Antonio Porta (“Alfabeta”, luglio-agosto 1985; ora in Progetto infinito a cura di Giovanni Raboni, Associazione “Fondo Pier Paolo Pasolini”, Garzanti 1991; presente inoltre, insieme ad altri testi critici, nell’Autoantologia di Giancarlo Majorino, Garzanti 1999)

 

Si può cominciare sondando il titolo di questa nuova raccolta di Giancarlo Majorino, che comprende poesie scritte tra il 1970 e il 1981. Perché Provvisorio? Provvisorio è sempre il lavoro del poeta col linguaggio? Provvisorio il senso che può attribuire a questo suo particolarissimo lavoro? Se la risposta è , è così, allora significa prendere subito le distanze dalle rinnovate tentazioni metafisiche, assolutizzanti, che investono il fare poetico di responsabilità profetiche e religiose che probabilmente gli sono estranee. Dico “probabilmente” perché non si sa mai; il poeta non può sapere fino in fondo di che cosa si sta occupando, e non deve essere una sua preoccupazione quella di delimitare il campo del sapere o della conoscenza.

“Provvisorio” significa anche collocare il linguaggio della poesia all’interno di tutti gli altri linguaggi che una data società produce in un dato momento della propria storia, sia essa pubblica o più sotterraneamente privata. Poiché un poeta parla soprattutto con le sue scelte di stile, di forma, di ritmo, “provvisorio” vuol dire “forma instabile”, mobile, non definibile una volta per tutte. Significa ancora: sperimentalismo.

Giuseppe Pontiggia che ha firmato la bandina del libro, sottolinea giustamente la “radicalità” della scelta stilistica di Majorino, una “radicalità” che ha come conseguenza la “ricchezza espressiva del suo linguaggio”. Di fatto, quando lo sperimentale nasce da intrinseca necessità deve essere ricco, di ritmi, di metri e perfino di rime. L’intrinseca necessità di sperimentare è la conseguenza dell’esplorazione costante delle forme dei linguaggi: se non si parte da questa esplorazione si arriva solo a una letteratura statica, dunque insignificante.

Majorino ritaglia, dunque, il proprio linguaggio poetico nel bel mezzo della lingua parlata, e lingua parlata significa storia recente, politica e personale. A guardare le date che incorniciano la raccolta si osserva che si tratta di storia e di storie degli anni Settanta, periodo tra i più tormentati e ancora molto discussi. Anni di morte o anni di vitalità? La poesia ha già dato e continua a dare la sua risposta forte: anni di vitalità. Forse per questa ragione il linguaggio della poesia li interpreta più nel profondo di qualsiasi altro linguaggio. In altri termini, la vitalità della poesia degli anni Settanta, la sua disordinata proliferazione, dimostra la vitalità della storia.

Va bene discutere e interpretare; ma la poesia non si esaurisce in queste pur necessarie funzioni. Una domanda legittima, allora, è questa: leggendo le poesie di Majorino c’è solo descrizione, mimesi, interpretazione, o qualcosa in più che ci commuove, che ci sommuova e risvegli? La risposta, positiva, sta in due punti: nella riuscita di un poemetto molto coinvolgente, Denti di latte, e poi nel senso di levità, di leggerezza, che tutto il linguaggio del libro induce nel lettore.

Il lettore, cioè anch’io, sente questo bisogno di essere risollevato dalla grevità del tempo, dalla volgarità della Storia, dalle sue violenze, e di recuperare nella leggerezza, musicata, dei passaggi linguistici un’aria del tempo che non sia condanna a morte. Anche la morte è polvere, dice Majorino in una delle poesie della raccolta, e vola via col soffio dello stile.

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SEZIONE: critica   STATUS: completo   TEMPI DI LAVORAZIONE: 11/2002 - 4/2003

 

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