[INDICE] - [SU] - [CAPITOLO IV] - [NOTE]




CAPITOLO III



Medioevo


Caduta dell’Impero Romano e secoli bui



Durante la dominazione romana le notizie sul nostro villaggio sono date solamente da fonti archeologiche ed epigrafiche, mentre l’unica città che viene citata nei documenti classici è ALBA FUCENSE che già in piena epoca imperiale estendeva la sua giurisdizione fino al nostro villaggio.

L’attuale Valle Caprina, detta in alcune carte topografiche del 1800 Valle Turanense, fa oggi da confine fra i territori di Sant’Anatolia e Cartore con quelli di Torano e Spedino e la situazione attuale rispecchia esattamente la situazione romana poiché nei suoi pressi, ed esattamente nella chiesa di Santa Maria del Colle, esisteva fino a circa un secolo fa’ un cippo sul quale era indicato il limite territoriale di Alba nella nostra zona: ALBENS FINES. Il territorio di S. Anatolia e Cartore rientrava quindi già in epoca imperiale nella giurisdizione Albense e questa dipendenza si protrasse per tutto il medioevo fino alla fine del 1700.

Agli inizi del V° secolo d.C. l’Impero Romano d’Occidente, che durava da oltre quattro secoli, si avviava verso una lenta fine. I romani, intenti a godersi le ricchezze accumulate, non prestavano da tempo il servizio militare affidando la difesa dei propri territori ai barbari confinanti i quali erano gli unici che per bisogno di denaro si prestavano a quella rude vita. Per tutto il V° secolo quasi tutti i generali dell’esercito imperiale avevano cognomi barbari e ciò creò una forte dipendenza di Roma da essi ma in compenso, le stabili alleanze con questi popoli, avevano creato una sorta di cuscinetto intorno all’Impero che lo proteggeva da eventuali assalti esterni. La fama della sua potenza giungeva sempre più lontana e ad est, il miraggio della ricchezza facile, spingeva le orde mongoliche, respinte dalla Cina, a dirigersi verso l’impero. Quando i terribili Unni guidati da Attila si spostarono verso ovest la loro bestialità mise un tale terrore che i popoli confinanti chiesero asilo e protezione a Roma la quale, per non dispiacere l’esercito composto soprattutto da barbari, li accolse nei propri confini determinando l’inizio delle prime invasioni.

Odoacre fu l’autore del crollo definitivo dell’Impero. Egli, generale dell’esercito imperiale, e capo del popolo degli Eruli che nel frattempo si erano stanziati nei territori imperiali, nel 476 d.C. con un colpo di stato, depose l’ultimo imperatore d’Occidente Romolo Augustolo e governò l’Italia col titolo di patrizio in nome dell’imperatore d’Oriente Zenone. In seguito quest’ultimo, per togliersi di mezzo un altro alleato prepotente e fastidioso qual era Teodorico re degli Ostrogoti, che spesso invadeva e saccheggiava l’impero nella parte orientale, decise di mandarlo in Italia a spodestare Odoacre che nel frattempo gli era venuto in disgrazia. Teodorico invase e conquistò l’Italia, vi fondò un regno e la governò saggiamente ispirandosi alla tradizione romana.

Ma poiché, qualche tempo dopo, gli Ostrogoti volevano affrancarsi dalla dipendenza dell’imperatore d’Oriente, quest’ultimo, che allora era Giustiniano, nel 535 organizzò una spedizione in Italia con un esercito Greco che pose sotto il comando di Belisario e successivamente di Narsete. In un primo tempo sembrava che la fortuna arridesse ai Goti tanto che Roma, tenuta da Belisario, fu da essi assediata. A questo riguardo, Procopio di Cesarea riferisce che Giovanni, maestro dei militi, inviato da Giustiniano in aiuto di Belisario, nel 537, con 800 cavalli e 1.200 uomini, stabiliva i suoi quartieri invernali ad Alba Fucense. La guerra “Gotica” durò circa venti anni e l’Italia fu traversata continuamente dai due eserciti che occupavano e rioccupavano i territori oggetto di conquista. La Marsica e le nostre zone non vennero risparmiate dalle incursioni degli avversari i quali massacravano spietatamente tutte le popolazioni che non si sottomettevano all’uno o all’altro di essi e distruggevano tutto ciò che trovavano nel loro passaggio (1).

Alla fine i Greci ebbero la meglio ma, dopo appena 15 anni, nel 568, scesero dal nord i Longobardi condotti dal loro re Alboino, che provenivano dalla Pannonia, attuale Ungheria, dove si erano stanziati da diversi anni in qualità di federati dell’Impero. Alboino inizialmente conquistò senza alcun ostacolo la provincia Friulana e nell’anno seguente, scese nella Venezia, nell’Emilia e nell’Umbria. Infine, impossessatosi di Milano, si dichiarò, nel settembre di quell’anno, re d’Italia. Pavia resistette per tre anni ma stretta d’assedio alla fine nel 572 si arrese e fu eretta a capitale del regno. In Umbria Alboino istituì un Ducato e, creata capoluogo Spoleto, vi nominò per primo Duca Foroaldo. Ad Alboino successe Clefi e alla sua morte seguirono dieci anni di anarchia durante la quale Foroaldo ampliò i suoi domini a tutta l’Umbria e a parte della Sabina. Ariolfo, secondo duca di Spoleto, estese le sue conquiste, oltre al resto della Sabina, anche nelle regioni degli Equicoli, dei Marsi, dei Peligni, dei Vestini e dei Piceni e fu dunque in quel periodo, tra il 591 e il 603, anno della sua morte, che i nostri territori furono uniti al Ducato di Spoleto (2).



Il medioevo, il Ducato di Spoleto e la dominazione Farfense



Nell'anno 1110 il prete Adamo di Cliviano (S. Stefano di Corvaro) scrisse una lettera a Berardo, abate del monastero di Farfa, per chiarire la posizione di alcuni terreni e di alcune chiese che si trovavano sotto la sua giurisdizione:

Al Signore Berardo venerabile Abate il presbitero Adam de Cliviano fedele servo. Per timore di dio e di S. Maria vi indichiamo per l’appunto le terre che il duca Faroaldus diede a S. Maria [Farfa], cioè il Cliviano e per i suoi vocaboli, moggia millecinquecento di terra coltivata arabile con n. 12 abitanti; fino a Frontinum e fino alla Macchia Felicosam e fino alla grotta Machelmi. Di essa la terza parte di tutto il territorio insieme con la chiesa di S. Savino, la chiesa di S. Sebastiano e la chiesa di S. Anatolia di Turano. L’abate poi, che c’era in quei tempi, fece uno scambio con Soldone, e diede a quello la chiesa di S. Anatolia in cambio di quella di S. Maria di Loriano. Tutto il resto rimase al servizio di S. Maria [Farfa]. Ivi è edificato quel Corvarium. Per l’appunto in realtà gli uomini che ottennero lo scambio si raccomandano a voi affinché veniate qui per vostra volontà, rimanendo al vostro servizio, la dove solamente il Signore cancella tutto e Voi modestamente tenere (3)


Nei primi anni dell’VIII° secolo d.C., durante la dominazione dei Longobardi, la chiesa di S.Anatolia venne donata da Foroaldo II° duca di Spoleto al monastero di Farfa insieme ad altri territori ad essa adiacenti. Nel documento di cessione, che è il più antico a noi rimasto, essa venne denominata Sanctae Anatholiae de Turano e già in quell’epoca i territori limitrofi ad essa venivano denominati quasi come attualmente e cioè: Cliviano (S. Stefano in Cliviano), Macclam Felicosam (Selve della Duchessa ?), Cripta Machelmi (Grotte di Torano), Frontinum (Monte Frontino), Sancti Savini (S. Saino, cimitero vicino a Castel Menardo), Sancti Sebastiani (Chiesa di S. Sebastiano un tempo esistente alle falde dei monti della Duchessa), Turanu (Torano), Sancta Maria de Loriano (S. Maria parrocchiale di Corvaro), e Corvarium (Corvaro).

I termini Clivano e Torano riappaiono nel medioevo in vari documenti del Monastero di Farfa. Nell’anno 791: gualdum nostrum in Eciculis in integrum seu terram in Cliviliano ubi dicitur ...nuale (4); nell’813: in Eciculis loco qui dicitur Clivigiano (5); nel 957: Clivano, et Placidiscis, et Agello, et Torano

Nel frattempo, dopo varie vicissitudini, il regno longobardo d’Italia passò nelle mani dei Franchi di Carlo Magno che, rifacendosi alla tradizione romana, dettero le fondamenta al Sacro Romano Impero. In Oriente gli Arabi conquistavano l’Africa del nord, la Palestina, la Spagna, la Sicilia, la Corsica e la Sardegna e creavano l’impero arabo che, sotto lo slogan Allah è il solo Dio e Maometto il suo profeta, diveniva sempre più potente. Il Mediterraneo, che durante l’impero romano era chiamato Mare Nostrum, era ormai divenuto il mare degli Arabi, un mare pericolosissimo per gli occidentali poiché pieno di pirati e corsari che, appoggiati dagli Arabi, saccheggiavano ed invadevano continuamente la nostra penisola. Solo Venezia con le sue possenti e veloci navi riusciva a mantenere dei contatti, soprattutto commerciali, con l’Impero d’Oriente. I porti principali, che durante l’epoca imperiale erano densi di popolazione, venivano lentamente abbandonati e le città si ritiravano sempre più nell’entroterra. Il Tevere, che da secoli era luogo di arrivo di ricche navi commerciali, diveniva per Roma una fonte di pericolo e delle grandi catene vi venivano poste per impedire il passaggio alle imbarcazioni. L’economia lentamente si comprimeva fino a giungere a quel mercato chiuso che caratterizzò l’Europa per tutto il medioevo.




I Saraceni e la formazione dei Castelli



Nel Chronicon Vulturnense si rileva che fin quando governarono i Longobardi nelle nostre regioni: ...i castelli erano rari, perché non c’era paura o timore di guerre, tutti godevano di una grande pace, fin quando arrivarono i Saraceni ... (7)

Leone Ostiense o Marsicano nel suo Chronicon Casinense fa rilevare come le varie abbazie si preoccupassero delle popolazioni loro soggette facendo... innalzare castelli e rocche fortificate nei luoghi di difficile accesso per evitare scorrerie e saccheggi da parte dei seguaci della Mezzaluna (8).


I Saraceni furono per l’Italia meridionale una grossa calamità. Essi, da veri corsari qual erano, appoggiati dagli Arabi, facevano spesso delle incursioni nell’entroterra e, guidati dal loro valoroso capo Seodan, risalendo lungo il corso del fiume Garigliano e del Liri, arrivarono spesso fin nella Marsica dove misero a ferro e a fuoco i nostri paesi. Già nell’anno 846 erano giunti sotto le mura di Roma dove, incontrata una forte resistenza, avevano depredato la basilica di San Pietro che allora si trovava fuori delle mura. In seguito incendiarono la città di Fondi uccidendo gran parte dei suoi abitanti. I superstiti vennero ridotti in schiavitù. L’imperatore Lodovico II°, per contrastare quelle orde barbariche, dette ordine a Guido duca di Spoleto di formare un esercito con il quale si spinse a perseguitarli fin sotto le mura di Gaeta; ma, caduto in un agguato, Guido stesso rischiò di cadere nelle mani nemiche e si salvò per un pelo grazie all’aiuto di Cesario figlio di Sergio duca di Napoli.

In seguito alla vittoria ottenuta, i Saraceni divennero più coraggiosi rinnovando le loro scorrerie fino al fiume Garigliano dove si stabilirono e si fortificarono. Il papa Leone IV°, per arginare il pericolo Saraceno, si decise a porre delle catene lungo il Tevere per impedire alle imbarcazioni di risalirlo fino a Roma e, per salvaguardare la chiesa di San Pietro, la circondò di mura, quelle che in futuro delimiteranno la Città del Vaticano. Nell’865 Lamberto duca di Spoleto, sostenuto da Gerardo conte dei Marsi, attaccò i Saraceni che, in seguito a delle scorrerie nei territori di Capua e di Napoli, stavano facendo ritorno con un ingente bottino nelle loro sedi a Bari. In quella battaglia i Saraceni ebbero ancora la meglio e in quella sede venne ucciso addirittura Gerardo conte dei Marsi.

I Saraceni, ancora più inorgogliti dalle vittorie ottenute, si fecero più audaci tanto da invadere ed occupare parte della provincia Valeria che allora raggruppava la Marsica, il Cicolano e parte della Sabina. Anche il territorio di Benevento era continuamente messo a ferro e fuoco e, tanto i popoli si lamentarono, che l’imperatore Lodovico II° rinnovò una Crociata contro quei barbari. Ma quel popolo di corsari non si fermava. Incendiarono il monastero di San Vincenzo del Volturno, di San Salvatore di Rieti e molte chiese. Saccheggiarono ripetutamente i nostri paesi e, nonostante che nell’anno 886 subirono una grande sconfitta in una battaglia condotta da Guido di Spoleto, si dovette attendere l’anno 916 per vederli definitivamente sconfitti (9).

Alba Fucense nell’881, in una delle tante incursioni dei Saraceni, venne assalita, saccheggiata e distrutta da un tremendo incendio mentre la popolazione superstite fu costretta a fuggire sui monti; per questo motivo in seguito vi fu eretto un castello sul colle più alto che resisté fino al 1915 anno del terribile terremoto che sconvolse la Marsica ed il Cicolano. Nelle cronache dei vari monasteri si rileva come i vari abati spingessero i loro subalterni ad innalzare nei vari villaggi Castelli con Poggi o rocche fortificate nei luoghi di più difficile accesso per poterli garantire dalle aggressioni dei Saraceni e dei cattivi vicini (10).

Fu dunque da quel periodo che cominciarono ad essere costruiti i vari Castelli della Marsica e del Cicolano fra i quali quelli che a noi interessano in questa storia di S. Anatolia, Torano, Corvaro, Spedino, Collefegato, Castelmenardo e Poggiovalle. Nell’anno 1113 Annolino di Oderisio donò il castello di Torano alla diocesi di Rieti: Castrum quod Toranus vocatur (11) ed in quel periodo probabilmente erano già stati eretti i castelli di Collefegato, Spedino e Castelmenardo.

Nel 1115 i confini della diocesi marsicana passavano per la zona di S.Anatolia ed infatti in quell’anno papa Pasquale II° confermandoli a Berardo vescovo de’ Marsi li individuava nel seguente modo: ...per Scalellas, per Tufum fluvii Remandi, per Trepontum; inde ad Vulpem Mortuam, per Buccam de Teba, per Campum de Pezza, ...(12). Nel 1182 ancora un papa, Lucio III°, confermando i territori questa volta della diocesi reatina, di nuovo nominava la Bocca di Teva (Tabulam), Cartore (Cartonis) e le Volpi Morte (Vulpem Mortuam) quali zone di confine. Ancor oggi le Volpi Morte, in dialetto “le Urbi Morte”, e la Bocca di Teva, zona di confine fra il Lazio e l’Abruzzo, sono termini di uso comune per indicare alcuni territori vicini a S.Anatolia.




1143-1268: Dominazione Normanna e Sveva



Nel 1143, con la creazione del regno delle due Sicilie, la nostra zona con tutto il Cicolano passò sotto la dominazione dei Normanni.

Nel 1153 papa Anastasio IV°, confermando al vescovo reatino tutti i possedimenti della sua diocesi, nominò per la prima volta l’antichissimo villaggio ora semi abbandonato di Cartore, Plebem Sancti Laurentii, et Sancti Leopardi in Cartoro(13), la parrocchia (Plebem) di Sancti Stephani in Clavano (Santo Stefano di Corvaro) e i monasteri di ... sancti Mauri supra Castilione de Valle de Petra (San Mauro a Castelmenardo) e di sancti Leopardi de Colle Fegati. Nel 1182 papa Lucio III° nella sua bolla pontificia, oltre alla conferma dei confini della diocesi reatina, fece anche l’elenco delle chiese, parrocchie e monasteri, appartenenti alla stessa fra cui: (Parrocchie di) ... S.Laurentij in Cartoro, S.Mariae in Cornio, S.Martini in ... [Turano], S.Stephani in Clavano - (Monasteri di) ... S.Leonardi in Selva, S.Anatoliae in Vilano, S.Leopardi et S.Anastasiae in Collefecati ... (14).

Vilano era quindi il nome più antico del territorio ove si adagiava il Santuario “Monastero” antico di S.Anatolia nella valle Cantu Riu mentre Cartoro o Cartore, termine rimasto invariato nel tempo, era il paese principale visto che nel suo territorio si trovava la parrocchia principale di S. Lorenzo. Il villaggio di Frontino, con la parrocchia di S. Stefano in Clavano, dominava il territorio di Corvaro dove era già stata costruita una prima rocca, mentre Cartore, con la parrocchia di San Lorenzo e con i monasteri di S. Leonardo in Selva e di S. Anatolia in Vilano, predominava sull’odierno territorio di S.Anatolia. A Torano, dove già si ergeva la rocca, il Castrum, era già nata la parrocchia di S. Martino e a Collefegato si ergevano i due monasteri di S. Anastasia e di S. Leopardo.

Collefegato (Collem Fecatum), Castel Menardo (Castellum Mannardi) e Spedino (Dispendium) già nel 1183 possedevano un castello e difatti il re di Napoli Guglielmo II° normanno detto il Buono, nell’elenco dei baroni fatto in quell’anno in occasione di una delle Crociate per Gerusalemme, elencò i primi due come proprietà del barone Gentile Vetulo (15), il terzo come proprietà del conte Ruggero di Alba (16). Nel territorio del Cicolano Gentilis Vetulus doveva fornire al Re di Napoli, per la spedizione in Terra Santa da lui progettata, i seguenti soldati (militis):

4 soldati dal feudo di Castrum Pescli, 2 da Barim, 1 da Macclatemonem, 1 da Castellionem, 1 da Roccam Melitum, 1 da Castellum Mannardi, 1 da Collem Fecatum, 3 da Sanctum Johannem de Lapidio e 1 da Roccam Randisi.


Nel territorio dei Marsi Rogerius, conte (comes) di Albe, doveva invece fornire:

7 soldati dal feudo di Albe, 1 da Castellum Novum, 3 da Paternum, 5 da Petram Aquarum, 6 da Tresacco e Luco, 1 da Capranicum, 2 da Pesclum Canalem, 6 dal feudo di Carcerem e Podio Sancti Biasii, e uno e dimidii da Dispendium.


Il feudo di Moranum, allora di proprietà di Taynus de Ponte, doveva fornire 3 soldati.

Fra la fine del secolo XII° e l’inizio del XIII° si verificò nelle nostre zone come anche altrove, il fenomeno dell’incastellamento per il quale i centri o castelli minori si univano, soprattutto per difesa, ai castelli di maggiore importanza. Antonio Ludovico Antinori nei suoi Annali” così si esprime:

...si erano cominciate a fare le incastellazioni. Si chiamavano così le unioni de’ Castelli più piccioli alle Città vicine, o ai Castelli più grandi, e confinanti; acciocché gli abitatori vivessero con maggior sicurezza, e commodo. Era una specie di ascrizione del Castello minore all’agro, o territorio del Castello maggiore, e più ricco. In vigore di essa gli incastellati entravano a parte di tutti i commodi, utili, e pesi, che solevano avere gli altri Castelli della ... terra incastellante, tanto in tempo di pace, quanto di guerra. Per conseguenza, come se fosse l’istesso campo venivano ad avere comuni, e promiscue le leggi, e gli statuti sull’annona, i pesi e le misure, i Mercati, gli opportuni sussidj, e tal genere di altre cose. Aveva l’aspetto d’una pubblica confederazione ... L’unione liberamente contratta, concorrendo poi giuste cause, liberamente si poteva disciogliere (17).


I territori di Cartore e di Vilano non vennero nominati nel Catalogo dei baroni poiché essendo di secondaria importanza rientravano, insieme ai territori di Rosciolo, Magliano e Torano, nella giurisdizione del castello più vicino di Carcerem in Marsi che a sua volta dipendeva dalla contea di Albe mentre il territorio di Clivano con la rocca del Corvaro dipendevano probabilmente dai feudi più importanti di Roccam Melitum (odierna Valle di Malito) o di Collem Fecatum.

Il Monte Carce, situato fra Magliano de’ Marsi e Rosciolo, si innalza a circa m. 1.000 d’altezza s.l.m. e visto da Magliano è a forma di cono. Nel punto più alto c’è una piccola pianura rettangolare sopra la quale ancora oggi si intravedono i resti delle fondamenta di una fortezza, un’antica oppidum pre-romana, che poi nel medioevo venne trasformata nel castello di Carcerem. Questo, nominato in altri documenti medioevali col nome di Castiri, Cartio, Carchium, Carchio, Carchi e Carci, era già nel X° sec. d.C. un castello di primaria importanza per la sua posizione strategica, tanto importante che il 4 settembre del 970 l’imperatore Ottone I° di Germania vi tenne un placito. Esso venne descritto dall’Antinori in questo modo:

... quello che poi si disse Carce nei Marsi era feudo del conte Roggiero d’Albe, incastellato a forma di rocca nell’estrema vetta del monte, interposto alla valle, onde si passa a Cicoli, e donde scorrendo il fiume Anio scende verso gli Equi. Avendo quella cima una forma ovale, il castello veniva compitamente d’ogni intorno cinto di mura. Vi si ascendeva per aspro, ed insolito cammino, né per altra via, che pel giogo, e via così stretta, che appena vi possono andare tre insieme di lato. Sulle prime era l’ingresso del Castello per una sola porta, ma poi renduto Fortelizio, ne ebbe munite due di vallo ...


Sopra la Val di Fua (in dialetto “Fiui”) a circa m.1.400 s.l.m. fra le montagne della Duchessa sopra il villaggio di Cartore, esiste una grotta con antichi ruderi di marmi e muraglie. La grotta non ha vie di accesso facili e la mancanza di sentieri e gli strapiombi rendono la ricerca molto difficile anche per i visitatori più esperti; eppure in quel posto, sconosciuto dalle carte ufficiali, si trovava anticamente un monastero.


SAN LEONARDO


Il Monastero di S. Leonardo in Cartore, apparso per la prima volta nella bolla del 1153 e in seguito detto di S. Leonardo in Selva nel 1182, apparteneva ai monaci benedettini e precisamente ai monaci del monastero di S. Paolo di Roma. Infatti nel 1218 il papa Onorio III°, confermando tutti i beni del suddetto monastero, recitava:

Sanctum Leonardum supra in Cartore cum cellulis, villis
et molis, et alii pertinentiis (19)


La chiesa di S. Anatolia de Turano nell’anno 706 era stata donata da Foroaldo duca di Spoleto ai monaci benedettini di S. Maria di Farfa. Anticamente esisteva nei pressi di Cartore un altro monastero molto importante denominato S. Maria in valle Porclaneta al quale nel 1048 fu donato il castello di Rosciolo da Berardo conte de’ Marsi (20). Nel 1084 il monastero assieme al castello furono donati sempre dal conte Berardo a Desiderio abate di Monte Cassino (21) e da quel momento la giurisdizione passò a quest’ultima abbazia. Fu in questo periodo probabilmente che la chiesa di S. Anatolia di Vilano, divenuta nel frattempo un monastero benedettino come dimostra la bolla del 1182, insieme alla chiesa di S. Lorenzo in Cartore, passarono sotto la giurisdizione del monastero di S. Maria in Valle Porclaneta. Infatti, nel 1250 in un registro delle rendite di tale chiesa, il suo preposto esigeva, dai preposti e rettori delle chiese di S. Lorenzo e di S.Anatolia, che, nei giorni festivi di quei santi, si preparassero dei pranzi per sé e per i suoi chierici (22).

Il 13 dicembre dell’anno 1240 papa Gregorio IX° delegò come Commissari Pontifici don Maccabeo abate di Torano insieme a frà Pietro dè minori conventuali per prendere informazioni sulla vita e sui miracoli del monaco certosino Oddone venerato a Tagliacozzo qual beato (23).


1268-1280: Distruzione di Cartore e invasione degli Zingari



Nel 1268 le truppe di Corradino di Svevia, nei movimenti di avvicinamento precedenti alla battaglia contro Carlo D’Angiò, passarono per le nostre zone e ...

... trovata troppo angusta ed impraticabile la strada che porta a Tagliacozzo, essendo fra dirupi si stretta che appena vi poteano capire due persone se mai s’incontravano una in faccia all’altra, prese il cammino a sinistra, e avviandosi per la valle di Uppa o Luppa spuntò a Tecle, detto poi bocca di Tecce, luogo fra colli e valli al di qua di Turano e di S.Anatolia e al di là di Rosciolo: scese quindi al piano senza contrasto, si diresse a Scurcola.....(24)


Le genti di Cartore al passaggio di Corradino per la loro terra, lo accolsero con gioia e, alleandosi a lui, gli diedero manforte alimentando il suo esercito già numeroso. Purtroppo a Scurcola, nei piani Palentini, Corradino perse la sua più importante battaglia e ciò ebbe grandi ripercussioni sia per la storia italiana, sia per i molti suoi piccoli alleati.

Chiedendo ad alcune persone anziane del paese se sapevano di come fosse stata distrutta l’antica città di Tora ho scoperto fortuitamente una leggenda che ha dell’incredibile poiché tramandata oralmente per ben sette secoli; Giovanni Sgrillletti infatti, anziano signore di Sant’Anatolia, mi raccontò:

circa 700 anni fa’ c’erano due imperatori in guerra, uno di nome Corradini ed l'altro di nome Carlo d’Escia, con le loro battaglie avvenne la distruzione di Tora. I cittadini fuggirono nei paesi vicini e pochi rimasero fra i resti della città. Dopo alcuni anni, sui resti di tora si era formata una folta vegetazione, giunsero alcune carovane di zingari che, vistosi scacciate da tutti gli altri paesi e trovata l’acqua fra i resti della città, vi si accamparono. Qui dovettero litigare con la gente del luogo ma infine si stabilirono pacificamente e costruirono delle case nel posto ora chiamato “Case Vecchie”. Così iniziò a sorgere il paese.


E’ chiaro che il villaggio distrutto da Corradino di Svevia (Corradini) e Carlo d’Angiò (Carlo d’Escia) fosse quello di Cartore, detto in alcuni documenti Cartora, mentre il termine Città di Tora è sicuramente un’influenza posteriore. Infatti, verso la metà del ‘700, vennero pubblicati i primi libri di storia locale quali “La Storia de’ Marsi” del Febonio, “La Reggia Marsicana” del Corsignani e, in particolare, le “Memorie di S. Barbara” del Marini che, con molta puntigliosità, asserivano che l’antica città romana di Tora si trovasse sepolta nelle nostre contrade. Nel nostro villaggio passavano con molta frequenza vescovi e pellegrini che, avendo letto quei libri, li riportavano ai nostri parroci o ai nostri cittadini più istruiti i quali poi, parlandone con il popolo, ne influenzavano la memoria storica. Comunque, in nessun documento e in nessun libro di storia locale, risulta la notizia della distruzione di Cartore e ciò mi sembra una buona garanzia per dimostrare che il racconto di Giovanni Sgrilletti è genuino e sicuramente, perlomeno in generale, non influenzato.

Dopo aver ascoltato questo racconto, in un primo momento pensai che esso fosse frutto di pura fantasia, poiché non riuscivo a trovare dei documenti che avessero una qualche connessione con gli Imperatori Corradini e Carlo d’Escia e la distruzione dell’antica città romana di “Tora”; in seguito, intuendo la possibilità dell’influenza e quindi della trasformazione del termine di Cartore in Tora, e incappando in alcuni brani di libri e documenti che parlavano dei dintorni di S. Anatolia fra il 1250 e il 1300, ebbi finalmente la prova inconfutabile che il racconto era vero e che esso si riferiva veramente al villaggio di Cartore.

Domenico Lugini, storico del Cicolano, nel 1907 nelle sue “Memorie”, parlando della famiglia Mareri del Cicolano, scriveva:

Il Re Carlo, dopo la riportata vittoria, si diede a perseguitare e a castigar tutti coloro che erano stati del partito di Corradino, e furono moltissimi quelli che perirono per tale cagione (25)


poi, sempre lui, parlando della fine di Alba Fucense e basandosi sulla testimonianza di Boezio di Rainaldo, detto anche Buccio Ranallo, scriveva:

Alba Fucense fu fatta devastare da Carlo nel 1268 dopo esser rimasto vincitore di Corradino sia perché in essa si erano fortificati i Ghibellini, che favorivano il partito Svevo, e sia perché gli Albensi avevano acclamato Corradino che, nel primo scontro, era rimasto vincitore degli Angioini (26)


Giovanni Pagani, storico Avezzanese, nel 1979, parlando del santuario di “Pietraquaria” nella Marsica scriveva:

Quale feudo del conte d’Albe, che apertamente era dalla parte di Corradino di Svevia, non mancò di sostenere il suo signore Ghibellino: non dovrebbe quindi esservi dubbio che l’ira vendicativa di Carlo d’Angiò si abbatté inflessibile su Pietraquaria: lo lascia credere, sopra ogni altra cosa, la terribile devastazione di Albe medesima, avvenuta ad opera degli Angioini subito dopo la battaglia di Tagliacozzo (27).


Paolo Fiorani nel suo volume “Una Città Romana - Magliano de’ Marsi” scriveva:

Carlo d’Angiò ... non pago del successo ottenuto, fece seviziare i superstiti prigionieri svevi, mentre i soldati francesi si davano a saccheggiare i paesi limitrofi. Si dice che da essi fu persino distrutto il convento dei benedettini in Valle Porclaneta, sopra Rosciolo (28).


Dopo la battaglia di Tagliacozzo quindi, fra Corradino di Svevia e Carlo D’Angiò di Francia, anche il villaggio di Cartore, schieratosi a favore di Corradino, venne distrutto da Carlo verso l’anno 1268 (29).

Da alcuni anni era stata costruita dagli abitanti di Cartore e di Vilano una torre di avvistamento sul colle dominante il monastero di S. Anatolia e questa rocca sembra che venisse denominata, per la sua funzione, Torre della guardia. Anche gli abitanti di Torano sembra che si schierassero a favore dello Svevo e quando Carlo, dopo aver vinto a Scurcola la sua battaglia più importante, decise di sottomettere i villaggi a lui alleati, questi non si arresero immediatamente ma gli diedero molto filo da torcere. Un racconto tramandatoci oralmente narra che:

Al tempo in cui c’erano le guerre civili e da Magliano doveva venire un esercito di centinaia di uomini a cavallo, i nostri per difendersi osservarono il loro arrivo chi dalla Torre di Torano, chi dalla Torre di Guardia, chi da un altro punto verso Colle Pizzo Dente, e quando il nemico si avvicinò al centro fra le tre torri, i padroni di queste ultime li circondarono e ne uccisero in molti. In quell’occasione furono uccisi anche moltissimi cavalieri e tale ricordo rimase impresso nel nome del territorio dove avvenne la battaglia e cioè “Scannacavalli” che è una zona vicinissima a S. Anatolia (30).


La zona bassa vicina al Santuario di Sant’Anatolia, ed esattamente l’odierna “Case Vecchie”, era in principio l’unica parte abitata della contrada di Vilano; negli anni seguenti alla sconfitta di Corradino la trascuratezza derivata dalla guerra e un clima troppo afoso fecero sì che quella zona divenisse rifugio di molte bestie, soprattutto serpenti.

VALLE CANTU RIU
CASE VECCHIE


Queste motivazioni, alimentate dal bisogno di ricostruire un villaggio appena distrutto, spinsero gli abitanti di Cartore e di Vilano a trasferirsi sul colle alto del paese tutt’intorno alla rocca dall’aria più fresca e strategicamente più difendibile. (31).

In quel tempo, una colonia di zingari proveniente dall’Ungheria, scese in Italia e, errando nelle nostre zone, chiese asilo ai vari castelli del circondario. Bussarono alle porte di Corvaro, di Torano e di Spedino ma non ebbero ospitalità e infine vennero dirottati verso il paese di S. Anatolia ove si accamparono. Nessuno in quel periodo aveva voglia di altre guerre ed infatti i pochi abitanti del nuovo castello di S. Anatolia, i sopravvissuti di Cartore e di Vilano, dopo alcune scaramucce e trovando che gli zingari erano abili cacciatori di serpenti, preferirono accordarsi; questi ultimi fecero piazza pulita di quelle bestie, si stabilirono in quel luogo e lentamente si fusero con gli abitatori naturali (32). S.Anatolia divenne la santa degli Zingari, “la Madonna nera di Sant’Anatolia”, o già lo era, ed infatti attualmente il 9 e 10 luglio a Gerano, un paese vicino Subiaco, gli zingari moderni si riuniscono a centinaia ogni anno per la festa, poiché anche lì vi è una chiesa in onore della santa. Ancor oggi i paesani limitrofi di Corvaro, Torano, Spedino, ecc. chiamano con disprezzo gli abitanti del nostro paese: “Zingari di Sant’Anatolia” (“gli zengari”), cosa che viceversa non succede. Dopo il 1268 con la sconfitta di Corradino il villaggio di Cartore non riuscì più a risorgere e quello di Vilano o di S.Anatolia dovette attendere più di un secolo prima di ristabilirsi.

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CAPITOLO IV