cap6
VI

 
 
 
 
 
 
 
 

All’appuntamento andai un’ora prima; il regalo era voluminoso e volevo evitare sguardi e domande degli amici di Luisa.
Avrei potuto anche non fare niente, e forse sarebbe stato meglio; ma quanti atti della vita si fanno per pura convenzione?
Alla porta venne Isabella, la sorellina di Luisa; osservò la gabbia col canarino e sorrise. Mi accompagnò da Luisa fin nella cameretta di lei.
"Ho portato un’amichetta per Pico," esordii mostrando la gabbia.
"Ciao," disse e venne ad abbracciarmi.
"Dov’è Pico? Pico! Pico!" chiamò intorno. Ma Pico era appollaiato sul bastone della tenda e sonnecchiava arruffato. Intanto lei, seria, osservava il canarino e la gabbia tonda smaltata di bianco, senza dir nulla. E chi potrà dimenticarlo quello sguardo deluso e poi il faccino insolente della sorellina che chiedeva ironica
"Non c’è altro?"
Pico scese planando sulla mia testa, quasi a togliermi d’impaccio ma l’imbarazzo crebbe ugualmente. Luisa tornò a sorridere di cuore, prese sul suo indice Pico e portandolo all’altezza del mento accennò un bacio. "Secondo te, che razza è?"
"Sembra un verdone."
"E possono accoppiarsi?"
"Credo di sì, poi, lui è maschio, lei è femmina, andranno d’accordo."
"Dammi la mano," ordinò Luisa e me lo fece salire sull’indice.
Pico iniziò a sfregarsi il becco sul dito con una tenera vivacità e si teneva stretto stretto con le unghie appuntite e pungenti.
L’ombra di tristezza tornò sul volto di Luisa; la fissai ma lei si allontanò. Ritornai ad osservare Pico in quella tranquilla operazione notando ogni minimo particolare; il becco corto e conico, gli occhietti scuri perfettamente tondi cerchiati di peluria gialla, i nervi lunghi e sottili delle unghie trasparenti.
Una dolorosa vergogna m’appesantì il petto, poi il caldo e il bruciore si estese alla testa annebbiandomi la vista.
"Non ti è piaciuto."
Lei tornò a riavvicinarsi mordicchiandosi il labbro inferiore e con gli occhi lucidi "No... è il più bel regalo che ho ricevuto, credimi."
"No, non è vero," obiettai con la speranza di arrivare ad uno scontro chiarificatore.
"Se lo credi..."
Cicalò il telefono nel corridoio e lei andò. Si trattenne a lungo, credo un quarto d’ora. Ricomparve nella cameretta con la giacca piegata al braccio "È Moira, devo fare una corsa da lei; la macchina non le parte."
"Vado io," mi offrii.
"No, no, vado io, non sai neppure dove abita."
Quell’allontanamento credo non fosse casuale, durante la chiacchierata con Moira aveva avuto tempo per riflettere sulle mie parole e sul mio atteggiamento; aveva pensato bene di sfuggirmi proprio nel momento in cui avrei potuto dire altre cose spiacevoli.
Restai lì con l’immagine speculare di Luisa, Isabella, e credetti che lei avesse capito tutto e che potesse aiutarmi. Ma quella sciocchina non intese proprio nulla, stette ad osservarmi silenziosa, poi avvicinandosi "Quando vi fidanzerete?"
Un allegro chiasso, intanto, proveniva dalla piazzetta antistante la casa di Luisa. Erano i primi arrivi, qualcuno correva dietro un pallone, qualcun altro rideva a squarciagola. Riconobbi l’inconfondibile ghigno di Attilio; scesi giù. Spettò a me fare gli onori di casa, a me che a quella festa non dovevo né volevo esserci.
Per fortuna era stato tutto ben predisposto ed Isabella seppe sostituirsi in modo impeccabile a Luisa. Ma fu tremendo. Pensieri foschi mi arrovellarono la mente nell’attesa e quando scorsi nella confusione della calca solo Moira con Aldo, rischiai l’infarto.
"Luisa?" m’affrettai a chiederle spaventatissimo.
"È andata al bagno," rispose roca con uno sguardo penetrante e cattivo, doloroso per me quanto uno schiaffo a piena mano.
Quando Luisa mi raggiunse aveva gli occhi rossi di pianto. Mai avrei pensato che potessero cambiar colore, che vi avrei visto scomparire la luce. Erano torbidi come un mare in tempesta, bigi, freddi, ostili. Mi disse qualcosa, ma non ricordo (le cose brutte si dimenticano) poi s’allontanò lasciandomi ad angustiarmi
"Dio mio, cosa ho fatto, sembra un’altra!"
Impacciato e fuori luogo, sprofondato nel divano, rimasi ad osservare chi ballava. Una ragazza alla mia destra mi guardava insistentemente; aveva un bel visino, forse voleva che la invitassi a ballare. Continuai immobile a sorbirmi un bicchiere di spumante e, in quella vuota fissità, vagai a lungo fino ad incontrare lo sguardo di Isabella seduta sul lato opposto della sala. Le sorrisi, si alzò e mi raggiunse "Ti annoi?"
"No."
"Dai vieni, vieni a ballare con me."
Ballammo ma non ne avevo voglia; era Isabella che ‘guidava’ e mi trascinava nei pressi della sorella nel vano tentativo di riconciliarci. Luisa aveva già trovato il compagno di quella sera; alto un palmo più di lei, bello e rubicondo, in pantaloni classici, dolcevita e giacca, era l’emblema della gagliardia e dell’avvenenza.
Li osservai a lungo cercando di capire. Luisa aveva bevuto ed anche molto; si teneva quasi appesa a lui cingendogli il collo e gli sorrideva ebete, lontana, ormai, da ciò che le accadeva intorno. E lui a tutto quel ben di Dio che si offriva rispondeva ora stringendola forte ora calando le mani aperte sul sedere di lei.
Intorno alla mezzanotte la sala andò svuotandosi, alcuni, però, si erano portati in una camera attigua dove, a parete, c’era un grande camino. Quando vi entrai, Isabella aiutata da Attilio stava accendendo il fuoco, altri portavano legna. Sdraiati a terra, seduti su cuscini o su sediole, il gruppo occasionale formò ben presto una comitiva affiatata. Lo spumante ancora circolava e si vedevano gli effetti sui volti di tutti, poi il fuoco invitava a chiacchierare. Con loro anche Giulio il ‘poeta’.
Sulle note malinconiche di ‘Senza fine’ che provenivano dolci ed attenuate dall’altra sala, un ragazzo dai capelli rossi e radi, dopo aver raccontato una barzelletta dal contenuto macabro domandò
"Non vi è capitato di trovarvi in un posto dove non siete mai stati prima e accorgervi che quel luogo vi è caro e familiare?"
"Sì a volte capita," qualcuno disse.
"Ma a parte la sensazione immediata, non v’è successo che qualcosa vi chiamasse, addirittura?"
Silenzio intorno.
"Ebbene, mi trovavo dalle parti di un ex convento che in passato fu cenacolo di poeti ed artisti. Era la prima volta che passavo di là, eppure mi fermo di fronte al vecchio portone ed inizio a sudar freddo e mi dico - ma qui, io ci sono già stato - e sforzo la mente per tentare di ricordare, ma niente. Lì vicino c’è una villa antica e maestosa con alte mura di cinta con un cancello in ferro battuto. Mi avvicino ed osservo - diavolo, non può essere, io qui ci sono già stato. -
‘Desidera qualcosa?’ una voce maschile fa dietro.
‘No, stavo solo osservando.’
‘Si sente bene?’
‘Si, certo,’ ma la testa mi gira, tutto mi vortica intorno, mi appoggio al cancello per non cadere.
‘Su, venga dentro; com’è freddo, venga dentro. Non sarà mica un drogato? Venga a sedersi qui.’
Lo seguo su una strada brecciata e mi ritrovo sotto un porticato ampio ed ombroso abbracciato da una vegetazione d’edera e pini.
Riconosco una panca nel giardino, una vasca e, sul lato della porta ad arco, un affresco d’Afrodite che sorge dal mare.
‘Come sta ora? Le è passato il capogiro?’
‘Sì, sì, ma ho ancora freddo.’
‘È diabetico?’
‘No, no, dev’essere stato uno sbalzo improvviso della pressione, è la prima volta che mi accade.’
‘Venga dentro, le do qualcosa da bere.’
Entriamo. Dentro fa freddo, i muri sembrano umidi, tracce di muffa qua e là nell’atrio. Ci avviciniamo ad uno scalone a mattoni con un corrimano in ferro e una guida lisa sugli scalini. Su in alto vedo un volto sorridente d’una ragazza ormai donna, una bellezza che non ti aspetteresti di trovare in un luogo in apparenza tanto mesto e sobrio. Ma quel posto è unico, ha un’atmosfera di magica serenità, dimensioni e vastità ove ci si muove con pieno agio.
‘Adriana, conduci il signore in cucina,’ grida il tale ‘ha bisogno d’una bevanda zuccherata.’
‘Vieni,’ dice lei tendendo il braccio e afferrandomi la mano.
Che delizia! Che gioia sconosciuta e desiderata, unica ed inebriante averla vicina. È felice, sembra che abbia qualcosa da dirmi, qualcosa da mostrarmi ed è tanta la sua gioia ch’è impossibile non esserne contagiati.
‘Vieni, vieni.’
Mi tira a sé correndo all’indietro, tenendomi le mani. E ride, ride e i capelli le cadono sul volto e nella bocca carnosa ed umida.
‘Vieni, vieni.’
- Che sciocchina! - mi dico e non resisto, la stringo abbracciandola forte alla fine della corsa, alla fine delle stanze, sul muro freddo e grigio ove la parete s’alza a non finire. Ed è un batticuore unico, un batticuore mai provato, regalato così senza aver chiesto nulla.
In cucina mi ritrovo un bicchiere in mano, ingoio un sorso di latte, latte dolcissimo dall’aroma intenso, assai diverso da quello che si beve oggigiorno. Per la prima volta osservo realmente Adriana e mi meraviglio di quanto sia strana. Indossa un vestito ottocentesco color rosa, un completo a maniche lunghe rigonfie a plissé in alto con un colletto a camicia abbellito in basso da una bianca coccarda merlettata e da piccoli bottoni dorati, con la gonna stretta in vita da una fascia di morbida mussola fucsia.
Torno agli occhi suoi, vivaci e gai e al volto bello e bianco, attorniato da una capigliatura castano chiara che cade giù da una scriminatura centrale con riccioli via via più lunghi e folti.
Dietro di lei, in un enorme camino, un pentolone nero fuma e gorgoglia sospeso al centro.
Adriana si volta e dal lato dello stipite del focolare dove sono allineate ventole, palette e una serie di piccole scope di saggina, prende una molla e ravviva il fuoco sbraciando ed aggiungendo fascine. Intanto levo il capo alla parete, vedo candelieri d’ottone, tegami e casseruole di rame sospese a rampini di metallo nero e tanti gingilli, strani ed obsoleti.
Meravigliato, mi volto ed osservo intorno. Al centro del locale c’è un massiccio tavolo rettangolare di legno color noce, giù in fondo alla parete, una credenza scura con fregi ad intarsio e cimasa ad ampie volute, accanto, più chiara, una madia con un piano ribaltato stipata di grosse pagnotte. Avanzo verso il tavolo, lascio il bicchiere con il latte. C’è una conca di rame ricolma d’acqua con un ramaiolo immerso, porto le mani ai manici, guardo dentro. Vedo un volto che non è il mio.
Mi sono risvegliato al cancello, fuori dalla villa, con la testa poggiata tra le fredde barre di ferro; non ero mai entrato."
Smisi di ascoltare, ritornai da dove ero venuto, volevo salutare Luisa ed andarmene, ma non la trovai. Erano ormai in pochi quelli che ballavano, non ebbi il coraggio di cercarla; chissà dove si era appartata con quel ragazzo.
Mi sentii solo e non so come né perché mi ritrovai di nuovo davanti al camino, nella piacevole atmosfera della comitiva, appena in tempo per ascoltare Giulio.
"Finalmente trovo una piazzola dove fermarmi. È impossibile proseguire; l’acqua scende giù a secchi, la visibilità è quasi inesistente e il vento è forte. Lascio acceso il motore e aspetto che passi. Boati nel cielo, lampi e paurosi fulmini. Il mondo sembra precipitare. D’un tratto la macchina si muove, oscilla al vento, slitta sull’asfalto. Il motore si spegne. Provo e riprovo, niente, è muto. Tremo. La macchina continua a slittare e l’oscurità pare inghiottirmi. L’acqua crepita forte ad onde continue e potenti e spingono, spingono come un’enorme mano - Oddio, oddio, qui crepo! -
Balzo fuori e mi ritrovo sotto un inutile ombrello, oppresso dalla pioggia che mi esplode sulle scarpe. Attraverso la strada e mi porto a ridosso della montagna rocciosa per cercare un parziale riparo. Avanzo accostando poi, sotto una sporgenza di roccia, un’apertura mi accoglie in una protezione inaspettata. In quella cavità, rinfrancato, attendo seduto sui calcagni. La pioggia inizia a perdere intensità, il cielo riproietta un po’ di luce. Osservo l’orologio e un’ombra passa veloce sul margine opposto della strada. Ricompare ed io urlo ‘Ehi, serve aiuto? Serve aiuto?’
Faccio per uscire fuori, ma quella sagoma dopo un breve oscillare scompare. Mi asciugo il volto perplesso, attendo ancora. Ora la pioggia cade senza intensità. Vedo passare alcune automobili e, rincuorato, ritorno in macchina. La pioggia continua sottile, il cielo s’apre alla luce. Metto in moto senza difficoltà. Poco dopo rallento ed osservo la mia ‘grotta’. Torno a guardare avanti e rabbrividisco all’immagine di una fanciulla dritta davanti alla macchina. È scalza, indossa solo una specie di corta sottana viola bagnata ed incollata al corpo. Mi osserva con gli occhi sgranati, col viso imperlato d’acqua. Impietrito fisso il volto, bello e strano; un voluminoso, lungo e stretto naso con una bocca piccolissima. Scompare. Mi rimetto in movimento ed eccola di nuovo che corre davanti velocissima, scalza e quasi nuda, affiancando la macchina sulla corsia opposta. Mi guarda e sorride e con difficoltà le sto dietro pur accelerando. Ha le gambe bianche e robuste, forti e muscolose. Freno inchiodando - ma che cavolo mi sta succedendo, - barbuglio tra me. Lei si ferma ad una quindicina di metri. Esco dalla macchina col cuore in subbuglio. Ipnotizzato ed attratto cerco di avvicinarmi a lei che continua a sorridermi senza emetter suono. La vedo lì davanti a me, quasi ad attendermi ed una gran voglia di prenderla mi assale. Gli balbetto qualche cosa, poi ‘Come ti chiami?’. Stendo le braccia e quasi la tocco ma lei si scosta indietro sorridendo. Eccitato faccio un balzo per afferrarla, ma mi precede. La inseguo e le corro dietro, ma lei è velocissima con quelle gambe poderose e s’allontana col sedere all’aria.
Corro, corro come un forsennato ma non ce la faccio a starle dietro; sconsolato mi fermo, piegandomi per il grande affanno
- È irraggiungibile, è irraggiungibile, - mi dico piangendo.
Dov’è andata? Ritorno verso la macchina col viso avvampato e la cerco ancora intorno. Cammino per una decina di metri ed un urlo tra un grido ed un ululato mi raggela. Guardo in su e, nella fitta boscaglia, la vedo per un istante che si arrampica in alto.
Sono restato ad osservare ed attendere non so quanto tempo. Sarà stata una mezz’ora, un’ora; come si fa a ritornare in se stessi dopo un incontro così, un prodigio davvero?"
Ci fu un lungo momento di silenzio; Isabella guardava Giulio incantata "Ma chi era?" domandò con occhi lucidi, pieni d’interesse e d’attesa.
"La ninfa dei boschi!" rispose lui con un sorriso bonario.
Attratto da quel fanciullesco interesse, andai a sedermi al fianco di Isabella e Giulio continuò quasi parlando a lei sola
"Una settimana dopo sono ritornato esattamente dove l’ho vista salire. Forse mi prenderete per matto ma, per me, quella visione è stata strabiliante. Ero certo che quella montagna enorme, selvosa, a prima vista inaccessibile ed ostile, celasse un mistero, un respiro. Ho iniziato ad arrampicarmi sicuro che..."
Giulio ammutì all’improvviso cambiando espressione; le pupille dilatate gli scurirono gli occhi dietro le lenti tonde e una voce diversa, modulata da brividi d’emozione, iniziò a venir fuori dalla bocca appena aperta.
"Dapprima procedo con estrema calma, ragionando sugli appigli migliori, poi, voglioso di raggiungere il punto più alto, salgo con maggior decisione, senza sostare a lungo, assolutamente indifferente alle punte aguzze della roccia ed ai graffi brucianti. Le gambe intirizzite dall’ombra del monte non ancora illuminato dal sole del mattino, si sciolgono al calore delle energie consumate senza fretta. A passi piccoli e continui, avanzo zigzagando. Poi arrivano i luoghi invalicabili che mi costringono a ripiegare sui passi già fatti, alla ricerca dello spuntone espugnabile. Man mano che salgo, la vegetazione si dirada, solo l’erba resiste tra le crepe e nei buchi della roccia ricolmi di sabbia dilavata giù dalla vetta. Il respiro si fa più affannoso, l’andatura rallenta, l’aria fredda sembra non saziare i polmoni. Anche il riposo è faticoso. Poi il desiderio torna forte ed incontrollabile; la vetta è là, fredda e luminosa, sotto un cielo più corto. Inizio l’ultimo tratto, il più difficile, usando le mani a mo’ di piedi. Ora il respiro è l’unico compagno in quella solitudine totale, ora la paura è l’energia ulteriore che scuote il corpo. E c’è lo scontro tra l’io che sale e l’io istintivo che fugge il pericolo. Il cuore batte forte, le braccia fanno male, il respiro è convulso. Quasi ci sono ed impreco forte. Ancora un po’ e ci sono, cazzo! Ci sono per davvero, la gioia mi fa tremare. Seduto sul punto più alto del monte, piacevolmente riscaldato dai raggi del sole, ricolmo della bellezza respirabile di tanti chilometri di monti e boschi, di vento e luce... chiudo gli occhi e lei... lei compare, bellissima, proprio lei, la ninfa dei boschi. Si avvicina, mi bacia sulla fronte, mi accarezza i capelli, si stringe fresca al collo."
Con le palpebre abbassate e un sorrisino a fior di labbra come caduto in estasi, Giulio concluse il racconto. Restammo ad osservarlo in silenziosa attesa ma egli, inopinatamente, si sollevò dal cuscino dov’era seduto a gambe incrociate e a voce squillante
"È tardi, adesso devo andare."
Cercammo di trattenerlo, ma fu inutile e l’entusiasmo che tanto occasionalmente era nato intorno al camino per quelle storie particolari, andò inevitabilmente spegnendosi, mancando nel gruppo chi potesse suscitare un interesse altrettanto forte.
Verso le tre e mezzo del mattino, la musica cessò, ma nessuno ci raggiunse. Avevo atteso Luisa fino ad allora, poi
"Io me ne vado, qualcuno vuole un passaggio?"
Attilio si allungò per sgranchirsi le gambe e con uno sbadiglio forzatamente lungo "Vengoo, iohoo!"
In macchina, come si sedette, tornò a sbadigliare
"È incre-di-bile!"
"Cosa?"
"La storia di Giulio."
"Non crederai, davvero, a quello che ha raccontato?"
"Ma, non so; però Giulio non è un tipo che racconta panzane, avrà la mania della poesia, ma non è un bugiardo."
"Mah, io non discuto la buona fede di Giulio, né tanto meno la sua credibilità. Penso, invece, che la storia sia vera solo in parte."
"Cioè?"
"Cioè fino al punto in cui si infila sotto la sporgenza della roccia. Immaginati al suo posto. Qualche istante prima aveva pensato di morire; la macchina slittava sull’asfalto, aveva creduto realmente di precipitare in un burrone, era uscito fuori senza vedere nulla, sotto il nubifragio. Una paura tremenda. Quasi sicuramente, dopo lo spavento, si è addormentato proprio sotto la sporgenza.
Forse aveva visto realmente qualcosa sulla strada ma, poi, ecco che si addormenta. E sogna. Credimi, addormentarsi in quello stato è quasi un fatto fisiologico. È una difesa dell’organismo da un’emozione violenta. A te non è mai capitato di assopirti dopo un grosso spavento, rivelatosi infondato?"
"Già, è vero!"
"Sono bastati, credo, pochi attimi perché la mente di Giulio, ricollegandosi a quell’ombra, elaborasse l’incontro, non altro, poi, che un appagamento emotivo."
"Mi sembri Freud!"
Lo convinsi, ma la spiegazione in cuor mio non mi persuase affatto. Giulio ogni volta che apriva bocca incantava; lo spessore emotivo di ogni sua frase poteva dar sostanza di vero e certo anche all’impossibile. Se fossi stato io o qualcun altro a narrare una vicenda come quella, tutti ne avrebbero riso di soddisfatta burbanza.
 

 

H O M E   P A G E
 
 
< < <  I N D I E T RO