Barbara Pietroni, Poesie e Realtà 1945-2000

 

Fin dalle prime righe dell’antologia, Majorino conferma ancora una volta che quando si è veri poeti lo si è per tutta la vita, in tutto ciò che si fa e che si dice. Mi fa piacere infatti vedere che la parola del suo dire narrativo e critico non rinuncia alle straordinarie possibilità insite nella parola del suo dire poetico e che ogni riga acquista il peso di una pagina, ogni pagina quello di un libro, l’antologia quello di una vita.

Anche qui, ciò che appassiona e trattiene a sé è l’uso di una parola che non si esaurisce mai, ma che richiama sempre; una parola silenziosa che fa parlare l’immaginazione, che vive e si muove sotto ai nostri occhi, autonomamente e imprevedibilmente, diventando altro, traendo a sé ciò che normalmente non l’accompagna, nemmeno da lontano; una parola che muove i suoi passi dall’ignoto, che invade campi insoliti, traendo intensità nuove.

Prendiamo per esempio l’Apertura: più che un’introduzione ad un discorso più ampio, è una vera “apertura verso...”, un soffio d’aria nuova, di spazi liberi, di possibilità nate all’improvviso da un’arida e infeconda parola “fine” che accompagna verità profonde che lasciano senza parole.

E’ un’apertura senza dubbio singolare, che nasce con l’aspetto di una chiusura. E’ difficile non ritrovarsi in qualche punto della “giornata faticosa” e, soprattutto, è impossibile far finta di niente, censurare, ignorare, passare sopra ad un elenco di verità insistenti, che, una dopo l’altra, logorano il tessuto dell’indifferenza, apatia, egoismo e distrazione a cui siamo abituati, fino a bucarlo.

Premeva dire dove siamo. E verrebbe naturale pensare: siamo proprio messi male! E’ un’analisi così vera, così cruda, così profonda e così libera da immobilizzare il pensiero su ciò che è stato detto, come se non ci fosse più niente da aggiungere: è stato detto tutto e forse anche troppo. E questo “tutto” non ci è lontano, riguarda noi e gli altri che vivono con noi, è inserito in un contesto da cui non possiamo assolutamente prescindere, riguarda ciò a cui dedichiamo più tempo (tutto) e più energie: la nostra esistenza, il nostro vivere.

Gente che lotta per sopravvivere, la cui “sfortuna” è dettata dalla “fortuna” di altri; gente che si annoia persino di vivere; gente che è diversa e nel contempo uguale a noi, che vive realtà invivibili di cui i più non parlano; gente che per molti, immersi nel loro tran tran quotidiano, assorbiti totalmente da una vita parallela fatta di quiz e di belle vallette con sorriso stampato, non esiste o esiste solo in forma teorica.

Davanti a tutto questo, allora non si può che aprire una crepa, nella quale sprofondano le illusioni di una realtà “nonostante tutto accettabile”, con tutti i suoi compromessi e le sue semi-libertà. Si crea un vuoto di tristezza per un mondo che c’è, ma che scompare ad ogni secondo; una colpa di omissione talmente potente e talmente a sé traente, da non poter includere non solo una scappatoia per passare oltre e dimenticare, ma neanche una porta da lasciare aperta alle nostre spalle: girare la pagina è l’unica soluzione dettata dalla logica e non è un “passare da... a...”, ma un “andare portando con sé”. E’ la gioia di Majorino, che lo accompagna in ogni riga scritta e in ogni riga bianca. E’ il possibile che fa sperare, che apre e porta avanti, che ridimensiona tutto secondo la giusta scala di valori, che riconsegna decisività alle nostre scelte, che parte da un reale apparentemente chiuso e fa nascere da esso altro reale, in parte simile, in parte diverso.

Il possibile permea le vite di tutti, per alcuni è facilmente accessibile, per altri meno. Ma è bello sapere che c’è, che è lì, disponibile, aperto a chiunque, bello, brutto, ricco o povero. A volte il problema è rendersi conto che c’è, altre volte invece si tratta di impegnarsi coscientemente in una lunga lotta contro condizionamenti e forme solidificate della vita che scorre; incontrare qualche mediatore certo aiuta molto (un poeta, un insegnante, un pittore o anche (chissà?) l’edicolante sotto casa, la maschera di un cinema, un sito...); e se proprio la rete spessa delle sovrastrutture che ci avvolgono non lo permette, basta prendere al volo qualche “possibilino”. E’ di estrema importanza tenere sempre presente, e questo mi sembra uno dei punti fondamentali della poetica e della vita di Majorino, che ci muoviamo di continuo in un ambiente gremito di porte, che possono essere aperte in qualsiasi momento. Purtroppo, spesso succede che non venga nemmeno in mente di aprirle: sembra implicito che siano chiuse e tutto ciò che è intorno sembra confermarlo “a doppia mandata”. O, altrettanto spesso, accade che ci si abbandoni pigramente all’equivalenza facilità = felicità (ecco ancora il poeta che padroneggia la lingua!), tanto pubblicizzata dai media che spesso ci sollevano dall’incarico di pensare.

Intorno a noi sempre meno gente dispone di quella sensibilità capace d’intuire l’esistenza di un «qualcosa in più», che emerge da sotto le sovrastrutture, i falsi ideali, i conformismi di una società che ci vuole sempre meno attenti, meno intelligenti, meno indipendenti. Sempre meno gente è disposta ad interrogarsi, a confrontarsi con l’altro da sé , a mettere, mettersi in discussione, come se la sopravvivenza individuale dipendesse da un “lasciar vivere” e “lasciarsi vivere”.

Per fortuna (o per sfortuna?) questa sensibilità non fa parte del nostro patrimonio genetico: nessuno è condannato a non averla, per usufruirne basta solo esercitarla. E un buon punto di partenza per imparare a farlo è senz’altro quello del corpo insegnanti, una tappa obbligata per vite che seguiranno poi percorsi estremamente diversi. Gli insegnanti, sempre meno appassionati, sempre meno consci di poter produrre dei veri e propri miracoli (insinuando nei giovani un piccolo dubbio destinato forse a crescere e a cambiare la vita in meglio), sempre meno in cerca di quel “qualcosa in più” (e se non l’hanno trovato loro, come è possibile che lo facciano trovare agli altri?). I giovani studenti, dice Majorino, non sono stupidi, capiscono-sentono se e quando, dietro alle parole, c’è un esserci vero. Non senza ragione Majorino, considerando fondamentale il ruolo degli insegnati, continua ad avere con loro un dialogo serrato attraverso frequenti corsi e conferenze. Non a caso Majorino stesso è un insegnante da tutta una vita (attualmente, ricordiamolo, insegna semiotica, analisi della scrittura ed estetica alla Nuova Accademia di Belle Arti). E’ per questo che in ciò che scrive e in ciò che dice si coglie l’urgenza del capire a fondo, per non perdere qualcosa che forse ci renderebbe più liberi.

Il possibile dunque è la fonte di giovinezza eterna-interna di Majorino, il quale, al contrario di quasi tutti i non più giovani, non ha ancora rinunciato (e speriamo che non lo faccia mai) a quelle “molteplici vite attaccate all’unica vita”, proprie di un futuro in fasce non ancora definito.

E se da una parte Majorino si porta dietro la giovinezza con tutti i suoi possibili (o sarebbe meglio dire che la Giovinezza si porta dietro Majorino?), dall’altra si tira dietro anche tutto il resto: la portinaia, il macellaio dietro l’angolo, la padrona del bar. Sono gli altri, i compagni della sua unica vita (anche se loro non lo sanno): in ciascuno trova sempre qualcosa di degno, di straordinario, che lo rende unico, un corpo di corpi in mezzo ad altri corpi di corpi. E nei corpi Majorino ci sguazza gioioso, forse perché sono superficie e profondità insieme, perché rendono visibile l’invisibile.

Proprio come quest’antologia, che coglie quel qualcosa in più e ce lo restituisce.

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SEZIONE: critica   STATUS: completo   TEMPI DI LAVORAZIONE: 11/2002 - 4/2003

 

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