Aprile 1714
 
 
Venne la primavera, e Diego armò le coralline Gaspare, Melchiorre, Baldassare di attrezzature, viveri ed equipaggi per condurle a Marèttimo. Al carico della Baldassare venne aggiunta una mezza dozzina di moschetti con relative munizioni e tre carronate,pezzi di artiglieria leggera senza affusto; alcuni barilotti del sevo adoperato dai mastri díascia per far scivolare in mare gli scafi, invece, vennero imbarcati sulle altre due coralline.

Partirono con vento contrario, usando più i remi che la vela. Al traverso della tonnara dellíisolotto di Formica, i pescatori videro un grosso scafo a remi staccarsi dalla vicina isola di Lévanzo ed avvicinarsi a loro ad una velocità che faceva presagire nulla di buono. Una manciata di minuti, e i pescatori si accorsero con terrore che lo scafo alle loro calcagna era una galeotta a ventiquattro remi con lo stendardo verde dei corsari turcheschi. I corallari ammainarono del tutto le vele e arrancarono alla disperata con i remi, tentando di approdare a Formica prima di essere abbordati dai musulmani. Come un felino stacca la preda più debole dal branco per poi abbatterla a piacimento, la galeotta mise la prua sulla corallina Baldassare, più lenta delle altre perché oberata dal peso di armi e munizioni che nessuno a bordo sapeva usare. Fu così che mentre le altre due imbarcazioni di Mastro Tore erano già giunte a Formica, a bordo del Baldassare Diego già poteva distinguere nel campo verde dello stendardo dei corsari un teschio, una scimitarra e una clessidra díargento. Pallido come uno straccio, il ragazzo guardò il Cuoco Miccione, un uomo grande e grosso che gli stava a fianco: malgrado lo sforzo di quella voga disperata, Miccione era silenzioso e concentrato; sembrava stesse bisbigliando suppliche alle armicelle del Purgatorio.

Quando il frangersi in acqua dei remi turcheschi si fece ancora più distinto, i musulmani cominciarono a lanciare sprezzanti quanto incomprensibili grida di sfida. Fu allora che e i corallari capirono che stavano perdendo la partita, affidandosi allíultima arma rimasta loro: un mare di voti, equamente ripartiti tra la Madonna di Trapani e San Francesco di Paola, perché non venissero sgozzati dai turchi o, peggio, non finissero incatenati a remare sui banchi delle galeotte musulmane.

Le invocazioni degli atterriti corallari furono esaudite con líapparizione nel canale tra Lévanzo e Favignana di una fregata da guerra inglese dalle vele ben gonfie di vento, desiderosa di mostrare a siciliani e musulmani la precisione dei suoi trentadue pezzi di grosso calibro. In un amen, una salva cadde a pochi piedi dalla galeotta; pochi attimi, e un altro colpo mandò in mille pezzi lo scafo corsaro, dilaniando ed affogando, assieme a giannizzeri turchi e marinai magrebini, gli schiavi cristiani incatenati ai remi.

Aggrappato ad un pezzo dellíalberatura della galeotta appena distrutta, un uomo vestito di scuro bestemmiava a mezza bocca i santi cristiani e i marabutti magrebini con uguale foga. Era sopravvissuto solo per caso allíaffondamento del grosso scafo a remi, avendo avuto la presenza di spirito di lasciarsi scivolare dalla galeotta dopo la prima cannonata inglese. Adesso doveva aspettare che calassero le tenebre prima di sbarcare nellíisolotto ed inventarsi una menzogna ben congegnata per confondere la manciata di soldati di guardia alla tonnara di Formica. A parte lo scantazzo di annegare o, peggio, di essere riconosciuto dai cristiani come traditore al servizio dei predoni saraceni, anche quella volta Mpàppete il malacarne fu sicuro di farla franca a poco prezzo. Per il rinnegato la partita con Mastro Tore e la sue coralline era solo sospesa.

Diego e le tre ciurme di pescatori, invece, dopo una notte allíisola di Formica per riprendersi dallo scantazzo, rimisero la prua verso Maréttimo, dove giunsero senza ulteriori incidenti. Sulla spiaggetta di Punta Troia li stavano ad aspettare Mastro Tore e i pochi uomini che lo avevano aiutato nei lavori di sistemazione dei terrazzamenti di Balata Ulivo.

- Siamo stati attaccati dai saraceni al traverso della tonnara di Formica, - furono le prime parole di Diego appena sbarcato a Marèttimo.

- Da dove venivano? -chiese il vecchio.

- Da Lévanzo. Pareva che ci stessero aspettando.

- E da Trapani, vi aiutarono?

- No, sono rimasti chiusi dentro le mura. Manco dalla Tonnara hanno tirato un colpo per difenderci.

- Volevano sparagnare i colpi. Comu sempri, ognuno per se e Diu per tutti. Però i coralli da me li volevano tutti, li trapanisi de li miei cabbasìsi.

- Per fortuna nostra cíera un vascello cristiano che ha affondato i saraceni.

- E pure li cristiani 'ncatinati ai remi, - precisò Mastro Tore, amareggiato. - Che bannére aveva la nave cristiana?

- Bandiere con croci rosse e azzurre. La più grande, comunque, era la croce di San Giorgio. Dopo avere affondato la galeotta saracena, si sono avvicinati a noi senza dirci una parola. Noi salutavamo, e loro zitti. Sul vascello, che era grande ed armatissimo di cannoni, cíera scritto Winchester. Pensi erano Genovesi?

- Con chistu nome? Eranu Inglesi, niputi ëgnorante. Nun lu sai chi hanno li bannéri quasi li stessi? Nun li hai visti a Trapani li banneri di li Consuli Inglesi e Genuvisi? Nun hai vistu chi avìanu troppi cannuni e la mira troppu bbona per essiri Genuvisi? Ma chi niputi scimunito sei? Ma comu possu avìri un niputi accussì ëgnorante?

Mastro Tore ad ogni domanda che aveva posto al nipote era diventato sempre più paonazzo e gli si era avvicinato sempre più, con lo sguardo concentrato e un po' torvo di chi vuole essere sicuro di sferrare un violento calcio nel sedere della vittima designata senza sbagliare mira.

Si trattenne a stento; poi, cambiando allíistante registro, chiese a bassa voce al nipote:

- Li purtasti gli alberi di gelso?

- Si che li ho portati. E cíè pure la coppia di cagnòli da caccia. Durante il viaggio ci hanno smerdato tutta la barca. Cosa vuoi fare con i cani? - chiese Diego mentre i cuccioli di spinone, dopo essersi ripresi dallo scantazzo del viaggio in mare, trotterellavano a zampallegra verso una vicina macchia di mirti e rosmarini.

- Ccà è pieno di conigli. Si po' cacciari e mangiari.

- E le piante di gelso?

- Poi ti spiego, figè.

Nei giorni successivi solo la l'Epifania uscì brevemente in mare, a pescare occhiate e mìnnole da arrostire sulla spiaggia per la ciurma impegnata a sistemare armi, materiali ed attrezzature secondo gli ordini di Mastro Tore.

Fu molto faticoso portare a Balata Ulivo i tre rudimentali pezzi di artiglieria che avrebbero dovuto proteggere líinsediamento dagli attacchi turcheschi, ma il desiderio di difendersi dai mori in maniera meno aleatoria del solito fece miracoli.

La domenica pomeriggio, dopo pranzo, i corallari seguirono Mastro Tore alle Case Romane, dove il vecchio aveva appena messo a dimora le piantine di gelso portategli dal nipote. Nel punto in cui affiorava una vena díacqua freschissima, líanziano corallaro e i suoi uomini avevano provveduto a costruire una rudimentale cisterna. La vicina chiesuzza, abbandonata secoli prima dai monaci eremiti di san Basilio, era stata ripulita dai detriti vari che la lordavano e decorata con una mano di calce spruzzata díindaco. Adesso il suo candore spiccava tra il verde della vegetazione e líazzurro di un mare quel giorno calmissimo.

I pescatori si dissetarono alla cisterna e si rinfrescarono, tergendo via il sudore della lunga camminata sotto il sole. Quindi entrarono nella penombra fresca della graziosa costruzione basiliana.

Mastro Tore, dopo aver posto le statuette della Madonna e di San Francesco di Paola appena giunte da Trapani in due delle numerose nicchie della chiesuzza, stava iniziando ad officiare uno dei suoi personali riti domenicali, quando il cuoco Miccione chiese parola:

- Mastro Tore, noi rispettiamo assai la vostra ëntelliggenza e il pane che ci fate guadagnare per le nostre famiglie. Voi sapete, però, che venendo ëccà abbiamo visto la morte con gli occhi e ci siamo tutti raccomannati alla Santissima Maronna di Trapani e a San Franciscu di Paola, questíultimu chiamatu da noi ëgnoranti "Santu Patri". Stanotti fici un sognu: ero ëncatinatu a un remo turchesco e mi stavo squagliando dalla fatica e dalle frustate. In un momento calò una foschìa sulla galera e mi ritrovai libero e friscu e tenero come una rosa in una chiesuzza come questa in cui siamo radunati ora. Supra líaltari cíerano due statue: la statua di marmu della Maronna di Trapani e una statua di ligno di Santu Patri con la barba longa longa, la tunica marrò e líaria ëncazzata. Lu santu pigliau parola e cu líaccentu calabrisi mi disse: "Cuoco Miccione, dicitillo a Mastro Tore: uníaltra missa di fantasia, e vi ritrovate tutti schiavi in Barberìa!". La Maronna di Trapani, che se ne era stata zitta zitta, sorrise e con la parlata sua toscana mi raccomandò: " Cuoco Miccione, preghiere semplici e belle. Poi, se volete, con líolio dei lumini fateci frittelle".

Mastro Tore, a cui non faceva difetto líintelligenza, capì che con la teologia onirica del Cuoco Miccione non poteva competere. Si limitò quindi ad osservare:

- Yò non lo sapìa che i santi parlavano in poesia. E voi, Mastru Micciuni, la preghiera giusta líavìti pronta?

- Certamenti. Fa accussì: Agnus dei qui tollis peccata mundi...

- Ora pro nobis - risposero allíunisono i pescatori.

Dopo aver ripetuto per almeno tre dozzine di volte líinvocazione, la bizarra assemblea si sciolse con un:

- Evviva la Maronna di Trapani! Evviva San Franciscu di Paola! Evviva Mastro Tore, coraggioso armatore! Evviva Mastro Miccione, sognatore di cose bbone!

Tornarono alla spiaggetta di Punta Troia al tramonto, in tempo per preparare le frittelle suggerite in sogno al Cuoco Miccione dalla Madonna di Trapani. Così líolio, originariamente destinato a lumini e lucerne per rischiarare le immagini dei santi, finì a sfrigolare in un pentolone in cui Mastro Miccione, con aria ispirata, lasciò cadere anelli di pasta lievitata che in un batter díocchio si trasformarono in soffici frittelle da assaporare dopo averle intinte nel miele profumato di timo dellíisola.

Diego si trattenne a Maréttimo per un paio di settimane, visitando i campi di frumento quasi maturo di Balata Ulivo e ascoltando con stupore e divertimento i progetti che il nonno gli snocciolava con líentusiasmo di un bambino. Líanziano corallaro voleva ripopolare líisola ed era convinto di farcela: bastava solo eliminare la presenza saracena sulla costa di ponente.

Anche quellíanno la pesca delle coralline di Mastro Tore fu abbondante e di buona qualità. A novembre tornarono a Trapani tre delle quattro imbarcazioni di Salvatore Dalfina, essendo líanziano pescatore e il cuoco Miccione rimasti a Maréttimo con la corallina

Epifania.

In città i pescatori raccontarono meraviglie su quello che Mastro Tore, con il loro aiuto e líaiuto della Madonna e di San Francesco di Paola, era riuscito a realizzare. Oltre ai denari genovini e al corallo per Diego, i pescatori corallari di Mastro Tore mostrarono ai concittadini stupiti alcune delle eccellenti gallette di frumento cotte nei forni costruiti a Balata Ulivo. Il resto era stato venduto, con profitto, ai genovesi che facevano scalo a Lévanzo e al nuovo comandante sabaudo del presidio di Punta Troia. Tra le ciurme del corallaro si stava perfino parlando di trasferirsi con le famiglie allíisola di Marèttimo e, dietro disposizione del nonno, Diego aveva ordinato la costruzione di uno schifazzo a vela di opportune dimensioni, da usare per il trasporto di persone e merci tra líisola del timo e la città del sale.
 


Primavera 1715

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