di carico ambientali (in senso ampio).

In sede internazionale la prima sistematizzazione della materia risale al rapporto redatto dall’UNEP nel 1987, conosciuto come "Rapporto Brundtland" dal nome della sua coordinatrice (pubblicato in Italia con il titolo: "Il futuro di noi tutti") dove si afferma che per sviluppo sostenibile dobbiamo intendere quello sviluppo capace di "assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni (…).

Il concetto di sviluppo sostenibile implica dei limiti, non limiti assoluti ma quelli imposti dal presente stato dell’organizzazione tecnologica e sociale nell’uso delle risorse ambientali e dalla capacità della biosfera di assorbire gli effetti delle attività umane.

Tale concetto presuppone la conservazione dell’equilibrio generale e del valore del patrimonio naturale, la ridefinizione dei criteri e strumenti di analisi costi/benefici nel breve, medio e lungo periodo in modo da rispecchiare le conseguenze ed il valore socio-economico reale dei consumi e della conservazione del patrimonio naturale, ed una distribuzione ed uso equi delle risorse tra tutti i paesi e le regioni del mondo.

A tale proposito la relazione Brundtland rileva che i paesi sviluppati, che rappresentano solo il 26% della popolazione del pianeta, sono responsabili dell’80% del totale dei consumi energetici, di acciaio, di altri metalli e di carta e di circa il 40% dei consumi alimentari. Successivamente le definizioni di sviluppo sostenibile si sono venute moltiplicando, già nel 1991 se ne registravano 25.

L’inquinamento prodotto dalla civiltà attuale, dalle industrie e dagli autoveicoli e motoveicoli, genera ulteriori danni tra i quali la diminuzione delle aree boscose, provocata dalle piogge acide.

La diminuzione delle foreste, che sono le maggiori produttrici d’ossigeno è inoltre provocata dagli incendi, dal taglio effettuato dagli uomini per ottenere il legname, e per realizzare nuove aree agricole.

Oltre a queste cause vi sono anche quelle sciagurate, relative all’opera dei vari piromani.

 

 

Incendi nei boschi (La Nazione)

 

I giganteschi incendi che hanno colpito recentemente (alla fine del dicembre 2001), il sud dell’Australia, circondando Sydney e Camberra, nello Stato del Nuovo Galles, hanno impegnato 5.000 pompieri nella lotta contro un centinaio d’estesi focolai sparsi nella boscaglia.

Con il trascorrere dei giorni, il loro numero è salito fino a 15.000 tra pompieri e volontari, accorsi da tutta l’Australia ed anche dalla Nuova Zelanda.

Tutti quanti hanno cercato senza l’effetto sperato, di spegnere i cento grandi incendi con un fronte di 2000 Km, aventi un’estensione di 400.000 ettari di territorio.

Questi incendi, appiccati da piromani, con il vento che soffiava a 100 Km/h, hanno provocato sopra un’area vastissima, terrificanti tempeste di fuoco con fiamme alte fino a 60 metri.

Sono state ben 150 le abitazioni distrutte nella periferia di Sydney, rimasta per giorni, avvolta da una fitta cappa di fumo, che ha reso l’aria irrespirabile.

Nel parco nazionale delle Blue Mountains, e lungo il fiume Hawkesbury, a causa degli incendi, vi sono stati danni enormi, per la flora e per la fauna.

Nelle aree più colpite, gli uccelli a causa dell’inalazione di fumo e della spossatezza, sono caduti letteralmente dal cielo.

I pochi animali sopravvissuti hanno dovuto combattere anche dopo la fine dell’emergenza, perché il fuoco ha distrutto molte delle loro fonti di cibo.

Incendi di vaste proporzioni, erano avvenuti in questa zona dell’Australia negli anni scorsi, nel 1994. Cinque persone persero la vita e gli incendi bruciarono 185 abitazioni intorno alla capitale.

Le distruzioni dell’ambiente naturale accadono soprattutto in vaste aree tropicali ed equatoriali, e sono tra le cause che portano ad una modificazione del clima, innalzando lentamente la temperatura media dell’aria dell’intero pianeta.

Un esempio molto evidente di queste distruzioni, lo possiamo vedere nell’America meridionale.

Tra vent’anni l’Amazzonia sarà definitivamente distrutta, lo afferma il maggiore studio indipendente condotto finora sul tema.

Questo studio è stato promosso dall’Istituto brasiliano di Ricerche Amazzoniche (INPA) insieme con alcuni istituti di ricerche ambientali internazionali.

Entro il 2020, con gli attuali ritmi di sviluppo e di disboscamento, in Amazzonia resterà appena il cinque per cento della vegetazione originaria ed il 42% del bacino amazzonico sarà completamente disboscato.

Il programma "Avanza Brasile", lanciato di recente dal governo di Brasilia, potrebbe incentivare l’insediamento nell’area oggi selvaggia e conseguentemente portare alla distruzione della foresta amazzonica, peggiorando quindi le previsioni di questa ricerca.

Lo studio è stato pubblicato nel febbraio 2001 sulla prestigiosa rivista "Science".

William Laurance, ricercatore dello Smithsonian Tropical Research Institute, uno degli enti che hanno collaborato alla ricerca ha dichiarato: Se oggi si distruggono due milioni d’ettari di foresta l’anno, la distruzione potrebbe crescere in forma esponenziale con le strade asfaltate previste dai piani di sviluppo, mentre le condizioni di vita della popolazione non farebbero che peggiorare, perché l’ambiente va verso il tracollo.

Altre distruzioni di foreste nel mondo, vengono fatte in Indonesia per acquisire territori da utilizzare per la coltivazione di riso, in Oceania per acquisire ulteriori territori per le varie colture agricole ed infine, in Africa centrale, segando gli alberi presenti in vaste aree della foresta equatoriale. I pregiati tronchi sono molto richiesti dal commercio (però quanti danni all’ambiente naturale, fatti nel nome dello sviluppo!).

La Commissione intergovernativa sui cambiamenti climatici (I.P.C.C.), prevede secondo studi accurati, una crescita delle temperature medie dell’aria atmosferica, compresa tra 1,5 e 4,5 gradi centigradi alla fine di questo secolo.

In seguito ad ulteriori approfondimenti, nel terzo rapporto, tale aumento di temperatura è stato valutato compreso tra 1,4 ed i 5,8 gradi centigradi.

Un successivo nuovo studio sui mutamenti climatici redatto da U.S. National Center for Atmospheric Research Unit dell’Università dell’East Anglia, in Gran Bretagna, pubblicato il 20 luglio 2001, sul periodico scientifico "Science", compie lo sforzo di limitare l’incertezza sul futuro climatico della Terra, affermando che al 90% la temperatura sul Pianeta aumenterà, entro il 2100, tra 1,7 e 4,9 gradi centigradi.

Accanto all’articolo che illustra lo studio vi è un editoriale del prof. John Reilly, un’autorità della ricerca sul clima, che critica gli scienziati dell’Onu perché non hanno dato, sostiene: una rappresentazione chiara dell’incertezza. Mancando quest’informazione, la discussione politica rischia di degenerare.

Vi è il rischio elevato, di accentuare lo scioglimento delle calotte polari.

Dalle previsioni elaborate da questa Commissione internazionale (I.P.C.C.), alla fine del secolo potrebbe esserci un innalzamento delle acque oceaniche, quindi del nostro mare, compreso tra i 15 e i 95 centimetri.

Paesi come l’Olanda, potrebbero avere dei notevoli problemi e non solo, dato che la metà della popolazione nel mondo vive su regioni costiere.

L’abbandono da parte della popolazione di questi territori costieri, inondati lentamente dal mare, provocherà delle continue ondate d’immigrazioni in tutto il resto del mondo abitato. Esodi biblici con fenomeni d’immigrazione che saranno molto più numerosi, rispetto a quelli attuali.

E’ facile immaginare che i vari problemi originati saranno di difficile soluzione e metteranno a dura prova la stessa società civile.

Da evidenziare che quasi i 3/5 della superficie del globo terrestre, circa il 70%, è ricoperta dall’acqua degli oceani e dei mari, con la popolazione mondiale concentrata sulle coste.

Il lento innalzamento dei mari è un fatto certo, che avviene lentamente da secoli, accertato anche qui in Toscana.

Esistono sulla scogliera livornese alcune antiche cave di pietra, attive nel Medioevo, utilizzate dai Pisani, della Repubblica Marinara.

In particolare, in questa zona, era cavata la cosiddetta "panchina livornese", una pietra (tufo) di facile lavorabilità, utilizzata in quel periodo storico, per l’edificazione delle chiese e dei palazzi cittadini oltre che delle Mura urbane, prossime al Duomo.

Molte di queste antiche cave di pietra, si trovano attualmente sommerse dal mare.

Sono presenti inoltre, sempre in quella zona, ed anche all’Argentario, delle grotte marine sommerse che presentano delle stalattiti, segno evidente che anticamente erano asciutte, il mare si trovava quindi ad un livello più basso.

Con l’accentuazione della tropicalizzazione del clima, se le calotte polari dovessero sciogliersi completamente, si avrebbe un innalzamento del livello dei mari, secondo molti studiosi, pari a varie decine di metri (alcuni stimano addirittura 60 mt.), rispetto al livello attuale.

Il Mediterraneo, essendo pressoché un mare chiuso, ha una temperatura lievemente più elevata rispetto agli oceani (di circa quattro gradi centigradi, riferito a parità di latitudine all’Atlantico), questo significa che le masse d’aria fredda, che dall’oceano entrano nel Mediterraneo, subiscono un sensibile riscaldamento che le trasforma in vasti ammassi nuvolosi.

Le montagne che si trovano vicino al litorale, come le Apuane sono generalmente fredde, a causa della loro altezza, ed una temperatura più bassa favorisce la condensazione dell’aria umida proveniente dal mare, con ulteriore probabilità di piogge intense.

Va aggiunto, che la temperatura più elevata del Mediterraneo favorisce l’evaporazione dell’acqua. Potrebbe esserci quindi, per questa causa, una lieve riduzione dei precedenti valori relativi all’innalzamento del livello del mare.

L’Italia, essendo una penisola, ha un clima sostanzialmente mitigato che risente maggiormente dell’influenza del mare. Questo fatto influenzerà l’innalzamento delle temperature estive, con possibilità d’avere eventi meteorologici estremi, con temporali di forte intensità sul territorio.

Il clima, nel mondo, è tenuto sotto osservazione dal "World Meteorological Organization", (WMO).

Già nell’ultimo secolo, la temperatura dell’aria atmosferica del pianeta è aumentata di circa mezzo grado centigrado, che sembra un valore esiguo ma questo nel tempo ha prodotto le temperature più alte avute negli ultimi dieci anni, con la riduzione del 10% delle zone montuose innevate in primavera ed in estate.

Rispetto all’epoca preindustriale, in altre parole all’inizio del XIX secolo, l’anidride carbonica nell’aria è aumentata di oltre il 25%, producendo l’effetto serra.

Da un’indagine effettuata dalla Campagna Clima di Greenpeace, nel 1999, risulta che i cinque anni più caldi, da quando i dati sono stati registrati, fin dalla metà del 1900, si sono verificati tutti negli anni Novanta e 10 degli 11 anni più caldi si sono avuti dal 1980. Il 1995 è stato l’anno più caldo mai registrato. Le notti diventano più calde del 50% in modo più veloce rispetto alle prime ore diurne.

I venti aumentano generalmente la loro intensità durante le perturbazioni atmosferiche. Il vento è prodotto dalla differenza di pressione tra due zone od aree di vasta estensione. E’ generato dall’aria che si sposta da una zona d’alta pressione, detta area anticiclonica, a quella di bassa pressione od area ciclonica.

La differenza di pressione atmosferica è evidenziata con delle linee immaginarie rappresentanti le isobare. La linea unisce tutte le zone che hanno uguale pressione.

Quando queste linee si presentano ravvicinate, la differenza di pressione è più marcata. In questo caso il vento assume dei valori di forte intensità.

La forza del vento dipende dalla differenza di pressione presente tra due aree, quando questa è sensibile il vento si rafforza, assume un’intensità superiore, mentre la lontananza delle aree a differente pressione influisce sul valore della forza del vento.

Il libeccio arriva da sud-ovest ed è il vento sulla costa pisana, che può raggiungere l’intensità più elevata tra tutti gli altri. Il vento di ponente soffia da ovest, mentre il maestrale giunge da nord-ovest e può giungere sulla costa, con una forte intensità.

In genere il bel tempo caratterizza le aree dove è presente l’alta pressione, perché si forma uno scudo protettivo che ripara dalle perturbazioni, mentre il tempo si presenta variabile nelle zone di bassa pressione.

La tropicalizzazione dell’atmosfera legata all’effetto serra, prodotta dal diffuso inquinamento su scala mondiale, porta a dei comportamenti climatici particolari, repentini. In altre parole, alla modifica d’eventi meteorologici orientati verso un’intensità crescente.

In definitiva permanendo questo stato, le piogge saranno rade ma molto intense com’entità, con temporali di forte intensità ed anche i venti aumenteranno la loro forza, nei mesi dove avvengono usualmente tali perturbazioni climatiche.

Forti venti che in mare, mettono a rischio la navigazione ed anche la costa, con il litorale sabbioso, che è eroso dalle onde marine.

Già oggi accade, seppur non frequentemente, che: onde giganti colpiscono sempre più le coste dell’Oceano Atlantico, minacciando le attività marittime e tempeste marine persistenti e violente si accaniscono contro le regioni dell’Europa settentrionale.

Per l’intensificarsi di questi fenomeni alcune recenti ricerche puntano il dito contro il riscaldamento globale, responsabile di avere aumentato l’altezza delle onde marine di circa un metro, negli ultimi trenta anni.

Gli scienziati dell’università di Brema (Germania), che hanno presentato il loro studio sulla rivista "Nature", hanno valutato i dati sulla durata dei periodi di mare tempestoso dal 1954, anno in cui si sono cominciate a fare misurazioni precise dell’altezza delle onde, ai nostri giorni.

I risultati dell’analisi mostrano che, mentre tra il 1954 e la fine degli anni ‘70, si contavano in media sette giorni di mare di tempesta al mese, tra gli anni ‘80 il numero è raddoppiato fino a salire a 14 giorni. Una frequenza che persiste ancora oggi. Secondo i ricercatori tedeschi, non ci sono dubbi: la responsabilità è da attribuirsi ai gas serra, che determinano l’intensificazione dei fenomeni meteorologici estremi.

Come spiega il ricercatore Ingo Grevemeyer, dell’Università di Brema, l’aumento negli ultimi venti anni, dell’altezza delle onde e al tempo stesso delle temperature, suggerisce una correlazione. Altri scienziati come quelli del Centro Oceanografico di Southampton, per spiegare le onde-super preferiscono chiamare in causa, il fenomeno naturale dell’oscillazione Nord Atlantica - (Il Tirreno, 23 novembre 2000).

Queste onde gigantesche che si formano con il forte vento, mettono a rischio la navigazione marittima e nel caso di petroliere, il loro naufragio provoca estesi ulteriori danni all’ecosistema marino.

Alla fine del settembre 2000, la nave britannica da crociera "Oriana" del gruppo P&O, con 1525 passeggeri e 800 persone d’equipaggio, è stata colpita da un’onda anomala alta 15 metri, nella sua prima traversata dell’Oceano Atlantico settentrionale, a circa 1.000 Km. dalle coste irlandesi.

La nave proveniva da New York e stava dirigendosi a Southampton, nell’Inghilterra meridionale. L’impatto è stato così violento che ha scosso questa nave da sessantamila tonnellate, un vero gigante degli oceani. La massa d’acqua ha rotto i vetri rinforzati degli oblò, allagando sei cabine. I vetri infranti hanno ferito alcuni passeggeri.

La tempesta che ha generato questo nuovo fenomeno è sicuramente ascrivibile alla modifica del clima. Tempeste più cariche d’energia, quindi più violente, che si avvicinano a quelle che si scatenano nelle atmosfere tropicali, dove i venti raggiungono frequentemente i 120 Km/h ed oltre (i tornado, generano venti fino a 400 - 500 Km/h).

La forza del vento aumenta in modo proporzionale al quadrato della sua velocità. Il vento a 500 Km/h è quindi cento, e non solo dieci volte, più intenso di quello che soffia a 50 Km/h.

Gli eventi meteorologici intensi, qui in Italia, aventi caratteristiche di tornado, seppure d’intensità limitata, sono stati ben sei. Questa ricerca è stata pubblicata recentemente dal mensile scientifico Quark (il n° 7, del luglio 2001, editore Rusconi, con il titolo "Tornado, ora sono qui").

Questi eventi, sono accaduti casualmente in tutta l’Italia. In Salento (Puglia), Marina di Ragusa, Scoglitti (Sicilia), Fagagna (Friuli), Riva del Garda e Monte Altissimo (Trentino), Lido di Camaiore e Viareggio.

Infine, il più forte, ha colpito in Lombardia, la Brianza, il 7 luglio 2001, con danni notevoli (500 miliardi di lire e 170 famiglie sfollate dalle proprie abitazioni), colpendo le cittadine di: Arcore, Concorezzo ed Usmate.

I tornado (chiamati twister, negli Stati Uniti), hanno una durata limitata nel tempo, ma scatenano una violenza inaudita, misurata da un’apposita scala (Fujita), in modo analogo a come si misurano i terremoti (con la scala Mercalli o quella Rickter).

La scala Fujita (dal nome del prof. Theodore Fujita, dell’Università di Chicago), ha sei gradi d’intensità, da Forza 0 (F0), a Forza 5 (F5), dove il vento può raggiungere un valore di 500 Km/h (clicca per leggere la nota).

Il tornado che ha colpito la Brianza, nel luglio 2001, ha avuto una gravità compresa tra F3 e F4 della scala Fujita, con una durata di 30 minuti.

La modifica del clima, causata dall’inquinamento diffuso dell’atmosfera, è una realtà cui tutti noi dobbiamo purtroppo abituarci. Probabilmente dovremo fare i conti negli anni futuri, con eventi meteorologici estremi che sono tipici delle estese pianure americane.

La tempesta scatenatasi su parte della Toscana il 20 ottobre 2001, nelle aree di Pisa, Livorno, Lucca e Massa Carrara, ha prodotto 20.000 fulmini (rilevati dal La.M.M.A. il Laboratorio di meteorologia e modelli ambientali della Regione Toscana) piogge torrenziali con 100 mm/mq in Alta Versilia, ed un turbine di vento che si è scaricato con molta violenza provocando danni ingenti.

Una tempesta molto forte a Pontedera e dintorni (soprattutto Santa Maria a Monte e Santa Croce), che seppur definita dai meteorologi come "tromba d’aria causata da un CB" in pratica da cumuli di nembi, ha provocato solo a Pontedera danni per 60 miliardi di lire (100 abitanti con la casa lesionata).

Inoltre, ha indotto le autorità a chiedere al governo la dichiarazione dello stato d’emergenza con la richiesta di un finanziamento "eccezionale ed urgente" per il ripristino delle opere e delle strutture colpite, nonché per il risarcimento dei danni.

Nella storia di Pontedera rimarrà come il terzo evento negativo degli ultimi sessanta anni, dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale e l’alluvione del 1966.

Secondo vari esperti europei d’alcuni istituti di ricerca, che si occupano di cambiamenti climatici, tra 80 anni, nell’Italia settentrionale, le piogge aumenteranno del 30-50%, mentre in Italia centrale il loro incremento sarà del 10-20%, diminuendo invece, drasticamente, nel meridione d’Italia, con aumento del rischio di siccità e conseguente trasformazione del territorio in deserto.

Lo scienziato Antonino Zichichi, presidente del World Lab che riunisce diecimila scienziati di tutto il mondo, intervenendo ad un recente convegno svoltosi qui a Pisa, sul tema L’ambiente alle soglie del terzo millennio, ha dichiarato schiettamente: è l’industrializzazione selvaggia, il vero nemico dell’ambiente. Chi produce inquinando, insulta la scienza e commette un crimine, ed i criminali vanno puniti.

Infine, ha precisato che: l’effetto serra ed il buco nell’ozono, sono solo due, delle 53 emergenze planetarie che dobbiamo risolvere, con l’uso appropriato dell’enorme potenziale tecnologico a nostra disposizione.

E’ indubbio che se non saranno attuate nel prossimo futuro, efficaci misure di contenimento dell’inquinamento atmosferico, il pianeta Terra subirà, da parte dell’uomo, una modifica sostanziale che potrebbe determinare perfino l’estinzione di numerose specie animali e vegetali.

Migliaia d’anni fa, i dinosauri si sono estinti, pare per la modifica del clima dovuta all’impatto di un gigantesco meteorite con la Terra. La dispersione nell’atmosfera di polveri finissime dovute a questa collisione, oscurando il sole per numerosi anni, hanno prodotto un lungo periodo di gelido inverno.

Un interessante articolo riportato da Il Tirreno, del 30/6/ 2001 (a pag. 4), con il titolo: i ghiacciai sono sempre…meno perenni, e per le città aumenta il problema approvvigionamento, evidenzia brevemente gli scenari futuri dovuti al crescente innalzamento della temperatura della Terra, a causa dei cosiddetti gas serra:

Se degli esploratori avessero fatto un’escursione al Polo Nord, l’estate scorsa, avrebbero dovuto fare le ultime poche miglia a nuoto.

La scoperta d’acqua al Polo, da parte di una nave da crociera rompighiaccio, a metà agosto, ha sorpreso molti nella comunità scientifica. Questa scoperta, insieme a due studi recenti, dimostra non solo che lo strato di ghiaccio si sta sciogliendo, ma anche che si sta sciogliendo ad un ritmo sostenuto.

Uno studio di due scienziati norvegesi prevede che entro 50 anni l’Oceano artico potrebbe ritrovarsi privo di ghiaccio durante l’estate. L’altro, uno studio di un gruppo di quattro scienziati americani riferisce che il vasto strato di ghiaccio della Groenlandia si sta sciogliendo. La previsione che l’Oceano artico rimarrà senza ghiaccio durante l’estate, non è sorprendente, poiché uno studio precedente, denunciava che lo spessore dello strato di ghiaccio si è ridotto del 42% durante gli ultimi quattro decenni.

La superficie dello strato di ghiaccio è diminuita del 6%. La diminuzione dello spessore e della superficie hanno ridotto la massa di ghiaccio dell’Oceano artico di quasi la metà. Nel frattempo, la Groenlandia, sta aumentando un po’ di ghiaccio nelle alte quote, ma ne sta perdendo molto di più ad altitudini minori, particolarmente lungo le sue coste meridionali ed orientali. L’enorme isola di 2,2 milioni di chilometri quadrati sta perdendo circa 51 miliardi di metri cubi ogni anno, una quantità uguale al flusso annuale del Nilo.

Al contrario del Polo Nord, che è coperto dal Mare Artico, il Polo Sud è coperto dal continente antartico, una superficie uguale a circa tutti gli Stati Uniti. Lo strato di ghiaccio a forma di continente, che è spesso circa 2,3 chilometri è relativamente stabile. Ma le sporgenze di ghiaccio, quella parte delle lastre di ghiaccio che si estendono nei mari circostanti, stanno sparendo rapidamente.

Un gruppo di scienziati americani ed inglesi ha riferito nel 1999, che le sporgenze di ghiaccio in entrambi i lati della Penisola antartica si stanno ritraendo. Da circa la metà del secolo, fino a tutto il 1997, queste aree hanno perso 7.000 chilometri quadrati, poiché lo strato del ghiaccio si è disintegrato. Gli scienziati attribuiscono il rapido scioglimento dei ghiacci ad un aumento della temperatura in quella regione di circa 2,5 gradi a partire dal 1940. La massa di ghiaccio e neve sta diminuendo anche nelle catene delle maggiori montagne mondiali: le Montagne Rocciose, le Ande, le Alpi e l’Himalaia.

Gli scienziati che studiano il ghiacciaio Quelccaya, nelle Ande Peruviane riferiscono che lo scioglimento del ghiaccio è passato da un ritmo di 3 metri l’anno tra il 1970 ed il 1990 ad un ritmo di 30 metri l’anno a partire dal 1990. Nelle Alpi europee, lo scioglimento dei ghiacciai è del 35 - 40% dal 1950, continuerà con la stessa percentuale. Questi antichi ghiacciai potrebbero sparire nella prossima metà del secolo. Lo scioglimento e la diminuzione delle masse di ghiaccio non dovrebbe sorprendere tanto.

Anche in Europa il ghiacciaio Rhone a Gletsch, in Svizzera, era nel 1849, fra i ghiacciai più estesi e spettacolari delle Alpi, oggi è pressoché scomparso. Lo scienziato svedese Svende Arrhenius avvertiva, all’inizio del secolo scorso, che bruciare combustibili fossili avrebbe potuto aumentare il livello atmosferico di anidride carbonica (CO2), creando un effetto serra. Il livello di CO2 nell’atmosfera, stimato in 280 p.p.m.  prima della Rivoluzione industriale, è aumentato da 317 p.p.m. nel 1960, a 368 p.p.m. nel 1999, un aumento del 16 percento in soli quattro decenni. Così com’è aumentata la concentrazione di CO2 è aumentata anche la temperatura della Terra.

Tra il 1975 ed il 1999, la temperatura media è aumentata da 13,94 gradi a 14,35 gradi, un aumento di 0,41 gradi in 24 anni. I 23 anni più caldi, da quando si è cominciato, nel 1866, a misurare la temperatura, si sono verificati tutti a partire al 1975. I ricercatori hanno scoperto che un aumento modesto della temperatura di soli 1 o 2 gradi in regioni montagnose possono aumentare drammaticamente le precipitazioni piovose, mentre possono diminuire quelle nevose. Il risultato è che avremo maggiori alluvioni durante la stagione delle piogge, con diminuzione delle masse di ghiaccio, e minore neve che si scioglie.

I ghiacciai stanno lentamente diminuendo la loro estensione ed alcuni potrebbero sparire completamente. Questo danneggerà il rifornimento d’acqua delle città e l’irrigazione d’aree dove i fiumi ricevono le acque nevose. Il ghiaccio della Terra si scioglie innalzando il livello del mare. Nell’ultimo secolo il livello è salito di 20-30 centimetri. Durante questo secolo le previsioni sul clima fanno pensare che tale livello potrebbe aumentare di 1 metro. Se le lastre di ghiaccio, che in alcuni punti sono spesse 3,2 chilometri, dovessero sciogliersi interamente, il livello del mare salirebbe di 7 metri (23 piedi). Solo un aumento più modesto inciderebbe sulle pianure dell’Asia dove si produce il riso.

Secondo uno studio della Banca Mondiale, un aumento di un metro di livello del mare danneggerebbe la metà delle risiere del Bangladesh. Numerosi paesi depressi dovrebbero essere evacuati. I residenti delle vallate dell’Asia attraversate da fiumi e densamente popolate sarebbero sospinti all’interno verso regioni già affollate. L’aumento del livello del mare creerebbe milioni di rifugiati in paesi come la Cina, l’India, il Bangladesh, l’Indonesia, il Vietnam e le Filippine. Ancora peggio, lo sciogliersi del ghiaccio può accelerare l’aumento della temperatura.

Poiché il ghiaccio e la neve si sciolgono, la luce del sole si riflette di meno nello spazio. Con più luce del sole assorbita da superfici che riflettono meno, la temperatura aumenta anche più velocemente e lo scioglimento del ghiaccio aumenta. Ma non dobbiamo rimanere passivi mentre si svolge questo scenario. Secondo molti studiosi c’è ancora tempo per stabilizzare i livelli di CO2 prima che le emissioni di carbonio causino cambiamenti climatici in una spirale senza controllo.

Abbiamo vento, energia solare e geotermica più che a sufficienza che possiamo sfruttare economicamente per potenziare l’economia mondiale. Le maggiori case automobilistiche, per esempio, stanno lavorando su motori con celle a combustibile. La Daimler Chrysler ha in programma di iniziare a mettere sul mercato macchine di questo tipo nel 2003. Il combustibile scelto per questi motori è l’idrogeno. Persino leader dell’industria petrolifera riconoscono che alla fine passeremo da un economia basata sull’energia del carbonio ad una basata sull’idrogeno.

Il problema è se riusciremo a fare questo passaggio prima che il clima della Terra sia stato alterato definitivamente.

La composizione dell’aria secca, come percentuale in volume, espressa in modo riassuntivo ed approssimato, è la seguente (vedi P. Corradini “Chimica Generale, a pag. 559):

Azoto

78,084

Ossigeno

20,946

Anidride carbonica

0,033

Gas rari (in prevalenza, Argo)

0,937

Da evidenziare che, nonostante la bassa percentuale del valore dell’anidride carbonica nell’aria rispetto agli altri elementi gassosi costituenti l’atmosfera, questo gas, per le sue caratteristiche chimiche e fisiche, influenza notevolmente il clima.

E’ sufficiente una sua leggera variazione, per produrre forti cambiamenti delle condizioni meteorologiche. Il suo lento ma costante aumento nell’aria determina quindi, per l'effetto serra, sensibili cambiamenti climatici.

Questo gas è prodotto con facilità tramite qualunque combustione contenente carbonio ed ha lo svantaggio, non indifferente, di essere difficilmente dissolto nel tempo.

Uno studio sulle variazioni climatiche pubblicato sulla rivista ufficiale della National Geographic Society, nel maggio 1998, evidenzia che l’anidride carbonica resta nell’atmosfera per più di cento anni, mentre il vapore acqueo vi rimane appena otto giorni ed il metano vi permane per dieci anni.

Ogni anno le attività umane rilasciano nell’atmosfera 6,3 miliardi di tonnellate di carbonio, che vanno ad aggiungersi ai 750 miliardi di tonnellate già presenti nell’aria, ma solo la metà circa delle emissioni (tre miliardi di tonnellate) vi rimane. Il rimanente è utilizzato dalle piante, comprese le alghe, o finisce sepolto nei sedimenti oceanici, disciolto nell’acqua del mare, oppure tolto dalla circolazione in altro modo.

Sembra che gli oceani eliminino dall’atmosfera almeno due miliardi di tonnellate ogni anno. Un valore notevole ma insufficiente data la crescente produzione mondiale di questo prodotto della combustione, oltre ai numerosi altri gas inquinanti.

Occorre aggiungere che l’atmosfera si estende in elevazione per un’altezza limitata, solo pochi chilometri, rispetto alla vasta dimensione della Terra, in altre parole è piuttosto circoscritta. Paragonando la Terra con una mela, l’atmosfera avrebbe le sottili dimensioni della sua buccia.

Si comprende bene quindi, che di questo passo, con l’inquinamento accentuato dell’aria, si rischia seriamente di produrre un danno irreparabile. E’ quindi molto importante ridurre le emissioni di questi gas serra, alquanto dannosi per l’ambiente.

Per limitare la produzione di questi gas, la maggior parte delle nazioni, 167 Paesi, tra cui molti Paesi industrializzati (ad eccezione degli Stati Uniti, che tra l’altro ne generano una quantità enorme), hanno ratificato il Protocollo di Kyoto.

Il Protocollo di Kyoto è un documento redatto e approvato nel corso della Convenzione Quadro sui Cambiamenti climatici tenutasi in Giappone nel 1997. Lo scopo che si prefigge è cercare di risolvere il problema dei mutamenti climatici, considerati com’effetto dell’emissione di gas nocivi nell’atmosfera.

Nel 1970, è stata tenuta a Ginevra, la prima conferenza sul clima, organizzata dalla World Meteorological Organization (WMO). Fu redatto il Programma Mondiale per il Clima, con lo scopo di studiare i cambiamenti climatici indotti dall’uomo.

Nel 1990, il gruppo intergovernativo sui Cambiamenti Climatici: l’IPCC (Intergovernamental Panel on Climate Change), pubblica il primo Rapporto sul Clima. Questo rapporto accerta che l’effetto serra costituisce una minaccia alla stabilità climatica del pianeta.

Nel 1992, a New York è stata redatta la cosiddetta: "Convenzione quadro sui cambiamenti climatici". Per risolvere questo grave problema viene stabilito che occorre ridurre il consumo delle risorse naturali ed energetiche al fine di minimizzare l’emissione dei gas ritenuti dannosi per l’ambiente.

Le nazioni firmatarie della Convenzione di New York si sono incontrate per ben cinque volte prima del vertice dell’Aja, al fine di elaborare un protocollo che mettesse in pratica, quanto stabilito dalla Convenzione precedente.

Questa Convenzione stabilisce che i Paesi firmatari non devono aumentare le emissioni di gas serra nell'atmosfera oltre un certo livello. La Convenzione è firmata da 154 Paesi, ed è operativa dal 1994. Recepita in Italia, con la legge del 15 gennaio 1994, n. 65, G.U. del 29/1/1994, n. 23.

Sancisce una serie di obblighi differenziati in funzione del grado di industrializzazione dei Paesi contraenti. La Convenzione ha istituito la Conferenza delle Parti (COP), che si riunisce una volta l’anno.

Compito principale della Conferenza è l’esame dell’attuazione degli accordi. Ad oggi ci sono già state sette Conferenze delle Parti, la prima a Berlino nell’aprile del 1995, durante la quale si decise di iniziare la stesura di un protocollo attuativo della Convenzione.

Le Conferenze delle Parti (COP) sono state tenute rispettivamente a Berlino, nel 1995; a Ginevra nel 1996; a Kyoto, nel 1997; a Buenos Aires, nel 1998 ; a Bonn, nel 1999 ; a l’Aja, nel 2000. La Cop7 si è tenuta recentemente a Marrakech, in Marocco, nel novembre 2001.

Il Protocollo è stato adottato nel corso della terza Conferenza delle Parti a Kyoto, nel 1997, mentre a Buenos Aires (1998), a Bonn (1999) ed infine, all’Aja nel 2000, gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno cercato di concordare una base comune al fine di ratificare il Protocollo e di darvi concreta attuazione.

L’entrata in vigore del Protocollo è subordinata alla ratifica da parte di almeno 55 Paesi che rappresentano almeno il 55% del totale delle emissioni di gas serra nel 1990, dei Paesi industrializzati (ovvero di USA, UE e Giappone).

In pratica, il Protocollo di Kyoto entrerà in vigore solo nel momento in cui "sia ratificato, accettato, approvato o che vi abbiano aderito non meno di 55 Parti responsabili per almeno il 55% delle emissioni di biossido di carbonio (CO2) - emissioni quantificate in base ai dati relativi al 1990."

Ad oggi, gli USA, grandi produttori mondiali di gas serra, non hanno firmato l’accordo e conseguentemente non essendo raggiunto il 55% delle emissioni di CO2, lo stesso Protocollo perde gran parte della sua efficacia.

Attualmente sono solo una quindicina le nazioni che hanno ratificato in modo definitivo il Protocollo, approvandolo nei vari Governi nazionali e rappresentano, complessivamente, una percentuale minima delle emissioni quantificate di gas ad effetto serra.

I Paesi che lo hanno firmato, sono decisi ad assumersi degli impegni nella riduzione delle emissioni grazie soprattutto all’accoglimento del cosiddetto principio di responsabilità. Questo, sostanzialmente afferma che le nazioni che hanno maggiormente contribuito ai livelli attuali di concentrazione di gas devono essere i primi a sostenere i costi e il peso di una riduzione delle emissioni. Per questo motivo molti Paesi industrializzati sono cauti nell’adozione e nella ratifica definitiva del Protocollo.

I Paesi non sviluppati o in via di sviluppo (Cina, India, ecc.) che secondo alcune previsioni nel futuro saranno i maggiori emettitori di gas serra, non sono sottoposti a nessun tipo di vincolo e non sono obbligati a ridurre le emissioni di gas serra.

L’impegno compiuto dai Paesi che hanno intrapreso gli sforzi necessari per contenere le emissioni dei gas serra potrebbe essere quindi, completamente vanificato dal comportamento dei Paesi meno sviluppati. In altre parole, ad un sacrificio attuale d’alcuni Paesi, corrisponderebbe un miglioramento solo presunto del problema complessivo, connesso con le emissioni di gas serra.

L’obiettivo principale della Conferenza di Kyoto (1997) è stato l’aggiornamento della Convenzione sottoscritta a Rio nel 1992, gli obiettivi non erano vincolanti (e forse per questo non sono stati raggiunti). Il Protocollo di Kyoto impone una riduzione dei sei principali gas ad effetto serra: anidride carbonica (CO2), metano (CH4), protossido d’azoto (N2O), idrofluorocarburi (HFCs), perfluorocarburi (PFCs), esafluoruro di zolfo (SF6).

Per quanto riguarda l’ozono, anch’esso appartenente ai gas serra, era già stato firmato il 16 settembre 1987, il Protocollo di Montreal, per la protezione dell’ozono, che prevede la riduzione del 50% della produzione entro il 1999, di CFC, sostituito provvisoriamente da una sostanza chimica (HCFC) meno dannosa per l’ambiente ed in ogni caso da eliminare entro il 2040.

Con il Protocollo di Kyoto sono stati fissati obiettivi di riduzione differenti sia per i Paesi industrializzati, quelli con economie di transizione, ed infine le nazioni in via di sviluppo che in maggioranza non si sono impegnati, per non creare vincoli alle loro economie.

I paesi industrializzati, si sono impegnati a ridurre le emissioni di gas ad effetto serra entro il 2008-2012, del 5,2 %, rispetto ai livelli del 1990. Il Protocollo impone ai Paesi contraenti di adottare misure appropriate:

Sviluppo dell’efficienza energetica in tutti i settori; sviluppo delle fonti rinnovabili per le produzioni di energia e delle tecnologie innovative per la riduzione delle emissioni; protezione ed estensione delle foreste per l’assorbimento del carbonio; promozione dell’agricoltura sostenibile; riduzione delle emissioni di metano dalle discariche di rifiuti e dagli altri settori energetici; riduzione delle emissioni degli altri gas dagli usi industriali e commerciali; misure fiscali per disincentivare le emissioni di gas serra.

Stabilisce anche un apposito sostegno: tre meccanismi d’aiuto per il raggiungimento degli obiettivi d’emissione:

Emission Trading: lo scambio dei diritti d’emissione. Le riduzioni possono essere diminuite tramite l’acquisto di "emissioni potenziali" presso quei paesi che hanno livelli d’emissione inferiori a quelli previsti dal Protocollo. In pratica se una nazione emette meno gas serra di quelli che il Protocollo gli può consentire, ha la facoltà di vendere la sua differenza ad un altro Paese, in modo tale che questo, possa superare i limiti impostigli.

Joint Implementation: in sostanza un’attuazione congiunta. Sono progetti comuni tra paesi industrializzati, per ottenere la riduzione delle emissioni mediante la diffusione e l’impiego delle tecnologie più efficienti.

Clean Development: in pratica lo sviluppo pulito. Si tratta in questo caso di tecnologie ad alta efficienza energetica nei paesi in via di sviluppo, in grado di ridurre le emissioni che altrimenti verrebbero prodotte dall’utilizzazione di tecnologie inefficienti

I paesi industrializzati, possono raggiungere una parte dei loro obiettivi d’emissione tramite varie attività, come il rimboschimento, al fine di creare zone d’assorbimento dell’anidride carbonica (pozzi o sink).

Sono inoltre previsti alcuni aiuti per i paesi in via di sviluppo, per affrontare gli effetti nocivi dei cambiamenti climatici.

L’obiettivo dell’Unione Europea consiste nel ridurre le emissioni di gas ad effetto serra di un valore pari a 8% rispetto ai livelli del 1990, entro il 2012.

Il nostro Paese, appartiene al gruppo delle Nazioni incluse nell’Annesso B del Protocollo di Kyoto (1997): una lista dove sono presenti gran parte dei paesi europei.

L’obiettivo di riduzione dei gas serra, indicato nel suddetto Protocollo è fissato ad una percentuale pari al 8% che equivale alla stessa indicata per tutti i Paesi appartenenti all’Unione Europea.

In sede comunitaria, nel Giugno 1998, sono state stabilite le percentuali di riduzione a carico dei diversi Paesi. Per l’Italia, è stata fissata una percentuale del 6.5%.

L’elenco completo degli impegni dovuti dai Paesi dell’Unione europea, relativamente alle emissioni di gas ad effetto serra è riportato di seguito.

Vi sono alcuni Paesi che per vari motivi, o perché stanno intraprendendo il processo di transizione verso l’economia di mercato o per la presenza d’estese aree boscose, sono stati autorizzati ad aumentare temporaneamente le emissioni di gas serra. Le riduzioni di questi gas inquinanti partono dal 2002.

 

Attuazione del Protocollo di Kyoto, in Europa

 

 

Nazione

Obiettivo del protocollo

Lussemburgo

-28%

Danimarca

-21%

Germania

-21%

Regno Unito

-12,5%

Austria

-13%

Belgio

-7,5%

ITALIA

- 6,5%

Paesi Bassi

-6%

Francia

0%

Finlandia

0%

Portogallo

+2%

Svezia

+4%

Irlanda

+13%

Spagna

+15%

Grecia

+ 25%

 

In Italia Il protocollo di Kyoto è stato recepito con la delibera CIPE 137/98 "linee guida per le politiche e misure nazionali di riduzione delle emissioni dei gas serra".

Secondo la decisione del Consiglio dei Ministri dell'Ambiente per l’Unione Europea del 17 giugno 1998,  impegna l'Italia - nell'ambito degli obblighi dell’UE stabiliti dal Protocollo di Kyoto - alla riduzione delle proprie emissioni di gas serra nella misura del 6.5% rispetto ai livelli del 1990.

Corrispondente ad una riduzione effettiva di 100 milioni di tonnellate-equivalenti d’anidride carbonica, entro il periodo compreso fra il 2008 e il 2012. Tutto questo da attuare in conformità ad un programma di riduzioni che dovrà essere attuato a partire dal 2002 e verificato annualmente dalla Comunità europea.

Le azioni nazionali per la riduzione delle emissioni dei gas serra sono rispettivamente:

1) Aumento d’efficienza nel parco termoelettrico.

2) Riduzione dei consumi energetici nel settore dei trasporti.

3) Produzione d’energia da fonti rinnovabili.

4) Riduzione dei consumi energetici nei seguenti settori: industriale/ abitativo/ terziario.

5) Riduzione delle emissioni nei settori non energetici.

6) Assorbimento delle emissioni di CO2 dalle foreste individuando come misura aggiuntiva per la riduzione delle emissioni anche l'assorbimento di carbonio ottenuto mediante attività d’afforestazione e riforestazione a partire dal 1990 delle emissioni dei gas serra.

Criteri d’attuazione con gli indirizzi sono finalizzati alle seguenti politiche:

1) Coltivazioni destinate totalmente o parzialmente alla produzione di energia.

2) Recupero di residui e sottoprodotti agricoli, forestali, zootecnici ed agroindustriali per la produzione d’energia.

3) Produzione di biocombustibili e biocarburanti.

4) Produzione d’energia termica e/o elettrica da biomasse.

5) Impiego d’energia da biomasse nei settori dei trasporti e del riscaldamento.

6) Applicazione di misure di compensazione, d’agevolazioni e incentivi per le produzioni agricole non alimentari, e per la fabbricazione di biocarburanti e biocombustibili.

7) Assorbimento di carbonio dalle biomasse forestali.

8) Accordi volontari tra le Amministrazioni e gli operatori economici del settore agricolo ed agro-industriale per il raggiungimento degli obiettivi individuati.

Inoltre, ulteriori manovre tese ad attuare i seguenti punti:

1) Impiego obbligatorio del biodiesel, negli autoveicoli destinati al trasporto pubblico, iniziando dai Comuni con oltre 100.000 abitanti.

2) Impiego obbligatorio del biodiesel, in miscela con il gasolio distribuito nella rete.

3) Impiego del bioetanolo, ai fini della produzione di ETBE da miscelare nelle benzine distribuite nella rete.

4) Impiego obbligatorio del biodiesel, in miscela con gasolio destinato alla nautica da diporto.

Infine, attuazione di politiche adeguate alle seguenti principali voci:

1) Sostituzione progressiva della flotta autoveicoli pubblici con autoveicoli a basse emissioni.

2) Sviluppo del trasporto rapido di massa nelle aree urbane e metropolitane, con la contestuale limitazione del traffico autoveicolare privato, e lo sviluppo di percorsi ciclabili urbani.

3) Trasferimento di una quota progressiva del trasporto merci da strada a ferrovia/cabotaggio.

4) Riduzione delle emissioni di protossido d’azoto dai processi industriali.

5) Sviluppo, promozione, del riciclaggio dei rifiuti.

6) Riduzione delle emissioni di metano dalle discariche di rifiuti.

7) Riduzione delle emissioni di metano dagli allevamenti agricoli.

8) Limitazioni dell'impiego d’idrofluorocarburi, perfluorocarburi, esafluoruro di zolfo, nei processi industriali e negli usi delle apparecchiature contenenti tali sostanze.

La conferenza dell’ONU riunita a Marrakech, in Marocco, nella prima decade del novembre 2001, l’ultima in ordine di tempo, dopo lunghe trattative ha raggiunto l’accordo che prevede entro il 2012 la riduzione d’emissione d’anidride carbonica sulla Terra.

Tale accordo, ha annunciato il governo Russo, apre la strada alla ratifica del Protocollo da parte di Mosca.

Questi obiettivi potranno essere raggiunti con metodi flessibili e per ora non verificabili. Fino al 2003 non ci saranno sanzioni per i paesi che sforano il tetto che limita le emissioni dei gas serra.

In quest’accordo ha un ruolo importante nella riduzione dell’anidride carbonica, la quantità d’alberi piantati per riassorbirla (almeno in parte), anche se non vi saranno delle verifiche in questa fase. Le industrie potranno decidere di non riconvertire i loro sistemi produttivi inquinanti scegliendo invece di impiantare gli alberi.

In pratica si tratta di un compromesso, con l’obiettivo ampiamente ridimensionato di ridurre i gas serra, responsabili dell’aumento di temperatura terrestre. Gli strumenti per raggiungere quest’obiettivo sono ridotti ed in alcuni casi scomparsi, mentre è stato incentivato il ruolo dell’incremento forestale (i cosiddetti sink, pozzi d’assorbimento di CO2).

Quattro anni fa, il protocollo di Kyoto prevedeva rispetto al 1990, la riduzione delle emissioni di CO2 con un valore pari al 5,2%, entro il 2012.

Con l’accordo raggiunto a Marrakech, la riduzione delle emissioni responsabili dell’effetto serra si è molto ridotta, pari a solo 1,5%.

In pratica, un Paese può inquinare per una determinata percentuale e possedere o piantare alberi , in misura tale da essere in grado di poter assorbire la medesima percentuale d’anidride carbonica che ha prodotto.

Inoltre, è scomparso il limite che assicurava i sink al 10% dell’intervento complessivo degli obiettivi per la riduzione dei gas serra. Tutto questo quindi senza modificare gli impianti industriali inquinanti.

Le sanzioni, necessarie per garantire l’applicazione degli accordi raggiunti, saranno stabilite solo nel 2003 ed in ogni caso, fino al 2012, nessun Paese incorrerà in punizioni, non riducendo le proprie emissioni di gas serra.

Quest’accordo, anche se è limitato nelle azioni da intraprendere rimane in ogni modo una base importante per la riduzione di gas serra cui ha aderito la maggioranza degli Stati del mondo, esclusi almeno per ora gli Stati Uniti, che sono grandi produttori di questi inquinanti gassosi.

Legambiente, ha promosso nel gennaio 2002 una petizione dal titolo "Clima e povertà" chiedendo tra l’altro, per l’Italia, la riduzione delle emissioni dei gas serra, come fissato dal Protocollo di Kyoto, da attuarsi con politiche di risparmio energetico, incentivazione nell’utilizzo delle fonti rinnovabili e modifica radicale della politica dei trasporti sia urbani sia extraurbani.

Il rischio evidente, se non si corre ai ripari, sarà quello di un riscaldamento diffuso dell’atmosfera terrestre.

Secondo recenti studi l’aumento della temperatura del pianeta dovrebbe essere, entro il 2100, da due a dieci volte superiore al riscaldamento rilevato nel XX secolo. Un rischio notevole quindi, che produrrà fenomeni meteorologici estremi.

Sarà in ogni caso problematico, a parer mio, ottenere una riduzione veramente rilevante di questi gas serra, tale da essere efficacemente incisiva sulla loro effettiva scomparsa.

Gli impianti industriali diffusi nelle varie nazioni del pianeta, dovrebbero essere riconvertiti in modo tale da non essere inquinanti sotto quest’aspetto e questo rappresenta un notevole impegno economico. Solo alcune ricche nazioni possono garantirlo, ma gli Stati Uniti che sono tra i maggiori produttori di questi gas inquinanti, non hanno ratificato il Protocollo di Kyoto.

Lo stesso stile di vita dell’uomo moderno utilizza diffusamente la motorizzazione, che produce abbondantemente i famigerati gas serra.

Personalmente sono pessimista, relativamente all’aspetto della riduzione efficace, su scala globale, di questi gas dannosi per il clima. Vi sono troppi interessi economici in gioco, presenti diffusamente nelle varie nazioni del mondo, sia industrializzate sia in via di sviluppo.

In molte nazioni, soprattutto in quelle industrializzate, le personalità politiche alla loro guida, provengono in gran parte dal settore economico, bancario, ed anche industriale. Sono quindi piuttosto sensibili all’aspetto relativo all’economia, lo privilegiano, mentre generalmente passa in secondo piano l’ambiente. Almeno questo è accaduto nel recente passato.

C’è sempre dietro l’angolo il timore della recessione economica, il rischio di perdere la competitività della produzione industriale ed il timore che lo sviluppo economico e produttivo s’arresti.

In sostanza, negli anni, si è teso ovunque a favorire un certo tipo di sviluppo economico, senza tenere troppo in considerazione l’influenza che questo aveva sull’ambiente. I danni arrecati erano considerati, seppur negativi, dei semplici "effetti collaterali".

Basti osservare l’impatto negativo sull’ambiente (particolarmente aggressivo nei confronti dell’ecosistema naturale), prodotto nel recente passato da numerose industrie e attività artigianali, con le loro emissioni inquinanti disperse nell’aria e nell’acqua.

Un esempio vicino d’inquinamento diffuso delle acque (e dell’aria) accaduto negli anni trascorsi, è rappresentato dalle aziende conciarie di Santa Croce, per molto tempo prive di un depuratore.

Sono stati inquinati per anni, i fossi dove erano disperse le acque reflue dell’attività produttiva, depositando nella falda freatica sotterranea, sostanze chimiche micidiali, metalli pesanti, tra cui il cromo trivalente (Cromo III) e soprattutto esavalente (Cromo VI), ed infine, nitrati di cromo, bisolfiti (Cr2(SO4)3, ecc., utilizzati nella concia delle pelli. L’acqua inquinata si è infine riversata in Arno.

Le Norme per la tutela delle acque dall’inquinamento (legge 10 maggio 1976, n. 319 – G.U. 29.5.76 n.141), prevedono a causa dell’enorme tossicità del Cromo VI, un limite di appena 0,2 milligrammi/litro, mentre per il Cromo III, sale a 2 mg/l.

La pericolosità dei metalli pesanti, oramai accertata da anni, consiste in questo: liberi nell’ambiente, nell’aria o nell’acqua dei fiumi e quindi nel mare inquinano i pesci, i molluschi, e gli altri esseri viventi che vi si trovano.

In questo modo entrano nella catena alimentare, legandosi alle proteine, aumentando la concentrazione di queste sostanze nocive, nelle persone che se ne cibano (processo di bioaccumulazione), procurandone gravi danni.

Tra i composti del cromo, quelli relativi al Cromo (VI) sono estremamente tossici. L’assorbimento di questa sostanza può avvenire per le vie respiratorie, attraverso i polmoni, oppure se ingerito, tramite l’intestino. Ci si può intossicare anche con il semplice contatto attraverso la pelle.

L’accumulo di questa sostanza nel corpo umano può causare disturbi del metabolismo dei glucidi e dei lipidi, arteriosclerosi, patologie polmonari di vario genere, oltre ad altre gravi malattie.

I composti organici di cromo sono anche fetotossici, poiché riescono facilmente ad attraversare la membrana della placenta.

Da notare che molti organismi acquatici accumulano biologicamente i metalli pesanti, ad esempio le ostriche ed i mitili possono contenere livelli di mercurio e di cadmio 100.000 volte superiori a quelli presenti nelle acque in cui vivono (Colin Baird: "Chimica Ambientale", pag. 190).

L’aria è stata ammorbata per anni, dai miasmi che si levavano dalle sostanze chimiche disperse nell’ambiente, soprattutto con le temperature estive.

L’inquinamento del Fiume Arno ha raggiunto dei livelli spaventosi, soprattutto dal Sessanta fino all’inizio degli anni Ottanta, con ricorrenti morie di pesci ed odore nauseabondo del fiume, aggravato da altri inquinanti provenienti dagli scarichi urbani non depurati.

Il conseguente inquinamento del mare ha prodotto danni immensi ai fondali e alla costa, con distruzione della vegetazione presente sul litorale. La pineta di San Rossore prossima al mare, soprattutto quella del Gombo, è stata ridotta a tronchi spettrali.

Manifestazione di protesta a Marina di Pisa, contro l’inquinamento del Fiume Arno e del mare (foto Frassi)

Per anni, si è privilegiato un certo tipo di sviluppo economico, senza le opportune contromisure di tutela ambientale.

La mancanza o la scarsità dei depuratori delle acque reflue urbane, in varie città e paesi, diffusa nel recente passato ma presente diffusamente anche oggi, seppur in misura inferiore (Firenze si è dotata di un depuratore solo da un paio d’anni ed al momento funziona solo in modo parziale), dimostra chiaramente, da parte dei vari politici, avvicendati negli anni al potere, la scarsa volontà di attuarli.

Questo accade ancora oggi sull’esteso territorio italiano, nonostante siano in vigore numerose leggi che tutelano l’ambiente.

Purtroppo, non sempre si riesce ad ottenere la migliore depurazione delle acque di scarico nonostante la presenza dei depuratori, a causa dei molti valori delle varie sostanze presenti nelle acque reflue, (per esempio i detergenti), per la quantità d’acqua raccolta dalla rete fognaria o per gli scarichi industriali allacciati ai collettori urbani ed infine, per la variazione di portata idraulica.

Inoltre, la presenza di particolari sostanze chimiche presenti nelle acque reflue (ad esempio i pesticidi), comporta un’elevata tossicità per gli organismi delegati alla depurazione (protozoi e batteri), con conseguenti disfunzioni nell’opera di depurazione.

Nei paesi industrializzati, il consumismo, la pubblicità indirizzata agli acquisti di beni inquinanti (come le automobili, con motore a combustione), inducono in un largo strato della popolazione, dei desideri e dei comportamenti che generalmente non si addicono ai valori e alle aspirazioni che dovrebbero essere alla base di uno stile di vita consapevole, rispettoso dell’ambiente in cui si vive.

Tutto questo spesso è reso possibile e si radica profondamente in larghe fasce della popolazione, a causa della situazione d’arretratezza culturale, dal punto di vista delle conoscenze sull’ambiente e delle profonde interazioni che comporta.

Le persone dovrebbero essere consapevoli che la difesa dell’ambiente dipende in primo luogo da tutti noi. Per questo motivo l’educazione ambientale, come ho già scritto, dovrebbe essere materia fondamentale delle scuole d’ogni ordine e grado, per l’importanza che ha oggi e che sempre più avrà nel futuro.

Dobbiamo però, avere fiducia nella capacità dell’uomo di riconoscere i propri errori, badando a correggerli con lo studio e la ricerca, indirizzando lo sviluppo nella giusta direzione.

La sfida futura da vincere, cui tutti noi già oggi siamo chiamati, è quella di portare la società civile ad uno sviluppo sostenibile con l’ambiente. Questa è la nuova frontiera da raggiungere. E’ l’unica soluzione che abbiamo. Un equilibrio tra la natura e le molteplici attività dell’uomo, purtroppo molto spesso inquinanti, due esigenze che spesso contrastano tra loro.

Il rapporto redatto dall’ANPA (agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente), sul volume "Verso l’annuario dei dati ambientali" presentato lo scorso 23 aprile al ministro per l’ambiente Altero Matteoli, boccia l’Italia in cinque materie ambientali su nove.

 

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