Autunno 1745
La mattina del 17 ottobre, un venerdì, la "Venere de Witte" era pronta per il varo, ornata come da tradizione di scampoli di panni di tutti i tipi e dimensioni, da donare ai captivi che vi avevano lavorato.

Quel giorno, visto che il complesso lavoro di costruzione era stato portato a termine nel modo più accurato e puntuale possibile, venne concessa una sosta per il pranzo ben più lunga del solito.

Vestito dei suoi abiti migliori, con un gran cappello ad ampie tese ed una spada finemente cesellata al fianco, Mastro Piet si piazzò in mezzo a due barili sbarcati nella stessa mattinata da una nave mercantile flamin simile alla sua "Venere". Uno conteneva salsicce di maiale affumicate, mentre líaltro era colmo di aringhe in salamoia. Ai lati delle botticelle con il companatico stavano grandi coffe di pagnotte appena sfornate.

Chiamati ad uno ad uno da un hodja che leggeva la lunga lista dei captivi impegnati nel cantiere di Piet de Witte, i cristiani si avvicinarono al mastro díascia e, a seconda dei loro gusti e del loro grado di osservanza religiosa, scelsero le salsicce o le aringhe, di cui ebbero tre pezzi a testa.

Quasi tutti, malgrado fosse venerdì, preferirono le salsicce: molti dei captivi ormai non mangiavano carne di maiale da una vita, e non se ne lasciarono sfuggire líoccasione. Le aringhe le scelsero in pochi, tra cui Diego, Pad e Mickil, Peppe Masso, i pochi musulmani del cantiere e lo stesso Piet, che accompagnarono il pesce con fette di cipolla cruda, alla moda olandese. Quel memorabile banchetto in cantiere fu anche completato da gin a volontà. Soltanto Peppe Masso, incaricato di condurre la squadra di operai addetta al varo, fece giudiziosamente a meno dellíalcool offerto con generosità dal Mastro díascia di Alkmaar, ricevendo líelogio di alcuni mastri tunisini lì presenti ad assistere líevento. Fu in quella circostanza, tra un boccone di pane e aringa e líaltro, che Pad mostrò a Diego un foglietto di carta disegnato a carboncino.

-Akì barco irlandes pìcolo, barco de mi, ? disse a bassa voce, accompagnando con un largo sorriso lo scorrere del dito lungo le linee, disegnate con gran cura, dellíimbarcazione. Era un carrach a cinque posti, leggero e rastremato quel tanto da sfuggire allíinseguimento di qualsiasi altra barca a remi.

-Cuanto tempo a fazir?- chiese Diego facendo sparire lo schizzo dietro la fascia che gli teneva le brache. Quello disegno così bene abbozzato concretizzava prospettive di fuga alle quali il trapanese non aveva mai cessato di pensare da mesi e mesi.

-Una noti. Andar syemi syemi tu, Pepe e irlandes in Siquilliyyah ?

-No tenir dubio, - promise Diego dopo averci pensato per un attimo.

Nel primo pomeriggio vennero in cantiere anche i proprietari della nave, tutti facoltosi cittadini di Tunisi, che portarono datteri e ninnoli díargento per gli schiavi che avevano lavorato con Mastro Piet a fare quella solida, magnifica costruzione. Accanto agli armatori stava il capitano ingaggiato per la prima campagna di guerra da corsa della "Venere de Witte". Si chiamava Skiropulos ed era un greco originario di Rodi, soprannominato Jallah Rais per la straordinaria velocità con cui eseguiva le sue razzie. Era accompagnato da Masino, un giovane ben vestito e curato che, rapito undicenne in una delle frequentissime, rovinose incursioni di quel periodo contro líisola di Ustica, era diventato líinseparabile, gaudente garzon del greco.

Venne infine il momento del varo. Mentre lo scafo scivolava lentamente in acqua, sul veliero venne sgozzato un montone, la cui carcassa fu buttata fuori bordo a tingere il mare di rosso, a simboleggiare il sangue degli infedeli che presto sarebbe stato versato grazie alla guerra di corso in cui certamente quel nuovo scafo si sarebbe distinto.

Ormeggiato che fu il veliero ad una banchina molto frequentata del porto di Tunisi, il capitano Skiropulos alzò una bandiera verde per invitare marinai e giannizzeri ad imbarcarsi come volontari. A loro Jallah Rais prometteva una navigazione senza il puzzo insopportabile dei rematori incatenati ai remi e senza il rischio di troppi corpo a corpo. Forte dei suoi dodici cannoni e delle capaci stive, la nave di Mastro Piet si sarebbe dedicata più a spogliare delle loro merci pregiate i mercantili cristiani incrociati al largo delle isole Eolie che a fare razzie contro i porti e i lidi cristiani.

In un paio di giorni salirono a bordo un centinaio di giannizzeri turchi, per lo più moschettieri, con la loro coperta e la voglia di fare un ricco bottino a spese degli infedeli. Più difficile fu trovare marinai capaci di manovrare scotte, stralli e pennoni senza impiccarsi nellíintrico di tela, cime e pulegge che per gente non usa ai velieri quel nuovo scafo corsaro rappresentava. Dellíequipaggio raccogliticcio che ne risultò, fecero quindi la parte del leone rinnegati rissosi ed abborracciati di vino e gin provenienti dalle più diverse nazioni cristiane.

Per tutta una settimana Mastro Piet spiegò líuso delle numerose manovre fisse e mobili che, con il vento propizio, avrebbero fatto volare sul mare la grande nave a vela. Considerata líeterogeneità e la scarsa perizia dellíequipaggio, líolandese ed il greco síinventarono ordini di manovra del tutto particolari, sfruttando il variopinto armamentario di vele sfoggiato dalla "Venere de Witte". Così sul ponte del veliero si sentirono ordini come: " maina azul debajo" per ammainare la vela latina di mezzana, oppure: "vira rosso alto", per alzare la vela di gabbia.

La "Venere" levò gli ormeggi la domenica successiva al varo. Rimorchiata da uno scafo a remi, giunse in poco tempo allíestremità del canale stretto e lungo che collega Tunisi con il mare aperto, dove fu salutata dalla riva da una folla festosa di proprietari e persone coinvolte a vario titolo nel suo armamento .

Cíera chi aveva venduto un podere per poter finanziare líacquisto di un solo cannone, mentre un gruppo di vedove aveva impegnato i propri gioielli per poter reperire i viveri necessari al primo viaggio della "Venere de Witte". Una paio di armatori, tra cui il padrone di Mickil e Pad, avevano impegnato quasi tutte le loro sostanze nellíimpresa, e guardavano ansiosi lo scafo scivolare davanti ai loro occhi.

Mollato il cavo di rimorchio, marinai e giannizzeri gridarono da bordo:

- Che Allah ci dia velocità!

-Che Allah possa mandarvi buona preda! ? risposero dalla riva i proprietari della nave e i finanziatori della spedizione.

Al che, alzate le vele multicolori con apprezzabile rapidità, la "Venere" diresse la prua verso la Sicilia, spinta da un vento fresco di libeccio.

Nessuno a Tunisi líavrebbe più rivista.

Gennaio 1746

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