RECENSIONI

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Michele Santangelo è pittore per vocazione. Egli sa che il suo lavoro sulla tavolozza è duro come quello sui carri e sui campi di suo padre e sua madre. [...] I maestri Santangelo se li è trovati da solo: sono i pittori della grandezza e della miseria contadina, da Levi a Guttuso, dai Messicani a Guerricchio. [...] Intanto il filo della pittura di Santangelo si dipana. A poco a poco, gli oggetti si chiariscono, assieme alle intenzioni, ed il linguaggio si fonde più docilmente al calore dell’applicazione. Ad un certo punto la realtà diviene quasi emblematica. [...] Il colore, questa forza suggestiva e suggestionante dell’artista meridionale, viene smorzato: la linea di forzatura della formula realistica passa – una volta ancora – attraverso la grafica. Gli ultimi quadri di Santangelo rivelano una familiarità con il mondo circostante che non ha più nulla di prestabilito”.

(dalla Presentazione di Aldo Musacchio, Personale presso il Seminario vescovile, Tricarico 1967)

“Caro Michele, [...] Quelle tue prime pitture infantili stavano anch’esse dentro a quel mondo adolescente contadino, ne derivavano o ne partecipavano naturalmente. Ora è passato qualche anno, hai lavorato molto rubando il tempo agli studi, trovando miracolosamente tele e colori, e anche una piccola parte del tuo lavoro più recente basta a fare un’esposizione, come questa di Matera. Qui, più che figure dei contadini, ci sono gli oggetti, isolati in metafore poetiche, presi insieme nella loro realtà attuale in un tempo in movimento e nel ricordo presente di una immobilità secolare, nel modesto orgoglio di un loro valore in sé, di simboli, di espressioni di un mondo contadino che si rivela a se stesso. Sono ancora le cose reali del paese, le stesse che fornivano i nomi al mondo poetico di Rocco Scotellaro: le foglie delle piantine nei vasi di latta sui davanzali, le finestre come occhi, i recipienti per la conserva lasciata ad asciugare al sole, i camini, le grondaie, le cucine economiche: il paesaggio della vita quotidiana di un paesetto lucano “nell’ombra delle nubi sperduto”. Oggetti, forme pure, isolate, con la fiducia che esse abbiano per sé un valore espressivo”.

(dalla Presentazione di Carlo Levi, Personale a “La Scaletta”, Matera 1968)

“La serie delle Avventure di Bartolomeo Colleoni in Basilicata è composta di cinque quadri dipinti nelle estati del 1971 e del 1972. L’idea da cui è partito Michele Santangelo è molto semplice. Proprio nel momento in cui l’agricoltura della Basilicata interna andava letteralmente scomparendo e con essa veniva progressivamente decadendo la figura, per così dire storica, del mulo, [...] era necessario fissare il mulo in tutta la sua evidenza figurativa, elevare – appunto - un monumento alla sua forza ed al suo contributo alla storia delle classi contadine. Ma proprio nel concepire quest’opera nasceva una difficoltà di fondo: che cosa avrebbe potuto essere un monumento al mulo in Basilicata? [...] Immaginare un monumento occorreva rifarsi ad altre civiltà ed allora tanto valeva risalire direttamente al Rinascimento, alla statua del Verrocchio, collocata a Venezia. [...] Se queste erano le motivazioni che spingevano Michele Santangelo ad affrontare il tema eroicomico di Bartolomeo Colleoni in Basilicata: ovverosia di un nobile cavaliere che in Basilicata avrebbe dovuto prendere la testa delle sue truppe montando un mulo, i cui zoccoli sarebbero sprofondati in morbide argille; se tale era il tema figurativo, occorreva metterlo in rapporto con il contenuto e l’obiettivo veri dell’operazione: una statua equestre, protagonista il mulo di Basilicata. Ecco allora questa serie di quadri. Il monumento del Verrocchio viene collocato dentro lo spazio lucano: uno spazio che è tutta la storia della regione, così ampio com’è e così resistente alla mano dell’uomo, così sonnolento e remoto ancora nei suoi dati fisici e naturali, così disgregato e spietato. Affacciandosi da Tricarico da una parte sul Bradano e dall’altra sul Basento, Santangelo poteva cogliere, l’arido bruciato paesaggio cerealicolo dei demani comunali delle Matine per un verso e, per l’altro, oltre le nebbie mattutine - a volte più fitte di quelle stesse veneziane, di quelle padane - le ciminiere delle industrie di base di Val Basento. Qui si manifestano gli estremi opposti del sottosviluppo di Basilicata: l’arretratezza delle strutture agricole ed il neocolonialismo delle cattedrali nel deserto. [...] Una volta di più, con un pittore meridionale, siamo alle prese con l’allegoria”.

(dalla Presentazione di Aldo Musacchio, "Le avventure di Bartolomeo Colleoni in Basilicata ed altre storie, personale a “La Scaletta” di Matera 1973).

“I dipinti di Michele Santangelo hanno incontrato il favore di artisti e critici di fama. Amico di vecchia data, ho avuto la ventura di seguirne il cammino e condividere i contenuti delle sue ricerche, a passo con i tempi, pur senza indulgere a facili mode, in forme e colori aderenti e comprensibili. Le sue tele rappresentano paesaggi lucani, alcuni ancora incontaminati, altri ai margini di terre aggredite da vecchi e recenti interventi dissennati”.

(dalla Presentazione di Rocco Mazzarone, Personale “Il paesaggio lucano nella pittura di Michele Santangelo”, Palazzo ducale, Tricarico 1989).

“L’essere Michele Santangelo nativo di Tricarico ha significato la sua forza e disperazione d’artista. tutto il peso schiacciante di una tradizione che si racchiude emblematicamente nella figura del sindaco-poeta Rocco Scotellaro. Un invito all’arte come impegno civile, alla militanza meridionalistica cui volentieri Santangelo s’è piegato allacciando i dovuti rapporti con riconosciuti maestri [...]. Il ciclo di opere che va sotto il titolo “Omaggio al pittore di Policoro (V sec. a. C.)”, ispirato al mito dell’epos greco, racchiude i risultati ultimi della sua ricerca pittorica. Per Santangelo, chimico di professione, aumenterebbe a dismisura il contrasto interiore e costitutivo in senso artistico tra fabula mitologica e processi ionizzanti, fantasia e ragione, mutos e logos . [...] Quello degli artisti è sempre un viaggio alle origini e Santangelo ci ha inserito di suo l’originario nascente muto mondo contadino che nell’arcaico riconosce la primitiva identità”.

(Franco Vitelli, ”Mito e scienza nella pittura di Santangelo”, in Oggi e domani, XX, 5, 1992, pp. 35-36)

“[Negli anni ’80 Santangelo] torna a dipingere la natura nelle sue componenti cromatiche, dà espressione a superfici molto vaste con pochi elementi compositivi, contando poco nell’aiuto della prospettiva. Le composizioni diventano capolavori di musicalità coloristica, poiché l’artista sa rompere la superficie, alternare varie tonalità di colore ad una grafia ora tattile ora violenta, in un gioco di linee, dando l’effetto di spazio, di profondità, di movimento continuo. Nelle opere evidenzia quei caratteri che diventano processi di conoscenza storica per comprendere tanto la natura e l’universo, quanto l’uomo”.

(Salvatore Sebaste, “Michele Santangelo: il filo perduto della memoria storica”, Basilicata Regione Notizie, 4, 1996, pp. 99-102)