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 Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte  

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  LA TESTIMONIANZA DI UN GIUSTO:

Adriano Ossicini

 

  Foto:  Adriano Ossicini

   In occasione della "Giornata della Memoria", che ricorre il 27 gennaio 2009, ci piace riproporre la testimonianza autobiografica di uno psicoanalista psichiatra, Adriano Ossicini. Questa nostra scelta ricade su questo autore in quanto l'ultimo numero monografico della rivista di psicoanalisi "Frenis Zero", intitolato "Autobiografie dell'Inconscio"(N. 11, anno VI, gennaio 2009), ha raccolto testi autobiografici  scritti da psicoanalisti. Adriano Ossicini è stato presidente del Comitato Nazionale di Bioetica,  professore di Psicologia alla Sapienza, per trent'anni parlamentare come indipendente di sinistra, ex responsabile della Famiglia nel Governo Dini. Questa sua testimonianza  è quella di un "Giusto"  che, insieme ad altri medici tra cui Giovanni Borromeo, allora primario del reparto in cui Ossicini faceva i primi passi nella pratica medica, si adoperò per salvare tanti cittadini italiani, perseguitati dai nazifascisti in quanto  di origine ebraica. Nell'intervista rilasciata da Ossicini al "Messaggero" il 16 ottobre 2003, che riproduciamo in questa pagina, egli ricorda quello che esattamente sessant'anni prima era accaduto agli ebrei romani. All'alba i soldati del Reich cominciarono a rastrellare gli ebrei romani del Portico d'Ottavia. I deportati quel giorno furono 1.022. Ossicini assistette alle scene strazianti di cui fu testimone da una finestra del reparto Sala San Pietro del Fatebenefratelli. Emergono dal racconto  le figure di due altri "Giusti": Giulio Sella e Giovanni Borromeo. Quest'ultimo, cattolico e liberale, fedele al giuramento di Ippocrate,  non aveva mai preso la tessera del P.N.F., e anche grazie alla complicità di un amico frate, Frà Maurizio,  ricoverava ebrei, polacchi, oppositori del regime a cui diagnosticava una misteriosa malattia, il morbo di K.. Una sindrome contagiosissima quanto immaginaria che <<con malcelato humor nero e senso dello sfottò, prende il nome dai due "untori" tedeschi che avevano sparso l'infezione nella capitale: il Feldmaresciallo Kesselring ed il colonnello delle SS Kappler>> (citazione da "Il morbo anti-Ss", recensione di Francesca Bertani su "Il Sole 24 Ore" del 27.01.2008). Giovanni Borromeo, sulla cui vita il figlio Pietro ha scritto il recente libro "Il giusto che inventò il morbo di K" (edito da Fermento, Roma, 2008), per Israele è un "Giusto" fra le Nazioni. Lui diceva: <<E' soltanto il mio dovere>>.

Adriano Ossicini ha accennato a questi ricordi anche nel suo libro"Un'isola sul Tevere. Il fascismo al di là del ponte" (Editori Riuniti, Roma, 1999).

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

Gli elmetti delle SS luccicavano al chiarore dei fari, i soldati si muovevano a gruppi, un ragazzino tentò di scappare e fu subito ripreso.
Si sentivano le urla, i pianti delle donne, il rumore dei camion militari. Vedevo le divise dei tedeschi e gente che tentava di scappare dal Ghetto verso l'Isola Tiberina. Era una scena spaventosa, una cosa apocalittica.  Quello che era terribile erano quegli ordini rabbiosi, gridati in una lingua straniera, che rimbombavano tra le case. Gli ebrei, ci sembrò subito chiaro, erano destinati ai lager. Fu un incubo.
 Stavo facendo un'endovenosa a un paziente Era l'alba. Dopo la caduta di Mussolini ero uscito da Regina Coeli dove ero stato rinchiuso come sovversivo, e, pur essendo ricercato, facevo avanti e dietro tra Roma e Viterbo, dove guidavo una formazione partigiana. Saranno state, più o meno, le cinque e mezzo del mattino, quando mi accorsi che al di là del Tevere, dalla parte del Ghetto, c'era movimento di truppe e gente che scappava.

Vedevo le divise, gli elmetti che rilucevano. Uscii dall'ospedale. Ero in camice e andai verso il punto dove c'era più trambusto, all'inizio del ponte che collega il lungotevere all'Isola Tiberina. Fu lì che incontrai Giulio Sella, guardiano del dormitorio di Santa Maria in Cappella, a Trastevere, un uomo che aveva già aiutato molti ebrei. Mi disse: “Dammi una mano, cerchiamo di salvare qualcuno di questi poveracci”.

C'era gente che scappava dall'interno del Ghetto. Alcuni, probabilmente, non erano membri della comunità, ma soldati in borghese che si erano nascosti e adesso fuggivano. Era chiarissimo, comunque, quello che stava accadendo. Sella si era già inoltrato nel quartiere e si era reso conto che stavano razziando gli ebrei. “Razziando”, disse così. Andammo un po' più avanti e vedemmo la scena.

Famiglie intere  Quello che mi colpì è che nessuno tentò di ribellarsi. In quel momento pensavo che forse io, morto per morto, avrei cercato di fare qualcosa. Ma c'era la minaccia delle armi... Resta il fatto che fu apocalittico vedere tutte quelle persone, impotenti, che salivano sui camion. Un bambino tentò di scappare uscendo dalla fila e fu subito riacchiappato mentre i soldati lanciavano, in tedesco, urla bestiali. Le donne piangevano.

Tornammo verso il ponte e avviammo quante più persone possibile verso l'ospedale. Non abbiamo mai saputo quanti fossero in realtà gli ebrei. Ma in quel momento era impossibile fare distinzioni. Chiesi a un certo fratel Raimondo, un prete, di nascondere tutti. Furono messi in un ambulatorio. Il primario, Giovanni Borromeo, in quel momento non c'era, ma sapevo che sarebbe stato d'accordo, perchè aveva già ricoverato diversi ebrei nei reparti facendoli passare per malati.

Pensai che quelli catturati sarebbero morti e che tutta la vicenda era assurda. Il rastrellamento arrivò inatteso. Il 28 settembre gli ebrei romani avevano versato cinquanta chili d'oro ai tedeschi come richiesto dal comandante Herbert Kappler e si sentivano, in qualche modo, al riparo. Tra l'altro il rastrellamento era in palese contrasto con il fatto che Roma fosse stata dichiarata ”Città aperta”.

Quella mattina stessa tornai nel viterbese. Restai fuori alcuni giorni. Seppi poi da Sella che una parte furono ricoverati, mentre altri erano stati nascosti nel Palazzo della Cancelleria (vicino a piazza Farnese) e nel dormitorio di Santa Maria in Cappella, dietro a via dei Vascellari. Si salvarono tutti. Quando rientrai in ospedale, mi dissero della loro riconoscenza per Borromeo, il primario. La decisione di tenerli in corsia, in fondo, l'aveva presa lui, dopo essersi consultato con il cardinale vicario, Marchetti-Selvagiani. L'ospedale, non bisogna dimenticarlo, è religioso ed era stato sentito anche il Vaticano. Racconto oggi queste cose solo perché credo che l'ottanta per cento dei protagonisti non ci sia più. Non mi sono mai piaciuti né i premi né le medaglie. Ma certi fatti sono storici ed è giusto che la città li conosca, per non dimenticare mai la tragedia di quella notte.

 

 

 

 

                

 

                    

 

 

 

 

        

 

 

 

 

 

 
 

 

 

 

 
 

 
 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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