Centro Culturale Man Ray Cagliari

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Personalità e nuove presenze
Rassegna di arti visive

a cura di Mariolina Cosseddu


Giuseppe Pettinau, Monica Solinas



Giuseppe Pettinau

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Giuseppe Pettinau, pittore filosofo, è presente negli spazi del Man Ray con sei grandi tele datate dal 1996 a oggi che segnano la tappa ultima di un itinerario omogeneo ed ostinatamente coerente nella poetica che lo sostiene e per la quale la pittura è pensiero, esercizio della mente, erudito gioco intellettivo. Nella dominante, indiscreta, barocca spettacolarità che invade la scena contemporanea, il lavoro di Giuseppe Pettinau acquista il sapore di un intervallo di sospensione, di pausa meditativa nel dilagante rumore che assorda il presente.

Il punto di partenza di questo viaggio nel tempo è il riconoscimento, nell’opera, di un enigmatico riflesso di se stesso, un percorso labirintico alla ricerca di una via di conoscenza che diventa specchio autobiografico, storia e memoria del proprio essere.

Parte integrante di quel processo di rinnovamento culturale che ha investito l’isola negli anni ’60 e che ha portato alla formazione di diversi contesti di sperimentazione (da Il Gruppo di Iniziativa al Centro d’Arti Visive) Giuseppe Pettinau ha condiviso, con gli artisti di quella generazione, la concezione di un’arte romanticamente intesa come legame tra arte e vita. Il gesto pittorico acquista così, per Pettinau, il valore di un atto di ribellione contro il sistema sociale ed economico ma anche contro il razionalismo e l’utilitarismo dell’etica borghese. La pittura deve essere, per lui, esperienza esistenziale, luogo di condensazione di un vissuto emozionale nutrito di colte letture, miti, fiabe, poesia, analisi del profondo. E questo microcosmo di elementi non poteva che prendere l’aspetto, negli anni ’70, di contesti simbolici dalla ricchezza incredibilmente densa e palpabile nell’accentuata espressività visionaria. Quel groviglio di energia e tensioni vitalistiche, passate attraverso il vaglio di una figuratività che ha conciliato foga espressionista e decantazione surreale, è giunto, negli anni ’80, a negare quel dettato fin quasi a cancellarlo in favore di una pagina di raffinata concentrazione geometrica e materica. I lavori in mostra possono essere letti come consapevole sincretismo tra quei momenti estremi, nella lucidità che ogni lavoro è il risultato dell’insoddisfatta necessità di metamorfosi e che solo nella dimensione del divenire può acquietarsi momentaneamente il sistema adottato. Con in più, in queste ultime tele, una dissimulata, sottile, garbata ironia.

Le superfici quasi monocromatiche dai timbri sordi e bassi sembrano risucchiare in uno spazio mobile e intuitivo modelli archetipi che, occasionalmente, prendono aspetti vagamente antropomorfi o, con più insistenza, si materializzano in segni, cifre, numeri dall’equilibrio precario e instabile. Questi sintagmi di un alfabeto mitico si distribuiscono secondo uno stringente principio di economia, più per sottrazione di elementi che per accumulazione di forme, tanto che la tela diventa luogo di occultamento piuttosto che di rivelazione. "Il vuoto infatti che domina attorno ad ogni presenza, che annulla le distanze, che attrae e scombina le forme, che ordina la narrazione secondo scansioni ritmiche ed esoteriche". Il vuoto dell’incanto e del ricordo, dell’oblio e dell’inconsapevolezza, del dubbio e delle inconfessabili verità. Si respira, dentro quegli spazi, un’atmosfera ansiosa e ludica, severa e magica, inquieta ed empatica, secondo una dialettica che concilia principi opposti e discordanti. Il metodo creativo di Pettinau nasce da un estetica che potremo provare a definire del desiderio, vale a dire da una condizione psichica e intellettiva che muovendosi sul filo delle associazioni mentali e percettive costruisce nella tela una sorta di topografia dell’anima. Spostando il sé dentro l’opera questa non si esaurisce comunque nella autoaffermazione ma si dilata fino ad inglobare una mappa di un possibile inconscio collettivo che la rende incontestabile opera aperta. Ciò conferisce, a questa personale cosmogonia, quel carattere di profondità temporale che la struttura elastica e vitratile, il colore pieno e saturo, le increspature quasi invisibili del piano trasformano in uno spazio di risonanza. Entrare in quello spazio equivale, allora, a perdersi, aggirarsi tra segni e forme significa rischiare lo scivolamento verso altri livelli di senso, avvitarsi in una spirale che ha il suo potere di attrazione nell’icona incombente del cerchio magico. Simbolo della funzione trascendente dell’arte, il cerchio è anche la metafora più compiuta della visione dell’artista che, nella ascetica contemplazione del reale, si abbandona alla sublime visione dell’estasi poetica di un mondo finalmente pacificato. L’apparente disordine si dissipa infatti nella leggerezza dei segni, nel misurato rapporto tra questi e le grandi superfici, nella rassegnata chiarezza che "in filosofia ciò che non è frammento, è inganno" (Nicolas Gonnez Davile).

Mariolina Cosseddu


Monica Solinas

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cm 20 x 20
Tecnica: olio su legno e foglia oro
Microcitazioni 2001


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cm 20 x 20
Tecnica: olio su legno e foglia oro
Microcitazioni 2001

È nella misura del silenzio che si ordina anche il lavoro di Monica Solinas, contrappunto solare alla notturna indagine di Giuseppe Pettinau. I lavori su tavola si lasciano cogliere come luminose specchiature dove la luce riverbera e rifrange le infinite possibilità di trasmissione. È questo di Monica Solinas, un omaggio alla pittura inteso come elogio della materia decantata e sublimata nella smagliante purezza della forma.

La dimensione scelta, piccoli riquadri da intendere come frammenti di un discorso fatto di tessere singole da ricomporre idealmente in una più vasta, complessa, illimitata unitarietà.

Passata attraverso momenti espressivi differenti, grafica, installazioni, pittura, design, fino a sperimentali commistioni linguistiche, Monica Solinas si sofferma ora su una componente evidentemente imprescindibile del suo rapporto con l’arte: la pittura pura con cui stabilisce un dialogo intimo e carico di implicazioni emotive ed intellettuali. Negate, in questo momento, le possibilità narrative o figurali, la vediamo abbandonarsi ad un lirico incontro con il colore, non più mezzo di rappresentazione, ma realtà viva e palpabile in cui identificarsi e dentro cui essere presente. Se è vero che la materia è memoria (Bergson) è anche vero che "è satura di esperienze vissute ed avida di nuove; e queste ultime, non appena vengono assorbite, subito si mescolano e si assimilano alle altre, diventando anch’esse residui, memorie" (Argan). Su questo versante dell’esperienza estetica si consuma il debito contratto dall’artista con la tradizione pittorica mentre apre la via a nuove interpretazioni, a sottili, sensibilissime variazioni orchestrate su fugaci passaggi di toni e timbri, su frenetici movimenti del pennello o su ritmi imprevisti di calme distese di colore. L’operazione che ne discende – "microcitazioni" – è il risultato dunque di una personale riflessione sulla storia stessa dell’arte pittorica trasformata in una mappa di rimandi e divagazioni, suggestivi richiami ed echi lontani. Nel patrimonio genetico di quella lunga storia, Monica Solinas inserisce brani "pompeiani" o "bizantini", maestri dell’informale e del concretismo in un’appassionata adesione al verbo della pittura. E in questo gioco allusivo Monica Solinas finisce per ritrovare se stessa, il suo recente passato, i suoi precedenti lavori, le fasi di un percorso di elaborazione temporale che rimette in discussione il proprio operato e le proprie convinzioni. Non c’è dubbio infatti che questa mostra dichiari la volontà a ripensarsi in rapporto a ciò che è stato e ripensarsi comunque in rapporto ad una storia che ci appartiene e da cui non è possibile svincolarsi. Il processo non segue naturalmente le vie della logica ma quelle delle sensazioni più profonde e autentiche dove far riemergere la propria spiritualità o ritrovare, come poeticamente sosteneva Kandinsky, "un efficace contatto con l’anima". Ne discendono perciò "situazioni visive", create dal rigorosissimo e raffinato allestimento curato da Wanda Nazzari, dove la serialità è assicurata dall’armonico accostamento tonale, dalle ritmiche delle combinazioni cromatiche, dalle rarefatte atmosfere di luce. Nel lavoro esecutivo l’artista, sorvegliando la resa e controllando l’andamento e la densità delle pennellate, ha celebrato una poetica del fare come riaffermazione della propria libertà.

Mariolina Cosseddu