Usanza di mare

Capitolo 1

Andrea Martinez soldato spagnolo destinato in questa piazza sposò Contesta Dalfina Trapanese
 
 

estate 1694

-Arriba! Debajo! Al centro! Y dentro!

Andres Martinez da Salamanca ripeté per l'ennesima volta il brindisi e trangugiò un altro bicchiere di vino rosato di Malaga. La sua compagnia il giorno dopo si sarebbe imbarcata da Huesca per Alghero, e il caporale De Ribeira gli aveva dato il bizzarro consiglio di bere vino per combattere l'eventuale mal di mare. Durante il viaggio vomitò perfino le viscere.

Nella cittadina sarda il soldato passò tre anni, a litigare continuamente con i catalani, che nella loro roccaforte non tolleravano nessuno che non fosse originario di Barcellona e dintorni.

Ad Alghero, però, capì che fare la guardia ai bastioni di una città circondata dal mare aveva i suoi vantaggi: lo spettacolo era più vario, i turni meno monotoni, ed il tempo scorreva più in fretta.

Così, quando la sua compagnia fu trasferita a Marsala, fece di tutto per farsi destinare a Trapani: ormai nella città del vino il mare in un certo senso non c'era più, e per gli iberici tirava una brutta aria, non senza ragione.

Tanto per cominciare, quando i re di Castiglia avevano preso il posto di quelli di Aragona, era sbarcato il viceré Moncada con sedicimila soldati affamati, rimasti in città per sei lunghi mesi. Dopo essersi mangiato il mangiabile, bevuto il bevibile e scopato lo scopabile, le truppe spagnole si imbarcarono, impettite ed imbolsite, al suono di pifferi e tamburi. Dietro si lasciarono una città semidistrutta e annichilita da tanta gratuita cialtroneria.

Quando poi Don Giovanni D'Austria, l'eroe di Lepanto, fece scalo a Marsala con le sue ottanta galee e diciottomila tra fanti e cavalieri, per la città si avvicinò il colpo di grazia. Su suggerimento dello stesso Don Giovanni, infatti, nel 1575 cominciarono i lavori per l'ostruzione del porto. La curiosa motivazione fu che uno specchio d'acqua così ampio si prestava ad una invasione turca in grande stile. Invasione che il nome stesso della città, Marsa Allah, "Porto di Allah", avrebbe sicuramente propiziato. La spiegazione popolare, non lontana dal vero, fu invece che l'ammiraglio aveva bevuto troppo; da quel momento la spettanza di vino fornito dalla città alla guarnigione spagnola venne ridotto al lumicino.

Da Marsala non partirono più carichi di salnitro e pistacchio; il ricordo delle galere colme di pregiate botti di acquavite di Alcamo e Mazara pronte per la spedizione bruciava ancora molto tempo dopo, così come rimase nella memoria di tutti lo scempio del grande porto ridotto a fanghiglia maleodorante.

I marsalesi guardavano il porto di Trapani, sorella punica e rivale di sempre, prosperare con i carichi dirottati dalla loro città interrata e mugugnavano, masticando amaro:

-Si Marsala avissi lu portu, Trapani fussi mortu!

Per questo e per diversi altri motivi nella guarnigione spagnola di stanza a Marsala alla fine del '600, il vitto era più scarso e scadente che altrove. Del vino ricavato dai generosi tralci di inzolia, grillo e cataratto, ai soldati imperiali arrivavano solo le partite inacidite. Decisamente Marsala non era posto per Martinez.

Poi, a parte il mare soffocato da uníinfinità di metri cubi di tufi smozzicati, fango di salina e buona terra da vigna, a Marsala secondo il soldato salamantino parlavano strano.

A suo parere i trapanesi, invece, avevano assorbito col tempo quel tanto di castigliano da farlo sentire un po' più a casa. In quale altra città siciliana, oltre tutto, per dire "io" si diceva "yo" come a Trapani? Per un castigliano era musica per le orecchie, rispetto al latineggiante "eo" dei marsalesi o al pretenzioso "io" dei palermitani.

Si mise in marcia all'alba di un giorno di luglio assieme ad un pugno di commilitoni al comando del caporale Hugo de Ribeira. Secondo gli ordini ricevuti, i soldati in parte sarebbero stati destinati alle torri di avvistamento lungo il litorale, in parte inviati a rinforzare la guarnigione di Trapani, una ventina di miglia più a nord.

Andres e compagni seguirono la strada costiera, tenendo a sinistra il mare e a dritta il verde intenso delle vigne marsalesi. Nella tarda mattinata cominciarono a costeggiare la laguna dello Stagnone, le cui acque poco profonde davano da vivere ad una decina di famiglie di pescatori. Acque molto dense e un po' intorbidite dal fondo di sabbia e fango, ma ricche di un pesce così sapido da rimanere ben di rado invenduto. La luce esasperata della laguna faceva scorgere a malapena la stretta lingua di terra dell'Isola Grande che la separava dal mare aperto; una linea sfumata che si stemperava nel bagliore intenso del Canale di Sicilia.

Nel centro dello specchio salmastro l'Isola di San Pantaleo, disabitata, aspettava che qualcuno riscoprisse il dramma dell'assedio di Dionisio di Siracusa all'antica Mozia, sogno ed incubo di due generazioni di greci di Sicilia, finito quando duecento navi da guerra e ottantamila soldati si erano mossi per scannare trentamila tra uomini, donne e bambini inermi.

Assieme ai corpi degli assediati, sotto la terra calcinata dal sole di luglio riposava la statua di un efebo che si stava godendo gli ultimi secoli di pace. Ancora poche generazioni di silenzio, e sarebbe ritornato a vagare suo malgrado per il Mediterraneo, oggetto conteso dagli organizzatori di mostre archeologiche sull'antico mare.

I soldati spagnoli, invece, continuarono la marcia ancora per un po', abbacinati dal bianco del sale che si stava raccogliendo nelle vasche a pochi passi dalla strada. Vasche squadrate ad arte, che sfoggiavano tutte le sfumature dallíazzurro al bianco, passando attraverso il porpora, il rosa, il celeste, il marrone, líavana. Sembrava líenorme catalogo di un improbabile colorificio nascosto dietro le montagne di sale.

A mezzogiorno si fermarono sotto alcuni carrubi a consumare il loro rancio: gallette e salamurece. Mentre il biscotto salato si ammollava nella zuppa di acqua, pomodoro, basilico ammoscioliato dal caldo ed un'idea di olio un po' andato, gli spagnoli osservavano i salinari consumare in silenzio il loro pasto di pane e tonnina salata. Una brezza leggera veniva da grecale, dove il Monte San Giuliano cominciava a svelare la sua sagoma, inseguita verso levante dal profilo di Pizzo Cofano. La montagna dava líimpressione di un grosso gatto viola accucciato davanti ad un topo di calcare rosa. Attorno ai soldati le cicale facevano un concerto stridente e spietato come il sole che le stava comandando a bacchetta.

Andres Martinez, finito la sua zuppa fredda, si alzò per dirigersi verso i salinari. Si avvicinò al curàtolo della salina e chiese sfacciato:

- Avete vino per i vostri soldati?

- Andate a rinforzare la torre di San Teodoro? - chiese di rimando il capo dei salinari - Ieri notte sono sbarcati i turchi, peste e corna dove sono; mi hanno preso tre uomini e un mulo. Siete venuti per questo?

- Anche, - síinventò lo spagnolo - C'è vino? Abbiamo sete, e se beviamo ancora acqua di pozzo ci smerderemo di dissenteria prima di arrivare a destinazione.

Rimediò un bùmmalo di vino ambrato fresco, e dopo averne bevuto un sorso lungo quanto le giornate díestate, passò la brocca di terracotta al caporale e quindi ai commilitoni. Era da ore che i soldati non bevevano, spaventati che l'acqua dei pozzi fosse contaminata. I turchi, si diceva, d'estate buttavano pecore morte nei pozzi per infettare l'acqua, diffondendo così le malattie e fiaccando ogni resistenza da parte dei siciliani. Col vino, invece, infezioni non se ne prendevano.

Un po' storditi dal troppo alcol dellíambrato, i soldati si rimisero in marcia. Dopo qualche ora fecero una deviazione di un paio di miglia sulla sinistra ed arrivarono al tramonto alla Torre di San Teodoro, dove líacqua pulita del mare aperto si immette nello Stagnone. Si presentarono ai commilitoni di guardia alla torre e predisposero líaccantonamento per la notte.

In silenzio, i salinari e contadini delle frazioni vicine, accompagnati da un numero sempre più grande di mogli e bambini, si accamparono attorno alla torre: in quella manciata di soldati in sosta avevano visto la speranza di riposare la notte senza essere svegliati da una lama tunisina sulla gola.

Martinez e compagni non sprecarono una galletta salata quella sera. La cena la offrì la gente di Birgi e dintorni. Si rimpinzarono di buon pane di campagna e olive verdi condite con aglio, sedano e aceto. Non mancava nemmeno il vino, visto che la nuova vendemmia era vicina e bisognava svuotare le botti per prepararle al vino nuovo. A metà pasto un curàtolo, che amministrava alcune saline nella vicina Isola Longa, sbarcò sulla spiaggia con quattro lance. Assieme a moglie e figli aveva con sé quasi tutti i salinari . Salutò con familiarità il fante e líartigliere di guardia alla torre e si presentò ai soldati in transito con una dozzina di conigli arrosto accompagnati da vino a volontà; voleva festeggiare con i soldati il primo raccolto di sale della stagione e la prospettiva di un pernottamento un po' più sicuro del solito.

Fortuna volle che i corsari berberi quella notte se ne stettero nei loro covi di Lévanzo e Maréttimo, che se fossero sbarcati a S.Teodoro si sarebbero imbattuti in diverse centinaia di uomini, donne e bambini avvinazzati seduti attorno ad una dozzina scarsa di soldati allegri assai e piuttosto incerti nei movimenti. Tra tutti si distingueva il caporale de Ribeira, seduto a cantare filastrocche castigliane alla torma di bambini e bambine che si erano messi a tirargli i mustacchi tra una rima e líaltra. Fossero venuti al momento giusto, per bisertini e tunisini la festa sarebbe stata ancora più grande: avrebbero potuto terminare líannuale, metodica campagna di approvvigionamento di schiavi cristiani con diverse settimane di anticipo.

Líindomani allíalba gli spagnoli ripresero la strada per Trapani, dopo aver lasciato un soldato di rinforzo alla torre. Passarono quindi da Maràusa e ancora una volta deviarono verso il mare, per portarsi alla torre di Nùbia. I vigneti si alternavano adesso ai campi di aglio dei nubioti, che alla cura della terra aggiungevano in estate il lavoro nelle saline. Sul mare aperto, verso sud, si poteva vedere un grande traffico di schifazzi, i panciuti barconi a vela che facevano la spola tra Favignana e le saline. Venivano carichi di tufi da salina, per ripartirsene con la stiva colma di sale per lavorare il tonno.

La torre di Nubia era in ottimo stato, essendo stata costruita appena una cinquantina di anni prima. Gli spagnoli diedero il cambio a due dei tre soldati di guardia e si rifornirono dellíacqua della cisterna accomodata nel basamento della costruzione. Prima di ripartire il caporale e Andres ebbero modo di salire sul terrazzo dellíistallazione per dare uníocchiata agli armamenti. Dallíalto della torre lo sguardo si perdeva sulle saline verso Trapani, punteggiate dalle vele di decine di mulini a vento di foggia olandese. Líartiglieria della torre di Nubia era ben tenuta, sembrava nuova di fonderia: il Principe di Pacheco ci teneva alla sicurezza del suo feudo, e non disdegnava di fornire armi a proprie spese.

Arrivarono sotto le mura della città al tramonto, impressionati dallíimponenza delle fortificazioni. Ad Andres Martinez Trapani fece líimpressione di uníAlghero in scala un po' più grande, con bastioni ancora più solidi e ben muniti di artiglieria. Nel progettarli, i catalani avevano messo a frutto líesperienza maturata nella roccaforte sarda, profondendoci ancora più energie ed attenzioni, data la vicinanza delle coste berbere .

Passarono attraverso il ponte levatoio della Porta Nuova e dopo pochi passi furono nella Caserma degli Spagnoli, a ridosso delle mura di levante.
 
 

Autunno 1695

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