cap5
V

 
 
 
 
 
 
 
 

"Sante parole, ragazzo mio. Sante parole!"
Mai avrei pensato di rincontrare il buon vecchio professore di matematica fra i clienti di Oliver.
Era ridotto male, il professore. Rugoso e molliccio, con denti neri come liquirizia ed un alito sanioso da rivoltare lo stomaco, mi fece accomodare su una poltrona di similpelle logora e bucata, rattoppata alla meno peggio con nastro adesivo marrone e non mi lasciava andar via a forza di rivangare tempi passati ed episodi che non avevano niente in comune con i miei ricordi scolastici.
"Il vizio del gioco, ragazzo mio. Il vizio del gioco! Ecco come mi ha ridotto."
"E sì, professore, il gioco può diventare una terribile abitudine," lo assecondai.
E lui riprese "Sante parole, ragazzo mio. Sante parole. Ho incominciato sette anni fa a giocare, e in sette anni ho bruciato tutto. Sette anni, ed oggi ho dimenticato anche il motivo per cui ho iniziato. Il tavolo verde, allora, era un forte stimolo, una fonte continua d’adrenalina, un sentirsi vivo. Venivo da un periodo di sconforto, sì...
Che peccato! Avrei potuto spendere i miei soldi per viaggiare, vedere posti, conoscere il mondo e la vita. Invece mi sono rinchiuso in tutte le bische di questa città per finire col puntare, di volta in volta, somme più alte, fino ad arrivare a giocare la mia roulette russa, dove il proiettile era la posta assurda che m’avrebbe risollevato economicamente o reso poverissimo. Ed io che ero di famiglia benestante, ho conosciuto la povertà per la prima volta vedendola negli occhi lucidi e beffardi del mio avversario, ancor prima che nella vita di tutti i giorni. Oggi eccomi qui, inquilino nella casa che un tempo era mia."
"E sua figlia Katia, professore?"
Il vecchio storse il muso in una espressione incomprensibile. Casualità volle che Katia rientrasse a casa in quel mentre.
"Ciao pa’. "
Alta, smunta, con i jeans stretti e corti e i capelli tinti di un rosso innaturale, era irriconoscibile.
"Di Giuseppe Montenero, ti ricordi no?" fece il padre.
"Certo. Ciao Giuseppe."
"Ciao."
"Eri un anno avanti a Katia, non è vero?"
"Sì professore."
"Già, bei tempi quelli della scuola. Vi siete persi entrambi; mia figlia dietro la droga," e lanciò uno sguardo feroce a Katia che s’accendeva una sigaretta "e tu dietro un lavoro senza futuro. Avresti potuto continuare gli studi almeno tu, Giuseppe. Eri davvero in gamba, tu. Tutti otto, eh?"
Il vecchio si sfogava, io arrossivo e Katia diventava ancor più pallida di quello che era. La ricordavo castana con un bel profilo greco e due occhi neri sormontati da folte sopracciglia; la ritrovavo diafana con un ciuffo rosso in testa, gli occhi cerchiati pesantemente dal trucco e il naso ammaccato, tanto diversa quanto estranea. Arrossivo per me e solo per me.
"Adesso devo scappare, professore. Devo continuare il mio giro."
Era vero che quello che facevo non aveva futuro. Non c’era bisogno che me lo sentissi dire. Ho sempre pensato che è inutile tentare imprese in cui non si crede, lottare per niente, sacrificarsi per non stringere nulla. Ma quello era lo scotto che dovevo pagare per aver desiderato prima del tempo la piena libertà lontano dalla famiglia.
A che pro’ guardare al passato, a quello che avrei potuto fare senza demeritare, per rammaricarmi e solo rammaricarmi d’una vita che avrebbe potuto essere diversa? La vita è un guaio checché se ne dica, qualunque via si imbocchi.  A me par certo, oggi, che è difficile restare lontano dai guai troppo a lungo senza rischiare di smettere di vivere.
Quel lavoro era la mia disgrazia ma stentavo ad allontanarmene perché, nel frattempo, un desiderio, una voglia matta, stava montando - Adesso dai Carlota! -
Avevo atteso quel momento contando addirittura i giorni che mancavano alla scadenza della rata, sapendo quasi per certo che avrei riscosso una buona dose di sesso.
E sì! Adescatrice e puttana per necessità, Francesca era entrata violentemente nella mia vita ed altrettanto veementemente s’era intrufolata nella mia testa, nei miei desideri, nei miei sogni, fino a diventare un chiodo fisso, un’ossessione.
‘Farò tutto ciò che vorrai, pensa, farai tutto ciò che vorrai!’
Quale lusinga migliore avrebbe potuto usare per stimolare gli appetiti più inconfessabili che ognun di noi porta dentro?
- Che troia, che troia! - la disprezzavo eppure la volevo - Che bocca, che culo! -
È difficile poter pensare ad altro quando s’è morso per una volta un frutto prelibato, sapendo che lo si potrebbe riassaporare solo a volerlo.
Ero riuscito a sottrarmi al suo ricatto agendo in modo assolutamente impulsivo, perché così sentivo di dover fare; ma, ora, in modo altrettanto istintivo, la volevo, la volevo realmente mia, morbosamente mia. E già vedevo la scena di lei che ricompariva sulla porta, vestita con quel suo maglione beige due misure più grande della sua taglia che celava e nascondeva le sue curve mozzafiato a dirmi che non aveva davvero un soldo. Ed io che le chiedevo ‘Allora spogliati’ e lei sorpresa di rimando ‘Spogliarmi?’
‘Sì, spogliati qui’.
E Francesca ubbidiva con aria trionfante al comando e si denudava davanti a me col viso strafottente appena un po’ accaldato. E così dimentico del professore, delle sue parole e della triste vicenda di autodistruzione familiare, febbricitante ed infoiato, arrivai a casa dei Carlota.

"Pensavo che non saresti più venuto, dopo quello che è successo," profferì Francesca dopo una scossa di sorpresa. "Aspetta, vado a prendere i soldi."
Come la rividi tornare col denaro in pugno, la lingua andò da sola "A quanto vedo, hai risolto i tuoi problemi."
"Beh, sì."
"Ti devo delle scuse. Ti ho trattata proprio male," dissi.
"No, no, che dici! Sono io che devo chiederti scusa, non so davvero come farmi perdonare..."
"Offrimi un caffè."
"Certo, vieni."
La temperatura all’interno dell’abitazione era decisamente più tiepida dell’ultima volta, nel corridoio notai una stufa catalitica accesa, in cucina una diversa disposizione dei mobili. Sembrava meno vuota; di certo, vidi in più, accanto al frigo, un carrello portafrutta e, alle pareti, piattini decorativi.
Francesca era serena, i jeans stretti e scoloriti e la felpa verde che aveva addosso le davano l’aria allegra d’una ragazzina.
Guardandola fissamente "Lo sai che m’hai fatto sentire in colpa? Ho passato dei giorni tremendi pensando a quello che poteva succederti."
"Mi spiace, ma sono stata costretta; se Bruno non mi avesse lasciata, quel farabutto... meno male che mi ha spedito un vaglia proprio quando ne avevo maggior bisogno."
"Dal carcere?"
"No, no," e rise assumendo un’espressione canzonatoria.
"No, quella del carcere è una bugia. Forse ho desiderato davvero vederlo in prigione dopo quello che ha fatto. Credevo che mi volesse bene, invece è fuggito via.
Certo non sono sposata con lui, ma abbiamo una figlia. Ti sembra un comportamento giusto? Non aveva dato alcun segno di volersene andare o di volermi lasciare; avevamo fatto un mutuo aggiuntivo per completare la casa, finire il garage, sistemare l’impianto di riscaldamento. Finalmente quando stavamo per sistemarci e diventare una vera famiglia, lui scappa via. E tutto per colpa di Valeria, sua madre. Le cose più assurde capitano tutte a me. Un mammone da non credere. Ogni tanto scompariva, senza avvisarmi, per andare dalla mamma come se fosse normalissimo. Ed invece verso il padre un odio viscerale...
Devi sapere che il padre di Bruno s’era sposato con Valeria, ch’era sua cugina, quando questa era poco più che bambina. S’era preso una cotta così forte che l’aveva tenuta sequestrata in una stalla e aveva finito per metterla incinta. Poi il matrimonio e da lì una storia di litigi, di botte e fughe.
Ma la cosa più singolare, davvero, è l’incredibile somiglianza tra Valeria e la madre del padre di Bruno. Se le foto che ho visto non fossero d’epoca differente, sembrerebbero le stesse persone."
Mentre parlava la osservai attentamente. I suoi occhi, castano chiari, appena velati da una frangetta di capelli neri di seta, non fissavano mai troppo a lungo, le sue labbra, a ben vedere, non erano particolarmente carnose, ma avevano un taglio e un disegno delicato che le rendevano ghiotte al bacio; la fronte, ben proporzionata, era appena corrucciata, il naso regolare, in apparenza comunissimo, quasi scompariva nel bel viso ovale ma, nel profilo, tornava ad essere elemento essenziale d’armonia.
"Scusa, la somiglianza tra chi?"
"Tra la madre di Bruno e la nonna paterna, due gocce d’acqua, da non credere. Poi, dicevo, quando un anno e mezzo fa abbiamo saputo che Valeria era stata colpita da una malattia incurabile, Bruno era caduto in un mutismo ostinato, evitava addirittura di guardarmi in faccia come se fossi responsabile del male della madre.
Un attaccamento morboso, non si dava pace ma, stranamente, non ha mai pianto. Nel giro di un mese la madre se ne andava, giovanissima, poi, solo quarantatré anni. Sono vissuta accanto a lui senza sapere cosa sentisse, cosa pensasse; addirittura m’era sembrato che si fosse ripreso, che avesse, alla fine, accettato la scomparsa della madre."
Scuotendo il capo "È difficile capire quello che passa per la mente d’una persona."
"Però, adesso, ha spedito un vaglia; potrebbe ritornare."
"Non so. Potrebbe, ma come posso perdonarlo dopo quello che  ha fatto? Mi ha lasciata sola, senza un soldo, piena di debiti, con una bambina piccola..."

L’imperturbabilità che rasentava l’indifferenza, certamente anche giustificabile, con la quale Francesca aveva parlato della storia del convivente, così incredibile ma anche così vera, m’aveva reso Bruno simpatico, d’una attrattiva che solo il fascino della fragilità e della sensibilità può esercitare.
La fuga di quell’uomo si ricollegava alla mancanza di un appoggio morale per affrontare quella calamità personale; con quel gesto voleva punire la compagna ma, soprattutto, ricercar se stesso, ritrovare l’equilibrio infranto e, nella libertà assoluta, urlare al cielo il dolore e ristorare l’animo dall’angoscia.
Uscito da quella casa ritornai in agenzia svuotato di tutta la mia libidine. Ma che fatica riuscire a combinare alcunché quando la mente è altrove. Era difficile sottrarsi dal fantasticare una contesa d’amore tra Bruno e il padre, bisognosi entrambi di Valeria, madre ed amante al tempo stesso.
E mi veniva di pensare a Bruno infante con i miei ricordi intimissimi. Con forza, allora, prorompeva un’immagine di vita familiare; uno sguardo miope d’un pargoletto sul volto della madre. Il bimbo non vedeva bene ma lei, la mamma era là, su di lui, a sorridergli, a stuzzicarlo col naso, a mangiarlo e morderlo di baci, a mozzargli il fiato in bocca spalancata al riso, rinchiuso nella chioma dorata della madre, in un’ombra di dolcezza, di pace, di gioia.
Quel volto indistinto, nebbioso eppur luminoso, lo calmava da un pianto lungo, irrefrenabile, puramente istintivo che non costava energia né dolore. Il padre osservava e di tutto gioiva; del volto di lei sul bimbo, degli occhi strizzati a lui, della bocca rosata aperta al sorriso. E una gran tenerezza lo assaliva; voleva essere al posto del figlio, prendere dalla moglie quegli attimi di amore limpido, ghermire a lei ciò che aveva raccolto dalla madre, sentirsi ancora una volta trasmutare il volto dal sorriso, dagli occhi, dalle labbra, dalla voce di lei.
Poi nel silenzio e buio notturno a ragionar, lacrimando, stretto a lei, del contatto perduto e ritrovato, dell’amor che torna a rinnovarsi e trasferirsi nella vita di un bimbo minuto e molle; a rifletter, nel comune tepore corporale, dell’amplesso e rendersi conto che la sicurezza propria sta nell’altro, che il grembo della vita sta lì, in quell’abbraccio.

"Giuseppe! Ti dai una mossa? C’è la tua ragazza al telefono."
Claudia, la segretaria di Oliver, mi chiamava a gran voce svegliandomi dal mio fantasticare.
"Vengo."
"Hai visto che fantastica giornata? Che ne diresti di una passeggiata, questo pomeriggio?" chiedeva Luisa con la sua irresistibile vocina, chiara e limpida.
Era incredibile come tra me e lei tutto fosse tornato come prima.
"Certo."
Diventava doloroso trovare altre scuse davanti al suo entusiasmo; lo sforzo per riconvertire la nostra storia in pura amicizia s’era dimostrato assolutamente inutile.
Nel pomeriggio, di ritorno dal 293, ci fermammo lungo il corso per guardare le vetrine.
"Ti dovresti far vedere da un medico, la tua rinite peggiora sempre" osservava Luisa.
"E sì, quasi non riesco più a respirare. Se continua così finisce che mi viene l’asma."
"Sono sicura che è il polline."
"No, no, non è il polline."
"E cosa?"
Già! Cosa? Come avrei potuto dirle che la causa era il disagio con cui vivevo la nostra storia, il peso di quell’amore rubato?
Davanti ad una vetrina di una gioielleria, Luisa indicava un anello con una piccola acquamarina "È bellissimo."
"Sì, è molto bello."
"Fra venti giorni compio ventidue anni," affermò.
"Ed io, venticinque fra un mese. Stiamo diventando vecchi, mia cara."
"Vieni, andiamo a casa, ti devo far vedere una cosa," disse con la solita vocina cristallina con la quale mai troncava le parole.
"Che cosa?"
"Pico."
"Pico?!"
"Sì, un passerotto. L’ho raccolto sotto casa. Deve essere caduto da uno dei pini quando s’è alzato tutto quel vento. Devi vedere com’è carino. È un pallino di carne con pochissime piume."
I nostri compleanni così ravvicinati non ci volevano affatto. Luisa chiedeva apertamente un anello, un vero anello di fidanzamento che sostituisse quell’anellino striminzito che le avevo regalato sotto le feste di Natale. La faccenda si faceva pericolosa, molto pericolosa. Dovevo chiarire il mio rapporto con lei prima che fosse troppo tardi, a costo di usare la bugia per scacciare la bugia.
Davanti al passerotto che, inaspettatamente, aveva posto allo
interno del diffusore capovolto della sua lampada da scrivania, sistemato come un vero nido impagliato d’ovatta "Non sono ancora pronto," le dissi "sarei ingiusto con te ma soprattutto con me, se mi spingessi oltre. Non posso farti, ora, una promessa."
"Che dici?"
Prendendo la sua mano ed osservando le dita lunghe ed aggraziate e quell’anellino che non toglieva mai "Non puoi chiedermi di più di quello che posso dare. Un anello non è un oggetto qualunque, è una promessa sacrosanta, un impegno."
Sentivo su di me il suo sguardo ma non osavo guardarla, le strinsi le dita che divennero sfuggenti e fredde.
"Ma tu, mi ami?" domandò atona.
"Credo."
"Credi? Che vuol dire ‘credi’ ?"
"Credo di sì. Ecco, credo di essere innamorato di te, però, ammetterai, siamo molto diversi, abbiamo un carattere quasi opposto, abbiamo bisogno di tempo per capirci, non ci assomigliamo per niente."
Mi aspettavo una reazione violenta alle mie parole ed invece
"Forse desideri incontrare una persona che ti assomiglia in tutto e per tutto. Ma non ti annoieresti mortalmente? Non avresti paura di scoprire in lei i tuoi limiti, le tue debolezze, le tue vigliaccherie? Per me sarebbe un incontro traumatico; guarderei i suoi occhi e non vedrei nulla, gli racconterei le cose che sa già, non esisterebbero segreti. Smarriremmo il desiderio del confronto e il gusto di ritrovarci nei nostri gesti, di reinventare, ogni volta, una sfida per rigenerare e rigenerarci."
Con i suoi ragionamenti imprevedibili, Luisa riusciva a scardinare qualsiasi argomentazione logica. Credeva profondamente nel nostro legame, vi aveva riposto ogni speranza e la più passionale ed istintuale fede. Svuotato da ciò che avevo in mente di dire, mi arresi alla sua forza e dolcezza; tuttavia ero riuscito a compiere un piccolo passo, sufficiente per evitare che il suo anniversario si trasformasse in una festa di fidanzamento.
Ma cosa potevo regalarle? - Non ci andrò. Ecco, non ci andrò. Troverò una scusa plausibile, anzi una scusa affatto plausibile. Dovrà essere un ulteriore segno che qualcosa non va, che qualcosa si è rotto e non può essere più ricomposto. -
Ma tralasciando la mia intenzione di non andare alla festa, il regalo avrei dovuto farlo.
Proprio la delicatezza di Luisa mi suggerì il regalo migliore, cioè il più impersonale ed inopportuno. Ma, ahimè, fu anche quella ‘delicatezza’ che mi costrinse ad assecondarla.
Avevo pensato di resisterle adducendo un impegno familiare indilazionabile ma, poi, una gola realmente infiammata, il naso occluso e, addirittura, una febbre a trentotto gradi mi sembrarono le scuse migliori. Ma lei che ti combina? Sposta la festa rinviandola ad un sabato successivo.
 

 

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