autunno 1744

Dopo l'incoraggiante successo di quel primo, breve concerto, Sitbar propose a Diego il pacecoto di mettere assieme una piccola orchestra con la quale allietare i banchetti nuziali e i ricevimenti dei ricchi. A lavorare i coralli assieme a Diego Martinez, Sitbar avrebbe messo al suo posto Peppe Masso, che solo da poco tempo si era ripreso dagli strapazzi dellíallevamento di Capo Bon.

Dotato di un buon fiuto per gli affari, il pio musulmano credeva nel talento del suo schiavo musicante, e gli promise che i futuri guadagni, che lui stimava alti, sarebbero stati equamente divisi per tre: una parte per se stesso, una parte per il pacecoto e una parte per il resto dei suonatori. Così, oltre ai due schiavi andalusi, che rimasero a suonare i darbouka, Diego il pacecoto trovò un francese che sapeva suonare la ghironda, già popolare anche a Tunisi, assieme a suonatori di flauto, cetra, liuto e violino. Non era ancora una tradizionale orchestra maluf ma, per varietà di strumenti e bravura dei musicanti, poco ci mancava.

Trascinata dal suo entusiasmo e da una spiccata capacità di intuire i desideri del pubblico, l'orchestra del giovane Diego cominciò ad essere apprezzata e molto richiesta in città, anche per la tradizionale apertura di molti tunisini verso le novità che venivano da fuori. La cosa curiosa dei pezzi arrangiati e proposti dal cristiano era infatti che le parole erano siciliane e si rifacevano a poesie e filastrocche delle quali il captivo si era nutrito sin dall'infanzia, mentre le melodie cercavano di seguire i complessi ed affascinanti modi musicali della tradizione magrebina.

Già da quel primo concerto improvvisato nel cortile della casa di Sitbar, Diego da Paceco aveva intuito l'importanza delle reazioni del pubblico durante una esibizione: il silenzio assoluto significava mancanza d'interesse, mentre applausi e vere e proprie grida d'incoraggiamento, come jallah!, jallah! suggerivano il proseguimento e la continua improvvisazione sul brano che si stava eseguendo. Una sfida che stimolava il naturale talento musicale del pacecoto, e che lo rese sempre più popolare in città. Tanto che da più parti venne l'invito al giovane Diego a convertirsi e lasciare lo stato servile.

Anche Martinez e Peppe, che in quel periodo vivevano tempi grami, gli chiesero più volte, con una certa ironia, come mai non pensava di convertirsi, visto che a Tunisi aveva trovato il paradiso in terra. Una sera, prima di uscire di casa per l'ennesimo concerto di quella settimana, il musicista spiegò la sua cautela nei confronti della conversione allíIslam:

- Certo mi piacisse levarlo questo ferro dal piede, che mi piacisse levarlo. Però yò penso che al patruni, se yò mi fazzo turco, nun ci cunveni, picchì avrà da rinunciari a lu guadagno di li zecchini chi staio mettendo di lato pi lu riscatto meu. Eppoi...vi lu pozzu diri? Yò in chista casa ci staio bbeni, che ci staio bbeni. La musica non la sono sulu con l'orchestra, ma puru cu la nostra patruna. Ed è 'na gran bella musica da sonare, che è 'na gran bella musica, - disse il pacecoto mentre gli brillavano gli occhi di gioia ed orgoglio. A lui, oltretutto, Rachele era piaciuta sin da principio, sin da quei primi, tristi giorni di cattività.

- Usate sempre parole siciliane per le vostre canzoni ? - chiese Diego Martinez, cambiando discorso.

- Si, quasi tuttu è cantatu in sicilianu.

- MaÖ ci Öcapìscino qualchiÖ cosa? - intervenne nella discussione Peppe.

- No, ma ci piaci lu stessu. Yò canto, e loro danno alli paroli lu significatu che vonnu, tantu la cosa 'cchiù 'mportanti è la musica, che è la cosa cchiù 'mportanti. Comunque, staio scrivenno una composizioni che ricorda li cosiddetti "Cristiani di Chenini". E' 'na storia curiusa, che è 'na storia curiusa. Ora ve la cunto in pochi paroli: luntanu luntanu da Tunisi, verso la Libbia, esiste la conca di Chenini. Dici la liggenda che alcuni berberi cristiani vinniru catturati da li surdati dell'imperatore di Roma e murati vivi in sepulcri chi ora si trovanu vicinu alla moschea della stessa Chenini. Li martiri durmirono pi quattru secoli, e in chisti quattru seculi li loro corpi, vale a diri li manu, li peri, u busto e perfinu la testa, continuarono a crìscire, e quannu si arruspigghiarono, quattrucentu anni dopo, erano addivintati comu giganti. Séppiro chi Chenini era addivintatu un paisi musulmano, si convertirono e murìrono felici e cuntenti. Ora stannu rintra la moschea, veneratissimi. Vi piacìo la storia? Yò pensu di farci un bel poema cantatu, che pensu di farci un bel poema cantatu.

- E chi vi aiuta a scriverlo in arabo?

- Il dutturi Sala. Comu sapiti, conosce non sulu l'ebraicu, il latinu, il maltesi e il sicilianu, ma puru l'arabu dell'Alcorano, che è chiddu chi mi servi per il poema meo.

-Bravi...bravi veramenti...- commentò in tono di rimprovero Peppe Masso, a cui il nome del vecchio medico rammentava solo la cattura sua e di Diego Martinez da parte dei predoni bisertini.

Da qualche tempo, infatti, Peppe non vedeva più il giovane Diego come prigioniero: il compaesano, da mezzo tonnaroto e mezzo mandolinaro, a Tunisi si era trasformato in un vero musicista, conosciuto e ammirato da tutti. Poi, a parte quel ferro alla caviglia destra, a suo parere il giovane Diego era diventato più tunisino dei tunisini. Lui e Martinez, invece, in quel periodo se la stavano vedendo orza orza, come dicevano i siciliani di ponente quando navigavano contro la tempesta. In altre parole, se la lavorazione del corallo nella botteguccia del souk degli orafi in quei mesi aveva portato un bel poí di zecchini a Sitbar, era la mancanza di materia prima che rendeva la loro attività sempre più rischiosa, tanto più che oramai quasi tutti sapevano che quando sparivano pezzi di corallo dalle facciate delle case dei ricchi di sicuro ci doveva essere lo zampino di Peppe Masso e Diego Martinez. Se era vero poi che i furti nelle case degli israeliti venivano tollerati, se non addirittura incoraggiati, la stessa cosa non si poteva dire se le vittime del ladrocinio erano musulmani. In quel caso si rischiava forte.

Cosi', quando una notte di novembre i due vennero sorpresi dalle guardie del Bey a grattare il prezioso materiale dalla facciata della abitazione di Assad il Siriaco, finirono in prigione in un amen e condannati a quaranta colpi di bastinado ciascuno.

I due malcapitati vennero condotti sullo stesso palco di legno vicino alla Grande Moschea dove alcuni mesi prima erano stati messi allíasta, e denudati davanti ad una folla pittoresca e parecchio interessata al crudele spettacolo del supplizio che si stava inscenando. Cominciarono con Peppe, le cui estremità inferiori vennero fatte passare attraverso i buchi praticati in una lunga, robusta staffa doppia - una sorta di gogna per i piedi - che venne annodata alle punte per tenere le caviglie del condannato ben strette. Quindi due aguzzini, uno a ciascun lato della staffa, la sollevarono sino a quando le piante dei piedi dello schiavo non furono allíaltezza delle loro spalle, ed il corpo malcapitato sospeso sino a farne sopportare gran parte del peso sulla propria testa. Dopo che il funzionario del Bey lesse la condanna, sulle piante dei piedi di Peppe si abbatterono quaranta violentissimi colpi di bastone che, alla fine del supplizio, lo lasciarono mezzo morto sul palco.

La folla che assisteva a quella brutale e talvolta mortale punizione, era molto eterogenea sia nella composizione che nelle reazioni. Gli schiavi cristiani che si trovavano quella mattina nei dintorni della Grande Moschea, spinti dalle guardie del Bey appena sotto il palco ad assistere in silenzio al supplizio, avevano un'aria dimessa e triste; la folla di artigiani del souk, di massaie con i loro bambini tenuti per mano, mercanti, corsari e rinnegati aveva invece líaria di godersi molto lo spettacolo, segno di un ordine dove a pagare in maniera assolutamente sproporzionata e crudele i rigori della legge erano quasi sempre i più deboli tra gli indifesi: gli schiavi.

Su questo ed altro rifletteva Diego Martinez, mentre gli aguzzini gli stringevano a sua volta le caviglie, prima di iniziare la seconda parte di quel crudele spettacolo mattutino. In quel momento avrebbe voluto sapere chi mai si era inventato quel supplizio, chi aveva messo la propria perspicacia, il proprio spirito di osservazione, addirittura la propria scienza al servizio di sofferenze gratuite che avevano solo il risultato di abbrutire sia chi le subiva che chi vi assisteva.

Non ebbe granché tempo di portare avanti lo svolgimento dei suoi pensieri, che la prima bastonata gli colpì con violenza le piante dei piedi, esposti ad arte alla furia cieca dellíaguzzino. Fu come se uníonda nera di dolore si abbattesse sul lume della sua ragione, spegnendolo allíistante. I successivi trentanove colpi vennero dati ad un uomo già quasi annichilito dalla sofferenza insopportabile arrecatagli da quella prima, violentissima bastonata ed in Diego ripeterono allíinfinito la sensazione di annegare in un fiume nero e melmoso che della morte rendeva solo le sensazioni più penose ed amare.

Mentre gran parte della folla attorno al palco assisteva beata a quello spettacolo degradante di violenza gratuita, dallíangolo della piazza un vecchietto dai capelli candidi soffriva come se ogni colpo dato a quei due disgraziati arrivasse di riflesso alle palme dei suoi piedi. Era Samuele Sala, vestito dei poveri panni che gli ebrei di qualsiasi stato e condizione erano obbligati ad indossare in pubblico. Lo stesso che nei giorni successivi avrebbe usato la propria scienza medica per alleviare e sanare al meglio, mediante abluzioni di acqua di mare, le gravi lesioni procurate dagli aguzzini.

Dopo il bastinado sul palco degli schiavi, ci vollero diverse settimane prima che Peppe e Diego si riprendessero. Per giorni e giorni non furono in grado di camminare, divenendo preda di violenti conati di vomito ogni qualvolta si arrischiavano a poggiare un piede per terra. Ma fu la violenza gratuita della punizione a ferirli di più: non erano stati denudati e suppliziati in pubblico perché avevano fatto qualcosa di illecito. Che gli schiavi si procurassero il materiale da lavorare e addirittura il cibo attraverso il furto era addirittura incoraggiato dai loro padroni, che così limitavano le spese per tenere in vita gli oggetti del loro sfruttamento; quello che veniva punito in maniera così spietata era solo líessere stati sorpresi a rubare. Gli stati corsari non si curavano della legalità, ma punivano con pesantezza líimperizia nel delinquere.

- Eí un munnuÖchi Öggira allíincuntrarioÖ-disse Peppe toccandosi con sofferenza i poveri piedi martoriati, dopo giorni di silenzio e perfino di rifiuto del cibo che la servitù del pio Sitbar portò in abbondanza a lui e al suo compagno di cattività.

- Eí un mondo che abbandoneremo al più presto. Nei giorni passati avevo deciso di lasciarmi morire rifiutando anchíio il cibo. Ma dopo la prima giornata di digiuno ho sognato una moltitudine di santi che me lo sconsigliavano. Cíera perfino Santo Liberante, gran liberatore di cristiani in cattività, in compagnia di un suo vecchio e valente sacrestano, un certo Mastro Miccione, che mi rimproverava per la mia idea balzana di non volere più vivere.

- E Santu NicolauÖCíera Santu Nicolau?

- Certo che cíera. Mi ha consigliato di tenerci forte al dottor Sala, di non lavorare più il corallo sino a quando non ce lo fornirà il nostro patruni, e mi ha promesso un dono importante per il giorno a lui dedicato, il sei di dicembre.

Quistioni .. di jorna, - osservò Peppe.
- Si, proprio questione di giorni,- confermò Diego con un'energia che lo sorprese. Sembrava che l'esperienza degradante del bastinado lo avesse cambiato di botto. Passato il dolore e il senso di umiliazione, gli era venuta una forza di reagire prima sconosciuta, accompagnata ad una nuova, insopprimibile voglia di fuga dalla cattività.

Così come anticipato da Diego, il dono di San Nicola si materializzò con celestiale precisione il sesto giorno di dicembre, data in cui in molti paesi del centro e nord Europa il barbuto vescovo di Bari portava regali ai monelli di tutti i ceti e condizioni. Alle sette del mattino, infatti, Samuele Sala incontrò i due cristiani per importanti comunicazioni.

Prima di darle, non poté fare a meno di esaminare i piedi di Peppe e Diego, che trovò in buone condizioni. Poi, sedutosi questa volta sul giaciglio del trapanese, portò la grande novità:

-Considerati gli esiti infelici del vostro impegno nel reperimento di coralli da lavorare, ho convinto il vostro patruni, il pio Sitbar Alì, a lasciarvi andare a lavorare ai cantieri navali che si trovano sulla riva fuori le mura di Tunisi.

-A far cosa? ? chiese Diego Martinez.

-Ad aiutare un mastro díascia flamin, un certo Piet De Witte, a costruire una grande nave. Pensate, sarà il primo veliero di Tunisi ad essere usato nella guerra da corsa.

-Dovremmo aiutare noi, schiavi cristiani, a costruire il vascello che poi dovrebbe catturare altri cristiani e portarli qui in catene? ? si indignò Diego.

-Che volete, è usanza de mar. Non lo avete ancora capito?- spiegò líanziano medico.

-E quando iniziamo?

-Domani. Oggi è festa per mastro Piet che, per quanto rinnegato, come ogni flamin ha in gran rispetto la festività di San Nicola, giornata di doni e della fine del buio invernale.

-La fine delle jurnate scure è a Santa Lucia, senza offesa per vui e per Santu Niculau, -precisò tutto di un fiato Peppe, a cui il bastinado sul palco di legno del Souk sembrava avesse avuto lo straordinario effetto di scioglierli la lingua.

-Sarà una questione di diversa posizione geografica tra la Tunisia e il Pais flamin, - cercò di spiegare il buon Samuele. ? In ogni caso, Mastro Piet, a cui ho raccontato le vostre vicissitudini, vi porta questo regalo di San Nicola, - disse il medico scartando un fagotto contenente due aringhe salate, un limone ed una galletta.

Mancava solo qualche goccia di buon olio, e Peppe e Diego avrebbero avuto tutti gli ingredienti per quella che nelle tavole invernali dei trapanesi veniva considerata una grande cena: aringhe salate arrostite alla gratella e condite con olio e limone.

Memore di quanto si erano detti qualche giorno prima, Peppe guardò il compagno con aria stupita e disse:

-Però, Öè potenti ëstu Santu Niculau.

-Ma soprattutto preciso, non sbaglia un giorno nelle sue promesse, - fu il commento di Diego.

-Preciso in cosa? ? chiese Samuele Sala?

-Niente, dottore, fantasticherie nostre, - rispose il trapanese.

-Poi mi spiegherete meglio. Allora siamo intesi: domani allíalba Mastro Piet vi manderà un lavorante a prendervi per condurvi al suo cantiere. Fatevi trovare ben svegli.

Piet De Witte era un uomo corpulento con gli occhi chiari e una faccia da gattone satollo a cui contribuiva il numero spropositato di salsicce che riusciva ad ingurgitare giornalmente. Mancando di maestri díascia in grado di costruire scafi di grandi dimensioni, le città corsare di Barberìa facevano di tutto per attirare europei, per lo più olandesi ed inglesi, che contribuissero a mantenere la loro forza navale intatta. Compensi molto alti, gin a volontà e le amate salsicce di maiale fattegli arrivare con regolarità dal padrone compiacente di una fattoria della valle della Mejerda, avevano convinto Mastro Piet a spostarsi dalla natìa Olanda a Tunisi, dove si era fatto apprezzare per alcune accurate riparazioni di galere semidistrutte durante alcuni scontri con scafi nemici.

Da diversi mesi De Witte era impegnato nella costruzione di un vascello a vela di discrete dimensioni, simile a quelli che un altro rinnegato suo connazionale, tale Danziger, aveva portato al servizio degli stati turcheschi.

La nave a cui stava lavorando l' olandese, con líausilio di decine di schiavi cristiani, appariva ancora come uno scheletro nudo di costole di legno di rovere da fasciare con tavole il cui reperimento era il problema principale del mastro di Alkmaar.

Giunta a Tunisi la mattina precedente una partita di tronchi di pino di buona qualità, Diego e Peppe erano stati quindi ingaggiati assieme ad altre cinque squadre di schiavi cristiani, muniti di una sega díacciaio lunga un paio di metri, e messi assieme a due captivi irlandesi, Mickil e Pad, a muovere il pesante attrezzo dallíalba al tramonto, per fornire le tavole con cui portare a termine il veliero di mastro Piet.
 




Capitolo 8

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