L'ANIMA GIOVANE E LA LIBERTA'
 
articolo di

Giovanni Tassani

da "Conquiste del Lavoro" del 14 ottobre 2000

 
 

Abbiamo - amici e municipalità - invitato a Forlì Turi Vasile perché ricordasse il suo grande e lungo sodalizio con Diego Fabbri, di cui ricorre il ventesimo della morte e al cui nome la sua città sta per dedicare il Teatro Comunale. Nella Sala San Luigi, cuore dell’antico oratorio in cui negli anni trenta Fabbri mosse i primi passi d’autore, attore e promotore di concorsi filodrammatici regionali, oggi rilanciata come pulsante centro culturale e multimediale, Vasile è riandato innanzitutto al nucleo fondativo di un impegno che ha ispirato e nutrito la vita sua e dell’amico Diego.

Per un cinema,e un teatro cristiani
1940: la conoscenza tra i due in piazza San Pietro, uno, Vasile, animatore del Teatro Guf (da cui uscirono tra i tanti Anna Proclemer e Giulietta Masina), l’altro, Fabbri, vicedirettore dell’editrice Ave e segretario del Centro Cattolico Cinematografico. Fabbri fa conoscere a Vasile il suo ambiente: Luigi Gedda, presidente della Gioventù italiana di Azione cattolica (Giac), Ferdinando Storchi, presidente Ave, Giulio Pastore, delegato tecnico organizzativo centrale Giac; tutti silenziosamente antifascisti, Fabbri anche esteriormente con la cravatta a fiocco che in Romagna portavano i repubblicani e gli anarchici. Vasile capisce che la fronda gufista coperta nel suo ambiente da Anton Giulio Bragaglia, non basta, e si lega anche alla Giac e alle sue attività teatrali e cinematografiche. Nel ‘42 mette in scena Orbite del suo amico Diego (noie con la censura fascista per l’argomento: fatti di pubblica corruzione). Poi segue e partecipa alle varie tappe di un progetto per i giovani voluto da Gedda e di cui Fabbri è elemento centrale: la “Rivista del Cinematografo”, rilanciata una prima volta nel ‘40, poi sospesa e ripresa nel ‘45, la pubblicazione del libro-manuale Ave “Il volto del cinema” (‘41: in cui Fabbri si cimenta sull’estetica cinematografica), il film Pastor Angelicus (‘42) sulla figura di Pio XII, su soggetto di Gedda, regia di Marcellini e supervisione di Trenker, cosceneggiato tra gli altri da Fabbri e Flaiano, il film La porta del cielo di Vittorio De Sica, realizzato tra ‘43, Roma ancora occupata, e ‘45, ideato da Fabbri e cosceneggiato con Zavattini, la fondazione nel ‘45 della società “Orbis”: che produrrà film di Germi, Blasetti, Soldati, seguita nel ‘52 dalla società “Film Costellazione” (presidente Mario Melloni, il futuro “Fortebraccio”, Fabbri e Vasile amministratori) che produrrà Processo alla città di Zampa, I vinti di Antonioni, la coproduzione italofrancese I sette peccati capitali (registi Rossellini, Eduardo De Filippo, Yves Allegret, Autant-Lara, tra gli attori Gérard Philippe e Michele Morgan), nel mezzo il tentativo di un catechismo cinematografico affidato a Mario Soldati con testi di Fabbri, Fellini, Tullio Pinelli, Suso Cecchi d’Amico.

In breve una battaglia per un cinema cristiano e costruttivo, non clericale, non piagnone e solo censurante, generosamente tentata e intrapresa ma, afferma oggi Vasile, alla fine perduta nei confronti di quel blocco articolato laico-marxista che andò via via egemonizzando la repubblica italiana delle lettere (e quindi del teatro e del cinema).

I fermenti creativi della Giac, coltivati negli anni d’attesa nel crepuscolo del fascismo, erano esplosi in Fabbri all’indomani del 25 luglio in quel manifesto ‘Per un teatro del popolo” (democratico, morale e sociale) scritto con Orazio Costa, Gerardo Guerrieri, Vito Pandolfi, Tullio Pinelli, si erano espressi a contatto con la giovanissima “Sinistra cristiana” romana, avevano preso forma nel saggio “Cristo tradito”, censuratogli per radicale estremismo dai laureati cattolici di “Studium” e fatto poi uscire come libretto nel ‘49. ove è l’incubazione del suo capolavoro Processo a Gesù(’55), e nei saggi su “Ambiguità cristiana” (Cappelli ‘54, rist. Studium ‘94).

E non era certo contraddittorio con questa temperie l’impegno extrateatrale di Turi Vasile, che Gedda chiamerà a dirigere l’Ufficio psicologico dei neocostituiti “Comitati civici” con il compito d’impostare una penetrante campagna “pubblicitaria” pro-voto in soli tre mesi in vista delle elezioni del 18 aprile 1948: Vasile diventerà così il creativo autore di manifesti esortanti gli elettori svogliati e incerti al voto, contro un pericolo di sovietizzazione mostrato come esito finale del voto pro Fronte popolare. Nessun invito a un voto partitico ma l’appello a vincere l’apatia per scongiurare il peggio. Due manifesti tra gli altri resteranno nella memoria iconico-politica del paese: il primo con Garibaldi a capo dei Mille, a cavallo e a sciabola sguainata, sulle note del suo inno (“Va fuori d’Italia, va fuori o stranier! “), il secondo che evidenzia due conigli e le scritte Essi non votano (grande in alto a destra) e perché sono due conigli (piccolo in basso a sinistra); così come la carta da gioco con l’immagine di Garibaldi, emblema del Fronte, che rivoltata rivela quella di Stalin.

Lo spirito della Giac
Sul valore del richiamo al paese reale nell’ora della scelta decisiva, il 18 aprile 1948, tutti oggi han tributato omaggio a Luigi Gedda, morto il 26 settembre scorso, ma questo tardivo riconoscimento non rende da solo ancora completa giustizia alla sua forte e profonda personalità, votata a servire la chiesa italiana nella dimensione del popolo fedele, anche nella dimensione di scienziato e testimone di un’ originale spiritualità: quella “getsemanica”, di compassione agonica di Cristo, che nutriva la sua Società operaia, esprimentesi dal ‘47 nella rivista “Tabor”, e che conquistò il suo figlio spirituale e successore a capo della Giac Carlo Carretto. Quando nell’ottobre ‘88 Carretto morì, Gedda scrisse su “L’Osservatore Romano” un ricordo di quell’amicizia mai interrotta tra i due, nonostante la crisi “politica” del ‘52 nei giorni dell’operazione Sturzo, e bene ha fatto il quotidiano vaticano in morte di Gedda a ripubblicare viceversa di Carretto la bellissima pagina di diario in cui si narra del primo incontro tra i due nel ‘33, uno, Gedda, giovane medico, lui, Carretto, giovanissimo maestro; un innamoramento di Dio che Gedda gli comunicava: “Carlo, solo Dio riempie totalmente la vita. Solo Lui ci basta. Neanche del bene dobbiamo innamorarci, ma solo di Dio”

Questo primato dello spirituale, o della sovrannatura come allora si diceva con un linguaggio ora dimenticato o rimosso, è al tempo stesso realismo e non sopravvalutazione della dimensione politica e principio di resistenza al mondo e alle sue spinte totalitarie. I baschi verdi e azzurri spesso polemicamente ricordati, ma solo per il ‘48 e il ‘50, come segnacolo di un possibile “salazarismo” italiano, erano in realtà la prosecuzione di quelli, mai invece ricordati, già apparsi in pubblico nel ‘35 e ‘36, con molta irritazione di Mussolini e di gerarchi e ras. In campo sia laico che cattolico a un certo “partito intellettuale”, per usare la terminologia d’un autore caro alla Giac, Charles Peguy, parve utile enfatizzare il ruolo politico dei baschi o dei civici per accreditare se stessi come veri democratici (o “cattolici democratici”). Da tali ambienti Gedda è stato fatto apparire come lo spauracchio da cui separarsi, spesso per legittimare le proprie politiques d’abord.

Gedda fu certo l’uomo dell’obbedienza ferma, taciturna, corrispondente ad un periodo di storia della chiesa in cui, specie nell’ultima fase del pontificato pacelliano, si trovarono commisti certo tradizionalismo conservatore con un acuta, iperrealistica percezione del secolo nelle sue dimensioni totalitarie e violente: nomi come Ottaviani, Tardini, De Luca restano a indicare un’ultima fase,, quasi postremo sviluppo, di un modello di cultura “tridentina” che cercò risposte ferme alle sfide della modernità. Forse sopravvalutando le proprie forze e la funzionalità Organizzativa posta in campo. Per quello che fu definito il geddismo il vero miracolo fu la Giac, preservata negli anni della sfida totalitaria, che condusse poi ai tre milioni e mezzo d’iscritti all’Azione cattolica nel dopoguerra e al successo del 18 aprile. Altri successi invece mancarono: la trategidia del gran ritorno dei comunisti, dopo la scomunica del ’49 - a seguito dell’Anno Santo del ‘50, il Piano S (sindacale) teso ad aumentare gl’iscritti al neosindacato Lcgil oltre il numero della Cgil, la riconquista dei “lontani” mediante i piani di “base missionaria”. L’apostolato valeva nei rapporti densi di scambio interpersonale, ma soccombeva ormai - negli anni cinquanta - alla prova di strategie di riconquista sociologica, “di massa”. E proprio in quegli anni cominciava a vivere di vita autonoma la macchina partitica fanfaniana, emblema d’una trasformazione e d’un nuovo primato del politico in campo cattolico.

Libertà come responsabilità
C’è una dimensione di libertà che è giusto scorgere e saper riconoscere in Gedda per riuscire a inquadrarlo col suo vero valore nel Novecento italiano, permanendo su di lui un clichè deformante e riduttivo:anticomunismo più clericalismo.

Diego Fabbri, di Gedda amico e pur così diverso da lui per esperienza umana e professionale, ci può aiutare a capire cosa significa quel senso di libertà cristiana. Afferma Vasile che Fabbri con le sue opere ha esaltato il peccato come virtù drammatica, ha cioè insegnato ad affrontare il senso vero del peccato personale anziché rifugiarsi in pretesi, impersonali, oggettivi “complessi di colpa”: “Il cristiano è solo col suo peccato, ne riconosce il peso e se lo assume interamente, con la volontà continua di espiazione e di salvezza”. L’uomo in altre parole è responsabile della propria libertà. E le opere di Fabbri testimoniano proprio questa dimensione: copartecipano di quel flusso di estraneità, proprio di autori da Camus a Bellow, ma con una speranza e la fedeltà nella parola, che è verità e rende liberi.

Nella primavera del ‘70 mio padre, da sempre in Azione cattolica (aveva partecipato, ragazzo, a Roma nel ‘21 alle celebrazioni del cinquantenario, subendo anche lui, come Frassati, la “carica” delle Guardie regie), ricevette, firmata e personalizzata da Gedda su busta dell’Istituto Gregorio Mendel, la lettera a tre - qui pubblicata - d’invito ad una nuova iniziativa nel nome dei comuni ideali Giac. Rispose entusiasta a Gedda, nel desiderio anche di rivedere il “carissimo Diego Fabbri col quale abbiamo vissuto tanti anni belli di vita cattolica forlivese”. Qualche mese più tardi non poté però recarsi a Viterbo dove fu fondato il Circolo Mario Fani, che fu poi moltiplicato in varie città, ma a Forlì entrò nella triade responsabile del Circolo. A Viterbo Diego Fabbri, chiamato dopo tanti anni da Gedda a collaborare ad un’attività “apostolica”, riproporrà ai suoi non più giovani coetanei, ma con lo spirito di sempre - vedi lo schema di relazione qui pubblicata - i temi forti già presenti in “Cristo tradito”, aggiornati ai nuovi tempi della secolarizzazione e della “morte dì Dio”, rispetto ai quali aveva fatto tesoro delle considerazioni del Maritain ottuagenario paysan de la Garonne a proposito dei “montoni di Panurgo”. Io ero allora un ventenne, partecipe della protesta giovanile, anche se non da essa travolto:, vidi allora la costituzione del “Mario Fani” come un tentativo reducistico, fuori tempo. Forse in parte lo era poiché poi convogliò in direzione di battaglie, e sconfitte, brucianti, - forse evitabili. Mio padre stesso trovò terreno più favorevole d’impegno, per i suoi anni postlavorativi, nella Federazione pensionati Cisl, di cui divenne segretario provinciale. Oggi, a trent’ anni di distanza, rileggendo quei documenti, essi mi appaiono in una luce diversa:
espressione di intenti sempre giovani in uomini maturi, con un senso vivo di responsabilità, più che di preoccupazione, realmente “paterna”. E mi pare che al fondo di essi si possa riuscire a cogliere quello spirito di verità e libertà che animò la vita di Luigi Gedda, di Diego Fabbri e di mio padre Antonio.