1700

Líinizio del nuovo secolo, con la morte di Carlo II di Spagna, fu memorabile in Sicilia per il turbinoso, talvolta tragicomico avvicendarsi dei dominatori. Líunico dato certo, una costante millenaria nella storia dellíisola, fu che chi ebbe il potere di scegliere i governanti dellíisola non riuscì ad immaginare altro che dinastie straniere. La concitazione e líimprevedibilità dei continui cambiamenti sorpresero perfino i più incalliti tra i voltagabbana, regolarmente spiazzati nel corso di una generazione che scorse con la velocità di una commedia recitata da una compagnia di comici che aveva troppa fretta di rimettersi sui carri e ripartire. Una recita venuta male, con troppo movimento e poco da ridere.

Ancora per una decina e passa di anni il caporale Hugo de Ribeira e il soldato scelto Andres Martinez stettero di guardia alle mura di Tramontana. Davanti a loro mutò continuamente lo scenario mobile ed imprevedibile di legni, vele, bandiere, omini bianchi, rossi, bruni, neri affaccendati alle manovre o schiantati dal remo; il tutto nello sfondo cangiante di un mare tra i più mutevoli per venti, colori, umori.

Videro passare fuste, galere e galeotte di corsari barbareschi veri o finti; sciabecchi francesi armati sino ai denti; galeoni spagnoli un poí carenti di carenaggio; vascelli pirata inglesi ed olandesi con base a Tunisi o Algeri; panciuti vascelli da carico catalani o genovesi, qualche polacca veneziana. E gli innumerevoli legni locali: schifazzi da carico, agili legulei, tartane e bilancelle da pesca, coralline di ritorno dai banchi africani, i massicci vascelli neri delle tonnare; e la lugubre galera della Santa Inquisizione che faceva la spola con Palermo, a rifornire quella insaziabile piazza di condannati al remo o al rogo, assieme ad un paio di galere da corsa armate dalle pie eredi di Don Tano Vento, pace allíanima sua.

Anche le galere del Sovrano Ordine di Malta si può dire facessero parte dei legni locali. Si scorgevano spesso sul filo dellíorizzonte, non di rado impegnate a contrastare la tracotanza delle galeotte turchesche. Ogni sei mesi, poi, un legno maltese adorno di preziosi stendardi di seta e munito di buona, infallibile artiglieria, doppiava i bastioni di S. Anna per approdare alla spiaggia di San Giuliano. Veniva da Lampedusa e portava le offerte di cristiani e turchi per il Santuario della Madonna di Trapani.

In quel periodo il soldo alla guarnigione spagnola, ora sotto le insegne di Filippo V di Borbone, smise di arrivare in moneta, sostituito da generi coloniali. Eí una storia vecchia, che si ripete più spesso di quanto non si immagini: quando il valore dei soldi va in fumo per líinnata irresponsabilità di chi ne tiene troppi, si torna allo scomodo, primordiale ma pur sempre onesto baratto. Così ogni giovedì Andres ed Hugo, finita la guardia, portavano fuori le mura i loro fagotti di caffè, zucchero di canna e tabacco per venderli ai contadini che venivano in città con i loro ciuchi carichi di frutta, verdura ed erbe.

Trovarono difficile piazzare il caffè di Santo Domingo; il tabacco di Cuba, invece, aveva sempre una clientela affezionata, anche se non molto competente. Mentre i cittadini dentro le mura lo masticavano o annusavano, i contadini preferivano usarlo in infusione come medicina contro le affezioni bronchiali. Hugo, da eccentrico qual era, il tabacco cominciò a fumarlo, diffondendo il vizio in città e mettendo da parte un bel mucchietto di once e tarì, vale a dire diverse centinaia di milioni di lire odierni.

Andres, invece, faceva più fatica a vendere la sua spettanza di coloniali e spesso tornava a casa con le tasche vuote e líaria più malinconica del solito. Se in commercio il buon soldato castigliano aveva poco successo, lo stesso non si poteva dire nellíaffiatamento con la moglie Contesta: dopo Diego nacquero, in rapida successione, Costanza, Julio, Federica, Felipe, Guglielmina. Da questo elenco si può notare come i maschi, dietro pressioni di papà Andres, presero nomi spagnoli, mentre per le bambine mamma Contesta scelse nomi che si rifacevano alle reminiscenze sveve e normanne dellíisola.

Diego trascorse la prima infanzia tra la via dei Corallari e la riva antistante Porta Serisso, approfittando della libertà che le continue gravidanze della mamma spesso gli concessero. Un poí più grandicello, il bambino, per interessamento di Suor Clara, ebbe lezioni regolari di lettura, scrittura e calcolo dai Padri Gesuiti, trovando particolare piacere nel vizio solitario di leggere.

Nel frattempo, per integrare le magre entrate familiari, mamma Contesta, con il tramite del Collegio delle Donzelle Disperse, aveva cominciato a prendere a casa lavori di ricamo ordinati dal clero più ricco della città. Era abile a fare decorazioni con fili díoro su stole e pianete di seta cruda, applicando perline di corallo dentro il contorno di boccioli di fiori. Una volta prestò per mesi e mesi la sua opera in una bottega artigiana, impegnata con diverse altre donne nella realizzazione del grande paliotto di seta, argento, coralli che i Gesuiti avevano ordinato per ornare líaltare di San Francesco. Toccò a Diego in quei mesi prendersi cura di fratelli e sorelle; bambini dai tratti fisici talvolta molto diversi, come spesso accade in Sicilia. Il nero dei capelli di Diego, e gli intensi occhi scuri ereditati dal nonno materno, nulla avevano a che fare con i capelli rossi ed i begli occhi grigi da fiamminga della sorellina Costanza, la preferita. Arabi dalle chiome nere e riflessi turchini erano nati Julio e Federica, mentre pelle chiarissima ed occhi castani e verdi distinguevano Felipe e Guglielmina. Ripetendo una storia antica come líisola dove vivevano, senza pensarci Contesta ed Andres avevano messo in moto una curiosa giostra genetica dalle molte, imprevedibili evoluzioni.

Nel poco tempo rimasto tra la cura dei fratellini e le dure lezioni dei Gesuiti, Diego a volte trascurava la compagnia dei coetanei per andare nei cantieri navali addossati al forte di San Francesco, intrufolandosi tra i maestri díascia, calafati, funai, mastri ferrai e velai che si affannavano a raschiare, rattoppare e riarmare vecchi scafi esausti della marineria locale assieme alle grosse imbarcazioni e vascelli stranieri ridotti a mal partito dagli imprevedibili quanto scomposti fortunali del Canale di Sicilia. Barche di amici e di nemici. Navi panciute degli intraprendenti e accondiscendenti catalani della ricca Barcellona, barche rastremate e veloci degli insolenti genovesi, amici di un tempo e ora nemici insidiosi per le continue, violente dispute sullíoro rosso dei coralli díAfrica; qualche galera di Venezia smarritasi in una burrasca di levante e libeccio mentre si avventurava nei mari occidentali dietro chissà quale progetto di guadagno. In ogni caso barche da riparare lavorando giorno e notte e con cura perfino maggiore che per quelle dei concittadini: i forestieri avevano una gran fretta di rimettersi in viaggio, e per mollare gli ormeggi avrebbero pagato qualsiasi cifra senza battere ciglio, con monete di buona lega.

Ma era quando si impostava uno scafo nuovo che i cantieri si animavano di un fervore allegro che si trasmetteva a tutta la città. Perfino da dentro le mura si sentivano le voci, i suoni, gli odori di quando la gente si mette assieme in riva al mare a costruire qualcosa di bello da vedere e buono per navigare: un bastimento ben fatto, in altre parole.

Diego aveva appena tre anni quando il caporale Hugo de Ribeira, identificato e confuso da tutti come zio, per la prima volta lo aveva condotto per mano nei cantieri, rimanendone divertito ed affascinato per il resto dei suoi anni. Legni di quercia e rovere venivano sbozzati, sagomati, scolpiti ed inchiavardati per formare le ossature degli scafi, fasciati con cura da tavole di pino odoroso che squadre di lavoranti ricavavano a colpi díascia da grossi tronchi messi a stagionare sotto tettoie improvvisate. Poi era líora dei calafati, che con il loro sonoro martellare sincopato inserivano a forza trecce di canapa tra le tavole da impeciare. Poco distante dalle pentole con la pece si scaldava il sevo per far scivolare sulla pendenza della riva le barche appena costruite e far loro prendere il mare, non senza aver adornato le prue con palme benedette. Sia che si varasse una galera di cospicue dimensioni o che si lasciasse scivolare in mare un modesto gozzo di pochi piedi, la festa era grande lo stesso; líorgoglio di aver portato a termine líimpresa manifestato con corale allegria.

Talvolta agli odori amari e acri dei cantieri, intensi al limite dello stordimento, si aggiungeva il sentore della broda bollente di tannino rossastro, in cui i pescatori immergevano le reti per non farle marcire nel lungo contatto con líacqua salata. Col tempo Diego si convinse che in quella manciata di metri di riva si radunasse la parte più sensata e travaglina di quella città un po' persa nel Mediterraneo.

Ogni tanto il mare portava sui bassi fondali dietro la scogliera del Ronciglio, a levante dellíuscita del porto, resti di imbarcazioni sconosciute, affondate senza lasciare traccia dei loro equipaggi. Fu così che uno dei primi grandi velieri apparsi nel Mediterraneo, portati da rinnegati olandesi e inglesi a spargere terrore e lutti tra i cristiani, si andò ad arenare proprio sui quei banchi di sabbia e fanghiglia . Si chiamava Sea Lion, e per mesi fu oggetto di studio da parte dei maestri díascia più esperti della riva di Porta Serisso.

Fu così che mastro ëGenio, mastro ëNtoni e mastro Saroro passarono tutte le sante domeniche di quellíestate a misurare, disegnare, tastare tutti i pezzi che componevano quel meraviglioso vascello dalle vele lacere e le alberature spezzate. Anche Diego, assieme ad alcuni compagni di gioco, salì ad esplorare la grande nave, dopo che la gente dei cantieri aveva recuperato velature, sartiami, rame, bronzo, ottone, travi di legno pregiato. Nella cabina già saccheggiata del comandante, assieme a brandelli di carte nautiche e dettagliati portolani dei lidi cristiani, i bambini trovarono un paio di libri in ottimo stato: una raccolta di Salmi in inglese e uníopera dal curioso titolo "Paradise Lost", di un certo John Milton. Sui frontespizi stava scritto con calligrafia incerta che i libri erano appartenuti a tale John Ward, primo comandante del Sea Lion a Tunisi, col nome di Yusuf Rais. I volumi, le cui rilegature erano state già saggiate dai topi del Ronciglio, vennero lasciati a Diego, líunico tra quei bambini che sapesse leggere.

Dellíequipaggio del veliero nessuna traccia, anche se nelle saline e campagne di Nubia per mesi si sentirono le parlate foreste dello Yorkshire e della Cornovaglia impastate di lingua franca, líidioma di schiavi, padroni, pirati, marinai, armatori e puttane del Mediterraneo di quei tempi. Líaffare fu risolto in maniera molto discreta dalla Santa Inquisizione, che allíinizio di quellíautunno stivò sulla galera per Palermo un carico di prigionieri più numeroso e vivace del solito. Finirono tutti al rogo dopo un processo più breve del tempo di accendere una fascina di legna secca.

Nei cantieri in riva al mare il figlio del castigliano non lavorò mai; la famiglia lo mandò presto a lavorare i coralli. Tra le carte di uno studioso trapanese si conserva ancora il contratto stipulato tra Andres Martinez e Mastro Giuseppe Marceca, scultore di coralli, per la messa in apprendistato del quattordicenne figlio Diego come lavorante per la durata di un anno. Orario di lavoro da dieci a dodici ore, a seconda della bisogna. Il ragazzo avrebbe poi vissuto con la famiglia del padrone che, finite le ore di bottega, lo avrebbe anche adoperato nei lavori domestici. La paga era di appena " tarì tre lo giorno così per il lavoro di coralli come per infilare quelli", da corrispondere al padre dellíapprendista.

Così, per poco più del prezzo di una pagnotta al giorno, Diego fu messo a bottega a togliere col raschietto la scorza dai rami grezzi di corallo e completarne la pulizia con pietra da mola. Con tornio e lima lavoranti più esperti avrebbero poi ricavato globi e grani da lucidare con sabbia di Tripoli; ne sarebbero risultate umili filze per le preghiere dei buddisti di oriente o dei musulmani di Siria e Barberìa, oppure rosari per i cristiani.
 

Maggio 1712

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