primavera 1713

Le barche, coralline armate di dodici remi e una gran vela latina, vennero completate a marzo, allíinizio della stagione di pesca. Nella mattinata precedente il varo un incomprensibile episodio aveva suscitato la collera di Mastro Tore Dalfina. Nellíispezionare le quattro imbarcazioni, battezzate rispettivamente Gaspare, Melchiorre, Baldassare ed Epifania, il corallaro notò che qualcuno aveva sostituito il nome della quarta barca con Ciolla mia, espressione sconciastra e beffarda che con la festività religiosa nulla aveva a che fare, corrispondendo allíitaliano "pisello".

Mentre líanziano pescatore copriva in un battibaleno quella scritta inopportuna con una mano di biacca, un uomo mingherlino se la rideva lacrimando dallo spasso. Era nascosto dietro un vascello da tonnara da calafatare e lo chiamavano Mpàppete per la balbuzie che lo affliggevano quando si innervosiva; cioè quasi sempre. Un avanzo di galera col gusto della burla, un imbroglia banchine e poco di buono dalle tasche sempre piene di onze, fiorini e ducati di dubbia origine: questo era Mpàppete. Per farla breve, un malacarne temuto da tutti coloro che bazzicavano sulla riva tra Porta della Dogana e Porta Serisso.

Risolto líincidente della scritta blasfema, nel pomeriggio successivo le coralline vennero messe in mare, non prima di essere state benedette dal parroco di S. Lucia, dal cappellano di S. Liberante e da padre Costa, frate esorcista con le mani sempre a mollo nellíacqua santa e anche quel giorno, quindi, con la voce annanfarata dal raffreddore.

Non mancarono le autorità straniere, come il Console di Genova, che sorrideva sornione, e il Console di Inghilterra, accaldato e sudaticcio sotto i pesanti panni di lana di Norfolk indossati più per mostrarli a qualche possibile acquirente che per vera necessità; cíera perfino il Comandante della guarnigione spagnola, sempre più taciturno e rabbuiato. Non mancarono nemmeno i Consoli della Mastranza dei Pescatori corallari e di quella ancora più potente dei Mastri Scultori, apprezzati esecutori di ritratti, statuine, sacre rappresentazioni assieme a veri e propri presepi di gusto barocco che avevano fatto il giro delle corti europee. Erano orgogliosi sino al limite della spocchia gli scultori di corallo trapanesi di quel periodo, perché convinti, a ragione, di essere stati i primi a saper tirare fuori a colpi di bulino, da quella materia fragile e misteriosa, forme che finalmente erano diventate arte vera, e non semplici grani da rosari da mettere in mano per pochi tarì alle vecchine delle parrocchie.

Assisteva alla cerimonia anche una piccola processione di "Donzelle Disperse", chiamate da mamma Contesta a cantare inni religiosi durante il varo delle imbarcazioni. Le ragazze, oltre che da un anziano padre gesuita, erano accompagnate da Hugo de Ribeira che, andato in congedo quasi settantenne, aveva deciso di passare gli ultimi anni della sua vita al servizio di quel collegio femminile, a cui da sempre era stato vicino. Il patto con i Rettori del Collegio era stato che il maturo caporale castigliano avrebbe depositato alla pia istituzione tutte le sue sostanze, ottenendone in cambio vitto, alloggio e cure sino alla fine dei suoi giorni.

Fu durante il varo delle coralline del nonno, quindi, che Diego vide per la prima volta Assunta, una ragazza bruna e sottile dai grandi occhi neri di gazzella irrequieta e líaria vivace che la lunga opera di sottomissione a cui erano sottoposte le ragazze del Collegio non era riuscita a domare del tutto. Quando una folata di vento di ponente fece volare via il berretto grigio alla ragazza, riccioli corvini fecero incantare Diego, che per un attimo dimenticò barche, armamenti, ingegni, turchi, genovesi, tunisini, catalani, fondali e coralli, per rimanere imbambolato ad osservare la bellezza di quella ragazza, le cui fattezze sembravano rubate ad un vaso greco di studiate proporzioni.

Il giorno dopo il varo, Diego era con la madre a bussare alla porta del Collegio delle "Donzelle Disperse", accolti da un raggiante Hugo de Ribeira. Il caporale aveva messo da parte la lunga crisi díidentità di militare abbandonato alla periferia di un Impero allo sbando, e si godeva i sorrisi e gli affetti di quellíambiente così peculiare, ricambiandoli con un fervore ed un attivismo ammirevoli, considerata líetà. Di certo avrebbe aiutato Diego nel suo progetto di chiedere la mano della bella Assunta.
 
 

Mastro Tore salpo' con le sue coralline un paio di giorni dopo, diretto ai banchi di coralli al largo dellíisola di Maréttimo. Portava con sé alcune indicazioni copiate pari pari da una lapide murata nella chiesa di S.Lucia. Davano la posizione, nella curiosa maniera del tempo, di un banco quanto mai ricco, scoperto cinquanta e passa anni prima e mai più ritrovato:

"quindeci miglia per maistro di lo Capogrosso di Levanso per libeccio la canalata in cima della Torre di Maretimo: per scirocco il Capogrosso di Levanso e la cava di San Teodoro: e per levante il balaticcio di Bonagia e le colline della montagna di Baida chiamate li Pagliaretti"

Il banco fu riscoperto dopo appena una settimana di ricerca, e cominciò a fornire rami color rosso fuoco di dimensioni che il mezzo secolo abbondante di tregua nella pesca avevano reso più che generose. Ogni sera le quattro coralline approdavano a Maréttimo, nella spiaggetta di tramontana, appena sotto il Castello di Punta Troia, riattato da tempo a presidio di quelle acque frequentate in eguale misura sia dai corallari trapanesi che dai corsari bisertini e tunisini. Un accordo con il comandante del Castello fece sì che tutto il pescato delle coralline di Mastro Tore fosse custodito nella rocca, per essere inviato nella vicina isola di Lévanzo, dove i Genovesi avevano un deposito. Tranne che per alcuni grossi rami spediti al nipote Diego a Trapani per aiutarlo a migliorare la sua arte e sostenere la famiglia, il corallo dellíintraprendente pescatore finiva quindi direttamente ai liguri, le cui monete di buona lega erano molto apprezzate sulla costa siciliana di ponente.

Agli equipaggi delle quattro imbarcazioni Mastro Tore, soddisfatto dellíabbondanza e qualità dei coralli strappati dai suoi ingegni, aveva concesso un privilegio raro: il riposo domenicale. La sera del sabato, diversamente dagli altri giorni, i pescatori consumavano un pasto caldo di pasta e legumi, arrostivano il pesce sulla spiaggetta di Punta Troia e, fatto straordinario, godevano della disponibilità di un quarto di vino a testa. Poi, distrutti dalla fatica di una settimana fatta di quindici e passa ore di remo e di mezza dozzina di cale giornaliere, si addormentavano sulla sabbia umida, sotto coperte tanto sdrucite da far filtrare la luce appena sfumata delle costellazioni estive. In alto a dritta, la sagoma scura del Castello e i suoni dei cambi di guardia del presidio attenuavano nei corallari la paura mai sopita di uníimboscata saracena.

La stagione di pesca durò, come sempre, da Pasqua ai Morti, e le domeniche mattina Tore Dalfina si inventò perfino una sorta di breve rituale religioso basato su preghiere a S.Pietro, perchè propiziasse un abbondante pescato nei giorni a venire, e letture di salmi in latino scelte a casaccio da un libriccino logorato dallíuso e dal salino dei giorni di mare grosso. Il vecchio terminava la cerimonia alzando le mani al cielo con gravità e recitando una preghiera in lingua franca, un idioma curioso e cantilenante sconosciuto ai cinquanta e passa pescatori adunati sulla riva. Alla fine della preghiera, che terminava con:

..."Non lasar noi tenir pensyeri, ma tradir per noi di malu",

gli equipaggi rispondevano con un sonoro quanto liberatorio amen: in diversi cíera la paura fottuta di partecipare a qualcosa di sommamente sgradito allíInquisizione.

Fu nei pomeriggi domenicali, accompagnato da un paio di mozzi dalle gambe forti, che Tore Dalfina si avventurò nellíesplorazione dellíisola. Non fu facile farsi strada tra quella macchia compatta di lentisco, rosmarino, timo e mirto; ma i profumi talvolta leggeri, talvolta amari ed inebrianti della vegetazione e líamenità delle viste in cui si imbatterono i corallari li ripagò dei numerosi graffi alle gambe e delle lacerazioni ai piedi causate dalle calzature inadeguate.

Líisola di Maréttimo offriva, allora come oggi, acqua purissima, miele e funghi così pregiati che era un peccato lasciarla disabitata. Cíera, è vero, il pericolo costante della presenza saracena nella costa di ponente, dove diverse grotte davano un rifugio sicuro alle galeotte barbaresche, ma ben difficilmente, pensava Tore Dalfina, i corsari si sarebbero avventurati nellíintrico della vegetazione dellíisola. Le rupi scoscese sovrastanti la parte più frequentata dai tunisini e bisertini erano in effetti più adatte ad una esercitazione di incursori della marina militare che ad un' imboscata di turchi e turcheschi con scimitarre, scudi e scarpe di pezza ai piedi.

Nacque così il piccolo insediamento di Balata dellíUlivo, ad un tiro di schioppo dalla sommità di Pizzo Falcone.

A parte i motivi difensivi, fu uníaltra ragione a convincere líintelligenza un po' visionaria del vecchio corallaro ad intraprendere líiniziativa: quel pezzo di pianoro a levante della sommità dellíisola era spesso coperto da nubi, e in quanto tale riusciva ad assorbire umidità dal cielo, permettendo alle colture di frumento di sopravvivere anche nei periodi più siccitosi.

I terrazzamenti, tuttora visibili da Pizzo Falcone, furono completati a fine agosto; la prima semina a grano venne fatta a settembre di quello stesso anno. Il primo di novembre le coralline Gaspare, Merchiorre, Baldassare ed Epifania tornarono a Trapani con gli equipaggi soddisfatti per i buoni denari genovini che tintinnavano nelle sacchette. Sul mare circostante la città i corallari avevano osservato un gran traffico di navi liguri cariche di truppe provenienti dal nord Italia.

Mastro Tore rimase a bocca aperta nel vedere i liguri alzare bandiere dai colori rovesci: anziché la croce rossa di San Giorgio in campo bianco, ora alzavano una croce bianca in campo rosso. Erano gli stessi colori che da pochi giorni garrivano sugli spalti di Trapani, da quando Vittorio Amedeo di Savoia era sbarcato a Palermo da una fregata inglese e stava prendendo possesso di quello che sarebbe stato il suo primo regno. Glielo avevano promesso austriaci ed inglesi durante le lunghe, estenuanti giornate in cui ad Utrecht era stato scritto uno dei trattati più confusi ed inattuabili della storia della diplomazia.

I corallari giunsero appena dopo lo sbarco di una compagnia di artiglieri piemontesi, accolta dal giubilo un po' distratto e moscio dei siciliani. Ben altra cosa fu líentusiasmo con cui le quattro coralline di Mastro Tore vennero salutate dai familiari dei pescatori adunati sulla riva. Ad aspettare i corallari cíera pure Diego, che teneva la mano di una graziosa ragazza bruna con una pancia di sette mesi.

Dopo aver allontanato con un gesto stizzito la ressa dei garzoni dei Mastri scultori in cerca di rami da acquistare, Tore Dalfina salutò il nipote con un brusco:

- E chista cu è?

- Eí mia moglie. Si chiama Assunta, ci siamo sposati appena dopo la tua partenza e partorisce per Natale. Due gemelli, pensa la mammana,- rispose Diego tutto díun fiato per nascondere líimbarazzo.

- Facìsti li cosi un poco troppu di prescia, Diego, - sospirò deluso nonno Tore. - Li ricivìsti i coralli da travagghiare?

-Si, rami belli, veramente. Poi, a casa, ti faccio vedere cosa sono riuscito a farci.

-Un cíè bisogno. Vajo a salutare tò matri, mi pulizzìo un poco la faccia e si vidèmoalla taverna, dalla ëza Barbara.
 

Capitolo 4

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