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OLTRE QUEL MARMO BIANCO

racconto

Prima parte del romanzo Genj Malefici e Gatti  Mammoni

I .

Pietro Taddeo era originario di un paesino del napoletano e sapeva che, forse, era discendente di una antica Casata di una città della Spagna. Era in viaggio di nozze a Palermo, con Maria Assunta, la sua giovane sposa. Aveva fortemente voluto visitare quella città, sino a litigare, quasi, con la sua amata. Alla fine l’aveva spuntata, ma solo dopo averle promesso che al primo anniversario di matrimonio l’avrebbe portata a Montecarlo.

"Essere siciliana e andare in viaggio di nozze a Palermo è un modo davvero originale di trascorrere delle ore nelle assolate vie del centro, vero Pepe’?", lo rimproverava con ironia Maria Assunta, che non smetteva mai di lamentarsi. Non le era bastato visitare la Favorita, due musei e Piazza della Vergogna dove, seduti a un tavolino del bar, avevano gustato una granita al mandarino. Voleva frescura, lei, sempre più frescura. E Pietro Taddeo decise di accompagnarla a visitare un antico palazzo di fattura spagnola che aveva osservato dall’esterno mentre vi passavano davanti, in auto, il giorno prima. Non sapeva come si chiamasse quel palazzo, ma sentì l’irresistibile desiderio di tornarci e di entrarvi, nonostante le proteste piagnucolose di lei. La targa turistica di colore giallo posta all’ingresso diceva che si trattava di un edificio costruito nel XVII secolo, forse nel 1650.

"Anche se sei nata nel pieno centro della Sicilia non conosci niente della sua storia, del suo capoluogo, che è Palermo, città dalla mille civiltà: di qui sono passati i romani, i greci, i turchi, gli arabi, gli spagnoli… e ogni popolo ha lasciato traccia della sua architettura. Dovresti ringraziarmi Assunti’, lo sai che da molto tempo volevo venirci, a Palermo. Anzi, sai che ti dico? Che dopo aver visitato questo palazzotto, se vuoi, interrompiamo il nostro viaggio e andiamo a Taormina. Va bene?" E, così dicendo, Pietro Taddeo si infilò nel portone semichiuso, trascinando per mano la sua dolce Maria Assuntina.

L’interno del palazzo affascinò Pietro Taddeo più di quanto avesse potuto credere. Già la volta dell’androne fece restare i due sposini a bocca aperta, soprattutto Maria Assunta, che non aveva mai visto nulla di simile. Pietro Taddeo invece no. A lui sembrava di aver già visto quelle pareti ricamate con pittura dorata ormai sbiadita. Non ricordava dove, ma le aveva viste: forse in qualche libro d’arte.

Era pomeriggio inoltrato, ma a Palermo, ad inizio estate fa scuro molto tardi, e non ci si accorge facilmente delle ore che passano, soprattutto quando si sta impiegando bene il proprio tempo. Ed osservando le finezze artistiche del palazzo i due innamorati si dimenticarono che l’orario di chiusura era prossimo. Di lì a poco udirono un tonfo: il portone era stato chiuso. Forse era stato il custode o forse un colpo di vento. Chissà.

"Cosa è stato, Pepe’? ", frignò Assuntina.

"Non lo so, Assunti’. Forse ci hanno chiusi dentro. Ma non temere, ci sono io, con te." La rassicurò Pietro Taddeo.

"Ho paura, Pepe’, perché non andiamo via?" disse con voce tremante la giovane donna.

"Aspetta un po’, voglio prima vedere una cosa. Voglio vedere se esiste in questo palazzo un nascondiglio, un angolo che molte volte ho visto in sogno. Ah! Ecco dove ho visto prima d’ora questo palazzo: nei miei sogni.

II .

Il mio nome è assai noto fra gl’incantatori. Mi chiamo Don Pedro. Detto il bello, non già per qualche bellezza che sia in me, ma piuttosto per distinguermi dal perfido e scellerato mio fratello, il quale ha lo stesso mio nome. E le genti mi volle distinguere dal mio fratello medesimo a cagione della depravazione de’ suoi costumi. Il suo potere è sempre stato superiore al mio, poiché i Genij malefici, co’ quali egli ha legato un commercio stretto, gli hanno infuso una sublimità di malizia alla quale finora non ha mai voluto pervenire.

Io aveva per vicina una gentile persona, Donna Felicita chiamata. La vedeva io spesso, e s’è trovata tanta simpatia in tutte le nostre inclinazioni, che ben tosto ci siamo scambiati i segni della più vera stima. Dalla stima all’amore, come sapete, caro Signore, non s’ha molta strada da fare, onde non è passato molto tempo che ci siamo amati con tutta la possibile tenerezza. Io le ho proposto di legarci co’ nodi più stretti, ella ha acconsentito, ed abbiamo stabilito il giorno d’incontrarci tanto più segretamente.

Avvegnachè pochissima amicizia passasse fra mio fratello e me, ho stimato però di doverglielo, per civiltà, far partecipe. Egli ha approvato la mia scelta ed ha voluto trovarsi alle mie nozze che di lì a poco sono avvenute, banchettando in questo medesimo palazzo, mia dimora per lascito paterno. Io lo conosceva bene, mio fratello, come d’un Genjo capace delle più perfide azioni, ma credeva almeno ch’egli rispettasse in me i vincoli del sangue e io non pensava altrimenti al crudele tradimento ch’egli m’ha fatto.

III.

Pietro Taddeo e Maria Assunta non sapevano dove si trovassero, se nei sotterranei del palazzo, o ai piani nobili. Lei pensò che fossero le cucine, ma lui le fece capire che ormai, dopo duecento anni tutte le stanze erano uguali. Non c’erano più suppellettili, non un quadro, una sedia, un mobile. Solo degli affreschi d’epoca risaltavano qua e là. Nel loro girovagare per le ampie stanze collegate l’una alle altre da grandi porte ancora in buono stato si avvidero che solo il riverbero del tramonto dava a quelle stanze quel po’ di luce che serviva loro ad orientarsi. Si vedeva poco, è vero, ma quel poco era visto sotto un aspetto che nessun effetto artificiale poteva dare a quelle stanze che, seppur vuote, non avevano bisogno di mobilia per vederle come dovevano essere state due secoli addietro. Gli stucchi, i bassorilievi e quella frutta, a ceste, dipinta sul soffitto, circondata da arabeschi granata, davano l’impressione reale di vivere nel 1700.

"Ho freddo, Pepe’. Tu non ne senti?", disse con voce fievole Maria Assunta. In effetti, dei leggeri refoli di vento provenienti da alcune finestre lasciate aperte facevano svolazzare alcune tende leggere, simili al velo di una sposa che corre verso il suo promesso. E ad un tratto Maria Assunta trasalì: improvvisamente alla sua sinistra vide due figure abbracciate, un uomo e una donna. Ma subito dopo si riebbe e capì che quelle figure altro non erano che le loro immagini riflesse da uno specchio grande quasi quanto una parete, uno specchio antico e con cornice d’oro che ingigantiva, sino a raddoppiarla, la stanza azzurra che stavano visitando. Con tenerezza, e già sollevata, Maria Assunta si rilassò. Con trasporto, Pietro Taddeo la baciò sulle labbra. Poi entrambi sorrisero.

"Che paura ho avuto! E tu?", alitò lei

"Zitta Assunti’. Non hai sentito?" domandò Pietro Taddeo, tendendo l’orecchio. E proprio in quell’istante udirono un lamento, come un rantolo proveniente da chissà quale anfratto, da quale angolo nascosto del palazzo. Un camino grande, con dei lastroni di marmo bianco ai suoi lati attirarono l’attenzione dei due visitatori che, benché timorosi, vi si avvicinarono. Ai lati dei lastroni di marmo vi erano delle tende color porpora, di stoffa pesante, simile ai sipari dei teatri d’epoca. E quasi a ridosso delle tende vi stavano dei cordoni gialli che si infilavano sul muro, in alto, oltre quel marmo bianco ai lati del camino, quasi fossero pronti per essere tirati e aprire il sipario. I lamenti si trasformarono in suoni più chiari, simili a più di una voce umana, come dei gruppi di persone che cercano di parlare ma che non vi riescono e si sforzano per poterlo fare. E più i due sposini, con cautela, si avvicinavano al camino, più distinte quella voci si udivano, sino a quando si trasformarono in parole confuse ma ben articolate. Poi fu come se tutte quelle parole si fossero fuse in un’unica, distinta voce, molto pura, chiara, come una "messa a fuoco" sonora. E quella sonorità anziché tranquillizzare i due giovani li mise in apprensione, perché cercarono di udire e di capire ciò che veniva detto al di là di quel marmo bianco, convinti ormai che loro due non fossero i soli rimasti chiusi nel palazzo: forse una comitiva di turisti stava vivendo la loro strana ed emozionante avventura. Ma comunque fossero andate le cose, l’urgenza era quella di uscire da quel palazzo. Il più presto possibile, perché ebbero l’impressione di vivere in un altro mondo, in un incubo, in un’altra epoca.

IV.

Noi altri incantatori d’una Scienza appress’a poco uguale, non possiamo nuocerci fra noi, né distruggere ciò che uno di noi ha fatto ma, quando prendiamo moglie, tutto il nostro potere diventa inutile il giorno delle nozze, ma solamente quando non isposassimo qualche Fata, o qualche spirito elementare che ci facesse degenerare. E’ perciò che noi ci ammogliamo rarissime volte con semplici mortali, o le sposiamo con poco strepito.

Mio fratello si valse di quella congiuntura; o fosse innamorato di mia moglie, o la sua sola inclinazione di far del Male lo spingesse ad operar così meco, egli ebbe l’insolenza di ritenere a D. Felicita alcuni discorsi di pochissimo rispetto. Io non seppi nel principio a che attribuire quella pazzia, ma vedendo che la mia presenza non ne fermava il corso, gliene mostrai rincrescimento. Ei si fece di me beffe; mi trattò da geloso, ed inoltrandosi finalmente colla sfacciataggine fino agli estremi, ne fui così irritato che, colla spada alla mano, io era per avventarmi sopra di lui, quando toccandomi colla sua bacchetta m’intimò: fermati, temerario, gridò egli, io non voglio lordarmi le mani nel tuo sangue. Convien punirti in forma che più ti dispiacerà; diventa Scimia di color di fuoco e sii testimonio della felicità che sono per godere colla tua Sposa.

Ah, quale tradimento.

V.

Pietro Taddeo non osava muoversi e sua moglie era impietrita. da dove proveniva quella voce così melodiosa che poco prima li aveva spaventati e che, ora, tanto li affascinava? E quella narrazione che sapeva così tanto di favola da chi era stata inventata?

"Assunti’, hai sentito anche tu quella voce? Non mi par vero.", disse lui.

"Vera o non vera che sia, Pepe’, perché non andiamo via? Non mi piace stare qui."

In quel momento udirono dei passi pesanti avvicinarsi. Provenivano delle stanze che li separava dall’ingresso. Un borbottio li mise in apprensione, ma poi capirono che quello che stava per arrivare sino a loro era il custode.

"Sempre, il sabato sera. Sempre a fare tardi. L’orario di chiusura è già passato, ed io devo chiudere. Sbrigarsi, sbrigarsi." E, così dicendo, il custode batteva le mani, quasi a non ammettere repliche.

"Ci scusi ancora qualche minuto, per piacere", esortò Pietro Taddeo. Vorrei sentire la fine della storia di Don Pedro e di Donna Felicita. Lei ne sa qualcosa? Ho sentito delle voci. Secondo me, dietro questo camino c’è nascosto un altoparlante. E’ possibile acquistare il nastro o delle video cassette?"

"Non ci saranno invece dei fantasmi, vero?" piagnucolò Maria Assunta.

Senza fermarsi, senza far loro caso, come se non fossero presenti, il custode continuò a borbottare e, dal tono della voce si capiva che aveva bevuto buon vino. Ma dalle parole che pronunciò fu chiaro che però aveva udito ciò che avevano detto. "Sempre così, diceva il custode, prima leggono chissà quali guide turistiche e poi s’inventano i fantasmi e le loro storie. SBRIGARSI, SI CHIUDE." E così dicendo continuava a battere le mani. Il rumore dei suoi passi si perse nelle stanze successive, insieme alla sua voce. E in quel preciso momento un'altra voce, più angosciosa di quella di prima e molto più concitata, come se voelsse sbrigarsi a narrare la sua storia, si levò nella stanza. Cominciava a far freddo. La brezza era aumentata. L’oscurità faceva capolino. Gli ultimi bagliori del giorno resistevano, invitando i due visitatori a restare ancora un po’. Forse per sempre.

VI.

Appena il perfido mio fratello ebbe pronunziate quelle parole, io presi la figura di Scimia e le sue grida, mio Signore, vi hanno condotto in questi luoghi. E, per questo non mi abbasterà l’eternità per ringraziarvi. Ma torno al fatto. Il traditore non ricevendo dall’amabil D. Felicita se non contrassegni d’avversione, e d’orrore, fece uscire di terra un sepolcro di marmo bianco, nel quale la costrinse ad entrare; formò l’incantesimo delle armi dell’invitati tutti che lo avevano combattuto e cambiò in Scimie, ed in Gatti mammoni, tutte le persone del mio seguito. Sprofondò nell’orrore il Palazzo, in cui si celebravano le nostre nozze, e con la forza del sonnambulismo mi condusse per le scale con gradini d’oro alla rupe brillante, sepoltomi poi da questo marmo bianco, da oltre il quale vi parlo, giacchè aveste il carattere d’ascoltare.

Immaginatevi, Signore, il mio dolore e lo Fato crudele in cui mi trovo da quel momento. Anime in pena da duecento anni. Seppur in mille e mille sono passati di qui, nessuno ha mai voluto ascoltare, giacchè non è di questo mondo il coraggio e tutti fuggivano a cagione della paura nell’udire la voce dell’ignoto. Ma il vostro coraggio ha terminata già una parte delle mie disavventure. Non vi resta nulla se non rompere l’incantesimo del Sepolcro di marmo bianco. Per giungervi basta che a voi tiriate quella catena d’oro, la quale la tiro io nel medesimo momento e vi renderò molte grazie quale mio liberatore.

VII.

Maria Assunta lanciò un urlo che al confronto quello di mille fantasmi indemoniati erano vagiti. Pietro Taddeo stava per tirare il cordone dorato che pendeva dall’alto del marmo bianco, ma sua moglie lo fermò, prima con quell’urlo lacerante e poi aggrappandosi forte ad un suo braccio. Quindi iniziò a piangere e a pregarlo di non farlo. Il tramonto rossastro si trasformò in vividi lampi di fuoco, la leggera brezza diventò un uragano che tutto trascina. Ma l’impulso che spinse Pietro Taddeo a tirare il cordone era irrefrenabile e ormai il cordone era stato da lui agguantato. Pietro Taddeo fece ancora un piccolo sforzo, tirò a sé il cordone e il marmo bianco ruotò su se stesso. I due sposini furono risucchiati dentro a quel vuoto che improvvisamente s’era venuto a creare, mentre una luce bianca sprizzava fuori, rigettando con essa due figure abbracciate, vestite con abiti d'altri tempi, in tono però con l’ambiente di quelle stanze che sino ad oggi erano rimaste vuote, prive dei loro proprietari.

VIII.

Avevo giurato di ringraziarvi ed esservi riconoscente per l’eternità, mio Signore. E i grandi incantatori quali pari sono io, mantengono sempre i giuramenti. Gioite, voi che restate, la vostra storia incanterà chi saprà ascoltarvi. Quanto a me, tremare dovranno coloro che hanno osato. Don Pedro detto il bello è tornato. Andiamo, mia amata, troppo tempo è trascorso oltre quel marmo bianco.

IX.

Pietro Taddeo e Maria Assunta sono ancora lì, oltre quel marmo bianco, e aspettano che qualche turista curioso (e coraggioso) si fermi ad udire la meravigliosa storia di D. Pietro, detto il bello che, insieme a D. Felicita vive felice e felice vivrà per molti e molti anni ancora. Come due sposini, come due comuni mortali, in giro per il mondo, ma lontano dai palazzi del 1700.