Settembre 1732

Mastro Tore e il Cuoco Miccione rimasero ancora diversi anni nellíisola di Maréttimo, visitati di tanto in tanto da Diego ed Annamaria.

Se per i due trasformarsi da pescatori ad agricoltori era venuto quasi spontaneo dopo líincendio delle coralline, non era stato altrettanto facile per Annamaria restringere líorizzonte della sua curiosità dallíuniverso verde di Maréttimo allo scoglio brullo di Formica.

Anche quella volta, però, in un modo o nell'altro riuscì ad adattarsi. Così, mentre la mattina si dedicava a pulire e rassettare le poche cose del padre e di Diego, il resto della giornata lo impiegava nello studio della botanica, scrivendo un vero e proprio trattato con gli appunti raccolti sulle piante dellíisola di Maréttimo. Il primo di una piccola ma significativa serie di lavori semisconosciuti che, con il passare delle generazioni, si sarebbero via via aggiunti a descrivere la flora straordinaria di quellíisola verde e scoscesa lasciata un poí in disparte nel bel mezzo del Mediterraneo.

I tardi, assolati pomeriggi nell'isolotto Annamaria li passava invece ad osservare divertita le pozze di acqua di mare, brulicanti di vita al ritirarsi della marea. Pesciolini, gamberetti, granchi, attinie, spugne e perfino minuscole formazioni coralline abbarbicate sotto la bassa scogliera che delimitava líisolotto divennero oggetto dellíosservazione attenta della donna, che riempì diversi taccuini di schizzi ed appunti su quellíaffascinante mondo in miniatura messo in movimento dallíimmensa, silenziosa macchina astrale che muove le maree. Furono le sue osservazioni, pubblicate in seguito a Trapani dallí "Accademia della Lima" sotto lo pseudonimo di un inesistente studioso francese, a stabilire ad esempio che i coralli appartenevano al regno animale e non a quello vegetale, come si invece era supposto sino a quel momento. Ci volle quindi la perspicacia di una donna minuta e gentile in odore di stregoneria a confutare le tesi di Aristotele sull'origine dei coralli e a far capire finalmente a liguri, sardi catalani, trapanesi, torresi e tunisini che ciò che da sempre strappavano al mare, erano concrezioni di origine animale, e non piante marine fossilizzate.

Con la stessa cura con cui si rivolse alle forme minuscole del litorale, Annamaria cominciò pure a puntare lo sguardo verso il firmamento, approntando sulla torre della tonnara un vero e proprio osservatorio grazie ad un cannocchiale di modeste dimensioni donatogli da Mastro Tore e a rudimentali alidade e sestanti in legno e filo di metallo costruiti con le sue stesse mani.

Diego osservava con stupore líopera di quella che la contiguità e la crescente ammirazione aveva fatto diventare la vera compagna della sua vita, diradando sempre più le visite a moglie e figli. Quando poi ricevette una lettera da Assunta, in cui veniva informato che Hugo de Ribeira era morto, lasciando lei ed i gemelli eredi universali di una somma di denaro per quei tempi enorme, e che poteva interrompere le sue rimesse mensili, Martinez si rese conto che la somiglianza dei suoi figli con l'arzillo caporale spagnolo non era frutto del caso, e che la fretta con cui il Rettore del Collegio delle "Donzelle Disperse" gli aveva permesso di sposare la ragazza spiegava abbastanza i sorrisi ironici e gli ammiccamenti con cui i concittadini avevano accompagnato le rare uscite in pubblico di Diego ed Assunta Martinez.

Incassò in silenzio il nipote di Mastro Tore, senza farne parola a nessuno, nascondendo tristezza e sconcerto in un continuo, silenzioso lavorio di mani e di mente. Intensificò l'incisione e la scultura dei coralli, a cui dedicava buona parte del tempo libero tra un turno di guardia e líaltro. E si buttò ancor di più nella lettura, lui che leggeva già tanto, per quei tempi e quei luoghi in cui di libri ne giravano pochi. Con grande fatica riuscì a tradurre dallíinglese quella copia del Paradiso Perduto di Milton che aveva custodito gelosamente sin da bambino, rileggendo il poema decine di volte. Conobbe a menadito anche le avventure del El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha, del grande Cervantes, dono del nonno al ritorno della cattività in Barberìa; inoltre lesse sempre più spesso lunghi brani dalla prima, proibitissima Bibbia in italiano tradotta dal lucchese Diodati e portata in Sicilia proprio dai Buatier.

Nonno Tore nel frattempo era diventato un vecchio magro magro, con gli occhi spiritati di chi ha la mente un poí troppo veloce rispetto ai limiti del corpo. Si muoveva lungo i sentieri di Maréttimo con uníagilità sorprendente per i suoi anni, ma rimaneva pur sempre un ottantenne. Da diverso tempo, ormai, il Cuoco Miccione cercava di convincerlo a tornarsene a Trapani con lui e finire in serenità gli ultimi scampoli di vita, ma il vecchio cambiava sempre argomento. Fu per questo che quando una mattina di primo settembre Mastro Tore annunciò al suo compagno che era ora di sistemare líEpifania e tornare a casa, il Cuoco Miccione sentì che qualche cosa non quadrava:

- Proprio ora, Mastro Tore? Proprio ora che il mare è infestato di corsari chi fannu scalo per tornarsere in Barberìa? Aspettiamo ottobre, macàri novembre, quannu i turchi sono a casa loro, in Africa; facciamo venire uno schifazzo da Trapani, carichiamo tutto e ce ne torniamo nícasa nostra, macàri passando da Formica a salutare vostro niputi Diego e la signura Annamaria. Vabbeni, Mastro Tore?

- No, facciamo accussì, - rispose Tore Dalfina, - Prima di tutto mi aiutati a imbarcari tutti i barili di pulviri da sparo, che è la cosa ëcchiù pericolosa, sullí Epifania. Yò, macàri assieme a un artigliere di Punta Troia in franchigia, parto per Trapani con la corallina, e voi mi seguite con lo schifazzo qualche giorno dopo. Sapìte, Mastro Miccione, yò non vulisse che voi, ëcchiù giovane di me, arrisicasse la vita su una barca carica di pulviri da sparo.

Dopo quattro lustri di convivenza con Mastro Tore, il settantenne Miccione capì che anche quella volta aveva poco da insistere contro la testardaggine del vecchio corallaro e abbozzò rassegnato.

La mattina dopo, di buonora, si cominciò a caricare tutto líesplosivo rimasto a Balata Ulivo sulla Epifania, tirata a secco sul ghiaino dello Scalo Maestro. Il sergente Morpurgo e un artigliere diedero una mano ai due vecchi, ambedue di ottimo umore. Il Cuoco Miccione era così contento di tornare a Trapani a godersi i frutti di tanto lavoro nellíisola, che non notò nemmeno il sergente Morpurgo passare ad un certo punto un rotolo di sottile miccia a rapida combustione a Mastro Tore, bisbigliandogli a lungo allíorecchio consigli che sembravano fossero di straordinaria importanza.

Quella sera i due vecchi dormirono al presidio di Punta Troia, dove il Cuoco Miccione preparò una cena che arricreò sia i corallari che la guarnigione. Cuscus con zuppa di cernie, voghe e scorfani; frittelle di cicirello pescato con reti dalla maglia stretta; la pignolata con il miele di timo e anche i gelsi succosi e profumati raccolti alle Case Romane furono accompagnati con il bianco díAlcamo tenuto in fresco nella cisterna della rocca, rendendo felici e allegri soldati, pescatori e perfino i muri del Castello.

Mentre il Cuoco Miccione tenne banco durante tutta la cena raccontando gli ingredienti e le procedure con cui aveva realizzato i piatti di quella felicissima sera, Mastro Tore se ne stette in silenzio, con le braccia conserte e il lampo di luce bambina dei momenti in cui progettava qualcosa di imprevedibile e rischioso. Era diventato un vecchione tutto bianco, e sia i lunghi capelli incolti che la barba lunghissima gli davano líaria del vecchio naufrago canuto - dimenticato per decenni su uno scoglio e poi miracolosamente ritrovato, - ritratto in tante stampe popolari del tempo.

La serata terminò con grappa offerta con aria commossa dal sergente Morpurgo che, accarezzando la bottiglia velata di polvere, sembrava si stesse separando per sempre da un amico stretto. Richiesto di pronunciare un brindisi, Mastro Tore si alzò un poí a fatica con il suo bicchierino in mano, e con una voce un poí impastata dalla stanchezza e dal sonno, recitò nel suo italiano migliore:

- Brindiamo alla libertà, che vuol dire poter decidere se stare qui o andarsene di là. Brindiamo alla libertà, e peste e corna al Pascià!

Il Cuoco Miccione, che apprezzava le rime più della grappa, applaudì commosso, seguito dal resto dei commensali. Poi prese un bicchiere vuoto e, alzandolo più in alto che poteva, brindò:

- Con la grazzia e líaiuto di Santu Spiridione, lunga vita a tutti, bona notte e bona digestione!

Quella notte nessuno fece la guardia sulle mura del presidio di Punta Troia. Líartiglieria rimase incustodita, puntata verso un orizzonte quanto mai tranquillo, mentre dalla camerata dove dormivano gli artiglieri e i due corallari si alzò un armonico, felice ronfare.

Líindomani, messa líEpifania in mare, Mastro Tore salutò il sergente Morpurgo e il Cuoco Miccione, salpando assieme allo spagnolo Isidro, líartigliere più esperto della guarnigione. Ma, anziché dirigersi a levante, verso la costa siciliana, líimbarcazione carica di esplosivo fece una decisa virata a sinistra e volse la prua verso punta Mugnone, per veleggiare poi verso le altissime scogliere di calcare giallo rosato del lato di ponente dellíisola. Quindi i due ancorarono la corallina nelle acque tranquille di Cala Bianca e si diedero da fare per collegare tutti i barilotti di esplosivo al rotolo di miccia fornito dal sergente Morpurgo. Dopo aver dato alcune precise istruzioni su come dare fuoco alle polveri in pochi attimi, Isidro salutò Mastro Tore con un abbraccio e si tuffò in acqua, raggiungendo a nuoto la riva e imboccando veloce il sentiero che in un paio di ore lo avrebbe riportato a Punta Troia.

Quando, nel tardo pomeriggio, un buona brezza di maestrale cominciò a spirare dalla riva e Mastro Tore sciolse la vela dellíEpifania, la corallina era già stata trasformata in brulotto, la temutissima imbarcazione carica di esplosivo che da sempre seminava il panico tra le marine da guerra del Mediterraneo. Come trascinato dalle sequenze di un sogno, Mastro Tore vide scorrere a sinistra le scogliere di ponente solcate da maestosi calanchi; doppiò quindi la Testa di Polpo, accostando verso cala Bombarda, dove ammainò la vistosa vela color arancione e proseguì il suo viaggio a remi. Era già il crepuscolo quando doppiò Punta Bombarda e giunse in vista di Cala Spalmatore.

La galeotta bisertina, veloce scafo da preda, stava lì, disposta parallela alla riva. Come un uccello rapace che avesse perso ali e piume, era stata liberata dei suoi diciotto remi, dellíalberatura e delle catene che tenevano i rematori legati ai banchi, pronta per essere tirata a secco per una veloce carenatura. Líindomani alcune tavole marcite sarebbero state rabberciate dal carpentiere, mentre lo scafo tutto sarebbe stato raschiato e spalmato di sevo. Poi la quarantina di disgraziati rematori, per lo più cristiani, sarebbero stati ricondotti a bordo, pronti a sputare líanima tra frustate e bestemmie nel corso di uníaltra razzìa.

Ormai si era fatto buio. Vogando senza fare rumore, con la massima cautela, il vecchio corallaro accostò a fatica lo scafo nero dellíEpifania alla galeotta saracena, assicurandolo ad essa con una cima. Fece il segno della croce, bisbigliò uníorazione a Santa Barbara appresa a suo tempo dal Cuoco Miccione e accese la miccia. Ad un primo, terrificante boato, Mastro Tore passò a miglior vita senza nemmeno accorgersene, mentre líEpifania si trasformò in una palla di fuoco, propagando líincendio allo scafo corsaro. Ci fu un susseguirsi di fortissime esplosioni, che scagliarono in aria grossi pezzi di legno ardenti e avvolsero alla fine la galeotta turchesca in una vampata che lasciò senza scampo il comandante, líhodja, líaguzzino, il carpentiere e la parte della ciurma rimasta a dormire a bordo.

Dalla riva i soldati turcheschi guardavano annichiliti la devastazione della loro nave, aspettando il peggio; tra gli schiavi cristiani, invece, la prospettiva di una fuga insperata verso la libertà si fece più concreta, mentre la voglia di spezzare le catene e demolire i ceppi ai quali erano legati divenne incontenibile.

Era quasi líalba quando dal bosco di pini díAleppo sbucarono gli uomini del sergente Morpurgo armati di moschetto, ai quali si erano uniti una dozzina di corallari che avevano fatto sosta nellíisola per la notte.

-Santiago y sierra Espana!- gridò líartigliere Isidro per incitare i suoi allíattacco.

-A chi afferra un turco è suo!- fecero ecoi corallari, armati di fiocine, rampini e coltelli a serramanico.

- Allah akbar!- risposero con poca convinzione i giannizzeri turcheschi, troppo svegli per non capire che la partita era già persa prima di iniziarla.

Quando il sergente Morpurgo e il Cuoco Miccione arrivarono ansimanti sulla scena della scaramuccia, i saraceni erano seduti per terra, legati a due a due e oggetto di sputi e insulti da parte dei quaranta schiavi cristiani che il colpo di mano di Mastro Tore aveva permesso di liberare. Interrogati dal sergente, i giannizzeri dissero che venivano da Bizark, come il resto dellíequipaggio perito nel corso dellíincendio, e che altre galeotte bisertine avevano in progetto di venire a corseggiare la stagione successiva nel trapanese, distante appena un giorno di navigazione dalle coste tunisine. Scendendo mesti verso la riva, Morpurgo e Miccione constatarono che del loro vecchio amico e dellíEpifania non era rimasto nulla; solo lo scheletro annerito e semiaffondato della galeotta turchesca dava idea dellíinferno di fuoco scatenato da Salvatore Dalfina nella sua ultima, solitaria impresa.

Qualche giorno dopo il Cuoco Miccione fece scalo alla tonnara di Formica assieme a Morpurgo, promosso capitano in seguito alla fortunata azione militare di Cala Spalmatore e destinato a Trapani al comando del Forte di S.Anna.

I due raccontarono a Diego gli ultimi giorni di vita del nonno, dando al giovane una cassa con libri, effetti personali e una lettera con le ultime volontà di Mastro Tore. Parte delle cospicue sostanze del corallaro erano state donate alla chiesetta di Santo Liberante, con líobbligo per il cappellano di dare al Cuoco Miccione il ruolo di sacrestano e di farlo accudire negli ultimi giorni di vita. A Diego era stato affidato invece il resto dellíeredità, finalizzata a " uníopera didifesa di li cristiani chi vivinu fora le mura di Trapani e chi vengono sempri lassati in balìa di li turchi infideli".

Giugno 1744

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