Il
laboratorio del fabbro ferraio, dall'Enciclopedia, 1751 1772.
Testa di medusa, fusione bronzea, I sec,
d.C. Este, Museo Nazionale Atestino
Figura
femminile, lamina bronzea, seconda metà del V sec. a.C., Este, Museo
Nazionale Atestino
Cristo Pantocratore,
oro, smalti e pietre preziose. Maestri Bizantini dell'inizio del XII
secolo, Tesoro della Basilica di San Marco, Venezia
Coperta di evangelario, oreficeria
padovana del XIII sec., Padova Museo Diocesano
Marco Baldi e Giovanni Fabbri, Reliquiario
della croce di cristallo, seconda metà del XV secolo, Padova,
Basilica del Santo
Coppa
conica in filigrana, Venezia, XVI sec., Roma, Palazzo Venezia
Medaglia
di Giovanni da Cavino, Padova, XVI sec
Giuliano da Firenze, Reliquiario della
lingua del Santo, Padova 1436
Orologio
a lanterna in ottone, Vicenza 1750
Elegante
candelabro in ottone, Padova, 1780 circa
Caffettiera veneta, XVIII secolo
Canciani veneti
fusoria opus, Campana della Collegiata di Sant'Eufemia, Rovigno,
Croazia
I due mori, fusione bronzea di Ambrogio da
le Anchore, Venezia 1497
Cancellata settecentesca di villa Morosini
- Duca di Bardi - Tribaldi a Spinea VE
Armatura completa
in metallo ageminato, opera di Giuseppe Augustinis per Ca' Foscari di
Venezia, ora al Museo Civico di Abano Terme,
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Anche nel mondo contemporaneo, caratterizzato da nuove fonti di energia: il vapore, l’elettricità, l’energia nucleare, da nuove forme del comunicare, e da nuovi mezzi di trasporto (dall’automobile allo Shuttle), i metalli non solo rimangono centrali nelle nostra tecnologia ma assumono forme e funzionalità del tutto nuove, come ad esempio nell’architettura (si pensi solo alla torre
Eiffel) e nell’arredo.
Ma mentre al ferro ed alle sue leghe si richiedono sempre nuovi utilizzi e funzionalità, nuove lavorazioni e nuove forme, all’oro e all’argento, al contrario, sono sufficienti la naturale luminosità, l’intrinseca preziosità e l’abilità dell’artigiano per farne oggetti rari ed ambiti: ancor oggi ci commuovono e ci stupiscono alcuni gioielli in oro o in argento ritrovati nelle tombe preistoriche risalenti a due-tremila anni fa.
L’oro ha esercitato sull’uomo un fascino particolare, sin dall’antichità: per secoli le menti più ingegnose si sono prodigate per trasformare l’oro in bevanda medicamentosa, nella certezza che l’incorruttibilità di questo metallo potesse trasferirsi all’uomo, dargli l’eterna giovinezza o, almeno, tener lontane le sofferenze.
Per tutto il Medioevo e fino alla rivoluzione industriale, le tecnologie e le lavorazioni dei metalli rimasero sostanzialmente immutate, anche se qualche miglioramento fu introdotto: lo sfruttamento della forza motrice dell’acqua faceva muovere i mantici per portare al alta temperatura il carbone e faceva muovere il maglio. L’organizzazione del lavoro era gestita dal mastro (si diventava maestri solo dopo un lungo e rigoroso apprendistato), che era responsabile della qualità artistica e della bontà dei materiali, per questo egli doveva apporre il proprio marchio su ciascun pezzo e attestare, con un altro punzone, il titolo del metallo. Nella Repubblica Veneta sugli oggetti preziosi, già punzonati in bottega con il proprio simbolo, venivano impressi il Bollo di San Marco o Leone in moleca e il punzone dei toccadori o
sazzadori, una carica pubblica con il compito di vigilare sul rispetto delle leggi e reprimere le frodi, istituita fin dal 1516.
L’Italia è sempre stata ricca di botteghe artigiane orafe e di argentieri, Milano, Venezia, Firenze, Roma Napoli e Palermo vantano produzioni di uso liturgico e di uso comune, di grande qualità. Nel Trecento in Toscana si sviluppò una fiorente produzione di ferro battuto, dove si distinse Conte di Lello
Orlandi, autore della cancellata del Duomo di Orvieto, eccellenti produzioni si registrano anche a Verona, mentre nei secoli successivi, in epoca rinascimentale e barocca, si distinsero nel ferro battuto, le regioni alpine, il Veneto, la Lombardia, l’Emilia e il Lazio.
Il Rinascimento italiano segna, nel settore delle fusioni in bronzo e dei gioielli, un momento alto e forse mai più superato: Lorenzo
Ghiberti, Donatello, Antonio del Pollaiolo, Andrea del Verrocchio, Bartolomeo Cennini e Benvenuto
Cellini, sono solo alcuni dei nomi che hanno contribuito ad una produzione molto raffinata e dagli esiti estetici di assoluta eccellenza.
L’oreficeria barocca raggiunse livelli insuperabili nelle botteghe del
Sud-Italia: nei “Tesori” delle cattedrali e delle basiliche, sono conservati manufatti di altissimo pregio, spesso sconosciuti ai più, che solo recentemente vengono catalogati e studiati.
Storia lavorazione dei metalli nel Veneto
L’oreficeria e l’argenteria veneta, grazie ad abili artigiani, inseriti in una struttura di categoria efficiente e seria, dotata di regole ferree: la Scuola o Arte degli
Oresi, si sviluppò a partire dal Duecento (per citare l'esempio di Venezia, il Capitolare che conteneva le regole alle quali tutti gli artigiani dovevano obbedire, risale al 1233 ed è tra i più antichi delle arti veneziane) per tutto il Settecento, con una grande quantità di botteghe in grado di “sfornare” gioielli e argenti raffinatissimi, venduti in tutta Europa.
Il severo capitolare o Mariegola, come era detto in veneziano, prevedeva severi controlli e rendeva obbligatorio il bollo con il simbolo del leone di San Marco e le iniziali dei
"Massari" preposti ai controlli.
A Venezia gli Oresi Zogielieri (Orefici e gioiellieri) si concentravano intorno a Rialto, nella "Ruga dei
Oresi" ma, a differenza delle fornaci per il vetro, gelosamente relegate a Murano, le botteghe orafe erano più libere di trasferirsi altrove ad eccezione del Ghetto, per il quale vigevano molte restrizioni. Così non solo la capitale contava molte botteghe artigiane di orafi e argentieri, ma anche Padova e Vicenza svilupparono un artigianato in questo settore. Vanno ricordati, a questo proposto alcuni grandi maestro orafi come l’estense Angelo Scartabello (1712 – 1795) e suoi allievi Angelo Urbani, Girolamo Franchini e Sante
Benato, o i vicentino Luigi Merlo (1772 – 1850) attivo a Padova e a Venezia. A Padova le botteghe degli Oresi e degli arzentieri si concentravano, nel Duecento e nel Trecento, preso il Palazzo della Ragione, altre botteghe sorsero presso la Basilica del Santo, che era diventata un centro di committenza e di stimolo per l’arte orafa.
Con la caduta della Serenissima il grande patrimonio orafo andò in buona parte disperso, venduto, svenduto e rifuso per essere capitalizzato: succede così ogniqualvolta ad un periodo di prosperità seguono periodi di guerre e di crisi. Ma la tradizione non si è persa ed è continuata ininterrotta, soprattutto a Padova e a Vicenza, fino alle comparsa di molte piccole e medie aziende, di laboratori orafi e di argentieri che hanno saputo unire la qualità alla tradizione e che trovano nella Fiera orafa di Vicenza il loro punto di riferimento, in un mercato mondiale che vede l’Italia ai primi posti nell’esportazioni di gioielli e di argenti.
Oreficeria e bronzetti in Veneto
Per sua natura, l'oreficeria è stata oggetto, nei secoli, a dispersioni, furti saccheggi e anche il Veneto non è risultato indenne da questa tendenza. Per questi motivi, ad eccezione di quanto conservato nel tesoro di San Marco, dove sono rappresentate tanto l'oreficeria romanica che quella di tradizione bizantina, sono rare in Veneto le opere di età barbarica, carolingia e quelle di epoca romanica. Molto più presenti e visibili sono le opere di area gotica e quelle rinascimentali, in parte dovute ad artigiani provenienti da Milano e Firenze a partire da quelle di Donatello.
E proprio alla presenza di Donatello, a Padova, intorno alla metà del Quattrocento, si devono, non solo la statua equestre del Gattamelata e i bronzi della Basilica del Santo, ma l’avvio di una “scuola” padovana di fusioni in bronzo, che dopo il grande maestro continuò con artisti della levatura di Bartolomeo
Bellano, di Andrea Briosco e di Tiziano Aspetti, per citare solo i più conosciuti. Così come Giuliano da Firenze, attivo a Padova nella prima metà del Quattrocento, ma allievo del Ghiberti e dunque di formazione fiorentina, fu capostipite di una gloriosa tradizione orafa patavina.
Analizzando in dettaglio la situazione di Padova, risulta palese l'apporto di artefici forestieri nel settore dell'oreficeria che è testimoniato da opere quattrocentesche conservate nel tesoro del Duomo, come ad esempio il reliquiario delle SS: Anatolia ed Emerenziana, opera del maestro Alessandro da Parma (1405) e in quello della Basilica del Santo, come il reliquiario della Lingua del Santo di Giovanni da Firenze (1436). Quest'ultima opera rivela una concezione artistica consona alle rinnovate istanze della cultura fiorentina tanto innovativa rispetto al gusto delle opere coeve realizzate a Padova e nel Veneto.
Intorno a questi maestri "foresti" si formò una schiera di aiuti e, quindi, di artisti padovani che seppero ben presto assimilare le lezioni dei loro maestri e sviluppare un nuovo gusto artistico caratterizzato da una raffinata capacità
compositiva, da una grande misura e sobrietà. Ne sono esempio le antiporte del maestro Alvise, padovano, realizzate tra il 1525 e il 1529 per
l'Evangelario di Isidoro e per l'Epistolario di Giovanni da Gaibana, opera oggi esposta al Museo Diocesano di Padova.
Molto importante per tutto il Veneto, fu la fusione di oggetti d'arte di area patavina. Il più conosciuto e fecondo bronzista veneto del cinquecento è sicuramente il padovano Andrea Briosco detto il Riccio (Padova 1470-1532) che eseguì un gran numero di bronzetti, plachette ornamentali, ed elementi di arredo come calamai e candelabri. Lavorò per opere di carattere sacro destinate all'arredo di chiese come il candelabro per il cero pasquale della Basilica del Santo a Padova ma si distinse per soggetti di impronta classicheggiante ispirati alla mitologia greca e romana, come lo splendido Satiro seduto, ora al Museo Civico di Padova.
Il Riccio fu seguito da altri artisti che tennero alta, per tutto il Cinquecento, la tradizione fusorea patavina: Tiziano Aspetti (Padova 1565-Pisa 1607) che lavorò a Venezia presso la Biblioteca Marciana e il Palazzo Ducale, a Padova presso la Basilica del Santo e il Duomo, Gerolamo Campagna, architetto e scultore, attivo a Venezia dove si conservano molte sue opere e Bartolomeo Ammannati
(Settignano 1511-Firenze 1592) architetto e scultore, attivo a Venezia, dove decorò la Biblioteca Marciana.
Molto importante la medaglistica e la produzione di monete (o la riproduzione di monete romane) che ebbe nel padovano Giovanni Cavino un iniziatore a stento eguagliato. I lavori eseguiti dal Cavino talvolta in collaborazione con Alessandro Bassano e il figlio Antonio, sono conosciuti come padovani e sono ben documentati nella Raccolta Bottacin dei Musei Civici di Padova.
Nel Quattrocento e nel Cinquecento, vale adire nel Rinascimento, Venezia si conferma, anche nell'oreficeria, come uno dei centri più importanti d'Italia, assieme a Firenze,Milano, Genova e Roma, pur rimanendo, per molti versi, legata alla tradizione tardo gotica e orientaleggiante. Famosi nella tecnica dello sbalzo, gli artigiani veneziani avevano sviluppato e portato a livelli di eccellenza anche una tecnica orafa conosciuta come
l'opus veneticum, cioè la tecnica della filigrana. Ne è prova la coppa conica conservata al Museo di Palazzo Venezia, sede dell'ambasciatore della Serenissina Repubblica presso il Papa, a Roma.
Sempre a Venezia - divenuta ormai una vera capitale in grado di oscurare le città di terraferma - sono notevoli anche i lavori di incastonatura di perle, gemme e pietre preziose, nonché l'uso del cristallo di roca e il processo dello smalto, mutuato dall'arte orafa orientale. Tra i tanti maestri ricordiamo Leone Leoni (1509-1590) di origine toscana ma attivo a Venezia e Vittore Camelio cesellatore e medaglista attivo a Venezia anche presso la Zecca del Doge. A lui si deve, con ogni probabilità, la decorazione dei piatti del Breviario Grimani le cui piastre sbalzate sono decorate con eleganti girali fogliacei con medaglioni tra cui quello raffigurante il Doge Antonio
Grimani.
Una particolarità tutta veneta, o meglio, veneziana, di questo periodo, sono i ricchi servizi da tavola chiamati
"fornimenti", comprendenti vassoi, guantiere, alzate per frutta e dolci, e la "posateria" con di posate da tavola in argento cesellato, niellato e impreziosito da filigrane e pietre preziose, presenti precocemente sulle tavole dei ricchi veneziani, rispetto al resto d'Europa. Si tratta di posate individuali, non di uso collettivo o "di portata" come fino a quel tempo si usava (dato che non era disdicevole portare il cibo solido alla bocca con le mani), che comprendevano una forchetta a due o tre rebbi, un cucchiaio, in origine con un corto manico, e un coltello.
Accanto alla tradizionale arte orafa dedicata agli arredi sacri e alla gioielleria personale, si sviluppò, così una ricca tipologia di oggetti destinati ad un uso domestico, ancorché non quotidiano ma legato a suntuosi pranzi organizzati per feste e ricorrenze, che non finivano di stupire gli ospiti europei che avevano la fortuna di frequentare i palazzi veneziani. Nel Museo di Ca'
Rezzonico, a Venezia, si conservano diversi "fornimenti" come quello proveniente da Villa Pisani e quello scolpito nei primi decenni del Settecento da Andrea
Brustolon, conosciuto come "fornimento Venier".
Fusioni in bronzo di campane e cannoni
Un capitolo a parte merita la fusione di campane e di cannoni. Non si può dire che Venezia eccellesse nel settore delle fusioni, perchè altre erano le tecniche artistiche che questa città ha portato ad altissimi livelli. E' però provato che quando, a Firenze nel 1330, si decise di fornire il Battistero di porte bronzee, ci si rivolse ai fonditori di Venezia, i quali, esperti nella tecnica fusoria bizantina, eseguirono mirabilmente i modelli di Andrea
Piasano. L'arte fusoria, infatti, dopo le invasioni barbariche si era completamente persa e solo grazie a maestranze bizantine fu ripresa - in Europa - nel medioevo.
A Venezia, anticamente, le fonderie destinate a "gettare" ovvero fondere i metalli erano relegate su un lato di
Cannaregio, che fu chiamato Ghetto, il quartiere dove successivamente si insediarono gli ebrei: una denominazione che, col tempo, fu adottata per designare il quartiere ebraico anche fuori di Venezia. Oltre a questa notazione, quasi esclusivamente toponomastica, dell'attività fusoria a Venezia non si conosce molto di più, almeno per quanto riguarda grandi oggetti come campane e cannoni, mentre sono ben documentati i fonditori e i coniatori della Zecca di Stato. Probabilmente i fonditori di campane erano aggregati all'arte dei fabbri e dei calderari (fabbricanti di pentole).
Nel XVIII sono documentate le sorelle Caterina e Anna Castelli che fusero una campana per la chiesa di San Luca, nello stesso secolo Canciano Dalla Venezia fuse una campana per la chiesa di San Eustachio, e nel secolo successivo, Domenico Canciani Dalla Venezia fuse una campana per il campanile di San Marco. L'unica fonderia ben individuabile è quella dei De Poli, una dinastia di bravi artigiani, che nel loro laboratorio "al ponte dei Dai, all'insegna della Madonna" (Calle dei Fabbri) oltre alle campane fondevano anche mortai pestelli e bocche da fuoco. Questo laboratorio artigiano è documentato a Venezia per tutto il Settecento. I De Poli, nel 1481, fusero una campana per il Duomo di Ceneda (ora Vittorio Veneto) e nel 1606 una campana per la Chiesa di San Giusto di Trieste. La fonderia è tuttora operante a Vittorio Veneto.
Padova, Vicenza e Verona svilupparono, a loro volta, un'attività artigianale nel settore della fusione, con alcune importanti fonderie, tanto che ancor oggi molti artisti italiani si rivolgono a questo distretto per realizzare le loro opere in bronzo. I Musei Civici di Padova conservano una piccola campana con lo stemma
carrarese, con ogni probabilità è un'opera fusa a Padova nel Trecento. Per il secolo successivo, ricordiamo Gaspare Campanario
(Campanato) di Treviso ma attivo a Padova tra il 1479 e il 1496. Nel Cinquecento sono attivi i laboratori artigiani di Gasparo Dalle Campane e di Giovanni Pietro Fucina. Nel Settecento è documentato l'artigiano Domenico
Briseghella. Nell'Ottocento si trasferisce a Padova il Bassanese Daciano
Colbachini, una famiglia di fonditori che ha come capostipite Giuseppe Colbachini e che ancor oggi continua la tradizione della fusione di campane.
A Vicenza l'attività fusoria risale probabilmente al XIII secolo, ma solo nel 1444 è documentata l'opera del Maestro Gasparino da Vicenza, che fuse una campana per Santa Maria della Scala in Verona, nel 1452 è documentato il maestro Gasparino da Vicenza, nella stessa città sono documentati, nel Seicento e nel Settecento, i De Maria, originari di
Valdobbiadene, fonditori di campane e di mortai in Borgo Padova.
A Verona abbiamo, nel settore della fusione di campane, bronzi, mortai e bocche da fuoco, due grandi dinastie di maestri artigiani i Bonaventurini e i
Cavadini, oltre ad altri minori, come i fratelli Levi attivi tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo e Bartolomeo Pisenti attivo a metà del XVII secolo; nel XIX secolo operò Antonio Selegari "al
ciglo" (Santo Stefano) e Luigi Chiappani.
I Bonaventurini, originari di Pescantina, sono attivi a Verona tra il 1521 e il 1630. A loro si deve la fusione di diverse campane della torre civica, chiamate
Rengo, di due campane per la chiesa di Ognissanti di Mantova, e di molte altre campane tuttora esistenti, o comunque documentate nel veronese. I
Cavadini, originari del comasco, sono la più illustre famiglia di fonditori di Verona, negli ultimi due secoli. Il fondatore fu Pietro di Giovanni
Cavadini, che nel 1765, a Montorio Veronese, iniziò la propria attività di fonditore, nel 1813 l'attività di questo laboratorio artigiano si trasferì a Verona dove l'azienda artigiana prosperò fin quasi ai giorni nostri.
Le campane furono per interi secoli il prodotto più importante e più impegnativo di una tecnica fusoria che riservava ad esse le maggiori attenzioni perché le campane hanno rappresentato un punto di riferimento importante per tutta la società civile, non solo per i credenti. La forma e la decorazione delle campane è un po' cambiata nei secoli, dalle semplici decorazioni romaniche a quelle più elaborate del Seicento o del Settecento, ma il suono della campana, lo strumento, è rimasto sostanzialmente lo stesso.
Sembrerà stano ma le campane e i cannoni, due oggetti così diversi, così tra loro contrapposti, sono accomunati non solo dal bronzo del quale sono costituite, ma anche dalla circostanza che, in tempi di guerra, spesso le campane vengono requisite per fondere cannoni, mentre alla fine di ogni guerra, chi
vince, rifonde il bronzo dei cannoni per le campane. Nell'aprile del 1943, in piena Guerra Mondiale, in tutto il Veneto, si procedette alla requisizione delle campane, mentre dopo il secondo conflitto mondiale, nel 1945, alcune campane furono restituite alle loro comunità, mentre si provvide alla fusione di cannoni per "gettare" nuove campane.
Il ferro Battuto
Un cenno, infine, al ferro battuto. A Venezia i fabbri (favari), fin dalla metà del XI secolo, erano obbligati a prestare gratuitamente la loro opera per le necessità del Palazzo Ducale ed erano determinanti per l'economia cittadina in quanto tutte le altri arti si servivano di strumenti fabbricati dai fabbri. Nel corso della prima metà del Quattrocento, quando Venezia si espanse in terraferma, si trovò ad affrontare un problema nuovo: Feltre e il
Bellunese, così come il Bergamo e le valli bergamasche (Valvoglio), Brescia e la Val
Trompia, producevano ferramenta, utensili e armi in ferro battuto di qualità superiore e a costi inferiori per la presenza in loco di miniere di materia prima, del carbone necessario alle fucine e dei magli azionati con la forza dell'acqua, oltre a questi fattori locali, era nota la bravura dei fabbri del territorio alpino, anche perché in area tedesca, la tecnica del ferro battuto era giunta a livelli insuperati.
Venezia si trovò, così, nella necessità di proteggere i propri artigiani: nel 1407 obbligò i fabbri provenienti da Trento e dalla Valsugana, specializzati in riparazioni e nella raccolta di ferro vecchio, ad iscriversi all' arte dei
favari, nel 1432 (Brescia era stata conquistata nel 1428) vennero individuate alcune categorie merceologiche non a torto considerate "strategiche" di cui era vietata l'importazione: la ferramenta da nave (perni, da timone, rampini, ancore catene e chiodi) l'utensileria (mannaie, seghe, accette, scalpelli, sgorbie e succhielli) e il settore delle serrature (lucchetti, chiavi, serrature e cardini); in seguito questi divieti furono in parte attenuati anche se il controllo statale su un'attività così importante, come quella delle armi (anche questo settore era rigorosamente regolamentato), non cessò mai fino alla caduta della Serenissima Repubblica.
Nel corso del Settecento il ferro battuto fu utilizzato non solo con scopi di stretta necessità ma anche con finalità decorative: ne sono esempio le splendide cancellate, le inferriate e le balaustre delle Ville Venete, presenti in tutto il territorio del Veneto.
Particolare della lamina bronzea della Situla
Benvenuti, VII sec. a.C. , Este, Museo Nazionale |
Fibbia aurea con
pietre preziose, bottega veneziana, metà del XIV sec., Verona Museo
Civico |
Donatello, Monumento equestre a
Gattamelata, fusione in bronzo, Padova 1447 |
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