Giugno 1744

Una dozzina di anni dalla morte di Mastro Tore, il Cuoco Miccione era riuscito a fare della chiesetta di Santo Liberante, aggrappata sugli scogli di tramontana che conducono alla torre di Ligny, un importante luogo di devozione per i tanti marinai e pescatori della città. Diego, invece, non era ancora arrivato a spendere un solo tarì della somma ereditata dal nonno per la costruzione di un insediamento sicuro dalle scorrerie saracene.

Nel frattempo, con grande stupore del Capitano Morpurgo e anche dei tanti trapanesi fedeli agli austriaci, uníaltra giravolta dinastica aveva fatto tornare i Borboni in Sicilia, stavolta con un regno tutto loro che comprendeva anche Napoli e il resto del Sud.

Giobatta Buatier, testimone vivente della breve parentesi sabauda, si era invece congedato da tempo e passava periodi sempre più lunghi a Trapani, necessitando di cure che Annamaria da sola non poteva fornire nellíisolamento della tonnara. Così la donna ora si divideva tra líisola di Formica, dove Diego era stato messo al comando dello sparuto manipolo degli artiglieri dei Pallavicini, e la città, dove aveva tra líaltro cominciato a frequentare come uditrice la Facoltà di Medicina.

Quella primavera, come da diversi anni, Annamaria era andata a Trapani a metà maggio. La sua sensibilità nei confronti degli animali non le permetteva di assistere alla cattura di centinaia, talvolta migliaia di grandi tonni impazziti per il confinamento in acque che come per miracolo si restringevano sino a soffocarli; animali che venivano finiti a colpi di arpione tra le grida eccitate e un poí belluine delle ciurme, mentre il mare si tingeva di un rosso irreale. Sembrava una gigantesca, confusa corrida marina, la cui vista la donna poté sopportare solo una volta.

Così aveva preso líabitudine di partire per la terraferma appena sentiva che la prima mattanza della stagione era vicina. Il raisi Torrente, buon osservatore, si era accorto presto della quasi perfetta coincidenza tra le partenze di Annamaria da Formica e líarrivo dei tonni nella camera della morte, regolandosi di conseguenza.

Anche quel giugno, dopo che i tonni catturati nellíultima mattanza dellíanno erano stati imbarcati di gran fretta sugli schifazzi diretti a Trapani per avviarli alla salagione, a Formica erano rimasti il raisi e una trentina di tonnaroti per riparare, rassettare e stipare sotto i capannoni le delicate quanto ingombranti attrezzature della grande trappola marina. Un poí confuso dal grande traffichìo di gente che in quei giorni affollava líisolotto, Diego si era ritirato ancor di più sulla torre di guardia, con la scusa che era stato segnalato un movimento di legni turcheschi più intenso del solito. Con la stessa scusa aveva anche fatto fare lavori di manutenzione straordinaria alle murature scrostate della torre ed aveva ottenuto dal rais quattro tonnaroti per rafforzare i turni di guardia.

Come sempre i corsari vennero nel cuore della notte, quando quasi tutti riposavano profondamente dopo una faticosa giornata di lavoro. Sbarcarono da sette galeotte di Biserta, e a centinaia i predoni turcheschi sciamarono nello scoglio in cerca di uomini da incatenare ai remi. Dopo due mesi pieni di razzìe tra Ustica e Napoli, ben quattro dei sette scafi corsari non avevano ai remi uomini sufficienti per tornarsene nel loro covo, essendo a decine i rematori morti per uníepidemia di colera scoppiata tra gli equipaggi della flotta, complici le spaventose condizioni di vita a bordo.

Malgrado Diego avesse dato in tempo líallarme sia con la campana della torre che con colpi di moschetto sparati in aria, in breve líisolotto era talmente affollato di giannizzeri turchi, marinai berberi e rinnegati cristiani in cerca di preda, che diverse sciabolate se le diedero tra di loro gli stessi assalitori, prendendo per cristiani gli equipaggi delle altre galeotte.

Una delle cose più inusuali di quellíincursione fu che avvenne nel massimo silenzio, quasi i predoni avessero paura di risvegliare i trapanesi che dormivano al sicuro delle loro mura. Se li avessero conosciuti meglio, non avrebbero avuto tante cautele: per nessun motivo al mondo i cittadini sarebbero usciti a rischiare la vita e la inviolabilità della loro mura per andare in soccorso di tre dozzine di tonnaroti che stavano per finire schiavi in Barberìa.

Alla tonnara di Formica, comunque, gli assediati non si diedero facilmente per vinti, resistendo per ben otto ore senza che nessuno dei numerosi legni che uscirono dal porto di Trapani si dessero la briga di andare a vedere cosa stava succedendo ad un tiro di schioppo dalle loro vele. La resistenza ebbe termine quando i corsari riuscirono ad appiccare fuoco alla torre dei Pallavicini, dove Diego e gli altri compagni di sventura si erano asserragliati.

Furono in trentasei a cadere in schiavitù. Dallíinventario del bottino, stilato con prontezza dagli scrivani delle galere, gli hodia, mancavano due giovani tonnaroti fuggiti a nuoto verso le mura della città, il valoroso raisi Torrente e due donne. Alla fine dellíincursione, infatti, il capo della tonnara giaceva sgozzato nel suo alloggio accanto allíimbarcadero, assieme alla moglie e alla figlia ventenne, la bella Lina di tante storie di tonnaroti; dopo essere riuscito con la forza della disperazione a mandare allíaltro mondo una mezza dozzina di predoni che tentavano di rapire la ragazza.

Quando i corsari si allontanarono senza fretta dallíisolotto, delusi dalla esiguità del bottino, della tonnara non restavano che rovine fumanti. Solo le enormi àncore rimanevano al loro posto, disposte ordinatamente tra i capannoni delle barche incendiate e la torre sbrecciata ed annerita dal fumo, simili ai resti silenziosi di un esercito sconfitto.

Quello stesso pomeriggio líamministratore dei beni dei Pallavicini e il comandante borbonico della piazza di Trapani sbarcarono nellíisolotto per ispezionare i resti della tonnara devastata. Intanto, su una delle sette galeotte dirette a Biserta, si stava svolgendo una curiosa discussione tra Diego Martinez e un personaggio che pochi avrebbero sospettato di trovare a bordo di quello scafo fetido e malmesso.
 


Capitolo 6

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