Cap. I

 

CAMBIAMENTI CLIMATICI

 

La trasformazione del clima sulla Terra, negli ultimi secoli, è un fenomeno certamente presente, orientandosi sempre più verso condizioni atmosferiche accentuate dallo sbalzo termico tra inverno ed estate, con temperature invernali generalmente mitigate.

Il gelo si presenta concentrato in pochi e brevi periodi, mentre le stagioni intermedie tendono a scomparire.

Sulle Alpi e le altre vette delle varie catene montuose, diminuiscono d’ampiezza i ghiacciai che si trovano presenti ad alta quota.

Il ghiacciaio Rhone a Gletsch, in Svizzera, ripreso nel 1849. Era uno dei panorami alpini più spettacolari.

Le due foto sono state riprese dal National Geographic - vol. 1 n. 4 del maggio 1998.

Il ghiacciaio Rhone a Gletsch, in Svizzera, come si presenta oggi.

 

Osservato invece oggi (nel riquadro in alto), il Rhone si è ridotto a poco più di una chiazza bianca a metà montagna.

In tutta l’Europa, avviene questo fenomeno di riduzione dei ghiacciai presenti nei monti. Quelli situati sulle Alpi hanno diminuito il loro volume del 50% rispetto a quello che avevano nel 1850.

D’estate infine, la temperatura più elevata provoca la fusione parziale, superficiale, della calotta polare.

Gli estesi ghiacci delle calotte polari che si trovano negli emisferi boreali, con il trascorrere degli anni diminuiscono l’estensione ed il loro spessore.

Tutto questo, provoca la diminuzione del volume dell’acqua presente allo stato solido con il lieve aumento del livello del mare e degli oceani, con un’entità valutata in 2 mm ogni anno ("La nuova ecologia", Legambiente, Roma, gennaio 2000, pag. 34.).

Sembra però in fase d’incremento, infatti, fino a qualche decina d’anni fa il valore era dimezzato, vale a dire pari ad 1 mm ogni anno(Mazzanti Renzo, Federici, Paolo Roberto: "L'evoluzione della Paleogeografia e della rete idrografica del Valdarno inferiore". Bollettino della Società Geografica Italiana, Roma, 1988, pag. 595. ).

La Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alle desertificazioni (alla trasformazione in deserto del territorio) e l’International Panel on Climate Change (I.P.C.C.), la Commissione intergovernativa sui cambiamenti climatici, che rappresenta il prestigioso gruppo d’esperti, incaricati di indagare sull’effetto serra prodotto dall’inquinamento atmosferico, ha fornito alcune previsioni di massima su quello che potremo aspettarci nel futuro.

Previsioni che non sono favorevoli a causa dell’aumento di temperatura nell’atmosfera, la cosiddetta tropicalizzazione del clima, prodotta dal crescente inquinamento, diffuso a livello mondiale.

Il riscaldamento dell’atmosfera provocherebbe il parziale scioglimento dei ghiacciai e delle calotte polari, con un innalzamento prevedibile, stimato, del livello degli oceani e dei mari pari a 15-95 centimetri. Con queste previsioni sfavorevoli è certo che , perdurando l’incremento di temperatura negli anni, la geografia mondiale dovrà essere ridisegnata.

Le calotte polari, sono da anni in lento ritiro. L’Antartide ha una superficie di circa 14 milioni di chilometri quadrati, un’estensione notevole confrontandola con altri continenti ad esempio con l’Europa, che ha un’estensione di quasi dieci milioni e mezzo di chilometri quadrati.

La terraferma del continente antartico è quasi completamente ricoperta da una calotta di ghiaccio, che ha lo spessore medio di 2.300 metri, raggiungendo anche i 4000 mt., in certi punti della zona orientale.

La parte sgombra dai ghiacci è costituita prevalentemente da aspre rocce e non supera il valore del 2 % riferito alla superficie totale.

Il volume della calotta di ghiaccio è stato stimato attorno a 30 milioni di chilometri cubi, che equivalgono secondo stime recenti, ad oltre il 90 % di tutto il ghiaccio presente sul nostro pianeta.

La calotta antartica sciogliendosi, incrementa ogni anno più di 1000 miliardi di tonnellate d’acqua nell’oceano circostante. E’ stato calcolato che il ghiaccio presente, contiene circa il 70 per cento dell’acqua dolce esistente sulla Terra.

La fusione totale della calotta glaciale antartica porterebbe, secondo studi recenti, ad un innalzamento del livello del mare pari a diverse decine di metri. Occorre aggiungere che in Antartide, purtroppo, la temperatura ha avuto un incremento di mezzo grado centigrado ogni decennio.

Recentemente, giusto nell’Antartide, è accaduto un evento preoccupante relativo alla scomparsa di un’estesissima area costituita da ghiacciai.

Il Corriere della Sera, di sabato 20 aprile 2002, pubblicava un articolo sullo scioglimento dei ghiacciai del Polo Sud in questi termini: Antartide, crolla un’area di 3.250 km quadrati. Notizia diffusa dal centro americano per i dati sulle nevi e i ghiacci. Secondo gli scienziati è stato il riscaldamento generale della Terra a generare la frattura che è iniziata il 31 gennaio scorso.

Un’enorme ed estesa frattura del pack, sulla piattaforma di Larsen, fotografata il 1 febbraio 1997 da Greenpeace (Greenpeace)

Un’immagine dell’Antartide (Ap).

AUCKLAND - Il riscaldamento globale della Terra ha provocato il più esteso crollo di una piattaforma glaciale nell’Antartide. Lo ha detto il centro americano per i dati sulle nevi e i ghiacci (Nsidc).

Nel suo sito Internet il centro, che dipende dall’Università del Colorado (Usa), ha detto che una gran parte della piattaforma Larsen-B, la cui formazione risale a 12.000 anni fa, è crollata nel giro di 35 giorni durante le ultime settimane.

Situata nella parte orientale della Penisola dell’Antartide, la piattaforma Larsen suscita da diversi anni l’inquietudine degli scienziati e starebbe subendo le conseguenze del riscaldamento globale del pianeta. Una superficie grande come la valle d’Aosta - In totale, la zona crollata è estesa 3.250 chilometri quadrati (circa come la Valla d’Aosta) e contiene 720 miliardi di tonnellate di ghiaccio.

Negli ultimi cinque anni, la piattaforma ha già perduto 5.700 chilometri quadrati e adesso non ricopre che il 40% della sua precedente superficie minima.

Secondo il centro americano, l’ultima frattura di questa piattaforma - che ha uno spessore di 220 metri - è iniziata il 31 gennaio scorso. «La parte crollata si è frantumata in migliaia di iceberg, che vanno alla deriva nel Mare di Weddell», ha detto il centro. «Si tratta dell’avvenimento di questo tipo più importante degli ultimi 30 anni nella Penisola, dove sono avvenuti tutta una serie di crolli. Essi sono attribuiti ad un riscaldamento climatico notevole nella regione», ha detto il Nsidc.

Un articolo di Luisa Volterra, relativo alla diminuzione della fauna nel continente antartico, apparso sulla rivista Boiler, mette in risalto gli sconvolgimenti dell’ecosistema.

 

I pinguini dell’Antartide (Boiler)

 

ANTARTICO - Clima, krill e pinguini - "Il numero di foche, pinguini e albatri in Antartide sta subendo un declino che non accenna ad arrestarsi.

E ora due ricercatori del British Antarctic Survey (http://www.antarctica.ac.uk/) di Cambridge azzardano una spiegazione, che, come commenta Furness, un ecologo esperto in uccelli della University of Glasgow (http://www.gla.ac.uk/) in Scozia, "è una previsione basata su una correlazione che non ha lo stesso grado di accuratezza di un test scientifico, ma che è pur sempre il meglio che si possa ottenere in Antartide".

Keith Reid e John Croxall hanno infatti studiato il numero di individui e di accoppiamenti di diverse specie, tra cui foche (Arctocephalus gazella), pinguini (Eudyptes chrysolophus e Pygoscelis papua) e albatros (Thalassarche melanophrys), arrivando a una singolare conclusione: è il cambiamento climatico a impoverire le popolazioni di questi animali.

L’effetto non è però diretto. Il riscaldamento globale depaupera infatti le riserve di krill (Euphasia superba), un piccolo crostaceo alla base della catena alimentare, di cui le specie locali vanno ghiotte. "Il krill si nutre delle alghe sotto i ghiacci antartici", spiega Reid, perciò lo scioglimento dei ghiacci può interferire con la presenza e la riproduzione del krill.

Dopo un periodo di stabilità, negli anni Ottanta si è assistito al crollo riproduttivo di alcune specie antartiche. Il krill rappresenta la maggior parte della dieta di questi animali, come del resto di molti altri mammiferi e uccelli marini. "Negli anni Ottanta la domanda e l’offerta erano già diverse", commenta Reid. Ma dai primi anni Novanta intorno alla South Georgia non c’era più krill sufficiente a sostenere tutti i suoi affamati predatori. "L’equilibrio naturale del sistema si è compromesso", conclude lo studioso.

Naturalmente un collegamento tra cambiamenti climatici e andamento di una popolazione animale rimane ancora difficile da provare. Tuttavia i ricercatori insistono sulla buona correlazione tra quantità di krill e successo riproduttivo di foche, pinguini e albatri. Da qui a rilevare le cause del decremento del krill il passo è breve.

I risultati dello studio sono stati pubblicati nei: Proceedings of the Royal Society of London (http://www.pubs.royalsoc.ac.uk/proc_bio/proc_bio.html) e potrebbero indurre ad analisi più approfondite sulla presenza di questo alimento essenziale, che, come si è detto, costituisce la parte fondamentale della dieta di numerosi animali marini.

"Piuttosto che sviluppare piani di management per il krill in una prospettiva isolata, si dovrebbe tenere conto delle specie che dipendono da esso e gestire l’ecosistema nel suo insieme", raccomanda Reid.

Un articolo di Maurizio Maria Fossati, pubblicato da "La Nazione" il 19/10/2000, evidenzia gli scenari futuri: c’è un giallo "planetario" che ci coinvolge tutti. Il maggiordomo non c’entra, questa volta gli imputati siamo noi. O meglio le industrie, le auto, gli aerei e quant’altro riempie l’atmosfera di anidride carbonica e gas serra, capaci di intrappolare calore. Infatti l’atmosfera terrestre si sta riscaldando e... Ed ecco la domanda inquietante: "Si alzerà il livello del mare?".

Nell’ultimo secolo c’è stato un aumento della temperatura globale dell’atmosfera di 0,6 gradi. Ma soprattutto negli ultimi anni l’evoluzione climatica ha accelerato il passo. E si prevede che la temperatura aumenterà di tre gradi e mezzo nei prossimi cinquant’anni. Così nel migliore dei casi, il livello degli oceani salirà di circa 18 centimetri per la sola dilatazione termica dell’acqua di mare.

Ma la situazione diventerebbe estremamente preoccupante se incominciassero a sciogliersi anche i ghiacci polari: a causa di questo fenomeno alcuni ricercatori hanno calcolato una crescita del livello del mare di 90 centimetri. Senza contare i "catastrofismi" che parlano addirittura di 5 o 6 metri.

Addio Venezia, addio equilibri centenari alle foci dei fiumi e lungo molti litorali dell’alto Adriatico, della Liguria, della Toscana, del Lazio e del Sud.

Qual è la predizione più corretta? Non lo sappiamo, ma in ogni caso c’è di che preoccuparsi. L’ipotesi di un forte innalzamento dell’acqua del mare, infatti, non è così balzana se si pensa che in un lontanissimo passato un simile cataclisma potrebbe già essere avvenuto.

Alcuni ricercatori, tra cui l’americano Mercer della Ohio State University, sostengono infatti che circa 120.000 anni fa, dopo un periodo di glaciazione, la Terra subì un riscaldamento leggermente superiore a quello dei giorni nostri. E pare proprio che in quel periodo il mare fosse cinque metri più elevato rispetto al livello odierno.

Tragedia annunciata? Non è detto, perché è proprio qui che germoglia il seme della discordia tra i ricercatori. Anche se il gruppo di ricercatori statunitensi che dal 1990 porta avanti lo studio Sea-RISE (Sea Level Response to Ice Sheet Evolution) lo esclude, alcuni climatologi infatti, studiando il riscaldamento terrestre attraverso modelli di circolazione globale al calcolatore, sono arrivati a concludere che non solo i ghiacci antartici non dovrebbero sciogliersi, ma - colpo di scena - che paradossalmente la calotta glaciale tenderebbe ad aumentare a causa dell’incremento delle precipitazioni nevose favorite dalle nuove condizioni climatiche.

Questi studi sono rassicuranti, però se la circolazione complessiva per qualche motivo è rallentata, nel tempo si accumula energia nell’atmosfera, producendo eventi meteorologici estremi, come già si vede in occasione delle alluvioni, purtroppo ricorrenti.

Oramai è un fatto accertato che, negli ultimi due secoli, in funzione del crescente inquinamento atmosferico, l’atmosfera terrestre continua lentamente a riscaldarsi, in altre parole aumenta la sua entropia negli anni. L’atmosfera subisce un incremento di calore che vi si accumula lentamente, col trascorrere degli anni.

Con questo procedere ammesso che si trovi un giorno la soluzione per eliminarne le cause, quanto tempo, in pratica quanti secoli dovranno trascorrere per ritornare alle condizioni preesistenti?

Sull’emisfero nord, la temperatura media dell’Artico, misurata dalle stazioni meteorologiche è cresciuta d'alcuni gradi, rispetto al 1968.

Una parte notevole del mare Artico si è riscaldata con un valore superiore ad 1°C dal 1987. In conseguenza di questo riscaldamento, oltre il 5% del ghiaccio dell’Artico, si è sciolto negli ultimi quindici anni.

Trascrivo un’intervista (dal titolo: l’incubo della "grande onda" - La Nazione.it - Disastri), di Fossati a Vincenzo Ferrara, responsabile del settore "Ambiente globale e cambiamenti climatici" dell’Enea:

Nei prossimi cinquant’anni il riscaldamento farà aumentare la temperatura media dell’atmosfera da 1,5 a 3,5 gradi. Ma si badi bene, non sarà un riscaldamento uniforme: le temperature si innalzeranno maggiormente in corrispondenza dei poli, mentre l’aumento sarà meno marcato sulla fascia equatoriale.

Quali saranno le conseguenze più immediate?

"Il riscaldamento porta maggiore energia nell’atmosfera. Così, la conseguenza più immediata sarà l’accelerazione del ciclo dell’acqua. Si prevedono maggiori precipitazioni alle alte latitudini e un allargamento delle aree interessate da desertificazione alle basse".

Che cosa succederà ai mari?

"L’aumento di temperatura influirà anche sugli oceani. È regola generale che il riscaldamento di un liquido ne provochi la dilatazione: sarà proprio l’espansione termica dell’acqua la prima causa della crescita del livello del mare. È stato calcolato che questo fattore, da solo, porterà a un aumento del livello del Mediterraneo di circa 18 centimetri".

E i ghiacci polari? Si scioglieranno?

"Se da una parte c’è del ghiaccio che si scioglie, ce ne sarà altro che si accumula da un’altra parte a causa dell’aumento delle precipitazioni. Per conoscere il destino del pianeta si deve calcolare il bilancio tra queste due tendenze inverse. Se si dovesse accumulare più ghiaccio di quello che si scioglie, il livello del mare potrebbe anche diminuire. Ecco dove sta la controversia tra gli scienziati!".

C’è qualcuno che ha fatto previsioni attendibili?

"L’Intergovernmental Panel of Clima Change (IPCC), ha valutato che nel bilancio sarà leggermente superiore la quantità di ghiaccio che si scioglie rispetto a quella che si accumula. In questa fase, prima di raggiungere un successivo equilibrio, il mare potrebbe crescere dai 60 ai 90 centimetri. Le ricerche in Antartide alla quali partecipano anche gli italiani sono proprio orientate al calcolo del ‘bilancio di massa’. Si tenga presente che se nell’ultimo secolo la temperatura globale dell’atmosfera della Terra è salita di 0,6 gradi, in Antartide l’incremento locale è stato di ben due gradi e mezzo".

Si stanno studiando anche le correnti oceaniche, vero?

"Certo. Un’ulteriore complicazione deriva dal fatto che se il ghiaccio ‘scarica’ acqua dolce in mare, la variazione di salinità va a influire sull’andamento delle correnti, in particolare della Corrente del Golfo. Il meccanismo è facilmente comprensibile. Lungo il suo percorso transoceanico la Corrente del Golfo evapora, aumentando così progressivamente la sua salinità.

Più l’acqua è salata, più pesa. Ecco perché, arrivata dalle parti dell’Islanda, la "Corrente del Golfo" affonda e torna indietro chiudendo la circolazione. L’aumento di acqua dolce attorno all’Inghilterra, dovuto allo scioglimento dei ghiacci del Nord, farebbe inabissare prima la Corrente del Golfo. Nella stessa direzione agirebbe un incremento dell’evaporazione della Corrente, dovuto all’aumento di temperatura lungo la sua ‘traversata’".

Difficili quindi le previsioni.

"Il sistema climatico globale è estremamente complesso e correlato. Ecco perché bisogna andare con i piedi di piombo nelle previsioni. Fra l’altro non è detto che l’attuale tendenza al riscaldamento continui. Potrebbe verificarsi un arresto se non addirittura un’inversione: l’aumento dei gas serra potrebbe innescare una retroazione negativa, un cosiddetto ‘feed-back’".

Può farci un esempio di retroazione negativa?

"Certo. Andiamo sul semplice e consideriamo per un attimo l’atmosfera. Il suo riscaldamento può causare più evaporazione d’acqua, e questo potrebbe portare a un ispessimento dello strato di nubi. La conseguenza immediata è che le nubi fermano i raggi del sole e l’atmosfera sotto le nuvole si raffredda. Ecco che l’aumento della temperatura ha creato una reazione che la fa diminuire".

E su scala globale?

"Il grosso problema è che non conosciamo ancora bene il comportamento delle possibili e diverse retroazioni del "sistema Terra". Le estrapolazioni lineari che usiamo nelle previsioni hanno senso solo se i processi non si prolungano troppo. Quando incominciano a intervenire i feed-back, non si sa più se il meccanismo viene accelerato o decelerato".

Che cosa si può dire dell’Italia?

"L’Italia settentrionale è molto vicina al panorama europeo. E l’aumento della temperatura del Nord Europa porterà, all’aumento delle precipitazioni e dei fenomeni estremi come le alluvioni. Il sud Italia, che è invece più vicino alla realtà climatica del Nord Africa, andrà sempre più incontro a siccità e rischi di desertificazione. Soprattutto nell’entroterra. Aumenterà quindi la spaccatura climatica tra Nord e Sud, con esigenze completamente diverse nella gestione dell’acqua".

Che cosa implicherebbe la crescita del livello del Mediterraneo?

"Un aumento anche lieve del livello del mare metterebbe in crisi soprattutto le zone dell’alto Adriatico. Venezia, le lagune. Tutto l’arco che va da Trieste alla Romagna, già martoriato dai fenomeni di subsidenza. Ma ci sarebbero problemi anche sui litorali della Toscana, del Lazio e della Campania. L’acqua salata inquinerebbe le falde costiere d’acqua dolce, creando difficoltà e danni all’agricoltura. Potrebbero verificarsi problemi di deflusso alle foci dei fiumi e molte zone sabbiose verrebbero erose con conseguenti danni al turismo".Diciotto centimetri di aumento del livello del Mediterraneo renderebbero veramente dura la «sopravvivenza» di Venezia. E questo senza pensare alle ipotesi più catastrofiche. Attualmente la città dei Dogi «sopporta» oltre 4 acque alte all’anno. In silenzio. Il progetto di dighe mobili «Mose» (Modello Sperimentale Elettromeccanico) continua a dormire in un cassetto del governo.

I finanziamenti a Venezia non sono mai mancati (10mila miliardi dall’84 ad oggi), sono piuttosto le scelte che sollevano polveroni. Chi critica il progetto Mose, per esempio, sostiene che quest’impianto, studiato per sbarrare le bocche di porto, non potrebbe essere utilizzato più di 3 o 4 volte all’anno, pena un grave squilibrio irreversibile dell’ecosistema lagunare. Comunque, è noto che per salvare la città si dovrebbero innanzitutto ricreare le condizioni idromorfologiche degli anni Quaranta.

In quest’ottica il Consorzio Venezia Nuova, concessionario dello Stato, ha ricostruito litorali e barene. Ma c’è ancora molto da fare e, soprattutto, per dare ossigeno a Venezia si dovrebbe rinunciare all’attività portuale, industriale e petrolifera in laguna.

Sono quindici anni che gli italiani hanno una base di ricerca scientifica in Antartide, nella baia di Terra Nova. Questa cittadella della scienza si affaccia sul Mare di Ross e dista circa 400 chilometri dal centro statunitense di Mc Murdo. In Antartide, gli scienziati di tutto il mondo stanno cercando di conoscere meglio le origini della Terra, quali furono i meccanismi che determinarono la nascita della vita sul nostro pianeta, i meccanismi climatici e la loro dipendenza dalle perturbazioni introdotte dalla civiltà industriale.

"Il 16 ottobre, con la quindicesima missione abbiamo riaperto la base di Terra Nova" ha confermato Mario Zucchelli, responsabile del programma nazionale dell’Enea "Progetto Antartide".

"La base era abbastanza innevata, ma gli impianti automatici funzionavano. Dalla stazione meteo, a quella sismica, a quella aereometrica, a quella oceanografica, ai computer che controllano il buco dell’ozono, tutto era in perfetta efficienza.

Una gradita sorpresa, visto che il sistema satellitare di trasmissione con l’Italia si era bloccato". Adesso la base ospita un’ottantina di persone: poco più di metà sono tecnici, gli altri sono ricercatori oceanografici, dell’osservatorio astronomico e di quello atmosferico.

 

La temperatura dell’atmosfera terrestre, a causa del suo progressivo inquinamento, tende con gli anni a riscaldarsi. Per questo motivo, nazioni come l’Olanda e la Florida ed intere regioni litoranee densamente abitate, rischiano di essere progressivamente sommerse, come molte isole tropicali, soprattutto della Polinesia.

Da evidenziare che la popolazione mondiale è prevalentemente concentrata su aree prossime ai mari ed agli oceani.

Con la tropicalizzazione del clima, si rischia di produrre nel tempo eventi climatici estremi, oltre alla lenta diminuzione dell’ossigeno nell’atmosfera, utilizzato diffusamente nei processi di combustione.

Questo non significa che in inverno, i periodi di freddo anche intenso, scompariranno per sempre, saranno però limitati nel tempo.

In estate, le temperature elevate, torride, favoriranno sempre più nelle aree montuose e nelle regioni fredde ed artiche, lo scioglimento dei ghiacciai.

Possono presentarsi ciclicamente nel tempo, anche inverni piuttosto freddi e gelidi, come quello del 1985 ed alla fine del 2001, probabilmente dovuti, secondo alcuni meteorologi ed esperti di climatologia, alla presenza in nubi planetarie di un accumulo di particelle d’origine naturale (vulcanica), od inquinanti (polveri finissime dovute agli incendi di vaste aree e soprattutto, alle emissioni industriali e civili prodotte dall’uomo), che sostanzialmente diminuiscono la radiazione solare.

Il clima che si riscontra in questi particolari periodi è quindi di tipo continentale, caratterizzato da variazioni di temperatura piuttosto accentuata tra il periodo invernale e quello estivo. In questo caso, nella primavera, potrebbero manifestarsi con le piene dei fiumi, rischi d’inondazioni del territorio, per la rapidità di scioglimento delle nevi e dei ghiacci, sui monti.

Gli inverni particolarmente gelidi, si susseguono in modo periodico nel tempo. Ad esempio l’inverno del 1929 fu molto rigido in tutta l’Europa, compreso l’Italia. Fu talmente freddo da gelare l’Arno, qui a Pisa (fig. 1).

 

 

(fig. 1) - Le foto mostrano l’Arno ghiacciato durante l’inverno del 1929.

L’effetto serra tende ad aumentare il periodo estivo e con gli anni, a diminuire la durata dell’inverno. Le eventuali abbondanti nevicate sui rilievi montuosi che si potranno verificare nel futuro, per l’aumento repentino della temperatura atmosferica, tendono a sciogliersi troppo velocemente.

In questo modo, sono possibili rischi di piene improvvise dei torrenti e dei fiumi con conseguenti inondazioni del territorio, almeno in quelle zone dove non sono state approntate opportune opere di difesa idraulica.

Un’altra possibilità sfavorevole che può accadere, provocando il medesimo effetto, si presenta quando sopraggiungono forti piogge su terreni gelati, essendo questi, impossibilitati dal gelo, ad assorbire acqua.

L’inquinamento dell’atmosfera si attua soprattutto con le emissioni industriali e la motorizzazione diffusa su scala mondiale. Il riscaldamento per uso civile incide per un valore sensibile, relativamente a quest’aspetto ed infine, vi apportano il loro contributo gli incendi di vaste proporzioni.

I veicoli a motore, durante il loro funzionamento, nella combustione, producono anidride carbonica, oltre a numerosi altri gas inquinanti che sono notevolmente dannosi alla salute.

Da evidenziare che il 27% delle emissioni d’anidride carbonica esce dai tubi di scappamento delle auto e degli altri mezzi a motore ().

Questi gas, soprattutto in città, seppur dispersi nell’aria finiscono nei nostri polmoni, specie nelle strade cittadine con traffico elevato. In città, le mura degli alti palazzi, nelle giornate senza vento, fanno ristagnare gli inquinanti o ne rallentano il ricambio dell’aria.

Aggiungendo infine, l’inquinamento prodotto da alcune tipologie d’industrie, o la presenza di grandi impianti termici, possiamo avere un’idea di come questo problema sia grave e diffuso nelle aree metropolitane.

Il crescente inquinamento dei gas che influenzano le variazioni climatiche, chiamati gas serra (perché riproducono l’effetto presente in una serra per l’agricoltura), è diffuso a livello mondiale. Questi gas sono principalmente sei e tra questi, ha un valore notevole l’anidride carbonica (CO2).

Già nel 1990, erano numerosi i paesi che producevano questi "gas serra", con i seguenti valori misurati in miliardi di tonnellate l’anno: gli U.S.A. da soli ne producevano ben 4.9, in altre parole il 22,2% del totale, seguiti dall’Europa, compresi i paesi del centro-est, con 8,23, vale a dire il 37%, quindi dalla Cina con il 2,29, il 10,4% ed infine il Giappone, con un valore di 1,19, il 5,1% del totale.

In quel periodo, era già alta la percentuale d’anidride carbonica prodotta dai numerosi paesi in via di sviluppo, con 6,19 miliardi di tonnellate l’anno, rappresentando il 28% delle emissioni nell’atmosfera di questo gas dannoso.

A poco più di un decennio di distanza, le emissioni d’anidride carbonica (CO2), nel mondo, ammontano rispettivamente al 19%, per gli USA, al 11,9% per la Cina, al 9,4% per il Giappone, al 3,9% per la Germania, al 3,4% per l’India, al 3,2% per l’Africa, al 2,7% per l’America meridionale, al 2,5% per il Regno unito, al 1,8% per il Canada, al 1,8% per l’Italia, ed infine, al 1,3% per l’Oceania.

Una produzione complessiva elevata a livello mondiale di quest’inquinante, oltre agli altri gas serra.

Tutto questo fa comprendere che, se non si raggiunge un serio accordo per limitarne la produzione mondiale, i guai per la Terra possono diventare seri.

Il solo contributo delle emissioni totali di gas inquinanti prodotti negli Stati Uniti assomma complessivamente al 25,5%, dove vive il 4.6% della popolazione mondiale, mentre è del 4,5% il valore delle emissioni prodotte dall’India, dove vive il 16,5% degli abitanti della terra.

Il metano (CH4), altro gas inquinante, è un ulteriore composto chimico che produce quest’effetto dannoso. Le emissioni di questo gas provengono dal settore agricolo e dalle varie discariche di rifiuti presenti sul territorio.

Il protossido d’azoto (N2O), è un altro gas serra che è prodotto dall’agricoltura, dal settore energetico e dai trasporti.

Altro gas serra è l’esafloruro di zolfo (SF6), rappresenta un prodotto chimico utilizzato in vari comparti industriali.

Infine, vi sono altri gas che appartengono a questo gruppo, come il perfluorocarburo (PF), che è una sostanza utilizzata nel settore della refrigerazione, al pari dell’idrofluorocarburo (HFC) usato sempre a questo scopo. Responsabili entrambi della riduzione dello strato d’ozono presente ad altissima quota, che rappresenta una protezione delle radiazioni ultraviolette del sole.

Purtroppo, l’aria che respiriamo nelle nostre città è sempre più inquinata da numerose sostanze dannose. Ad esempio, il monossido di carbonio, il biossido di zolfo, il biossido d’azoto (prodotto in gran parte dalla combustione per il riscaldamento domestico, oltre a quello dovuto alle centrali termoelettriche e alle raffinerie di petrolio).

Secondo studi recenti è stato dimostrato che circa il 70% del biossido d’azoto presente nell’aria delle zone urbane proviene dalle caldaie. Percentuali simili valgono per il monossido di carbonio, un gas letale se inalato a certe concentrazioni nell'aria.

L’ozono, il benzene ed i policiclici aromatici sono tra le sostanze inquinanti, alcune cancerogene, più diffuse e presenti nell’aria dei centri urbani.

Il benzene, prodotto dalla combustione dei carburanti (soprattutto le benzine senza piombo), appartiene a queste sostanze cancerogene ed è riconosciuto causa d’alterazioni genetiche sul DNA, da studi recenti effettuati anche a Pisa, dall’Asl 5 in collaborazione con il CNR.

L’ozono è un inquinante secondario che varia la sua concentrazione a bassa quota in funzione dell’esposizione al sole. Si trova presente su vaste zone, addirittura a livello d’area comunale o provinciale, mentre scarseggia ad altissima quota in vaste aree boreali, dove servirebbe come filtro per le radiazioni solari.

Nella seguente tabella sono rappresentati i valori delle emissioni inquinanti prodotte dai motori endotermici. Considerando pari ad 1, le emissioni delle auto catalizzate con benzina, risulta in base alle emissioni, rispettivamente di CO (ossidi di carbonio), HC (idrocarburi), NO (ossidi di azoto) e benzene pari a quanto segue:

 

Emissioni inquinanti

 

VEICOLI

CO

HC

NO

Benzene

Auto a benzina catalizzate

1

1

1

1

Auto a benzina non catalizzate

15

16

7

9

Auto a GPL non catalizzate

22

28

10

0

Auto a GPL catalizzate

25

16

9

0

Ciclomotori a due tempi non catalizzati

12

63

0,5

19

Ciclomotori a due tempi catalizzati

8

50

0,5

23

Motocicli a due tempi non catalizzati

28

170

0,5

50

Motocicli a due tempi catalizzati

19

110

0,5

52

Motocicli a quattro tempi non catalizzati

25

11

1

6

Motocicli a quattro tempi catalizzati

20

7

1

5

Auto diesel

2

0

27

0

Diesel medi

4

0

50

0

Diesel pesanti

4

0

120

0

Bus extraurbani

4

0

130

0

Bus urbani

4

0

103

0

 

Osservando la tabella, si evidenzia che i diesel inquinano soprattutto con emissioni d’ossidi d’azoto (i diesel producono anche una quantità sensibile di polveri sottili).

Inoltre, è elevata anche la percentuale d’inquinanti idrocarburi, emessa da ciclomotori e motocicli. La sola Italia possiede la metà dei ciclomotori di tutta Europa, da cui si comprende che la situazione è particolarmente critica sul piano nazionale.

Considerando che un ciclomotore inquina approssimativamente come 10 veicoli, è piuttosto evidente la situazione attuale di rischio per quanto riguarda l’inquinamento.

Sempre in Italia, abbiamo la più alta concentrazione d’auto in Europa per chilometro, relativamente alle strade urbane ed extraurbane. Il nostro Paese infine, insieme alla Grecia e alla Spagna, ha il più obsoleto, il più vecchio, parco automobilistico d’Europa.

Le emissioni industriali, il riscaldamento, gli scarichi veicolari ed il consumo dei pneumatici producono inoltre, polveri di diametro piccolissimo tra cui i cosiddetti PM10, il particolato medio minore di 10 micron (la millesima parte del millimetro).

Polveri cosiddette sottili, definite: irritanti per le vie aeree; le particelle più piccole possono arrivare ai polmoni ed esercitare una azione lesiva di tipo meccanico (fibre) e chimico per le sostanze trasportate (Da pubblicazione redatta dall'ARPAT (Dipartimento Provinciale di Pisa). ).

In sostanza, in città, ma anche in periferia, siamo immersi in un’enorme nube invisibile di sostanze inquinanti e varie volte è superata la soglia d’attenzione stabilita dalla legge.

Da una recente indagine del Centro europeo ambiente e salute dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), l’emergenza è a livello europeo.

Esaminando l’influenza di queste sostanze nocive sulla popolazione, in otto città italiane prese a campione (Torino, Genova, Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli e Palermo), la mortalità in seguito all’inquinamento dell’aria è dell’ordine di 3500 decessi ogni anno, 10 morti il giorno. Superiore quindi, a quelli dovuti ad incidenti stradali.

Lo studio, conclude che riducendo l’inquinamento a 40, 30, 20 microgrammi/m3 sarebbe possibile evitare circa 2000, 3500 e 5500 morti ogni anno, nelle otto città esaminate. Questo studio, non prende in considerazione, altri inquinanti ugualmente pericolosi come il benzene ed i policiclici aromatici.

Il rapporto Macbeth (monitoring of benzene into europeans towns and homes) evidenzia che l’esposizione continua a concentrazioni di benzene pari ai limiti di legge (che attualmente equivalgano a 10 microgrammi/m3), comporterebbe, solo in Italia, la comparsa di 2.500 casi ogni anno di leucemie.

L’espansione enorme delle città, la diminuzione costante negli anni, con l’avanzare dell’urbanizzazione, della campagna limitrofa, un polmone verde che ossigena e depura l’ambiente e soprattutto l’aumento della motorizzazione, ha portato ad avere un’aria sempre più irrespirabile. Uno sviluppo quindi, non rispettoso dell’ambiente.

La costruzione di nuove strade cittadine, periferiche, tangenziali, ecc. incentiva le persone all’uso degli autoveicoli ed estende l’inquinamento già abbondantemente presente. Da evidenziare che l’Italia, ha una delle reti viarie più estese dell’Europa.

Nello scorso inverno, con il perdurare di una situazione critica che vedeva la presenza di vari inquinanti nell’aria, molti sindaci hanno decretato il blocco della circolazione delle auto nelle città.

D’inverno avviene il fenomeno dell'inversione termica: si forma una cappa d'aria fredda sopra la città che impedisce il defluire verso l'alto dell'aria più calda (e inquinata) al suolo.

Oltre i cortei, le varie proteste che vi sono state e la sfortunata congiuntura meteorologica, ci sono dati oggettivi che rendono le prospettive preoccupanti: secondo un’inchiesta di Legambiente per ogni neonato, nel nostro Paese, sono immatricolate quattro nuove autovetture.

Il WWF propone di contenere il numero dei veicoli in circolazione, di diminuire la velocità e quindi i consumi nei veicoli e di non incrementare il sistema del trasporto su gomma.

Legambiente rilancia accusando i sindaci e il Governo: la legge finanziaria 2002 ha stanziato per lo sviluppo del trasporto pubblico metropolitano circa 39 milioni d’euro (75 miliardi di lire). "Briciole", dice Legambiente, "se paragonate alle risorse destinate alla costruzione di strade e autostrade" (fonte RAI).

L’espansione delle città, il numero crescente degli autoveicoli che raggiungono i centri cittadini, dai paesi limitrofi dove la popolazione è aumentata, crea notevoli problemi dovuti all’incremento del traffico stradale. Una causa che quindi produce l’inquinamento atmosferico.

Prendendo com’esempio Pisa, la città fino a poco più di una settantina d’anni fa era ancora racchiusa, in gran parte, entro le Mura urbane, con vari poderi coltivati d’intorno. L’incremento che l’abitato ha avuto in tutti questi anni è stato vasto, molto più elevato di quello avuto nel secolo precedente, come si nota dal confronto delle carte topografiche allegate (fig.2, fig.3, fig.4)

 

(fig. 2) – Pianta di Pisa (ing. Giacinto Van Lint, 1846)

 

(fig. 3) – Pianta di Pisa (Litografia Gozzani, 1909)

 

(fig. 4) – Pianta di Pisa - seconda metà del XX secolo (Forma Pisarum, di E. Tolaini).

E’ un dato di fatto, che l’attuale modello di sviluppo ha provocato, nei decenni scorsi, l’abbandono diffuso delle campagne e delle montagne, con la popolazione concentratasi nelle città, provocandone una continua espansione.

Il crescente abbandono dell’agricoltura da parte di numerose persone, attirate nelle città dallo sviluppo economico ed industriale, ha favorito questo processo per numerosi anni. Un fenomeno che si è accentuato nel Novecento, soprattutto nell’Italia settentrionale, nel cosiddetto triangolo industriale.

Torino, Milano, Genova, sono cresciute a dismisura, ma anche nelle altre città si è avuta, in tutti questi anni, una crescente espansione.

Nella città di Milano, che già trent’anni fa contava un numero elevato d’abitanti, (oltre un milione e mezzo), con l’aria inquinata anche dai numerosi mezzi motorizzati di trasporto, si è continuato a costruire sul territorio periferico.

Sono state edificate da diverse società imprenditoriali (alcune facenti capo a Silvio Berlusconi), vari centri residenziali, ed in seguito, Milano 2 e Milano 3, ampliando a dismisura la città, senza tenere conto del crescente inquinamento già presente e delle relative esigenze ambientali.

Lo sviluppo enorme dell’area metropolitana, ha peggiorato la già cattiva qualità dell’aria, in modo tale che il Governo Berlusconi, il 15 novembre 2001, ha dovuto emettere lo stato d’emergenza ambientale per la città di Milano, con un provvedimento motivato dall’incremento delle emissioni inquinanti.

Lo stato d’emergenza ambientale è stato inoltre esteso a Venezia, per il preoccupante problema di staticità degli edifici provocato dalle imbarcazioni a motore.

 

Due immagini eloquenti dei vari e gravi problemi presenti a Venezia (La Nazione)

Infine, lo stato d’emergenza ambientale è stato emanato a Messina, per l’intenso movimento dei mezzi pesanti da e per il continente.

Per collegare la Calabria alla Sicilia è in fase di progettazione il ponte sullo Stretto di Messina. Nel dicembre 2001, infatti, il Governo ha approvato la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina.

Un ponte tra la Calabria, caratterizzata dalla sua geologia così fragile e la Sicilia, una terra contrassegnata in questa zona da una particolare natura sismica, resa evidente dal terremoto di Messina del 28 dicembre 1908, in cui la città fu distrutta.

Una terra, la Sicilia dove i cambiamenti climatici si fanno sentire sempre più, con la siccità che colpisce il territorio rendendolo arido negli anni, producendo la sofferenza delle colture agricole e del bestiame. La desertificazione avanza.

Le opere che dovranno attuarsi per garantire entro margini di rischio accettabili, la realizzazione di quest’opera, avranno sicuramente dei costi notevoli ed anche le spese di manutenzione di quest’opera ciclopica saranno sicuramente elevate.

 

 

Una spettacolare immagine dello Stretto di Messina, con l’Etna in eruzione (WWF)

Senza contare l’impatto ambientale del mastodontico ponte, che sarà ben evidente su questa bellissima costa naturale di notevole attrattiva turistica, ricca di storia e di mitologia.

Il potenziamento dei traghetti, utilizzando differenti approdi, avrebbe ridotto in gran parte i tempi ed i costi e molti dei problemi evidenziati.

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Ovunque in Italia, il continuo procedere con l’edificazione sul territorio urbano, ha generato problemi d’inquinamento dell’aria.

L’acqua, ha subito diffusamente fenomeni d’inquinamento e di scarsa depurazione, immettendo per anni, nei vari fossi e canali della periferia, le acque inquinate prodotte dalle industrie e dalle numerose attività artigianali, oltre a quelle rese dagli agglomerati urbani, peggiorando l’ambiente nel suo insieme.

Col tempo, la graduale costruzione dei depuratori e l’allacciamento progressivo delle fogne cittadine a queste strutture, ha influito lentamente sul miglioramento dell’ambiente, anche se permangono varie situazioni critiche, diffuse soprattutto nell’Italia meridionale.

 

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