le facciate dipinte ad Acqui Terme

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A cura di

arch. Antonella Caldini

 



 

Tratto dal libro

Il centro storico di Acqui Terme. I diversi momenti di una rinascita complessiva, De Ferrari Editore, Genova, 2003, pp.213-226

 Antonella Caldini

 Considerazioni sul recupero delle facciate dipinte del centro storico acquese, in Alberto Pirni (a cura di),


 

Restauro architettonico 

  San Vito a Morsasco

Palazzo Levi

Palazzo Madama Rossi

Le facciate dipinte

 


Sommario della Sezione:

Principi di Restauro

Il Laboratorio

Schede  tecniche

Ricettario

Glossario

 

Considerazioni sul recupero delle facciate dipinte del centro storico acquese

 

1. Il cambiamento urbanistico della città e l’usanza di decorare le facciate

 Ad Acqui i primi esempi di facciate dipinte risalgono a prima del XIX secolo e sono contraddistinti da semplici motivi decorativi e da un uso del colore finalizzato alla ripartizione delle bucature. L’usanza vera e propria di

decorare le facciate con motivi più complessi, a temi geometrici o floreali[1], risale al pieno Ottocento e fa seguito ad alcuni importanti avvenimenti urbanistici che modificarono radicalmente l’assetto della città, favorendone il  potenziamento a livello turistico e termale.

[1] Sono pochi gli esempi di facciate acquesi decorate a temi figurativi: tuttora visibili, sebbene recentemente ristrutturati, quelli sul prospetto di un edificio di Piazza Bollente, non più visibili, invece, (poiché recentemente rimossi a seguito dei lavori di ristrutturazione) quelli dell’edificio contiguo a Palazzo Radicati, su Via Conciliazione.

Ripercorrere la cronologia di questi avvenimenti permette di scoprire su quali aree si venne maggiormente a diffondere l’usanza delle facciate dipinte e per quali motivi.

 

Particolare della decorazione sopra finestra di una facciata: prima e dopo l'ultimo intervento di ristrutturazione edilizia

 

 

Risale al 1731 l’istituzione del ghetto israelitico su Piazza Bollente[2], il cui realizzo richiese ad una vera e propria impresa di ristrutturazione ed adeguamento dei singoli edifici alla nuova destinazione: ne derivò una parcellizzazione dell’intera piazza così fitta da non trovare precedenti.

[2] «tutti gli Ebrei che abitavano sparsamente nella Città; ed anche quei pochi che dimoravano nel luogo di Monastero dovettero riunirsi nel Ghetto che per ordinato civico del 5 luglio 1731 fu fissato attorno alla piazza del mercato dove esiste la fontana dell’acqua bollente», B. Biorci, Storia d’Acqui, Ed. F.Rossi, Tortona, 1818, p. 216.

La successiva abolizione del ghetto (prima metà dell’Ottocento), attuata attraverso l’esproprio e l’abbattimento di buona parte delle vecchie case degli ebrei, rese evidente la necessità di ridefinire l’assetto della piazza anche grazie ad una nuova politica tesa a rilanciarne l’immagine.

Tra il 1780 e il 1781 si assiste alla copertura del corso del torrente Medrio e alla nascita di Strada Nuova (attuale Corso Italia) che si prepara a diventare uno dei maggiori assi viari di rappresentanza. Prima di questo avvenimento la via delineava il corso di un torrente divenuto, nel tempo, luogo di scarico dei liquami cittadini, quindi nessun affaccio o ingresso carraio vi si rivolgeva direttamente. In seguito, però, vista la nuova destinazione, fu stabilito il ripristino degli affacci precedentemente chiusi e il decoro dei singoli prospetti.

Intorno ai primi decenni dell’Ottocento si assiste alla demolizione della cinta muraria e alla progressiva espansione verso le aree abbattute, la parte più antica della città viene abbandonata e le funzioni politiche ed amministrative vengono decentrate dal vecchio borgo Pisterna verso i borghi Nuovo e San Pietro. Proprio su borgo San Pietro si sviluppa l’antico percorso romano del decumano massimo (attuale Via Garibaldi), il cui collegamento con Piazza Bollente avveniva attraverso un ponte sul torrente Medrio; tuttavia solo quando quest'ultimo fu definitivamente coperto e deviato l'unione tra le vie si consolidò.

Ritengo che la tradizione delle facciate decorate si sia sviluppata maggiormente lungo questi percorsi, per il fatto che svolsero un ruolo fortemente catalizzatore nella rappresentazione della città e nel rilancio della sua immagine turistica, contribuendo in questo modo anche al  potenziamento delle attività ricettive e termali


2. La tutela delle facciate dall’Ottocento ad oggi

La volontà della città di tutelare il decoro delle sue facciate risale al 1837 quando venne redatto il primo Regolamento d’Ornato della città d’Acqui[3], al quale fece seguito, ventitré anni dopo, un Regio Decreto istituito dal Consiglio Edilizio che conteneva al suo interno il testo nuovo del Regolamento d’Ornato, ampliato ed integrato rispetto alla precedente stesura.

[3] Cfr. Archivio di Stato di Torino, sez. 2: 8 luglio 1837, Regolamento d’Ornato della città d’Acqui

[4] Cfr. Archivio Comunale di Acqui: 24 giugno 1860, “Instituzione di Consiglio Edilizio nella città d’Acqui e Regolamento di Pubblico Ornato”, capitolo VII, art. 39

 

 Le indicazioni che si ricavano riguardano principalmente le modalità di intonacatura dei fabbricati a calce, di imbiancatura e tinteggiatura nei tempi stabiliti dal Municipio, sentito il parere del Consiglio Edilizio. Tutti i costi d’intervento risultano essere a pieno carico dei proprietari degli edifici prospettanti sui percorsi di primaria importanza, che hanno, perciò, lo specifico dovere di garantirne nel tempo una buona conservazione.[4]

Dall’Ottocento fino ad oggi è sempre stato chiaro il proposito di tutela delle facciate dipinte, riconoscendole come espressione intenzionale di una consolidata tradizione pittorica, il passaggio dai Regolamenti d’Ornato agli attuali Regolamenti Edilizi non nega la precisa intenzione di salvaguardare la facciata dipinta, in quanto “bene culturale ed artistico”.  L’introduzione del concetto di vincolo,

imposto su «tutte le cose, immobili e mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico[5]» include anche la grande maggioranza di queste facciate, per lo meno quelle contraddistinte da un dichiarato livello di monumentalità. Restano fuori, invece, tutte quelle appartenenti alla cosiddetta architettura minore,  per le quali non esiste altro vincolo reale se non quello imposto dal decoro dell’ambiente urbano.

[5] Legge 1 giugno 1939, n. 1089 “Tutela delle cose d’interesse artistico o storico” (G.U. 8-6-1939, n. 184)

A questa seconda categoria appartiene l’insieme delle facciate del centro storico acquese, oggetto, negli ultimi anni, di particolare cura.

Sicuramente i recenti dibattiti sul trattamento delle superfici dipinte, piuttosto accesi, hanno contribuito a maturare un nuovo interesse anche nei confronti del centro storico acquese al punto che, tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, le facciate dell’intero centro storico sono state motivo di recupero.

 

Particolare del fregio: prima e dopo l'ultimo intervento di ristrutturazione edilizia
 

 

 

La sollecitudine agli interventi è stata favorita dall’invio, da parte della Pubblica Amministrazione, di esplicite ordinanze[6] che, nel rispetto di quanto previsto dal Regolamento Edilizio Comunale e dalle relative norme di attuazione del P.R.G.I., invitavano i proprietari di edifici con facciata gravemente ammalorata a provvederne il rifacimento.

[6] La lettura di una di queste ordinanze ha permesso di individuare i seguenti riferimenti normativi:  art. 84 del Regolamento edilizio comunale “Manutenzione degli edifici”; artt. 26 e 37 delle Norme di attuazione “Decoro dell’ambiente urbano” e “Area di interesse storico – A”; art. 24 del L.R. 5-12-77 n. 56 s.m.i. che attribuisce al Sindaco potere di ordinanza nell’imporre l’esecuzione delle opere necessarie al rispetto dei valori ambientali compromessi da trascuratezza o da incauti interventi; il già citato art. 37 delle Norme di attuazione anche per quel che riguarda la facoltà del Sindaco di imporre, sentita la Commissione edilizia, le modalità d’esecuzione delle opere stesse

Nell’Ordinanza vengono anche indicate le modalità d’intervento, partendo, anzitutto, dall’insieme di indagini preliminari da farsi sulla facciata per fornire un inquadramento storico-ambientale dell’edificio. Tali indagini dovranno essere eseguite attraverso documentazioni grafiche e fotografiche dello stato di fatto; indicando i tipi di materiale da utilizzare per il  rifacimento degli intonaci - malta di calce spenta o similare - escludendo tassativamente l’uso del cemento.

Per le tinteggiature esterne è previsto l'uso di materiali a base di silicati (più raramente a base di calce), escludendo l’impiego di acrilici o quarzi. Infine, sono indicate le tecniche d’intervento per la riproduzione fedele delle decorazioni esistenti, siano esse a  rilievo o pittoriche, con riferimento, in quest’ultimo caso, alla tecnica del trompe l’œil.[7]

[7] «Rappresentazione pittorica illusionistica in cui ciò che è dipinto sembra reale (locuzione francese usata in italiano come sostantivo maschile: “inganna-occhio”)» ad vocem, P. Adorno, L’arte italiana, Casa editrice G. D’Anna, Firenze, 1998, Volume III, Tomo secondo, pag. 1257

ll carattere impositivo delle ordinanze ha avuto l’indubbio merito di avere focalizzato l’attenzione sul recupero del centro storico;

resta tuttavia da verificare l’opportunità o meno d’interventi diffusi. Aspetto questo che si ricollega direttamente ai recenti dibatti sul restauro e alle posizioni antitetiche di taluni studiosi che protendono, da una parte, per la reintegrazione dell’immagine originaria e, dall’altra, per l’assoluta conservazione del dato.[8]

[8] Sull’argomento, G. Carbonara, P .Gasparoli, Superfici intonacate e colore: un programma di ricerca, «Tema», 1993, n. 3, pp. 35-45; C. Soddu, La patina del tempo, «Recuperare», 1985, n. 19, pp. 64-67; L. Pittarello, Problemi ed esperienze in materia di intonaci dipinti nell’area piemontese, «Bollettino d’arte», 1984, supplemento n. 6, pp. 81-87

La mancanza in proposito di chiari riferimenti normativi e di un unico principio regolatore può lasciare incorrere in un rischio piuttosto comune: quello, cioè, di porre un distinguo assolutamente arbitrario tra le superfici pittoriche, imponendo l’assoluta conservazione per tutte quelle di dichiarato “valore artistico” ed ammettendo, invece, il ripristino (e in moltissimi casi la sostituzione) per tutte “le altre”.

  


3.    Confronto tra procedure esecutive passate e recenti: dalle facciate a calce a quelle ai silicati

 Nell’Ottocento la tecnica pittorica impiegata per la quasi totalità delle facciate acquesi è stata quella della tinta a calce, in parte ancora oggi sopravvissuta su quelle poche che, dilavate e sbiadite, non sono ancora state oggetto di recupero. L’introduzione sul mercato di nuovi sistemi pittorici, alternativi a quelli tradizionali, ha contribuito al radicale cambiamento d’immagine dei tanti centri storici del nostro Paese, nei quali l’aspetto originario è andato così, irrimediabilmente, perduto.

Nel caso specifico il richiamo, nell’Ordinanza di avvio lavori, all’impiego di materiali a base di silicati per la tinteggiatura esterna delle facciate, chiarifica in che modo, in Acqui,  la consolidata tradizione pittorica a calce sia stata abbandonata. La questione merita un approfondimento dal momento che, negli ultimi anni, l’impiego generalizzato e diffuso di tecniche sempre più “moderne” ha condotto verso nuove problematiche, relative alla precoce deperibilità delle superfici di finitura e alla limitata intonazione cromatica delle nuove tinte.[9]

«Per comporre la tinta a calce, nella mescolanza di calce e colori, basta unire la sola acqua semprechè si osservi che questa sia purissima». [10]

La tinta a base di calce è costituita dalla mescolanza di calce aerea ben stagionata, pigmenti naturali ed acqua priva di ogni impurità di tipo organico, che potrebbe provocare incompattezza delle tinte e loro conseguente alterazione. Generalmente, la dispersione delle terre coloranti e del latte di calce viene additivata dall’aggiunta di caseina o latte scremato, al fine di migliorare le caratteristiche di resistenza della tinta ai fenomeni di sfregamento e dilavamento.

[9] P. Scarzella, P. Natale, Terre coloranti naturali e tinte naturali a base di terra, Stamperia Artistica Nazionale, Torino, 1989, Appendice

[10] D. Frazzoni, L’imbianchino, decoratore-stuccatore, Hoepli, Milano, 1911 (ristampa VIII ed. 1981), pag. 19

Il supporto più idoneo per questo tipo di tecnica è un intonaco a base di calce aerea, ma anche su intonaci idraulici la tenuta del tinteggio ha dimostrato d’essere sufficientemente buona; non adatti, invece, si sono rivelati tutti i supporti cementizi.

Il clima freddo ed umido incide sfavorevolmente sulla stesura della tinta a calce che appare come bagnata o appena stesa. Questa, non riuscendo a penetrare nei fori superficiali, crea una sottile crosta indipendente e poco aderente. La situazione non migliora neppure con l’avvento della bella stagione per il fatto che la superficie risulta scarsamente assorbente, in questo caso ogni ulteriore sovrapposizione di strati di tinta provoca lo scrostramento. Sole e vento, invece, favoriscono l’uniformità della tinta stesa a calce, che riesce velocemente ad asciugare, anche se il caldo eccessivo contribuisce allo scrostamento degli strati sovrabbondanti, nei quali la tinta, asciugata troppo celermente, non riesce più a raggiungere il livello superficiale.[11]

Palazzo Lupi poi Levi, particolare del fregio del prospetto laterale: prima e dopo l'ultimo intervento di ristrutturazione edilizia

 

I principali difetti di questa tecnica sono legati alla sua scarsa resistenza all’azione di dilavamento dell’acqua e al contatto. Questa pittura fa pochissima presa poiché l’azione dell’aria, che trasforma la calce in bicarbonato di calcio, è minima. A ciò si aggiunga l’incidenza dell’inquinamento atmosferico sulle superfici trattate a calce che, in breve tempo, tende a formare sull’intonaco colature di colore scuro, derivate dal trascinamento da parte dell’acqua piovana della polvere depositata. Tali colature, non lavabili, contribuiscono al deterioramento della tinta originaria.[12]

Al contrario, le principali caratteristiche vanno, anzitutto, rintracciate nella possibilità di ottenere una vasta gamma cromatica, grazie all’uso di pigmenti naturali, stemperati in acqua e miscelati al latte di calce, precedentemente filtrato. Inoltre, ogni facciata a calce è contraddistinta da una notevole trasparenza, garantita da un trattamento preliminare cui è sottoposto l’intonaco: la stesura di un velo di latte di calce, che forma la cosiddetta “imprimitura” e, successivamente, di due o tre mani di tinta alquanto diluita.

Rispetto alla situazione attuale, le facciate realizzate con tinteggiatura a calce hanno dimostrato di avere, nel tempo, una buona durata e, in molti casi, il loro invecchiamento nobile ha permesso di rintracciare sia i colori che gli impianti decorativi originari, in particolare laddove riparati dall’aggetto di cornicioni o balconi.

«Il silicato di potassa o quello di soda possono servire per le tinte, perché si equivalgono purché siano neutri, non alcali, non lattei […]. La tinteggiatura a base di silicato è molto utile pei luoghi interni ed esterni, poiché, anche bagnandosi, non si macchia né si asporta facilmente […], ma presenta qualche difficoltà per la compattezza nelle tinte a intonazioni forti».[13]

[11] D. Frazzoni, op. cit., pp. 25-26

[12] G. Forti, Antiche ricette di pittura murale, Cierre Edizioni, Verona, 1989, pag. 168

 

[13] D. Frazzoni, op.cit., pp. 51-52

[14] G. Forti, op.cit., pp. 106-119

La pittura al silicato si ottiene con i silicati di sodio e potassio, sali neutri non alcalini né lattei, utilizzati come fissativi o diluenti di colore. Sua caratteristica è di plasmarsi completamente con lo strato d’intonaco sulla quale è stesa, creando una pellicola vetrosa non indipendente. Per questo motivo questa tecnica viene spesso associata a quella, ben più antica, dell’affresco, rispetto la quale si differenzia per il fatto d’essere una pittura secca, stesa, cioè, su di un intonaco asciutto e non bagnato (come nel caso dell’affresco).

I colori diluibili col silicato devono essere con esso compatibili e sono gli stessi dell’affresco, tranne il bianco. Il bianco non può essere la calce poiché questa, essendo caustica, tenderebbe a rendere latteo e non solubile il silicato stesso. In alternativa possono essere impiegati il bianco di zinco, il bianco Meudon, quello di Spagna e di Champagne.[14]

Tutti i supporti sono idonei per essere trattati a silicato, sia quelli tradizionali che quelli cementizi, anche se la superficie migliore resta proprio quella composta di malta di cemento e sabbia sufficientemente grossa: per la presenza, nel cemento, della silice che ben si unisce al silicato e perché la grana grossa dell’inerte garantisce alla pittura di penetrare nell’intonaco, formando un’unica massa omogenea.[15] Non adeguati risultano, invece, tutti quelli che sono già stati trattati con tinte a base di olio, smalti o vernici, sui quali il silicato tende, sfogliandosi, a cadere.

Per la stesura esterna del silicato la stagione migliore è l’autunno, specie quando le giornate sono coperte, umide e ventilate; la primavera va evitata poiché la muratura, avendo inglobato umidità durante l’inverno, al primo calore si asciuga e trascina in superficie i sali igroscopici che si manifestano sotto forma di efflorescenze.[16]

[15] Purtroppo l’uso della malta cementizia non è indicato per le murature di tipo tradizionale, quelle cioè costituite da pietre e mattoni legati con malta di calce

[16] Ivi pag. 113

L’aria e il sole danneggiano questa pittura poiché ne accelerano l’asciugamento, impedendo la penetrazione della tinta in superficie, in questo modo i toni e i colori restano quelli di quando è stata applicata; per ovviare a questo inconveniente è doveroso bagnare abbondantemente la superficie stessa.

Una volta cominciata, la stesura del silicato va ultimata nelle stesse condizioni, di clima e calore con le quali è stata iniziata.[17]

Il principale difetto di questa tecnica pittorica è dovuto alla scarsa capacità di amalgamarsi della tinta, specie in casi di forti tonalità, al punto che è possibile leggere chiaramente la sovrapposizione delle pennellate anche quando si tratta dello stesso colore. Inoltre, se il colore steso è troppo denso o pastoso, possono crearsi sul muro zone di ritiro che, a seguito dell’asciugamento, portano a crepe e distacchi superficiali.

Lo spessore del materiale incide negativamente anche a livello estetico. La facciata risulta infatti molto appesantita, inserendosi a fatica nel contesto urbano. Questa difficoltà d’armonizzarsi con l’insieme è dovuta anche al persistere, inalterati nel tempo, dei toni di certi colori presenti sulle facciate. A proposito dei colori, è bene notare che quelli ottenuti con i silicati risultano apparentemente simili a quelli delle tecniche tradizionali, mentre in realtà si differenziano per resa ed impatto globale.

[17] D. Frazzoni, op. cit., pp. 55-56

[18]AA.VV., Il colore. Il metodo, le tecniche, i materiali, Ed. Panini, Modena, 1985, pp. 24-28

A favore di questa tecnica esecutiva esistono, comunque, diversi aspetti come la buona adattabilità a qualunque tipo di superficie, l’ottima resistenza all’azione degli agenti atmosferici (se eseguita nel rispetto delle sue caratteristiche applicative) e la reazione all’umidità, presente nelle murature e simile a quella dei sistemi tradizionali. 

Il confronto tra questi due procedimenti operativi dimostra che la scelta, ormai sempre più frequente, dei silicati, o di altri materiali ancora più recenti (come nel caso dei polimeri silossanici caratterizzati anch’essi da un’elevata traspirabilità ed impermeabilità), in luogo della tecnica a calce è dettata, soprattutto, dalle esigenze di imprese e maestranze. Sono infatti proprio queste ad avere opposto una forte resistenza all’impiego dei sistemi tradizionali, preferendo materiali subito pronti all’uso e di veloce posa in opera. A ciò si unisca la difficoltà applicativa della tecnica a calce che, soprattutto nella preparazione delle tinte, richiede operatori decisamente qualificati.[18]

 


4.      Stato di conservazione e di degrado delle facciate “recuperate”

 Attualmente, su molte delle facciate decorate acquesi, che sono state già oggetto di recupero, sono rintracciabili forme diverse di degrado. I fattori che hanno contribuito e che tuttora contribuiscono al deterioramento degli intonaci sono molti e di diversa natura, ma la loro azione assume caratteri differenti a seconda del tipo di trattamento superficiale subito.

Il degrado delle facciate a calce è diverso rispetto a quello delle facciate ai silicati, nelle quali questo fenomeno comincia a diffondersi pochissimo tempo dopo l’ultimo intervento. E’ quindi molto difficile operare un confronto, proprio per il fatto che, sulle facciate ai silicati, il tempo intercorso tra la data di inizio e quella di fine lavori risulta essere davvero ridotto qualora paragonato a quello delle vecchie facciate a calce.

A ciò si aggiunga che, mentre per le facciate trattate a calce il degrado è, attualmente, così diffuso da avere raggiunto gli ultimi strati dell’intonaco, fino al supporto murario, per quelle ai silicati si può ancora parlare di degrado della pellicola pittorica e più rari sono i casi in cui il fenomeno si è esteso in profondità.

L’attenzione merita, dunque, di essere focalizzata sulle facciate di recente intervento, ossia l’insieme di quelle ai silicati, rispetto le quali occorre individuare quali cause abbiano agito in maniera decisiva nello sviluppo, progressivo, di questo fenomeno.

E’ corretto, anzitutto, parlare di degradazione degli strati costituenti la pellicola pittorica e non di semplice alterazione, poiché è chiaro il peggioramento delle caratteristiche di resistenza e durabilità del materiale.[19] Questo peggioramento qualitativo è il frutto dell’azione combinata di diversi fattori, quasi mai dell’attività di un unico agente.

[19]«Degradazione. Modificazione del materiale che implica, sempre, un peggioramento delle sue caratteristiche sotto il profilo conservativo», ad vocem, Raccomandazioni Normal: lessico per la descrizione delle alterazioni macroscopiche dei materiali lapidei, 1980, n. 1/80, pag. 2

E’ soprattutto l’azione dell’acqua nei suoi diversi aspetti a favorire la lenta decoesione degli strati pittorici superficiali, cagionandone la progressiva alterazione. Sotto forma di pioggia, l’acqua può generare fessurazioni e rotture degli strati di intonaco, determinando, in molti casi, la perdita (parziale o totale) di porzioni dipinte. Oltre a questa sua azione meccanica, l’acqua svolge anche un’azione dilavante, che si manifesta sotto forma di erosioni e scomposizioni degli strati superficiali più esposti.

La penetrazione dell’acqua nella muratura e la conseguente evaporazione facilita il deposito in superficie dei sali che si presentano sotto forma di cristalli. In genere, i sali igroscopici sono causa dei principali fenomeni di deterioramento e la loro fuoriuscita è spesso associata alla scarsa omogeneità dell’intonaco e alla porosità degli strati più interni.

Se l’evaporazione dell’acqua avviene in superficie, è possibile parlare di “efflorescenze saline”, si tratta di una patina biancastra ben visibile, non eccessivamente pericolosa e facilmente rimovibile, il cui degrado è generalmente di ordine estetico. Questo tipo di efflorescenza si forma quando il clima è umido e la velocità dell’aria, a contatto con la superficie muraria, è piuttosto bassa; al contrario, quando il clima è secco e la velocità dell’aria è elevata si parla di “subflorescenze saline”, cristalli che si formano all’interno del materiale quando questo è sufficientemente poroso. Le subflorescenze irrigidiscono la superficie, al punto che possono causare il distacco di grosse porzioni d’intonaco.[20]

[20] Sull’argomento, A.N.V.I.D.E.S., Guida alla realizzazione di interventi di conservazione e manutenzione delle superfici dell’edilizia storica, Regione Liguria, 1990, pp. 37-41; E. Pedemonte, Dispense del Corso di Chimica del Restauro, A.A. 2001/2002, Scuola di Specializzazione in Restauro dei Monumenti - Facoltà di Architettura di Genova

Il fenomeno delle formazioni saline è rintracciabile anche su alcune delle nostre facciate, favorito dalla presenza nelle murature  di umidità ascendente (quella cioè di risalita) e discendente (quella proveniente, ad esempio, dal tetto, attraverso fenomeni di infiltrazione). Si è avuto modo di spiegare che la presenza d’acqua nelle murature non facilita la stesura dei silicati, i quali, al primo caldo, tendono a veicolare i sali in superficie, compromettendo l’esito finale del lavoro. La decisione, preliminare ad ogni intervento, di scegliere le stagioni più idonee e di rispettare i tempi necessari alla muratura per il suo completo asciugamento, non deve essere trascurata, essendo garanzia del risultato finale.

La diffusione dell’umidità di risalita (o ascendente) è favorita da tre parametri principali: il materiale col quale è stato costruito il muro, la malta impiegata e lo spessore del muro. Ad esempio, un muro a mattoni tende ad assimilare molta umidità, avendo un potere assorbente cinque volte superiore a quello della malta. Rispetto ad un muro in pietra, in uno a mattoni l’acqua può raggiungere altezze elevate in breve tempo e, maggiore è il suo spessore, più aumenta la sua capacità d’imbibimento, crescendo la sezione muraria interessata dal fenomeno.[21]

[21] C. Montagni, Costruire in Liguria, Sagep, Genova, 1993, pp. 170-189

[22] Sull'argomento, P. Scarzella-P. Natale, op. cit., Appendice

Questo aspetto, spesso trascurato dagli addetti ai lavori, merita d’essere attentamente valutato, poiché pone riserve su un’usanza molto in voga, in questi ultimi anni - rintracciabile anche su molte delle nostre facciate - : quella di lasciare a vista parte dell’orditura muraria in laterizio. Non tutti i materiali lapidei, usati negli esterni, erano pensati per rimanere “senza pelle”, anzi, molti di questi erano di pessima fattura ma venivano comunque posti in opera (in punti non a vista) in quanto dovevano essere ricoperti dallo strato d’intonaco.  La scelta, a posteriori, di fare vedere l’originario tessuto murario resta unicamente di ordine estetico e ha l’increscioso merito di accelerare i fenomeni di degrado.

Anche la diversa esposizione dei lati di un edificio incide sul suo generale stato di conservazione: nel caso specifico acquese, sono state rintracciate forme di avanzato degrado lungo i prospetti rivolti su vie piuttosto strette, umide e poco soleggiate (è il caso delle Vie Manzoni e Scatilazzi), del tutto inesistenti (o di minore entità) sugli altri lati, meglio esposti (quelli, ad esempio, rivolti su Piazza Bollente).

Fino ad ora si è parlato dei fenomeni di degrado limitandoli all’insieme di facciate realizzate con i silicati, sta di fatto che molti degli ultimi interventi, contravvenendo alle prescrizioni tecniche della citata ordinanza, sono stati eseguiti ricorrendo all’uso di materiali diversi, ancora più nuovi, generalmente chiamati “lavabili”. Si tratta di idropitture a base di pigmenti ottenuti chimicamente, le cui caratteristiche principali sono quelle di avere un alto potere coprente e colorante, una velocità di posa maggiore rispetto quella dei silicati e la possibilità di ricorrere a manodopera  non necessariamente qualificata.[22]

Palazzo Lupi poi Levi, particolare del trilobo sopra finestra del prospetto laterale: prima e dopo l'ultimo intervento di restauro conservativo

Il degrado presente sulle facciate trattate con quest’ultimo tipo di materiali è diverso, rispetto quello delle facciate ai silicati, per il fatto che trattandosi di pitture pellicolanti tendono ad alterarsi in maniera deturpante, con conseguente distacco della pellicola pittorica per screpolatura, sollevamento e squamatura. La presenza, inoltre, al di sotto del film pittorico di intonaci a base cementizia (discorso che vale tanto per le facciate ai silicati quanto per quelle realizzate con questo tipo di pittura lavabile) non fa che accrescere i fenomeni di  deterioramento, accelerati dall’azione combinata degli agenti naturali e di quelli artificiali.

L’azione dell’uomo sui manufatti architettonici può essere letta come possibile causa di degrado, generata volontariamente o involontariamente. L’intervento dell’uomo può, infatti, rivelarsi altamente distruttivo quando si dimostra più invasivo di qualunque altro agente di tipo naturale, quando risulta in aperto contrasto con i solidi principi della conservazione e anche quando è tale da compromettere la durata nel tempo dell’oggetto architettonico.

Tra le azioni volontarie che hanno contribuito e contribuiscono al progressivo deperimento dell’edificio vi sono anzitutto, la mancanza di adeguati e continui interventi di manutenzione[23], l’impiego di materiali poco compatibili con i supporti già esistenti (è il caso di molte delle facciate acquesi), la distruzione, spesso inutile, dei materiali di superficie per fare posto a quelli più “nuovi” (questo fenomeno è diffusissimo ad Acqui dove l’ipotesi di salvaguardare – laddove possibile – gli intonaci preesistenti, anziché farne di nuovi, non è stata neppure vagliata), l’alterazione dei colori originari (in molti casi giustificata dall’adozione di quei piani del colore che, spesso,  hanno dimostrato d’essere fallimentari) e, infine, la modifica o totale sostituzione dei decori iniziali (aspetto, quest’ultimo, rintracciato sull’insieme di facciate di recente recupero e di cui si dirà meglio nel successivo paragrafo).[24]

[23] Non a caso, anche la Carta del Restauro del 1972 a proposito delle “Istruzioni per la condotta dei restauri architettonici” riporta: «Premesso che le opere di manutenzione tempestivamente eseguite assicurano lunga vita ai monumenti evitando l’aggravarsi dei danni, si raccomanda la maggior cura possibile nella continua sorveglianza degli immobili per i provvedimenti di carattere preventivo, al fine di evitare interventi di maggiore ampiezza»

[24] P. Mora, Deterioramento degli intonaci e possibilità di intervento, in G. Rotondi Terminiello- F. Simonetti (a cura di), Facciate dipinte, Sagep, Genova, 1984, pp. 153-154


5.      La trasformazione d’immagine delle “facciate recuperate”

Si è già avuto modo di spiegare come la solerzia, nel recupero delle facciate, da parte della Pubblica Amministrazione sia stata, innegabilmente, agevolata dall’invio delle Ordinanze: non a caso, oggi, a distanza di pochissimi anni, il centro storico di Acqui Terme si presenta decisamente rinnovato grazie anche alla nuova immagine delle sue facciate.

Successivamente si è anche dimostrato che, durante gli ultimi interventi, sono stati utilizzati materiali così nuovi da risultare, spesso, incompatibili coi supporti sui quali sono stati applicati, a scapito della loro stessa conservazione. Discorso, quest’ultimo, che caratterizza buona parte delle recenti operazioni condotte sui centri storici al punto che è difficile potere parlare di azioni di recupero su singoli manufatti architettonici o interi complessi urbani che non hanno portato, a posteriori,  a qualche controindicazione.

Alla luce di tutte queste considerazioni c’è, però, un aspetto che mi preme sottolineare: quello relativo alla passata immagine della città e a quanto di questa sia stato riproposto fedelmente nell’attuale configurazione. La questione riguarda direttamente le facciate, i decori e i colori che su queste possono essere ancora rintracciati dove non rimossi o smantellati per sempre.

Che la città sia mutata dall’Ottocento ad oggi è fuori di dubbio e le modifiche che ha subito non sono state di semplice facciata ma hanno assunto, spesso, dimensione urbanistica: come nel caso della deviazione del corso del Medrio per dar posto ad una nuova via di rappresentanza, dell’abbattimento delle mura per favorire l’assemblaggio di quelle porzioni di territorio più esterne, dell’eliminazione di buona parte delle abitazioni presenti sull’attuale Piazza Conciliazione, per risolvere in maniera più veloce l’inadeguatezza igienica di uno spazio urbano eccessivamente edificato (solo per citarne alcune).

Dalla scala urbana, gli interventi ottocenteschi si sono spostati a quella edilizia e molte vecchie cartoline sono la chiara dimostrazione di quello che c’era e non c’è più: alcuni edifici sono, infatti, scomparsi del tutto, altri sono stati sostituiti con nuovi, di diversa impronta stilistica, molti, infine, sono stati modificati o variati nelle dimensioni. Di questi, la maggior parte aveva facciate variamente decorate e il loro insieme architettonico è rimasto nell’immaginario collettivo, dandoci l’idea di una città che, nell’Ottocento, era piuttosto armoniosa e piacevole.

E’ chiaro che non sono stati certo gli ultimi interventi ad avere contribuito, in maniera assoluta, al cambiamento d’immagine della città, le cui facciate, già a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, hanno cominciato a mutare aspetto a seguito dei diversi interventi di recupero cui sono state sottoposte: a riprova il fatto che, ancora oggi, sulle poche non ancora ristrutturate sono leggibili talvolta tipi diversi di decorazione e strati sovrapposti di colori differenti. I riscontri fotografici tra passato e presente hanno permesso di scoprire, inoltre, che alcune facciate hanno subito la modifica, talora sostanziale, dell’apparato decorativo e che il loro aspetto attuale fa riferimento al decoro più recente: è il caso di alcune facciate su Piazza Bollente, Via G. Bove e di diverse su Corso Italia e Via Garibaldi.

Il criterio che ha guidato gli ultimi interventi di ristrutturazione (esplicitamente indicato nell’Ordinanza) prevede, anzitutto, lo studio preliminare dello stato di fatto al fine di possedere un’adeguata conoscenza dell’edificio. Successivamente e prima della demolizione degli intonaci originari (il più delle volte cadenti ed irrecuperabili ma non sempre) è richiesto l’accurato rilievo delle decorazioni pittoriche esistenti, per poterle riprodurre fedelmente sui nuovi intonaci.

Rispetto queste premesse (circa le quali, credo, non possano essere mosse obiezioni) si tratta di verificare per quale motivo, nella realtà dei fatti, la maggior parte degli originari decori di facciata sia stata riprodotta esattamente mentre una piccola parte sia stata modificata, alterata e, persino, non realizzata. Su Corso Italia, vi sono sia casi in cui la vecchia decorazione è stata riproposta arricchita (ad esempio con l’apertura di finte persiane, originariamente chiuse o con l’inserimento di elementi aggiuntivi, al solo scopo estetico), sia casi in cui è stata riprodotta senza alterazioni. Da ultimi, gli esempi di decori che non sono stati più riproposti, pur se presenti (circa i quali non si sa se esista, in proposito, qualche specifica intenzione) o che sono stati realizzati ex-novo, per preciso volere della committenza.

Si capisce, infatti, che in tutti questi casi tanto il committente (generalmente non unico proprietario dell’edificio), quanto il direttore lavori assolvono un ruolo particolarmente importante. Il primo, dovendo pagare lui stesso l’esecuzione delle decorazioni, fa spesso esplicita richiesta di poterle semplificare e, persino, ridurre; il secondo, invitato alla minimizzazione delle spese, non trova altra via che quella di risparmiare sull’insieme delle indagini preliminari, trascurando in questo modo la possibilità di approfondire meglio la conoscenza dell’edificio.

Altra questione è poi quella delle tinte di facciata, circa le quali non vi è un esplicito rimando neppure nell’Ordinanza, se non laddove si parla di ricerche stratigrafiche da eseguirsi sugli intonaci prima della loro eventuale rimozione. E’ stato possibile constatare che nell’insieme degli interventi effettuati il mantenimento dei colori originari non sempre è stato rispettato: sia per questioni di ordine estetico, relative alla ricerca di una migliore intonazione cromatica al contesto urbano, che per la volontà di riproporre le tinte emerse dalle indagini stratigrafiche.

Va anche detto che, spesso, la differenza tra le tinte passate e quelle attuali deve essere imputata al limitato effetto cromatico di queste ultime le quali, facendo ricorso a pigmenti di tipo artificiale, difficilmente producono una resa simile a quella delle terre naturali. Ecco perché su molte delle facciate recuperate i nuovi colori impiegati, apparentemente simili a quelli originari, risultano, di fatto, molto più freddi, il che provoca un duplice effetto: l’eccessiva durezza della facciata e la riduzione della sua complessiva plasticità.

Le trasformazioni recenti appena descritte, possono essere lette come l’effetto di questa normativa che, se da un lato ha promosso il recupero di un centro storico gravemente ammalorato, dall’altro non è riuscita a controllare le modalità con cui questo fenomeno si stava attuando: non a caso la libertà di certe scelte progettuali è stata giustificata proprio dal fatto che oggetto di recupero fosse un intero centro storico piuttosto che un singolo monumento.

 E’ stata, ancora una volta, l’immagine turistica della città ad avere giocato da protagonista, a svantaggio della sua, grande o piccola che sia, tradizione storica che meriterebbe, invece, d’essere legittimamente salvaguardata.


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 Ultimo Aggiornamento: 01/12/05.