cap7
VII

 
 
 
 
 
 
 
 

Sarei volentieri uscito a respirare l’aria fresca del mare, quella domenica se fosse stata come tante altre.
Sebbene mi fossi svegliato di buon ora, me ne restai a lungo nel letto. - Prima o poi Luisa telefonerà e vorrà vedermi. Cosa le dico? Vorrei che tutto fosse già finito. Non ce la faccio più; vorrei riposarmi, chiudere gli occhi, restarmene nel mio cantuccio e languire in una dolce pigrizia. -
Il pomeriggio trascorse nell’attesa, nell’incertezza, nel non sapere che fare. Verso sera si affacciò la voglia di uscire di casa, di andarmene via per un po’.
Perché non Francesca? Con lei, in quel momento, avrei ritrovato la tranquillità; ma come sarei potuto andare lì e dirle ‘Ho voglia di fare l’amore con te’ ?  Forse m’avrebbe riso in faccia, insultato, spinto giù per le scale.
Mi preparai per uscire di casa e già sapevo cosa avrei fatto. Salii in macchina e via per la riviera a cercare per la prima volta una puttana.
Avevo iniziato a non guardar più quando una macchina, davanti a me, s’arrestò all’improvviso vicino a due ragazze di colore in minigonna. - Saranno? Altroché! Ecco che si avvicinano. -
Frenai appena in tempo e abbassai d’un lampo il finestrino. Dietro di me un’automobile ed una seconda rallentavano alla mia altezza.
"Quanto?"
"Settanta."
"Salta su!"
Eccitatissimo guardavo la strada e mi ripetevo - Roba da non credere! Ho caricato una puttana. -
"Questa sera c’è la polizia in giro," esordì preoccupata.
"Ti va a casa mia?" le domandai.
"Dove vuoi," disse allungando la mano sotto gli occhi miei "ma prima la moneta."
Aveva le dita grassocce come quelle d’un bambino ben pasciuto e, stranamente, unghie corte senza smalto. Poco dopo rallentai per cacciar da tasca i soldi.
"Da dove vieni?"
"Brasile."
"Brasile?! Davvero?"
"Sì," confermò alzando le rade sopracciglia.
"No, non può essere, mi prendi in giro. Dai! Dimmi da dove vieni."
"Senegal."
"Allora perché affermi di essere brasiliana?"
"Così qualcuno da più soldi."
"Ah! Poi questa! Però hai un accento francese. Chi ti prende per brasiliana?"
"Tanti, ma dove andiamo?"
"A casa mia."
"E poi?"
"Ti riaccompagno."
Arrivati sotto casa, le indicai con il capo "Lo vedi quel portone?"
"Sì."
"Entra e sali al secondo piano, io ti seguo."
"Devo togliere il rossetto?"
"No, non è necessario."
Nera com’era con quella minigonna fosforescente e le calze a rete, sarebbe in ogni modo apparsa una puttana ad un chilometro di distanza, ma la esortai "Va di corsa."
Felice di essere scampato a sguardi di facce conosciute (almeno così credetti), solo dentro casa mi resi conto del rischio che correvo - E se viene Luisa? -
Affannato osservai la mia ‘preda’; era grande, alta, ricciola, nera come la pece. "Andiamo!"
Mi seguì svogliata nella mia cameretta trascinando le gambe lunghe e retate e storcendo la bocca alquanto prominente restò immobile ad osservare ciò che facevo. Indolente e bruttina, continuò inanimata a farsi spogliare e toccare; era dura, calda e liscia.
Se non fosse stata per la fretta e l’agitazione avrei potuto possederla più a lungo. Forse, come dicono i manuali dell’erotismo, avrei dovuto azzannarle un lobo delle orecchie ed attender che si animasse, farla sdraiare sul letto e solcarle con le dita il corpo, ararle il seno, il ventre, avanzar nella fitta selva per sentirla supplicar di far presto, con gli occhi sgranati e la bocca aperta.
Fu fuoco di paglia! Lì in piedi, sospinta contro il piano della scrivania, lei si trattenne rigida e dura e, a denti stretti, accolse la mia impaziente voglia.
La riaccompagnai al marciapiede. Nello specchietto retrovisore la osservai mentre scompariva all’interno di un’autovettura che fu subito pronta a prelevarla.
Chissà quanti avranno creduto o voluto credere che fosse brasiliana e quanti, poi, avranno sognato il Brasile!
Chi non ha mai desiderato trovarsi in mezzo al carnevale di Rio e lasciarsi andare al ritmo ossessivo di corpi danzanti, al turbinio di colori sfavillanti, alle notti calde di vento e sesso?
O bramato d’essere un cacciatore o un avventuriero, un bandito o un indigeno nel mezzo dell’Amazzonia e respirare il suo caldo ed umido ossigeno? O, forse, cercatore d’oro o di diamanti, sotto quel sole, sotto sacchi ripieni di pietrisco, nel fango limaccioso di certe zone interne, nella pochezza di cibo e di guadagno, pur di vivere l’illusione della libertà e il sogno della ricchezza?
Anch’io, lo ammetto, l’ho ritrovata brasiliana nel verde di quel paese, nello sguardo di quegli occhi scuri e sensuali, accolto da lei con un sorriso mite e fanciullo nell’intimità silenziosa di una capanna di foglie larghe e profumate, su un terreno caldo e rosso, ferreo e dolce come la sua pelle, le sue gambe, le sue labbra.
- Domani... domani, forse, Luisa verrà, domani, domani questa storia, forse, finirà, domani... -
Mi addormentai, alfine, stanco.

Il risveglio portò solo per un istante le sensazioni della sera precedente, subito annullate e scacciate dall’idea del lavoro e dalla fretta. Quel giorno, in agenzia, mi aspettava un lavoro raddoppiato. La faccia turbata di Riccardo, la scontrosità di Alfredo non mi rivelarono, tuttavia, tanto ero altrove con la testa, che qualcosa era successo.
Dopo circa un’ora, Claudia, la segretaria, venne a comunicarmi che Oliver voleva parlarmi. Lo trovai alla scrivania, pensieroso, con le mani chiuse a pugno sotto il mento.
"Mi voleva?"
"Sì."
Continuò a fissare ancora il vuoto, poi si riscosse
"Conosci un ragazzo in gamba che possa prendere il posto di Vincenzo?"
"Perché, non vorrà andarsene?"
"Non lo sai? Se n’è già andato, altroché! Potrei chiederti un favore?"
"Dica."
"Dovresti parlargli; credo che non gli abbiano ancora offerto un lavoro, dovresti assicurargli che sarei disposto a raddoppiargli il compenso da qui a qualche mese, sempre che lavori con lo stesso impegno."
"Se n’è andato per i soldi?"
"Forse. Mi ha detto che è un lavoro pesante, che non è adatto a lui, che non riesce più a combinare niente, ma credo che abbia bisogno di soldi. Pensandoci bene, sono sicuro che ha necessità di soldi."
Era la prima volta che vedevo Oliver tanto avvilito, si rendeva conto di aver perduto con Vincenzo oltre che l’elemento più valido del gruppo anche tante opportunità di guadagno; ora ricorreva al solo mezzo che conoscesse, i soldi, per recuperarlo a sé. Ma, la sua, era, una remota speranza.
"Proverò a parlargli, ma non è detto..."
"Quando ci vai?"
"Questo pomeriggio."
"Grazie."
Vincenzo non m’aveva mai detto dove abitasse realmente, era sempre stato vago nelle indicazioni. Una volta aveva parlato di un bar nei pressi di casa sua, nella parte storica della città; d’altronde se mi capitava di accompagnarlo in macchina, scendeva in un posto dove per me era più facile, poi, proseguire.
Nel tardo pomeriggio, senza l’intenzione certa di fare ciò che mi aveva chiesto Oliver, me n’andai in giro per le strade di quella zona. Entrai in un bar, poi in una tabaccheria; quando ormai ero sulla via del ritorno, inaspettatamente, trovai, sul lato d’un portone in legno, la targhetta con su il nome del collega.
La casa di Vincenzo era un palazzotto vecchio e maltenuto. Esteriormente sembrava in discreto stato, non già per l’effettiva cura, ma per la mole architettonica che doveva farne, nel passato, un’abitazione signorile.
Ma l’imponenza dell’edificio, che pur si rispecchiava all’interno per uno spazioso atrio pavimentato a mattoni rossi ed una volta a crociera, sminuiva per un potentissimo fetore d’immondizia mischiata ad un acre tanfo d’umidità che rendeva l’aria irrespirabile.
Salii su per le scale di travertino fino al pianerottolo della porta d’accesso e a labbra serrate "Madonna che puzza!"
L’uscio s’aprì; comparve Vincenzo. Buttando fuori la poca aria che m’era rimasta nei polmoni "Sono venuto a trovarti su incarico di Oliver," dissi per giustificare la mia presenza. Lo sguardo grave del mio ex collega, che parve addirittura cattivo, si raddolcì in un sorriso affabile. Dopo una stretta a man diverse e un goffo tentativo di rimediare con un abbraccio, Vincenzo si sciolse in modi gentili e premurosi "Che cosa posso offrirti?"
"Niente, grazie."
"No, che niente! Un amaro, un cognac, un caffè?"
"Un caffè, grazie."
In cucina chiamò la madre fuori al balcone, piegata sulla ringhiera a scuotere un panno "Mamma, vieni qui che ti presento Giuseppe."
La madre si risollevò dritta e tornò dentro precipitosa a tendermi la mano mentre il figlio diceva "È un carissimo amico, abbiamo lavorato insieme all’agenzia finanziaria."
"Piacere, Marta."
"Giuseppe."
"Che cosa possiamo offrire a questo bel giovanotto?"
"Un caffè, ma’, " intervenne Vincenzo carico di tensione.
"Ti vedo un po’ ingrassato," fece a voce squillante a richiamar l’attenzione.
"Beh, ho messo un po’ di pancetta."
"E hai perso un po’ di capelli," aggiunse strizzando un occhio.
L’osservai interdetto, ma lui indietreggiò di un passo alle spalle della madre e portando la mano al mento, stropicciò l’indice sulla punta del naso, strabuzzando gli occhi. Dovevo star zitto.
Fin quando il caffè non fu pronto e servito, ci scambiammo una serie di domande e risposte come d’amici che non si vedevano da lunghissimo tempo; quando la madre ci lasciò soli, finalmente, le false curiosità cessarono. Vincenzo, strattonandomi per la giacca
"Andiamo fuori al balcone," disse a voce bassa. "Mia madre non sa nulla del lavoro; se sapesse che l’ho lasciato, inizierebbe a rompere non ti dico quanto."
Fuori, appoggiandomi alla ringhiera, osservai giù
"Caspita! Non immaginavo che ci fosse tutto questo spazio qui dietro; il terreno è tuo?"
"No, se fosse mio non lo lascerei in questo stato."
Si riconoscevano due zone verdi che un muro a sghimbescio ricoperto da ramificazioni secche di ampelopsis, riusciva a mala pena a dividere. Da una parte un prato soleggiato, fresco d’erba novella con fiori e gramigna e un borasso altissimo; nell’altro, una vegetazione selvatica di collinette di rovi e frutici, una sorta d’inestricabile intreccio verde a chiazze scure, che tendeva a sbucar fuori, fino a  lambire una terrazza d’un caseggiato opposto al nostro, disabitato e fatiscente. Quell’edificio era il regno di decine, centinaia di piccioni; gran parte d’essi se ne stava sul tetto, altri erano appollaiati sul cornicione al di sotto dei resti d’una grondaia divorata dalla ruggine. Ai loro piedi, sul muro, strisce verdi di muffa e qua e là, tra le fessure della modanatura dell’edificio, cuscinetti di muschio con tanto di steli e capsule.
"Allora, cosa vuole Oliver?"
"Ti raddoppia lo stipendio se continui a lavorare per lui."
"Caspita che sforzo!" e rise sarcasticamente. "Di’ a quel taccagno d’Oliver che non lavoro per hobby né tanto meno per raddoppiare un compenso da miseria; neanche a triplicarlo arriverebbe ad essere uno stipendio decente. La verità è che ci siamo ridotti ai margini del mondo del lavoro e, alla fine, non è neppure una questione di soldi. Fosse pure un lavoro appagante e interessante ci si accontenterebbe anche di poco! Ma lavorare ai limiti della legalità per uno strozzino, non è affatto il mio sogno; se non riesco a trovare di meglio, torno a fare il rappresentante, piuttosto che continuare. Ma tu, quando ti decidi?" domandò, infine, come se la mia decisione fosse già presa.
In quel momento, mi resi conto di non aver pensato né cercato un lavoro dal giorno con Francesca. Speranzoso che qualcosa sarebbe cambiata nella mia vita, che sarebbe giunto il giorno della grande svolta, avevo atteso fino ad allora una chiamata per un lavoro ugualmente mediocre, fuggendolo, al tempo stesso, con vaghi desideri di gloria.
Quante volte me ne sono restato disteso, sul letto, a dolermi nel mio angolo angusto, vuoto come un freddo deserto? E a pungolarmi la mente - e allora, perché non prima, perché rimandare a domani, perché ti trastulli nell’attesa? -
Ora mi ero fermato, possibile? Dio mio, mi ero fermato.
Osservavo quell’intreccio verde cupo, Vincenzo parlava ma sentivo senza udire; un brivido freddo mi corse per la schiena e lo sguardo andò di nuovo alla luce. Il sole era al tramonto, il giorno moriva, un’angoscia profonda s’aprì nel petto a togliermi l’aria
"È meglio che rientriamo, fa freddo."
In cucina, la madre di Vincenzo tagliuzzava sul tavolo qualcosa di nero che sul momento non riconobbi.
"Perché non resti a cena?" fece il figlio in uno slancio di sincera premura.
"No, grazie."
"Ci sono i funghi, non ti piacciono?"
"Sì, grazie, ma devo proprio andare."
Un’occhiata ai funghi champignon che erano neri da far impressione e via da quella casa in gran fretta per tentare di scacciare tanta insolita ambascia.

A tavola ripensai al mio vecchio, caro progetto; presi carta e penna e, tra una bistecca ed un’insalata, buttai giù qualche riga
‘Egregio direttore, sono un venticinquenne con una gran passione per la lettura e la scrittura. Vorrei lavorare per il suo giornale; non chiedo un’immediata assunzione, né uno stipendio, ma un’occasione, una prova, anche lunga se vuole.
Le offro il mio entusiasmo, la voglia di imparare, la voglia, soprattutto, di lavorare. Non la trattengo oltre, se lo desidera può contattarmi a...’
- Andrà bene? Chi voglio prendere in giro? Come se oggi bastasse una lettera per ottenere un lavoro. Povero illuso! E poi, ammesso che mi chiami, che credenziali ho da offrirgli? Il mio entusiasmo? Sai le risate. Già lo vedo, cicciuto e saccente, a ridacchiare sulla sua poltroncina a cinque razze, davanti al suo compiuterino nuovo di fabbrica, a fissarmi sudaticcio con gli occhi lucidi, aspettando di vedermi arrossire e scomparire. Bisognerebbe conoscere qualcuno, e come? -
Reduce dalla mia battaglia immaginaria, neanche combattuta, me ne restai a lungo ad invocare il coraggio scomparso chissà dove.
Se almeno tutte le ansietà portassero ad un risultato!
La mia voglia di fare, purtroppo, è sempre estemporanea, mai duratura; le idee e le speranze affondano e riemergono a periodi. L’indomani il mio ‘vecchio, caro progetto’ tornò nel cassetto della scrivania insieme alla carta.
Quando rimisi piede in agenzia mi aspettavo che il capo chiedesse di Vincenzo. Ma Oliver oltre ad essere il taccagno dei taccagni, aveva anche un grande amor proprio. S’era mostrato fin troppo avvilito davanti ai miei occhi; abituato ad aver sempre ragione, non avrebbe mai potuto mostrarsi sconfitto. Badò bene a non chiedere nulla, aspettando che fossi io a tirare fuori l’argomento. Ma non ero disposto a riascoltare il suo ‘evidentemente’ che avrebbe comunque chiuso il discorso, a prescindere da ciò che gli avrei detto. Non ci parlammo affatto; il silenzio fu davvero loquace.
A casa, una telefonata di mia madre mi ricordava che compivo gli anni . - Sarebbe bello, - mi dicevo - crescere e conquistare di volta in volta il significato della vita e di ciò che ci circonda, sarebbe bello. -
Tante cose pensate e ripensate; alla fine, solo piccole verità, le uniche certezze. Anche a ripercorrere a ritroso gli anni nel tentativo di cercare nel vissuto il senso del vivere, ritornano solo immagini a volte accostate insolitamente, suggestive, unicamente, di forti emozioni. Sono, incredibilmente, la tua storia, la storia di un uomo e forse dell’umanità. Ricordi un pianto, un lamento, una gioia, un abbraccio, una preghiera, l’infinito nostro vagare nel finito; l’impressione è quella di un discorso frammentato, tanto polivalente quanto incomprensibile.
Il campanello squillò mentre stavo per uscire e raggiungere i miei per trascorrere degnamente l’anniversario. Era Luisa, bella e triste, con un pacchetto in mano.
"Questo è per te."
"Cos’è?"
"Un libro; ti piacerà senz’altro."
"Grazie, ma non dovevi."
"Non posso entrare?"
"Certo che puoi! Stavo per uscire..."
Mi osservò tremendamente triste "Mi manchi da morire," disse. "Mi perdoni?"
"Per cosa?"
"Per come ti ho trattato."
"Non hai nulla da farti perdonare."
"Perché?" domandò flebilmente.
"Perché è meglio così."
"Cioè?"
"Lo sai quanto me."
"Che cosa dovrei sapere?"
La voce le tremava e lei tutta tremava; aveva capito, ma non voleva, non poteva crederlo. In quel momento mai e poi mai avrei potuto farle del male. La osservai, la abbracciai stretta stretta e la rassicurai "Sono stato io a trattarti male," e, soffocando la voce su i suoi capelli sciolti, continuai "Devi darmi tempo; ti chiedo solo questo. Vuoi? Vuoi?"
Rianimata dalle mie parole insperate, Luisa si strinse ancor più forte e il suo mento mi diceva sì sulla spalla. Ancora una volta avevo evitato di dire la verità, ancora una volta tornavo ad illuderla; ma, inevitabilmente, la nostra storia era arrivata ad un punto tale che doveva esserci un chiarimento. Luisa lo avrebbe chiesto di lì a qualche ora.
 
 

H O M E   P A G E
 
 
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