Primavera 1715

La notte del lunedì di Pasqua, ad un paio di giorni dal ritorno dei corallari per Marèttimo, una luce vivida e sinistra rischiarò la riva di Porta Serisso: fiamme altissime stavano divorando le coralline di Mastro Tore, mentre lacrime di rabbia rigavano i volti anneriti dal fumo dei marinai che si erano prodigati invano a salvare le barche, vale a dire ogni loro speranza di lavoro decente per quella stagione. Affacciato sul terrazzo di una casa prospiciente la riva, Mpàppete, che tra le proprie nefandezze annoverava anche quella di uomo di fiducia per i lavori sporchi della Mastranza degli Scultori, ripeteva soddisfatto a se stesso alcune parole in lingua franca, a simulare un dialogo a distanza tra lui e Mastro Tore, vale a dire tra il rinnegato e lo schiavo sfuggito dalla cattività:

-Mucho bello. Todo mangiado de fogo. Mi star bono. Commè ti star, Mastro Tore? Se vedemo presto.

La mattina successiva, di buonora, Diego ed alcuni corallari incontrarono due dei loro Consoli, Mastro Michele Anguzza e Mastro Giorgio Badalucco, nella sacrestia della chiesa di Santa Lucia, dove la Mastranza dei Pescatori di Coralli aveva la sua sede. Volevano sapere come si sarebbero mossi i loro rappresentanti nei confronti delle autorità sabaude per avere giustizia. A memoria díuomo, non si era mai verificato che qualcuno avesse dato fuoco a delle barche tirate in secca. Per distrazione o dolo, erano state qualche volta incendiate case, botteghe, magazzini; ma barche mai. I Consoli, a cui era delegata la vigilanza sulle imbarcazioni tenute in secca durante la pausa invernale, sembravano smarriti.

- Mastro Michele, Mastro Giorgio, chi è stato a dare fuoco alle coralline di mio nonno? Ci sono cinquanta famiglie a terra questo momento. Lo sapìte? - chiese Diego di brutto, senza nemmeno salutare i due anziani rappresentanti della Mastranza.

- Dimmi ëna cosa, Diego, - chiese a sua volta Mastro Michele, che stava prendendo il discorso alla larga, - Chi è ëcchiù potente a Trapani, i pescatori di coralli o li mastri che lo travàgghiano?

Al posto di Diego rispose uno dei pescatori che lo accompagnavano:

- I mastri scultori sono i più forti, ma senza i corallari non ponno travagghiari. Specialmenti se si lassano bruciari le coralline come fascine di legna per arrostirci sarde e carcòccioli. Senza barche non si pisca; se non si pisca il corallo gli scultori non travàgghiano; parlai chiaro, Mastro Michele? Parlai chiaro, Mastro Giorgio?

Alla sfuriata del pescatore i Consoli parevano a disagio, sulla difensiva: evidentemente sapevano qualcosa, ma non trovavano il modo di dirlo. Toccò a Mastro Giorgio Badalucco, come sempre, dire le cose come stavano. Era un Console anziano e rispettato, ai suoi tempi abilissimo pescatore ed esperto nuotatore. Era giunto dal Ponente Ligure da giovanissimo, in seguito al naufragio del veliero in cui si trovava imbarcato, e da subito si era fatto apprezzare per la schiettezza e la rettitudine con cui agiva. Disse quindi Mastro Giorgio, papale papale:

-Il fatto è, figè, che Mastro Tore, gran brava persona e grandissimo lavoratore, è - come dire - un tipo un po' curioso. Lui i coralli, giustamente, li vende per la gran parte a chi li paga meglio e non ai suoi concittadini. Secondo me non fa male, ma qui in città sono in molti a non sopportare la cosa, e tuo nonno lo vorrebbero mandare a ramengo.

Diego rifletté brevemente su quanto detto dal Console, poi incalzò:

- Questo lo dicono gli altri, gli scultori; ma voi che dovreste difendere gli interessi della Mastranza dei Pescatori corallari, voi come la pensate? Cosa mi dite di fare?

- Noi pensiamo che è meglio che tuo nonno rimanga dove si trova. E che pure tu cambi aria per qualche tempo. Vi odiano a morte, a te e a tuo nonno: non siete nobili e nemmeno appartenete alla Mastranza degli Scultori, eppure state facendo soldi lo stesso. Te lo ripeto, Diego, è meglio che anche tu cambi aria. Ti è capìo?- concluse in genovese Mastro Giorgio, abbassando sia la voce che gli occhi. Provava vergogna per ciò che stava dicendo, ma i rapporti di forza tra la Mastranza dei Pescatori e quella degli Scultori di corallo, in quel periodo più squilibrati del solito, non lasciavano altra speranza.

Qualche giorno dopo una lancia a vela approdò a Marèttimo. Ne sbarcarono Diego e due pescatori. Del nonno e del Cuoco Miccione nellíisola nemmeno líombra.

I tre percorsero lo stretto sentiero che s'inerpicava al castello di Punta Troia, per sapere dal nuovo comandante del presidio che Mastro Tore e il Cuoco Miccione erano venuti alla rocca il giorno prima a vendere loro gallette di frumento. Avevano passato la notte a dormire nella camerata delle guardie e líindomani se n'erano andati alle Case Romane, per vedere líarrivo delle coralline da Trapani.

Quando, nel pomeriggio, Diego e i pescatori raggiunsero la chiesetta di Case Romane, trovarono Mastro Tore e il Cuoco Miccione a dire il rosario davanti ad un San Francesco di Paola più barbuto ed accigliato che mai.

- Comíè, todo mangiado? - chiese il nonno a Diego.

- Le barche sono state bruciate prima ancora che le rimettessimo in mare. Il comandante della piazzaforte di Trapani, il Conte Campione, a cui mi sono rivolto per avere giustizia, mi ha consigliato di parlare con quello che riteneva il collaboratore più prezioso che aveva in città. E sai chi era?

-Mpàppete,- rispose Mastro Tore senza esitare.

- Come facevi a saperlo?

- Eí lu malacarne cchiù vile e tradimentoso di tutta Trapani. Eccu picchì è canusciutu. E rispettatu. Ti è capìo? Francisi, Spagnoli, Piemontisi, nun cangia nenti. Sempre con la feccia fanno amicizia.

- E ora che facciamo? ? chiese Diego.

- Nenti. Restamo ëccà: ti insegno quattro cose e poi te ne torni a Trapani.

- E Assunta, e i bambini?

- Tu ci scrivi e spieghi la situazioni. Manda una lettera e spieghi tutto. Ogni due simane viene uno schifazzo a portare viveri al castello. Se dai una lettera allo schifazzaro, stai tranquillo che alla sera arriva a Trapani.

- E per mangiare?

- Assunta va dal Consuli di Genua e gli dice che li manda Mastro Tore. Ho in deposito denari da fari campari mezza Trapani. E i denari genovini sono meglio dei fiorini.

- E allora perchè stiamo qua?

- Primu, picchì te lo ha consigghiato il Consuli Badalucco; secunnu, picchì Mastro Miccione è un gran cuoco; terzu, picchì aspetto Mpàppete.

Passarono tre anni prima che Mpàppete il malacarne mettesse piede a Marèttimo. Diego, il nonno e il Cuoco Miccione divisero il tempo tra la coltivazione del frumento a Balata Ulivo, la pesca a ricciòle, sàrpie e dèntici con lí Epifania, - unica imbarcazione sfuggita al rogo di Trapani - e frequenti visite alla guarnigione del Castello di Punta Troia.

I sei soldati del presidio, arruolati sotto gli spagnoli, erano ora comandati dal sergente sabaudo Giobatta Buatier, un vedovo che si era fatto raggiungere nellíisola dalla figlia Annamaria, grande camminatrice e appassionata conoscitrice di erbe e piante officinali, tra le quali sapeva scegliere con sicurezza quelle più utili e benefiche. Era, la figlia del sergente Buatier, una donna minuta e ben proporzionata, prossima ai trent'anni, che si faceva notare per líintelligenza viva e una voce suadente e piccina, quasi da bambina. In un tempo in cui lo studio delle scienze naturali da parte delle donne comportava rischi gravissimi, Annamaria Buatier si era rifugiata a Maréttimo presso il padre per sfuggire agli ultimi bagliori sinistri della caccia alle streghe nelle Langhe. Nellíisola aveva trovato tante e tali specie di fiori e piante a lei sconosciute da non lasciare mai il Castello senza un taccuino, la penna d'oca e la boccetta con líinchiostro di china.

Vuoi per la relativa vicinanza díetà, vuoi per la comune curiosità di esplorare angoli sempre nuovi di quel ricco e affascinante universo in miniatura in cui si trovavano confinati, Diego e Annamaria divennero inseparabili e vissero quelle tre primavere con lo stupore e leggerezza con la quale si sperimenta un inaspettato periodo di felicità che in un modo o in un altro si è certi debba finire.

Talvolta i due seguivano Mastro Tore sulle alture sovrastanti Punta Libeccio, ad osservare, non visti, i corsari saraceni togliere gli schiavi dai remi e, tenendoli incatenati sotto i pini di Aleppo, darsi da fare per pulire in gran fretta gli scafi delle loro galeotte dalle incrostazioni e spalmarli di sevo per prepararli alla successiva razzìa. Più che sulle barche turchesche, era sul mucchio di rematori in catene che Mastro Tore puntava il suo cannocchiale di ottone, sognando prima o poi di riuscire a fare uníincursione e liberarne qualche decina in un sol colpo, anche a costo della vita.

Al ritorno, rifacendo la strada verso il Castello di punta Troia, grande era la malinconia e il senso di impotenza dei tre per non essere in grado di aiutare quei morti viventi - la maggior parte nel fiore degli anni - incatenati ai remi saraceni.

Poi, passato il crinale dell'isola e tornati nella costa di levante, ci si dimenticava di turchi, turcheschi, schiavi e catene e si cenava nella cucina del castello tutti insieme, soldati e pescatori, mettendo in tavola i piatti di mare di Miccione e le pietanze di terra di Annamaria, che preferiva alla cacciagione le sapide e dense zuppe di frumento e legumi aromatizzate col timo e rosmarino. Fu cosi' che la coppia di spinoni portati nell'isola da Diego qualche anno prima venne ammaestrata da Annamaria a lasciar perdere i conigli selvatici dalle lunghe orecchie e l'aria spaurita, per dedicarsi a scovare i funghi profumati che in autunno crescevano abbondanti accanto ai resti di quelli che erano stati cespugli di fèrule. Qualche volta, tra maggio e novembre, Mastro Tore, Miccione e Diego, aiutati da quattro soldati della guarnigione, armavano l' Epifania ed uscivano verso il banco per pescare coralli, tornandosene con rami enormi, di valore inestimabile per quei mari già a lungo sfruttati.

Diego cominciò presto a passare tutte le sere al Castello, intento alle sue sculture di corallo, mentre Annamaria riportava su fogli più ampi e con maggior cura gli appunti e schizzi su fiori ed erbe raccolti nel suo vagabondare per l'isola. A Balata Ulivo rimasero Mastro Tore e il Cuoco Miccione, che alternarono le pipate di tabacco a tranquille quanto strampalate dispute di carattere teologico sulla Madonna di Trapani e San Francesco di Paola, senza naturalmente dimenticare S. Pietro, S.Lucia e Santo Liberante, quest'ultimo di vitale importanza in tempi in cui la tratta degli schiavi cristiani da parte dei corsari saraceni si era perfino intensificata.
 


Primavera 1718

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