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Indice

PARTE I

IL RUOLO DELLA SARDEGNA NELL’ECONOMIA NAZIONALE ED INTERNAZIONALE


Lo scenario

Il recente andamento dell’economia della Sardegna presenta alcuni segnali di cambiamento che lasciano supporre l’esistenza di una svolta positiva del processo di sviluppo economico. I segnali che possono essere colti riguardano sia l’andamento del reddito, sia quello dell’occupazione e, per quanto ancora deboli, lasciano tuttavia ben sperare in un loro consolidamento, quantomeno se saranno accompagnati dalle giuste politiche economiche, sia a livello nazionale, sia soprattutto a livello regionale.

Con riguardo al reddito regionale, l’Istat ha recentemente reso noti i dati ufficiali del quadriennio 1995-98, dai quali risulta un buon recupero della posizione relativa della Sardegna nei confronti del resto del paese e, in particolare, rispetto al resto del Mezzogiorno. Da essi si rileva che il reddito medio regionale ha superato in quel quadriennio il 75% del reddito medio europeo, che costituisce il limite posto dall’Unione Europea per considerare una regione sfavorita dal processo di sviluppo economico e quindi meritevole di essere inclusa nell’obiettivo 1 del Quadro Comunitario di Sostegno.

La decisione finale sull’eventuale esclusione della Regione dai fondi strutturali dopo il 2006 dipenderà ovviamente anche da altri fattori, come ad esempio l’insularità, nonché dall’andamento del reddito regionale negli anni successivi al 1998. Al riguardo, per il biennio successivo già trascorso, si può rilevare che mentre il 1999 è risultato un anno di congiuntura ancora debole, il 2000 è stato invece un anno di buona congiuntura per l’intera Europa e, in misura minore, anche a livello nazionale. Non è da escludere, quindi, che soprattutto nel 2000 la Sardegna abbia accelerato il passo nella convergenza (catching up) della sua economia verso la media nazionale ed europea.

Contrastanti, invece, i segnali sul mercato del lavoro, che nell’ultima rilevazione del mese di aprile 2001 proseguono il trend di ripresa avviato nell’anno in corso per quanto riguarda i dati sull’occupazione, mentre il tasso di disoccupazione, dopo essere sceso al 18,6 nel gennaio 2001, è risalito al 19,2. L’incremento dell’occupazione regionale nel corso del 2000 (media annuale), pari allo 0,2 %, è risultato decisamente inferiore all’incremento medio nazionale (1,9%).

Scende, invece, il numero dei disoccupati ufficiali, dai 132 mila dell’aprile 2000 ai 125 mila dell’aprile 2001 e, corrispondentemente, cala anche il tasso di disoccupazione ufficiale che dal 20,2% passa al citato 19,2%. Delle 125 mila persone in cerca di occupazione, 50 mila sono i disoccupati in senso stretto (che hanno perso un lavoro).

Come detto, questi risultati s’inseriscono all’interno di una congiuntura internazionale in evoluzione, che ha visto il brusco arresto della crescita dell’economia americana nell’ultima parte del 2000 ed in questi primi mesi del 2001. Per contro, ciò ha interrotto la fase di ripresa in corso in Europa, che ha raggiunto il suo culmine proprio nel 2000. Inoltre, la frenata dell’economia americana si sta ripercuotendo in misura particolarmente negativa proprio su quelle economie con elevate esportazioni verso gli Stati Uniti, quali la Germania e il Giappone. La frenata dell’economia tedesca, a sua volta, frena le esportazioni italiane verso quel mercato di sbocco, compromettendo così sul nascere le possibilità di consolidamento dei timidi segnali di ripresa che nel 2000 si erano verificati anche con riguardo al nostro paese.

Le più recenti previsioni economiche, infatti, fanno dipendere proprio dalle possibilità di ripresa dell’economia americana nella seconda metà dell’anno le residue chances di evitare che il 2001 sia ricordato come un anno di congiuntura decisamente sfavorevole a livello internazionale. Esse confermano altresì che a livello internazionale la vera locomotiva dello sviluppo è sempre quella americana e, quando questa si ferma o s’indebolisce, ne risente l’andamento economico di tutti gli altri paesi del mondo, a cominciare proprio dall’Europa e dal Giappone.

L’evoluzione congiunturale internazionale Inizio Pagina

Il quadro economico internazionale, nel secondo semestre del 2000, è andato peggiorando per gli Stati Uniti e migliorando per l’Europa. In particolare, dalla seconda metà del 1999, gli Stati Uniti hanno mantenuto un ritmo di crescita molto sostenuto, che nella prima metà del 2000 ha raggiunto il 5,7% su base annua. Un leggero rallentamento si è, invece, verificato nel corso del terzo trimestre (5,2% su base annua), cui è seguita una frenata più consistente nell’ultimo trimestre dell’anno (3,4%). Di fatto, nel quarto trimestre del 2000 si è verificato il rallentamento dell’eco-nomia americana che gli analisti davano per molto probabile già nella prima metà dell’anno.

Tuttavia, la media annuale per il 2000 vede ancora per questo paese una crescita sostenuta del PIL, pari al 5%. Tale crescita, che in assenza di apprezzabili tensioni inflazionistiche durava ininterrottamente da 10 anni, è attribuita, a parere di molti osservatori, agli effetti dei massicci investimenti in nuove tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni (ICT). Tali investi-menti sono aumentati anche nel corso del 2000 ad un tasso di poco inferiore al 30% annuo, facendo passare la loro incidenza rispetto al PIL dal 2,1% del secondo trimestre del 1991, inizio della fase di espansione americana, al 7,2% del corrispondente periodo del 2000. Nella recente fase di maggiore espansione, che va dal secondo trimestre del 1999 al corrispondente periodo del 2000, il tasso di sviluppo della produttività del lavoro nel settore manifatturiero americano è salito dal 6,3 al 7%.

La frenata dell’economia americana nel quarto trimestre del 2000, peraltro, ha consentito un riavvicinamento dei ritmi di crescita di questo paese con quelli europei, il che ha permesso, a sua volta, un parziale recupero del valore dell’euro nei mercati valutari internazionali. I dati più recenti diramati dall’Eurostat ai primi di marzo di quest’anno sulla produzione europea, infatti, mostrano che questa è cresciuta nella media dell’anno 2000 ad un tasso del 3,4%, anche se in rallentamento nel corso dell’anno. Nel quarto trimestre, infatti, essa si è fermata al 3% su base annua, il che conferma l’effetto negativo di trascinamento dovuto al rallentamento dell’economia americana.
Quest’ultimo rende particolarmente incerte le prospettive del quadro economico internazionale e tale incertezza contribuisce a rendere particolarmente instabili i mercati finanziari.

Vi è il rischio, infatti, che la situazione americana si riveli più difficile da gestire con le consuete leve di manovra della domanda aggregata, quantomeno più difficile di quanto inizialmente previsto. Al riguardo non è di poco conto che alla decelerazione della produzione interna si accompagni una caduta dei corsi azionari, che penalizza i redditi delle famiglie e tende ad accrescere la propensione al risparmio, penalizzando i consumi. Questa evoluzione è naturale per un’economia come quella statunitense, caratterizzata da un forte indebitamento del settore privato e da una propensione al risparmio bassissima, quasi nulla. Purtroppo, però, i suoi effetti negativi tendono a propagarsi alle altre economie, prima tra tutte quella europea, attraverso i mercati borsistici. Perciò, le favorevoli condizioni di sviluppo della domanda interna in Europa non riescono a compensare la correzione al ribasso dei mercati borsistici europei dovuta all’effetto domino negativo della borsa americana.

Inoltre, a risentire di questa situazione, ancora una volta, è l’andamento del tasso di cambio dell’euro, il cui indebolimento rispetto alla valuta americana veniva attribuito in un primo momento all’esistenza dei seguenti tre fattori: la presenza di un ampio differenziale dei tassi reali d’interesse nei due continenti, il vigore del ciclo espansivo americano e la maggiore redditività dell’investi-mento finanziario nel mercato americano. Poiché ora tutti e tre questi fattori sono venuti meno, ci si aspetta nei prossimi mesi una ripresa delle quotazioni dell’euro nei mercati valutari.

Permane, invece, l’andamento pesantemente negativo dell’economia giapponese, mentre sussistono condizioni di debole ripresa nei paesi del terzo mondo. In Giappone, la debole ripresa dell’economia si è arrestata nel terzo trimestre, in un contesto di fragilità finanziaria. Il PIL è sceso, infatti, del 2,4% in ragione d’anno rispetto al periodo precedente. Gli investimenti sono scesi di quasi il 9%, ma quelli pubblici in particolare sono scesi del 36%, mentre ristagnano anche i consumi privati e le esportazioni, che nel terzo trimestre del 2000 sono addirittura diminuite.

Alla fine del 2000, l’accentuarsi delle difficoltà dell’economia e del sistema finanziario giapponese si è ripercosso sul tasso di cambio dello yen, che si è svalutato del 10% nei confronti del dollaro e del 16% nei confronti dell’euro, consentendo così all’economia giapponese di riacquistare parte della competitività perduta nei mercati internazionali. La competitività di questo paese, infatti, è migliorata nel corso del 2000 dell’8%.

Nei paesi emergenti dell’Asia e dell’America latina, la situazione è andata decisamente migliorando, soprattutto nella prima metà del 2000. Ma l’attività è rallentata nella seconda metà dell’anno. In particolare, la situazione sembra essersi normalizzata in Brasile e in Messico, mentre l’Argentina incontra difficoltà a portare a termine le riforme strutturali programmate. Inoltre, a causa del regime di tasso di cambio fisso del peso (la moneta locale) col dollaro, questo paese ha perso quasi il 5% di competitività nel corso del 2000. L’Argentina e la Turchia sono interessate a fenomeni di instabilità finanziaria. In America latina, gli indici azionari sono caduti, rispetto ai valori massimi del marzo 2000, in misura compresa tra il 20 e il 30% in Messico, in Argentina e in Cile, e tra il 5 e il 10% in Brasile e in Colombia.

Nel caso della Turchia, le tensioni sono state temporaneamente contenute dagli interventi della comunità internazionale, ma lo scorso 22 febbraio la pressione sui mercati valutari e finanziari ha costretto le autorità turche ad abbandonare il regime di crawling peg (cambio scorrevole, ovvero sostanzialmente fisso, ma aggiustabile con piccole correzioni), consentendo la libera fluttuazione della lira turca nel mercato dei cambi, che si è immediatamente svalutata del 28%. Per fortuna la
crisi turca non ha avuto effetti di contagio significativi sui mercati finanziari internazionali.

Sono in leggera ripresa, dopo il crollo del 1999, i paesi del Sud-Est Asiatico, mentre viaggia a ritmi molto sostenuti la Cina, con una produzione interna che cresce ad un ritmo dell’8% all’anno. Corea del Sud ed India sono gli altri due paesi asiatici con tassi di crescita del PIL abbastanza significativi, dell’ordine del 5-6% all’anno. In Europa, la Russia sta uscendo dalla crisi del 1999, con una crescita del PIL nel 2000 stimata nell’ordine del 7,5-8%.

Nel complesso, la crescita mondiale verificatasi nel corso del 2000 è avvenuta in condizioni di relativa stabilità dei prezzi. Questi, dopo qualche fase di tensione dovuta all’aumento del prezzo del petrolio, si sono nuovamente stabilizzati sul mercato internazionale, né si intravedono a breve scadenza nuovi motivi di tensione.

L’evoluzione congiunturale in Italia e in Europa Inizio Pagina

L’Istat ha recentemente diffuso le stime ufficiali del prodotto interno lordo (PIL) nazionale e dell’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche per l’anno 2000, rilevanti ai fini del calcolo degli indicatori di convergenza previsti dal trattato di Maastricht. A livello europeo, nel secondo semestre del 2000, la crescita del PIL nell’area dell’euro ha mantenuto un ritmo relativamente sostenuto, pari al 2,6% su base annua rispetto al semestre precedente. Il rallentamento rispetto al 3,6% del primo semestre, cui ha contribuito il rincaro del prezzo del petrolio, è stato nettamente più contenuto di quello registrato dall’economia americana. In Europa, infatti, l’attività economica è stata favorita dagli effetti ritardati del prolungato deprezzamento dell’euro, esauritosi in autunno in concomitanza con la frenata dell’economia americana.

Come si è già posto in evidenza, nella media del 2000 l’aumento del PIL dell’area dell’euro ha raggiunto il 3,4%, circa un punto in più rispetto al 1999. L’accelerazione è dovuta, essen-zialmente, alla domanda estera netta, favorita dalla debolezza dell’euro, che ha contribuito alla crescita per 0,6 punti percentuali. Ma, nel contempo, la debolezza dell’euro e l’incremento del prezzo del petrolio hanno portato il disavanzo corrente della bilancia dei pagamenti dei paesi dell’area da 5,4 a 28,3 miliardi di euro.

Gli elevati ritmi produttivi hanno favorito lo sviluppo dell’occupazione europea, facendo scendere il numero di disoccupati ai livelli più bassi degli ultimi dieci anni. Peraltro, l’andamento del ciclo è risultato simile nei vari paesi dell’area, con un’accentuazione dell’andamento ciclico tra il primo e il secondo semestre in Germania ed una minore accentuazione in Francia, Italia e Spagna.

Nei maggiori paesi dell’area, il reddito reale è cresciuto del 3,2% in Germania e del 3,1% in Francia. Ma nel primo paese, come si è detto, l’accentuazione ciclica è stata maggiore: nel primo trimestre, infatti, la crescita è stata del 3,9% e nel secondo addirittura del 4,8% in ragione d’anno. Nella seconda metà dell’anno, invece, il rallentamento del PIL tedesco è stato molto marcato: 1,1% nel terzo trimestre e 0,8% nel quarto.

A sostenere la crescita in Germania è stata soprattutto la dinamica delle esportazioni, che nel corso del 2000 sono aumentate del 13,2%, crescita che è proseguita anche nel secondo semestre dell’anno, anzi accentuandosi nel quarto trimestre (+19,1% in ragione d’anno), mentre la domanda interna, sia di beni di consumo, sia di beni d’investimento, è stata alquanto fiacca (+2 % nell’intero anno). Peraltro, un’accentuazione significativa, nel corso dell’anno, è stata registrata anche dalle importazioni (+10,2%).

In Francia, invece, la crescita è stata continua e sostenuta durante l’intero anno. Nei quattro trimestri, infatti, si è passati da una crescita del 2,2% nel primo, al 2,8% nel secondo, al 2,4% nel terzo e, per finire, al 3,9% nel quarto. A sostenere tali ritmi di crescita è stata soprattutto la dinamica delle esportazioni, che in questo paese sono aumentate del 13% in ragione d’anno, nonché della domanda interna dei beni d’investimento (+6,5%). Molto più contenuta, invece, è stata la dinamica dei consumi (+2,4%). Infine, le importazioni hanno avuta una dinamica superiore alle esportazioni (+14,2% nella media dell’anno).

Infine, in Spagna la crescita ha mantenuto l’alto profilo degli ultimi anni, nonostante la flessione del secondo semestre abbia interessato anche questo paese. Nella media annuale, questo paese è cresciuto ad un tasso di oltre il 4% all’anno negli ultimi cinque anni. Nel 2000, la crescita del PIL è stata del 4,1% nella media dell’anno, ma tale dato sconta una forte accelerazione nel primo trimestre (+5,6%), con una riduzione intorno al 3% nei successivi trimestri dell’anno. In particolare, nel quarto trimestre del 2000 il tasso di crescita di questo paese (2,9%) è allineato con quello medio italiano e con quello medio dell’intera area dell’euro. In ogni caso, a sostenere la crescita spagnola, più che la domanda estera (le esportazioni sono cresciute del 10,8% e le importazioni del 10,4%) è stata la domanda interna (+4,1%) ed in particolare i consumi delle famiglie, la cui dinamica (+4%) è stata superiore a quella di tutti gli altri maggiori paesi dell’area dell’euro.

In Italia, il valore del PIL italiano ai prezzi di mercato nel 2000 è stato pari a 2.257.066 miliardi di lire correnti, con un aumento del 5,2% in termini nominali rispetto al 1999. In termini reali, invece, cioè depurata dell’inflazione, la crescita è stata del 2,9%, che risulta essere il tasso di crescita più elevato degli ultimi cinque anni. Come nell’insieme dell’area dell’euro, anche in Italia l’accelerazione della crescita del PIL (dall’1,6% registrata nel 1999) è riconducibile alla domanda estera netta, il cui contributo (che nel 1999 era stato negativo per 1,3 punti percentuali) nel 2000 è tornato positivo per 0,6 punti. Con riguardo alla formazione del prodotto, a sostenere la crescita in termini reali del PIL sono stati i settori dei servizi (+3%), dell’industria in senso stretto (+2,7%) e delle costruzioni (+2,6%), mentre il settore dell’agricoltura, silvicoltura e pesca ha fatto registrare una flessione del valore aggiunto (-2,1%).

L’andamento ciclico negativo nel nostro paese è stato marcato soprattutto nel secondo trimestre dell’anno passato, quando il PIL è cresciuto di appena l’1%. La crescita è stata molto sostenuta, invece, nel primo trimestre dell’anno (4,4%) e relativamente buona negli ultimi due trimestri, rispettivamente del 2,4 e del 3%. Alla crescita del prodotto, si è accompagnata una crescita delle importazioni di beni e servizi pari all’8,3%, che ha determinato un incremento delle risorse disponibili pari al 4,1%. L’aumento delle importazioni è stato sostenuto dagli alti ritmi produttivi nei settori caratterizzati da un maggior impiego di input esteri.

Le importazioni di beni sono aumentate del 9,5% in quantità, trainate dall’accelerazione dell’attività produttiva. Più elevata è stata la crescita degli acquisti dai paesi extra UE (+12,3%), in particolare dai paesi dell’Europa dell’Est, che risultano essere un’importante area di delocalizzazione di attività produttive italiane, e dalla Cina, la cui quota di mercato in Italia, in costante crescita dal 1997, ha registrato un eccezionale incremento.

Dal lato degli impieghi, invece, la crescita in termini reali è stata del 2,6% per quanto riguarda i consumi finali nazionali (+2,9% per la spesa a carico delle famiglie residenti, +1,7% per la spesa della pubblica amministrazione e delle istituzioni sociali private) e +6,1% per gli investimenti fissi lordi. La crescita complessiva della domanda è stata contenuta nel 2,3%, in diminuzione rispetto al 3% del 1999. L’accentuato ricorso al magazzino, dopo tre anni di accumulazione di scorte, infatti, ha frenato lo sviluppo della domanda nazionale, cresciuta quindi nel 2000 a un tasso inferiore di circa 0,7 punti percentuali rispetto a quella del 1999.

Le esportazioni di beni e servizi hanno fatto registrare un aumento complessivo del 10,2%, dovuto sia ai beni (9,7%), sia ai servizi (12,4%), per cui, oltre alla domanda interna, anche il saldo con l’estero ha contribuito positivamente alla crescita del PIL in termini reali, con un’inversione di tendenza rispetto agli ultimi tre anni quando i tassi di crescita del PIL sono stati, rispettivamente, del 2% nel 1997, dell’1,8% nel 1998 e dell’1,6% nel 1999.

La crescita delle esportazioni è stata sospinta dai cospicui guadagni di competitività di prezzo sui mercati esterni all’area dell’euro. Essa è tuttavia risultata inferiore a quella del commercio mondiale e delle esportazioni negli altri maggiori paesi, le cui quote di mercato hanno recuperato i livelli del 1997. Nei paesi extra Unione Europea, infatti, le esportazioni italiane sono cresciute del 17,2%. Gli incrementi maggiori si sono verificati soprattutto nei confronti degli Stati Uniti, dell’area asiatica e dei paesi dell’OPEC. Tutti i principali settori esportatori hanno aumentato le vendite in questi paesi ed in particolare i settori tradizionali (tessile, abbigliamento, cuoio e calzature), le cui vendite sono sostanzialmente tornate sui livelli precedenti la crisi asiatica.

La dinamica delle esportazioni italiane negli altri paesi dell’euro, invece, nei cui confronti non si è verificato alcun recupero di competitività di prezzo dovuto alla svalutazione dell’euro, è risultata meno sospinta (+5,9%), soprattutto nei confronti della Germania, nostro principale mercato di sbocco. Perciò è verosimile che la specializzazione produttiva delle imprese italiane si sia rivelata esposta alla concorrenza dei paesi dell’Europa orientale. Le esportazioni italiane in Germania hanno ristagnato (+1,2%), a fronte di un elevato aumento della domanda tedesca di importazioni (+9,7%, con un +13,7% dai paesi dell’UE).

Peraltro, anche in Italia, come nel resto degli altri paesi dell’area dell’euro, i maggiori esborsi relativi alle importazioni nette di minerali energetici (la cui incidenza sul PIL è passata dall’1,2% nel 1999 al 2,3% nel 2000) hanno peggiorato il saldo dell’interscambio commerciale. L’avanzo è sceso a 22.600 miliardi di lire (1% del PIL). Perciò, il concomitante ampliamento del deficit delle partite invisibili (servizi) ha contribuito a determinare, per la prima volta dal 1993, un disavanzo corrente della bilancia dei pagamenti, pari allo 0,4% del PIL.

L’aumento dei consumi privati interni è stato del 3,3%, superiore a quello dei consumi finali delle famiglie residenti. Tale fatto è imputabile ad una dinamica molto positiva dei consumi effettuati dai non residenti a fronte di una diminuzione della spesa all’estero dei residenti. La spesa delle famiglie è cresciuta del 2,9% (contro il 2,3% del 1999), più che in Francia e Germania, ma meno che in Spagna.

Per quanto riguarda gli investimenti lordi, il loro buon andamento è generalizzato a tutti i comparti. Le dinamiche più sostenute, tuttavia, sono state registrate dai beni immateriali (+11,6%), dai mezzi di trasporto (+9,9%) e dai macchinari e attrezzature (6,9%). Più contenuta, invece, è stata la dinamica delle costruzioni (+3,6%). Nella prima metà dell’anno, infatti, quando le aspettative di crescita dell’economia mondiale erano ancora favorevoli, le imprese italiane hanno intensificato l’attività d’investimento, grazie anche alle buone condizioni finanziarie. Successivamente si è verificato un rallentamento, particolarmente brusco negli investimenti in costruzioni.

Con riguardo ai prezzi, c’è da segnalare che nel corso del 2000 si è verificato un aumento del deflatore del PIL del 2,2%, che sale al 2,8% con riguardo alla spesa delle famiglie residenti.
L’inflazione al consumo, invece, è stata del 2,6%. Inoltre, si è verificato un netto peggioramento delle ragioni di scambio con l’estero. I prezzi all’importazione di beni e servizi, infatti, sono aumentati del 12,7% nel corso dell’anno, per effetto sia della crescita dei prezzi dei prodotti energetici, sia della svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro. I prezzi all’esportazione, invece, sono aumentati solo del 6%. Tutto ciò ha favorito il recupero di competitività di prezzo del nostro paese nei confronti dell’estero, che sta alla base, come si è già detto, del miglioramento delle nostre esportazioni nei confronti dei paesi esterni all’area dell’euro. Nei confronti degli altri paesi dell’area, invece, l’Italia ha fatto registrare una perdita di competitività dello 0,5%, mentre la Germania ha guadagnato il 3,6% e Francia e Spagna hanno mantenuto sostanzialmente invariata la loro competitività intraeuropea.

Tuttavia, la pressione al rialzo esercitata dall’aumento del prezzo del petrolio e dal deprezzamento dell’euro è stata contenuta dalla moderazione salariale e dalla crescita della produttività. I margini di profitto nell’industria sono rimasti sostanzialmente invariati. Il divario d’inflazione rispetto alle altre economie dell’area dell’euro si è temporaneamente annullato in autunno. Al netto delle componenti più erratiche dell’indice dei prezzi, esso è tuttavia risultato superiore a mezzo punto percentuale, solo di poco inferiore a quello registrato nel 1999.

Come noto, i dati della contabilità economica nazionale contengono anche i dati sull’occupazione espressa in termini di unità di lavoro equivalenti al netto della cassa integrazione guadagni. Tali dati mostrano che l’occupazione totale nel 2000 è cresciuta in Italia dell’1,5% per le unità di lavoro dipendenti e dell’1,3% per quelle indipendenti. Dal punto di vista settoriale, si è registrata una riduzione dell’occupazione totale nel settore agricolo (-2,4%), un lieve incremento nell’industria in senso stretto (0,1%) ed aumenti più consistenti sia nelle costruzioni (+1,6%), sia nel complesso dei servizi (+2,3%). I redditi da lavoro dipendente nell’intera economia sono aumentati, sempre nel 2000, del 4,5% e le retribuzioni lorde del 4,7%. In particolare, l’aumento delle retribuzioni è stato pari all’1,4% nel settore agricolo, al 2,7% nell’industria e al 5,7% nel settore dei servizi.

La struttura dell’economia: i nuovi dati sul reddito nazionale Inizio Pagina

Di recente, l’Istat ha proceduto ad una revisione generale della contabilità economica nazionale sulla base del nuovo sistema europeo di conti, noto come SEC95. La revisione ha riguardato sia i conti nazionali, sia i conti territoriali compilati a livello regionale. Le serie dei conti economici territoriali secondo il SEC95, relativamente agli anni 1995-1998, sono state rese disponibili definitivamente il 15 marzo 2001. Poiché tali dati sono quelli ufficiali con cui vengono regolati i rapporti delle regioni con l’Unione Europea, quindi sono quelli che fanno testo agli effetti della distribuzione dei fondi strutturali, è opportuno esaminarli con attenzione, anche perché rispetto ai dati del SEC79 i nuovi dati presentano differenze sostanziali, che li rendono inconfrontabili con le vecchie serie.

Un elemento centrale del calcolo del reddito, sia a livello nazionale, sia a livello regionale, rimane l’input di lavoro, che rappresenta l’informazione di base non solo per garantire l’esaustività delle stime del prodotto, ma anche per incorporare nel PIL regionale una stima dell’economia non osservata (economia sommersa). Tale input è stato distinto nelle sue due componenti: quella regolare e quella irregolare, con un livello di attendibilità da indurre l’Istat a promettere la pubblicazione a breve scadenza di stime del lavoro sommerso a livello regionale.

Per la stime dei valori pro capite e del valore aggiunto regionale, inoltre, vengono utilizzati i dati provenienti dalle indagini annuali sui conti delle imprese, che sono stati estesi a tutti i settori dell’attività economica. Ciò rende molto più affidabili le stesse stime, senza dover ricorrere ad integrazioni da altre fonti delle informazioni mancanti.

Per l’anno 1995, le vecchie e le nuove serie si sovrappongono, il che consente di verificare gli effetti della revisione sulle singole variabili macroeconomiche considerate. L’effetto delle modifiche introdotte riguardo alle definizioni e alle classificazioni risulta diversificato da regione a regione, a seconda delle caratteristiche produttive. In particolare, è risultata modificata la graduatoria delle regioni in termini di PIL pro capite, con un ridimensionamento del peso delle regioni del nord-est ed una rivalutazione del peso di quelle nord-occidentali, mentre non ha subito variazioni di rilievo il rapporto tra Mezzogiorno e resto del paese. Il PIL regionale della Sardegna viene rivalutato statisticamente, il che non mancherà di produrre conseguenze rilevanti agli effetti dei rapporti regionali con l’UE.

Come fa notare lo stesso Istat, con l’adozione del SEC95, che è espressamente un sistema di conti nazionali e regionali integrati, la produzione di dati regionali rientra tra i compiti istituzionali dello stesso Istituto di statistica imposti da un regolamento comunitario. Di conseguenza, il problema dell’armonizzazione delle definizioni e dei metodi di stima si pone necessariamente anche nelle analisi territoriali. Peraltro, proprio per l’importanza dei dati regionali agli effetti della ripartizione dei fondi strutturali, è stata compiuta in sede comunitaria un’azione orientata a garantire la confrontabilità delle stime regionali.

L’evoluzione e la struttura economica delle regioni italiane
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Con la disaggregazione dei dati della contabilità nazionale a livello territoriale, è possibile svolgere due ulteriori tipi d’indagine, sfruttando sia i dati sinora resi disponibili dall’Istat, sia quelli resi disponibili da altre fonti. Il primo riguarda l’analisi strutturale del sistema economico italiano a livello regionale e per macroaree (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro e Sud-Isole). L’indagine in questione, che riguarda il PIL regionale e le altre principali macrovariabili legate al reddito regionale, viene condotta sulla base dei conti economici regionali sinora pubblicati dall’Istat. Il secondo tipo d’indagine, invece, cerca di ricostruire l’andamento congiunturale delle macroregioni anche dopo il 1998, utilizzando altre fonti statistiche come i dati dell’ISAE e quelli dell’Unioncamere-Istituto Tagliacarne.

Il quadro della produzione del reddito che emerge a livello disaggregato per regioni mostra una situazione variegata, dove le regioni del nord, ad eccezione della Liguria e del Friuli-Venezia Giulia, hanno un livello medio del PIL per abitante che varia tra i 40 e i 50 milioni di lire. Queste ultime due regioni, invece, sono assimilabili a quelle centrali (Toscana, Marche, Lazio ed Umbria), dove il PIL per abitante varia tra i 30 e i 40 milioni di lire. In questa classifica, la Sardegna fa gruppo con l’Abruzzo e il Molise, dove il PIL per abitante varia tra 25 e 30 milioni di lire. Infine, tutte le altre regioni del Mezzogiorno costituiscono il gruppo di coda, con un PIL per abitante compreso tra 20 e 25 milioni di lire.

Posto uguale a 100 il PIL medio per abitante a livello nazionale, la regione più ricca è la Val d’Aosta, con un indice pari a 137,3, mentre quella più povera è la Calabria, con un indice pari a 61. La prima, quindi, ha un reddito più che doppio della seconda. In questa graduatoria, l’indice corrispondente alla Sardegna è stato di 75,5 nel 1997, anno cui si riferiscono gli altri dati sopra riportati. Nel 1998, tale indice per la Sardegna è salito al 75,9. Per un confronto, la media del Mezzogiorno nel 1997 è pari a 66,9, per cui il PIL pro capite in Sardegna risulta maggiore di quello medio del Mezzogiorno di 9 punti percentuali. A livello di grandi macroaree, il PIL pro capite del Nord-Ovest è pari a 124,5, quello del Nord-Est a 122,7 e quello del Centro a 107,5.

Un interessante elemento di valutazione è costituito dalla scomposizione per macroaree del PIL nazionale e dal corrispondente confronto della distribuzione della spesa privata delle famiglie e di quella pubblica. Con riguardo al PIL del 1998, la sua distribuzione per macroaree vede il Nord-ovest col 32,6%, il Nord-est col 22,4%, il Centro col 20,6% ed il Mezzogiorno col 24,4%.

In termini di spesa delle famiglie per consumi, invece, mentre l’incidenza del Centro è pressoché simile a quella del PIL (20,5%), le incidenze del Nord-ovest (30,2) e del Nord-est (21,3) vengono entrambe ridimensionate a favore del Mezzogiorno (27,9). Nel caso della spesa per investimenti, invece, mentre risulta ridotta rispetto alle corrispondenti incidenze del PIL per le macroaree Nord-ovest (30,8) e Centro (18,8), risulta nel contempo aumentata per le macroaree Nord-est (23,4) e Mezzogiorno (27,1). Ciò significa che, in particolare per il Mezzogiorno, c’è una fetta di risorse non prodotte nell’area che però viene consumata o investita nell’area. Come noto, ciò avviene attraverso vari meccanismi di trasferimento del reddito tra le macroaree, che nel caso della spesa privata delle famiglie e degli investimenti avviene attraverso meccanismi di mercato. Tali meccanismi consentono al Mezzogiorno di avere un tenore di vita, in termini di spesa globale per consumi e per investimenti, più elevato di quello che gli sarebbe consentito dalla sua sola produzione interna e, comunque, più vicino a quello del Centro-Nord.

Oltre ai meccanismi di mercato, però, nella ridistribuzione del reddito tra le macroaree operano in misura ancora più intensa quelli della politica economica attraverso il ruolo giocato dalla spesa pubblica. La spesa delle amministrazioni pubbliche e delle istituzioni sociali private, infatti, si distribuisce per il 24,6% a favore del Nord-ovest, per il 18,6 % a favore del Nord-est e per il 20,4% a favore del Centro, mentre l’incidenza della spesa pubblica a favore del Mezzogiorno sale al 36,4%. Il Mezzogiorno, quindi, rispetto alla sua partecipazione alla formazione del prodotto lordo, partecipa con oltre 3 punti percentuali in più nella distribuzione della spesa privata e con ben 12 punti percentuali in più nella distribuzione della spesa pubblica.

Con riguardo all’andamento congiunturale a livello territoriale, invece, si può notare subito che nel secondo semestre del 2000 la dinamica produttiva del settore manifatturiero delle singole ripartizioni territoriali ha rispecchiato il rallentamento manifestatosi a livello nazionale. Tuttavia, essa è risultata più sostenuta al Centro e in calo nel Nord-Est. Le esportazioni, invece, hanno continuato a crescere anche nel terzo trimestre dell’anno, con una dinamica più accentuata nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord.

Dai dati ISAE sugli indicatori congiunturali nelle macroregioni italiane, il livello della produzione ha subito una decelerazione accentuata alla fine del 1998, soprattutto nel Centro e nel Nord-Ovest. Nel corso del 1999 e nella prima metà del 2000, invece, proprio in queste due macroaree la ripresa è stata più sostenuta, ma con tendenza generale verso il rallentamento nel secondo semestre 2000. Le vendite all’estero delle regioni del Nord-Ovest, sostenute dalle esportazioni di prodotti metalmeccanici, farmaceutici e delle fibre sintetiche e artificiali, sono cresciute in valore del 17,5% nei primi nove mesi dell’anno rispetto allo stesso periodo del 1999, al di sotto della media nazionale (18,6%).
Nella prima metà del 2000, la produzione manifatturiera ha raggiunto livelli assai elevati nel Nord-Est. Successivamente, essa ha registrato un calo, più accentuato in Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia, in linea col rallentamento della domanda individuato dagli indicatori qualitativi dell’ISAE. Nei primi nove mesi del 2000, il valore delle esportazioni delle regioni nord-orientali è risultato più alto del 15,2% rispetto allo stesso periodo del 1999. Solo il settore dei mezzi di trasporto ha fatto registrare tassi di crescita significativamente superiori alla media nazionale, grazie soprattutto all’aumento delle vendite di costruzioni navali.

Nel Centro la crescita nel primo semestre del 2000 rispecchia il valore medio nazionale. Il livello della produzione e della domanda continua a mantenersi stazionario nel terzo trimestre, per accelerare leggermente nel corso del quarto trimestre. Nei primi nove mesi dell’anno, le vendite all’estero hanno fatto registrare una crescita (22,8%) superiore alla media nazionale, grazie all’eccezionale incremento del terzo trimestre (+14,5%). Particolarmente dinamiche in quest’area
sono risultate le esportazioni di prodotti tessili e dell’abbigliamento, del cuoio e delle calzature, che da sole costituiscono un quarto del totale delle esportazioni dell’area, nonché quelle di prodotti chimici di base, di prodotti farmaceutici e di prodotti in metallo.

Nel Mezzogiorno, gli incrementi della produzione industriale sono rimasti regolarmente al di sotto della media nazionale nel biennio 1998-99 e nel primo trimestre del 2000. Solo nel secondo trimestre di tale anno l’incremento della produzione industriale in quest’area ha superato leggermente (5,1%) la media nazionale (5%). Le indagini ISAE segnalano un andamento della produzione sostanzialmente stabile nella seconda parte del 2000. Il dato è confermato dal
sondaggio sulla congiuntura del Mezzogiorno condotto alla fine dell’anno dalla Confindustria, che segnala altresì un aumento del livello degli investimenti nel corso dello stesso anno 2000. Anche l’indagine trimestrale condotta dall’Osservatorio delle piccole e medie imprese del gruppo Banca di Roma conferma che nel secondo semestre del 2000 si è verificata una contenuta crescita della produzione (+0,8%).

Nonostante la decelerazione registrata nel terzo trimestre, nei primi nove mesi del 2000 le esportazioni del Mezzogiorno sono cresciute, rispetto al corrispondente periodo del 1999, nettamente al di sopra della media nazionale (+27,9%). Vi ha contribuito in larga misura l’aumento dei prezzi dei prodotti petroliferi, la cui produzione, conseguente alla raffinazione del greggio, è concentrata prevalentemente in quest’area. Al netto dei prodotti petroliferi, l’incremento delle esportazioni del Mezzogiorno resta tuttavia ragguardevole (+20,5%) ed è dovuto alle vendite di apparecchi elettrici e di precisione, di macchine e apparecchi meccanici e di prodotti metalmeccanici.

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Contabilità economica della Sardegna: produzione e reddito. Inizio Pagina

La nuova serie dei conti economici regionali comprende, per ogni regione del paese, il conto delle risorse e degli impieghi, il conto della distribuzione del PIL, il conto della formazione del valore aggiunto (VA) e i conti della distribuzione dei consumi e degli investimenti per settore e categoria merceologica dei beni e servizi. Altri dati riguardano le retribuzioni lorde, i redditi interni da lavoro dipendente e i contributi sociali effettivi e figurativi, nonché le unità di lavoro totali e gli occupati totali.

Nel complesso, si tratta di una ricchezza di dati di cui si dispone per la prima volta in assoluto, che, insieme alla maggiore articolazione (anche per provincia) dei dati sul mercato del lavoro, consentono di descrivere la situazione economica regionale in modo più approfondito e dettagliato di quanto non fosse possibile in passato. Il limite principale è costituito dal ritardo di due anni con cui i dati relativi al reddito regionale sono stati resi disponibili.

Il processo di revisione condotto dall’Istat, con riguardo al 1995, che costituisce, come si è detto, l’unico anno di sovrapposizione tra le vecchie e le nuove serie di macrovariabili regionali, ha implicato per la Sardegna una leggera rivalutazione del PIL totale ed una contemporanea riduzione della popolazione regionale riferita a tale anno di oltre 20 mila unità, il cui risultato complessivo ha fatto lievitare verso l’alto il PIL per abitante. Per effetto di questa semplice correzione statistica nel 1995 l’incidenza del PIL pro capite regionale sulla media nazionale è così passata dal 74,3 al 74,6%. Per gli anni successivi, il divario tra i recenti dati dell’Istat e quelli forniti a suo tempo dallo Svimez, che peraltro sono stati utilizzati, in assenza di altri riferimenti ufficiali, anche dai precedenti DPEF regionali, si amplificano ulteriormente.

Il PIL regionale della Sardegna a prezzi correnti nel 1998 è stato di 45.186 miliardi di lire (Tav. 1). Aggiungendo le importazioni nette di beni e servizi, pari a 7.988 miliardi, si arriva a un totale di risorse regionali disponibili di 53.174 miliardi, che sono state così ripartite dal lato degli impieghi:
42.102 miliardi (79,2%) in consumi finali interni e 11.072 miliardi (20.8%) in investimenti, inclusa la variazione delle scorte. In particolare, la spesa per consumi finali delle famiglie è risultata di 29.884 miliardi (56,2% del totale delle risorse), mentre la spesa delle amministrazioni pubbliche e delle istituzioni sociali private è stata di 12.217 miliardi (23% del totale delle risorse).

I corrispondenti valori a prezzi costanti 1995 consentono di vedere la dinamica delle macrovariabili regionali in termini reali, cioè depurata dalla variazione dei prezzi (Tav. 2). Si scopre così che il PIL reale è rimasto pressoché stazionario nel 1996, con un incremento quasi insignificante dello 0,04% (valore nazionale 1,1%), mentre è cresciuto più della media nazionale nel 1997 (3,9% contro 2%) e nel 1998 (1,9% contro 1,8%). Tali dati confermano l’elevata imprecisione delle previsioni a suo tempo formulate da vari organismi pubblici e privati con riguardo al PIL regionale, che per entrambi gli anni davano tassi di crescita significativamente inferiori.

Dal conto della distribuzione del PIL (Tav. 3), emerge che per il 1998 alla formazione di tale aggregato hanno contribuito i redditi da lavoro dipendente per 18.583 miliardi di lire (41,2%), il risultato lordo di gestione ed i redditi misti di lavoro e capitale per 19.993 miliardi (44.2%) e le imposte indirette nette per 6.610 miliardi (14,6%).
Il dato più significativo di contabilità regionale è ovviamente il reddito pro capite o PIL pro capite (Tav. 4), i cui valori per il quadriennio 1995-98 sono riportati nella tabella 1 seguente, dove i dati regionali sono messi a confronto con quelli medi nazionali. In tale tabella, ai dati ufficiali ISTAT, che arrivano sino al 1998, sono stati aggiunti i dati di fonte SVIMEZ relativi al biennio 1999-2000.

Tab.1 – Confronto tra il PIL pro capite in Sardegna ed in Italia

(Lire a prezzi correnti)     
Anno
Sardegna
Italia
Rapporto
Sardegna/Italia %
1995
23.270.900
31.191.200
74,6
1996
24.431.300
33.142.500
73,7
1997
26.035.300
34.494.500
75,5
1998
27.253.100
35.905.100
75,9
1999
28.276.200*
37.209.000
76,0
2000
29266.200*
39.076.600
74,9
Fonte: ISTAT; *Dato SVIMEZ

Tab.2 – Rapporti caratteristici tra PIL pro capite espressi in euro

Anno
Rapporto Sar/Ita %
PIL espresso in lire
Rapporto Sar/EU-15%
PIL espresso in euro*
Rapporto Sar/EU-15
Prezzi espressi in euro
1995
74,6
82,8
61,7
1996
73,7
91,4
67,4
1997
75,5
92,0
69,5
1998
75,9
91,2
69,2
1999
76,0
89,9
68,3
2000
74,9
88,7
66,4
* Fonte: Economie Européenne, 2000, n. 70.

Il PIL pro capite della Sardegna nel 1998 è stato di poco superiore ai 27 milioni di lire, pari a poco meno del 76% del reddito medio nazionale. Come si desume dall’ultima colonna della tabella 1, l’incidenza del reddito regionale sulla media nazionale è andata aumentando nel quadriennio considerato, ad eccezione del 1996 che, come si è già detto, è risultato un anno di crisi (a crescita nulla) per la Sardegna. Secondo la SVIMEZ, il PIL pro capite regionale nel 2000 è stato di poco superiore ai 29 milioni di lire.

Applicando all’ultima colonna della tabella 1, che riporta l’incidenza percentuale del PIL pro capite regionale su quello nazionale, la colonna dei corrispondenti rapporti tra il PIL pro capite nazionale e quello medio europeo, dove i valori rapportati in questo caso sono dati ufficiali espressi in euro, si ottengono i rapporti di incidenza, nei vari anni, del reddito regionale su quello medio europeo. Questo risultato è riportato nell’ultima colonna della tabella 2.

Come si è detto nel DPEF 2001-2003, quando si fanno confronti internazionali sui livelli del reddito pro capite, i paragoni possono essere falsati dal differente potere d’acquisto delle monete implicate nel calcolo, per cui l’Unione Europea trasforma le statistiche sul reddito dei vari paesi espresse in euro ricalcolandole in termini di parità di potere d’acquisto (PPA).

Tab.3 –Rapporti caratteristici tra PIL pro capite espressi in parità
di poteri d’acquisto (PPA)

Anno
Rapporto Sar/Ita %
PIL espresso in lire
Rapporto Sar/EU-15%
PIL espresso in PPA*
Rapporto Sar/EU-15
Prezzi espressi in PPA
Rapporto Sar/EU-15
Medie mobili triennali
1995
74,6
82,8
61,7
1996
73,7
91,4
67,4
76,7
1997
75,5
92,0
69,5
76,5
1998
75,9
91,2
69,2
76,4
1999
76,0
89,9
68,3
76,5
2000
74,9
88,7
66,4
* Fonte: Economie Européenne, 2000, n. 70.

Le statistiche sul reddito così ricalcolate sono diventano la base ufficiale per le decisioni della Commissione Europea, tra cui quella più importante riguarda l’individuazione delle aree e regioni d’intervento a favore delle quali indirizzare l’uso dei fondi strutturali nell’ambito del Quadro Comunitario di Sostegno (QCS). In particolare, la Sardegna è interessata dai finanziamenti che nell’ambito di tale Quadro affluiscono all’interno dell’Obiettivo 1, che riguarda tutte le regioni in
ritardo di sviluppo, dove l’inserimento nell’Obiettivo 1 è riconosciuto solo a quelle regioni che non raggiungono il 75% del reddito medio pro capite comunitario espresso in PPA. Quest’ultima percentuale, quindi, diventa molto importante perché costituisce il fatto discriminatorio per l’accesso ai finanziamenti dei fondi strutturali.

Nel confronto con la media europea, in termini di potere d’acquisto il reddito italiano nel 2000 è valutato circa dieci punti percentuali in più; ciò significa che con gli stessi euro mediamente si acquista in Italia il 10% di beni in più rispetto alla media europea. Come si può notare dalla quarta colonna della tavola 3, il rapporto in questione si mantiene costantemente al di sopra del 75%, ad eccezione del 2000 quando ricade al 74,1%. Ciò significa che la Sardegna rischia di non avere più il presupposto del reddito per restare inclusa tra le regioni dell’obiettivo 1 del QCS.

Contabilità economica della Sardegna: valore aggiunto, consumi e investimenti.

Nel SEC95, viene introdotto il nuovo concetto di valore aggiunto ai prezzi base. I prezzi base includono i contributi ai prodotti ed escludono l’IVA e le altre imposte indirette sugli stessi prodotti.
Determinante per l’espressione del valore aggiunto ai prezzi base, quindi, è la distinzione, richiesta dalla Comunità Europea, tra contributi ai prodotti ed altri contributi alla produzione. Tra i contributi ai prodotti rientrano gli aiuti della nuova PAC (politica agricola comunitaria) ai seminativi (cereali, semi oleosi ed altri) e alla produzione di olio d’oliva, nonché i premi per bovini e ovicaprini ed altri premi. Rientrano, invece, tra i contributi alla produzione i contributi in conto interessi, quelli per calamità naturali e gli aiuti nazionali e regionali all’agricoltura. Nei settori extragricoli, rientrano tra i contributi ai prodotti quelli per il tabacco, bieticoltura, vino (mosti), ammassi, trasformazione di pomodoro, frutta, vini (distillazione), le compensazioni finanziarie, le restituzioni alle esportazioni ed altri contributi vari.

Perciò, il valore aggiunto ai prezzi base (VApb) include i contributi ai prodotti ed esclude le imposte indirette sui prodotti. Includendo, invece, queste ultime ed escludendo i contributi ai prodotti, si ritorna al concetto di PIL. In pratica, se dal valore del PIL regionale, che nel 1998 era, come si è detto, pari a 45.186 miliardi di lire, si toglie l’IVA e le altre imposte indirette, comprese le imposte sulle importazioni, al netto dei contributi ai prodotti, che nel 1998 erano di 5.419 miliardi di lire, si ottiene il valore aggiunto regionale ai prezzi base, che nel 1998 è stato di 39.766 miliardi di lire. Come noto, il valore aggiunto include solo i beni di consumo e d’investimento finali, ma non i consumi intermedi. Esso corrisponde al valore della produzione e, quindi, del reddito che si forma in ognuno dei settori produttivi.

Riferendo l’esposizione all’ultimo anno di cui si dispone dei dati, cioè il 1998, il valore aggiunto del settore agricolo è risultato leggermente inferiore ai 2.000 miliardi di lire (Tav.5). Perciò, il contributo di questo settore al VApb regionale è stato del 5%, con un’occupazione del 9,1% dell’occupazione totale regionale. A livello nazionale, l’incidenza del VApb è del 3%, quindi ancora inferiore a quella regionale.

In particolare, alla produzione agricola regionale contribuiscono, con un’incidenza leggermente inferiore al 50%, le coltivazioni agricole e con un’incidenza leggermente superiore al 50% l’allevamento. Quasi insignificante risulta, invece, il contributo alla produzione della silvicoltura e della pesca. Tra le coltivazioni, il contributo maggiore alla produzione (circa il 40%) è dato dalle patate e dagli ortaggi, dalle foraggiere (11%) e dai prodotti vitivinicoli (11%). Tra i prodotti di allevamento, infine, le incidenze maggiori si registrano per le carni e il latte.

Le differenze sostanziali tra la struttura del sistema produttivo regionale e quello nazionale si verificano soprattutto nel settore industriale e nella pubblica amministrazione (PA). Il primo è sottodimensionato rispetto a quello nazionale, la seconda è sovradimensionata. Il VApb del settore industriale in Sardegna, infatti, è di poco inferiore ai 6.000 miliardi di lire, pari al 14,4% del totale del VApb regionale. La corrispondente incidenza media nazionale è invece del 24%, ma nell’Italia Nord-Occidentale essa sale al 30%. In particolare nell’industria manifatturiera, l’incidenza del VApb è di poco superiore al 10% a livello regionale, mentre la media nazionale è del 21,3% e nell’Italia Nord-Occidentale essa è di oltre il 27%, cioè quasi tre volte maggiore di quella regionale.
Il VApb della PA in Sardegna, invece, è pari a 11.215 miliardi di lire. Esso incide a livello regionale per oltre il 26% sul valore aggiunto totale, mentre nella media nazionale esso incide solo per il 18,5%. In particolare, sussistono le seguenti differenze tra i valori regionali e quelli medi nazionali riportati tra parentesi: nella pubblica amministrazione in senso stretto, inclusa la difesa e l’assicurazione sociale obbligatoria, l’incidenza del VApb regionale è del 9% (media nazionale 5,7%), nell’istruzione è di poco superiore all’8% (5%), nella sanità e altri servizi sociali è di poco superiore al 6% (4,6%), mentre negli altri servizi pubblici, sociali e personali è del 2,8% (3,3%).

Un quarto del valore aggiunto, sia a livello regionale, sia a livello nazionale, è prodotto dal settore del commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni. In valori assoluti il VApb regionale di questo settore ammonta ad oltre 10.000 miliardi di lire. Identicamente, non ci sono grandi differenze nelle incidenze del VApb degli altri settori. In particolare, il settore dell’intermediazione monetaria e finanziaria e delle attività immobiliari ed imprenditoriali incide in
Sardegna per quasi il 23%, pari a 9.450 miliardi di lire, mentre a livello nazionale esso incide per poco più del 19%; infine, il settore delle costruzioni incide in Sardegna per oltre il 7%, mentre a livello nazionale per meno del 5% (Tavv.5 e 6).

Come si è già detto, i consumi delle famiglie in Sardegna nel 1998 sono risultati pari a 29.884 miliardi di lire (Tavv.7 e 8), corrispondenti a un consumo medio per abitante di 18 milioni di lire.

Poiché il consumo medio delle famiglie a livello nazionale è di 21,4 milioni, l’incidenza del consumo medio regionale delle famiglie rispetto al corrispondente dato nazionale è dell’84%, cioè superiore di 8 punti percentuali alla corrispondente incidenza del PIL pro capite regionale su quello nazionale (75,9%). I consumi pubblici pro capite a livello regionale, pari a 7,2 milioni, sono invece superiori al corrispondente dato medio nazionale, pari a 6,5 milioni. Sommando le due categorie di consumi ed aggiungendo anche i consumi delle istituzioni sociali private, risulta che il consumo totale regionale pro capite, come si è già detto al paragrafo precedente, è di 25,4 milioni, contro i 28 milioni del consumo totale pro capite nazionale, con un’incidenza del 90,1% del primo dato sul secondo.
Detto in altri termini, ogni sardo produce mediamente il 76% della produzione media di ogni italiano, ma consuma il 90% del consumo medio di ogni italiano.

Questo dato può essere interpretato come un indice del benessere medio o livello di vita della popolazione. Si può, cioè, sostenere che il livello di benessere medio della popolazione regionale è circa il 90% del corrispondente livello medio nazionale, nonostante che il reddito medio regionale sia solo i tre quarti di quello medio nazionale. Come si è già detto nel paragrafo 2.2.4., la spiegazione di questo apparente paradosso sta nei trasferimenti di reddito dalle regioni più sviluppate a quelle meno sviluppate, compiuti sia attraverso meccanismi di mercato, sia attraverso la ridistribuzione del reddito operata dalla pubblica amministrazione per il tramite della spesa pubblica.

Per quanto riguarda la distribuzione della spesa delle famiglie per categorie merceologiche, le voci più consistenti sono i generi alimentari e bevande non alcoliche (5.054 miliardi), le spese per l’abitazione, elettricità, gas ed altri combustibili (5.736 miliardi), i trasporti (4.573 miliardi), i mobili, elettrodomestici, articoli vari e servizi per la casa (2.849 miliardi) e il vestiario e calzature (2.570 miliardi).

La distribuzione della spesa della PA, invece, riguarda prevalentemente la sanità (3.000 miliardi) e l’istruzione (3.478 miliardi). Altre voci consistenti sono i servizi generali (1.478 miliardi), l’ordine pubblico e la sicurezza (1.241 miliardi) e gli affari economici (1.208 miliardi).

Gli investimenti fissi lordi in Sardegna nel 1998 sono ammontati a 10.754 miliardi di lire (Tavv.9 e 10), di cui le componenti principali riguardano l’industria in senso stretto (2.416 miliardi), l’intermediazione monetaria e finanziaria e le attività immobiliari e imprenditoriali (3.070 miliardi), il commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni (2.092 miliardi) e la pubblica amministrazione (2.088 miliardi). Per branca produttrice, gli investimenti totali si ripartiscono in 5.442 miliardi nel settore delle costruzioni e 5.312 miliardi nel settore delle macchine, attrezzature, mezzi di trasporto e altri prodotti. Infine, gli investimenti nel settore agricolo sono risultati pari a 841 miliardi.

Come si è posto in evidenza nel paragrafo precedente, il PIL regionale (45.186 miliardi) si ripartisce, nel conto della distribuzione del prodotto interno lordo (Tav.3), in redditi da lavoro dipendente (18.583 miliardi), imposte indirette nette (6.610 miliardi) e risultato lordo di gestione (19.993 miliardi). Quest’ultimo include anche i redditi misti da lavoro e capitale.
I redditi da lavoro dipendente, a loro volta, possono essere scomposti in retribuzioni lorde (13.800 miliardi) e contributi sociali effettivi e figurativi (4.783 miliardi). Ciascuno di questi aggregati, poi, può essere scomposto per ramo e branca di attività economica (Tavv.12 e 13). Si scopre così che il 46,5% dei redditi da lavoro dipendente (8.649 miliardi su 18.583) sono erogati dalla pubblica amministrazione in senso lato, compresa cioè l’istruzione, la sanità e i servizi sociali. Gli altri redditi da lavoro dipendente ammontano a 3.726 miliardi (20% del totale) nel commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni, a 2.068 miliardi (11%) nell’interme-diazione monetaria e finanziaria, attività immobiliari ed imprenditoriali, a 2.741 miliardi (14,8%) nell’industria in senso stretto e a 442 miliardi (2%) in agricoltura, silvicoltura e pesca. Proporzioni simili si ripetono anche per la distribuzione per branche delle retribuzioni lorde e per i contributi sociali effettivi e figurativi.

La produttività del lavoro Inizio Pagina

Come noto, insieme ai dati di contabilità nazionale e regionale, l’Istat pubblica anche i dati relativi alle unità di lavoro totali e agli occupati totali, suddivisi in dipendenti ed indipendenti. Ciascuno di tali aggregati, inoltre, è suddiviso per branca e ramo di attività economica. In tal caso, l’unità di misura è costituita dall’unità di lavoro standard (ULA). Le unità di lavoro totali esprimono le unità di equivalenza a tempo pieno, cioè riducono il numero totale di lavoratori ad unità di lavoro standard.

Tra i dati delle unità di lavoro totali, calcolate incrociando le informazioni di contabilità nazionale con quelle dei censimenti e delle indagini campionarie sulla rilevazione delle forze di lavoro, di cui si parlerà più diffusamente al prossimo paragrafo, e quelli relativi alle stesse indagini campionarie, sussistono talvolta ampie differenze, come nel caso della Sardegna. Ad esempio, con riguardo alla media del 1998, tale differenza è costituita da 35 mila unità lavorative registrate in meno dalla
contabilità regionale rispetto al totale delle forze di lavoro emergente dalle indagini campionarie.
Come si vede, la differenza non è di poco conto e ridimensiona notevolmente la misura del tasso di disoccupazione nella sua espressione tradizionale. La differenza tra unità di lavoro ed occupati totali, infatti, si riduce ad appena il 3% del totale delle unità di lavoro.

In totale, le unità di lavoro nella media annuale del 1998 in Sardegna, infatti, si sono ragguagliate a 564,6 mila, di cui 181 mila (32% del totale) riferibili al settore della PA in senso lato, includente l’istruzione, la sanità, l’assicurazione sociale obbligatoria e gli altri servizi pubblici sociali e personali.
Circa 154 mila unità sono presenti nel settore del commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni, mentre una cifra variabile tra 60 e 65 mila unità è presente in ciascuno degli altri settori più importanti: 61 mila in agricoltura, 65 mila nell’industria in senso stretto e 62 mila nelle attività d’intermediazione monetaria e finanziaria e nelle attività immobiliari ed imprenditoriali (Tavv.14, 15 e 16).

Dividendo il PIL per le unità di lavoro totali, si ottiene il PIL per occupato, che costituisce la misura della produttività del lavoro. Il valore riferito alla Sardegna nel 1998 è risultato di 80 milioni, contro i 90.2 milioni del corrispondente dato medio nazionale (Tav.4). Ciò significa che la produttività media del lavoro in Sardegna è pari all’88,7% di quella media nazionale.

Nello stesso anno, gli occupati totali in Sardegna risultanti dai dati della contabilità regionale sono stati 547,6 mila, di cui 390,6 mila dipendenti e 157 mila indipendenti. La distribuzione degli occupati per branca e ramo di attività economica rispecchia essenzialmente quella delle unità di lavoro (Tavv.17, 18 e 19).
Anche i dati elaborati da fonte Svimez relativi al CLUP regionale (costo del lavoro per unità di prodotto, ottenuto dividendo, per ogni unità di lavoro, il reddito con il valore aggiunto), rilevano un crescente svantaggio competitivo dell’isola rispetto al Centro-Nord per tutta la seconda metà degli anni ‘90.

Il mercato del lavoro in Sardegna Inizio Pagina

Come si è posto in evidenza nel DPEF 2001-03, un indicatore che nel mercato del lavoro regionale si mantiene relativamente stabile è costituito dal tasso di attività, cioè dal rapporto tra le forze di lavoro e la popolazione totale da 15 anni in su. Questo indicatore, che può essere interpretato come una misura sintetica dell’offerta di lavoro, relativamente alla popolazione residente, oscilla in Sardegna intorno a valori compresi tra il 45-46% sin dalla seconda metà degli anni ‘70. Esso ha raggiunto la punta massima del 50% nel 1992, per poi ridiscendere ai suoi livelli abituali al di sotto del 47%. Negli ultimi anni, la punta massima è stata toccata nell’aprile 1999, con un valore del 46,9%, ma nella media del 2000 il suo valore è ridisceso al 46,5% (Tab.4). Il tasso di attività a livello nazionale, invece, è del 48,2%, ma nel Mezzogiorno esso scende al 43,9%.

In valori assoluti, le forze di lavoro rilevate nell’Isola nella media 2000 sono risultate pari a 649 mila unità, con una tendenza verso la diminuzione rispetto al valore medio registrato nel 1997, ma in aumento rispetto al valore del 1998. Di queste, solo 515 mila unità sono risultate occupate nella media del 2000, con un tasso di occupazione totale (rapporto tra occupati e totale della popolazione di 15 anni e oltre) del 36,9%. Quest’ultimo dato può essere confrontato col tasso di
occupazione medio nazionale del 43,1% e con quello del Mezzogiorno del 34,6%.

Il tasso di occupazione può essere considerato come un indicatore sintetico della domanda di lavoro, sempre in relazione alla popolazione potenzialmente attiva. Il tasso di occupazione riferito alla principale classe di età, cioè a quella compresa tra i 15-64 anni, in Sardegna è diminuito dal 46,5% nel 1977 al 42,2% nel 1998, in ciò assecondando una tendenza generale verso la diminuzione presente in questo periodo anche in Italia e, più in generale, nell’intera Europa. Negli ultimi due anni, però, esso è risalito al 43,9% nel 1999 e al 44,2% nel 2000. L’attuale tasso di
occupazione in Sardegna implica che su quattro persone in età compresa tra 15-64 anni, lavorano solo 1,8 persone, mentre lo stesso dato in Italia è pari a 2, in Europa è pari a 2,5 e negli Stati Uniti è pari a 3. Rispetto al totale della popolazione al di sopra dei 15 anni, il tasso di occupazione in Sardegna nel 2000 è risultato, come si è già detto, pari al 36,9%, il che significa che mediamente ogni lavoratore sardo ha a carico altre due persone (Tab.5).

La maggiore evidenza delle debolissime condizioni del mercato del lavoro regionale sono sintetizzate dal tasso di occupazione ancora meglio di quanto non faccia il tasso di disoccupazione, di cui si parlerà tra breve, anche se le sue più recenti evoluzioni mostrano una leggera tendenza al rialzo. Nel 1999, infatti, il tasso di occupazione regionale si è attestato, come si è detto, sul 43,9%, con un recupero di 1,7 punti percentuali sul 1998, che rispecchia un recupero analogo verificatosi anche a livello nazionale (dal 50,8 nel 1998 al 52,5% nel 1999). Nel 2000 si è verificato un ulteriore leggero recupero, che ha portato il valore del tasso di occupazione in Sardegna al 44,2%.
Tale incremento riguarda essenzialmente le classi di età giovanili, dai 15 ai 25 anni, dove tale tasso è aumentato dal 15,4% nel 1999 al 17,5% nel 2000, mentre per le classi più anziane il tasso in questione è leggermente diminuito (Tab.6).

Peraltro, la scomposizione di questo indicatore per genere e classi di età conferma che anche in Sardegna il problema occupazionale riguarda essenzialmente i giovani e le donne, mentre per quanto riguarda i maschi della fascia principale di età (30-64 anni) il problema si presenta relativamente meno drammatico. Il corrispondente tasso di occupazione regionale di questa classe di età, infatti, nel 2000 si è attestato sul 73,3%, con un leggero incremento sul 1999, contro un livello di poco superiore nella media nazionale (76,9%) e, tutto sommato, non molto discosto dalla media europea. Le differenze, anche molto consistenti, sorgono invece con riferimento all’occupazione giovanile e femminile. Per quanto riguarda i giovani, ovvero la classe di età compresa tra 15-24 anni, il tasso di occupazione medio in Sardegna nel 2000 è risultato del 17,5%, in crescita rispetto al 15,4% del 1999. Esso risulta, però, di molto inferiore al corrispondente tasso nazionale (26%) e notevolmente inferiore a quello europeo (38%), per non parlare di quello medio statunitense (52%).

Per le donne, poi, il tasso di occupazione complessivo è prima migliorato, passando dal 26,4% nel 1998 al 28,2% nel 1999, ma poi è ridisceso al 27,5% nel 2000. Ciò testimonia del fatto che la situazione del mercato del lavoro femminile in Sardegna resta molto debole. Di fatto, mediamente solo una donna su quattro lavora in Sardegna, mentre in Italia il tasso di occupazione femminile è superiore di dieci punti percentuali a quello regionale (39,6%) ed in Europa esso supera il 50%. Per non parlare degli Stati Uniti, dove il tasso di occupazione femminile è del 68%. Tra le giovani donne 25 (classe di età 15-24 anni), infine, solo il 12% risultano occupate in Sardegna, contro valori medi pari al 22,1% in Italia, 33% in Europa e 52% negli USA.

Peraltro, la distribuzione settoriale dell’occupazione in Sardegna mostra una netta prevalenza dell’occupazione nel settore dei servizi (68,7% nella media del 2000), di cui il 16,5% riguarda il settore del commercio. Scarso risulta il contributo degli altri settori, suddiviso tra il 9,1% in agricoltura, il 9,5% nell’industria in senso stretto e l’11,1% nel settore delle costruzioni. In valori assoluti, l’occupazione regionale nel 2000 si è attestata sulle 515 mila unità, meno di un terzo dell’intera popolazione.

Come si è detto, il totale degli occupati in Sardegna nella media del 2000 è risultato di 515 mila unità. Di questi, 470 mila sono risultati occupati a tempo pieno, mentre 45 mila unità sono risultate occupate a tempo parziale, pari all’8,7% (media nazionale 8,4%) del totale degli occupati. In particolare, l’occupazione a tempo parziale è stata di 4 mila unità in agricoltura, 7 mila unità nell’industria e 34 mila unità nei servizi.

Alla debolezza del mercato del lavoro regionale in termini di tasso di occupazione fa da riscontro altrettanta debolezza in termini di tasso di disoccupazione. In valori assoluti, le persone in cerca di occupazione in Sardegna nella media del 2000 sono risultate, come si è detto, pari a 134 mila unità, corrispondenti al 20,6% del totale delle forze di lavoro. Nella drammaticità di questo dato, un aspetto, se così si può dire, ancora più drammatico è costituito dal fatto che per la maggior parte si tratta di disoccupazione di lunga durata (oltre i due anni). Quest’ultima, infatti, è pari a 86 mila unità (64% della disoccupazione totale). Solo 28 mila unità sono considerate disoccupate di durata breve (sotto un anno) e 18 mila di durata media (tra uno e due anni). Se poi si tiene conto che oltre alle 134 mila persone alla ricerca attiva di un lavoro se ne aggiungono altre 130 mila che, pur non facendo parte delle forze di lavoro, tuttavia cercano ugualmente un’occupazione anche se in maniera non attiva (48 mila) o essendo disposte a lavorare solo a determinate condizioni (82 mila), se ne conclude che l’attuale situazione del mercato del lavoro regionale, quanto al fenomeno disoccupazionale, sia ancora abbastanza preoccupante.

Il problema della disoccupazione si è andato aggravando in Sardegna dopo il 1978. Sino a tale anno, infatti, il tasso di disoccupazione era ancora contenuto al di sotto del 12%. A partire dal 1979, invece, esso balza subito oltre il 14% e va continuamente crescendo negli anni successivi, sino a raggiungere il 21,5% nel 1985, per poi rimanere su livelli compresi tra il 18 e il 21% negli ultimi quindici anni. Nella media del 1999, esso si è attestato proprio al livello del 21%, dove in
pratica sosta dal 1995, mentre nella media del 2000 si è verificata una leggera diminuzione al 20,6% (Tav.6). Si tratta di un livello allineato col corrispondente dato del Mezzogiorno e doppio rispetto al dato medio nazionale (10,6%).

Anche con riferimento a questo indicatore del mercato del lavoro, il dato medio in realtà nasconde una varietà di situazioni molto più articolata. Come si è già visto per la debolezza del tasso di occupazione, infatti, anche il problema della disoccupazione riguarda molto meno i maschi della principale classe di età (30-64 anni), mentre si concentra per lo più sui giovani e sulle donne. Per i primi, dopo un peggioramento dal 9,1% nel 1998 al 10,5% nel 1999, è seguito un netto miglioramento al 9% nel 2000. Anche il tasso di disoccupazione della classe di età 15-24 anni è 26 migliorato, passando dal 47,7% nel 1999 al 44,4% nel 2000, mentre è rimasto invariato il tasso di disoccupazione della classe 25-29 anni al 35,6%.

Per le donne, invece, la situazione si presenta veramente drammatica, con un valore medio del tasso di disoccupazione che si mantiene costante intorno al 30% negli ultimi tre anni, ma che diventa del 65,2% per le giovani nel 1999, sceso al 62,3% nel 2000. Per la classe di età 15-24 anni, peraltro, non ci sono grandi differenze tra maschi e femmine ed il dato disoccupazionale medio si attesta oltre il 55% nel 1999, scendendo al 52,1% nel 2000.
In valori assoluti, la disoccupazione in Sardegna ha subito un aumento nel biennio 1998-’99. Si è passati, infatti, da un numero di disoccupati dell’ordine di 130-135 mila unità nel biennio 1997-’98 a 142 mila unità nel 1999, confermando così la tendenza al peggioramento già posta in evidenza dall’esame del tasso di disoccupazione. Nel 2000, invece, si è verificato un calo della disoccupazione assoluta di circa 8.000 unità. Nella media dell’anno, infatti, il numero di disoccupati è risultato di 134 mila unità.

Con riguardo alla più recente dinamica settoriale, il settore più dinamico è quello dei servizi, il quale è passato da 301 mila occupati del 1993 ai 354 mila dello scorso gennaio, con un incremento di 51 mila posti (+17% in sette anni). Dopo sei anni di costante discesa, inoltre, nel gennaio 2001 inverte la sua tendenza occupazionale anche il settore industriale, che aumenta l’occupazione di 8 mila unità rispetto al gennaio 2000.
In costante calo, infine, il settore agricolo, che a gennaio scorso ha registrato un’occupazione di appena 46 mila unità, circa mille unità in meno della media del 2000. Rispetto al 1993, la flessione dell’occupazione in questo settore è di 14 mila persone, con un calo del 23,3%. In questo periodo, cioè, un lavoratore su quattro ha abbandonato il settore agricolo in Sardegna.

Le previsioni di evoluzione della congiuntura a breve scadenza Inizio Pagina

La prossima congiuntura internazionale

Come si è detto nei paragrafi precedenti, il quadro congiunturale nei primi mesi del 2001 sta evolvendo significativamente, se non proprio verso una recessione, certamente verso un forte rallentamento dell’espansione del reddito e dell’occupazione. Il picco superiore del ciclo è stato raggiunto tra il secondo ed il terzo trimestre del 2000, mentre il rallentamento, iniziato come si è visto già nel quarto trimestre dell’anno scorso, sta proseguendo nel corso dei primi mesi del 2001.

Segnali inequivocabili di tale rallentamento sono costituiti, oltre che dalle previsioni dei principali istituti di ricerca, anche dal crollo nel mese di marzo dell’indice del clima di fiducia delle imprese sia in America, sia in Europa ed, in particolare, nell’Area dell’euro. Altri segnali sono costituiti dal forte calo degli ordini di beni durevoli negli Stati Uniti e, in Italia, dalla diminuzione del fatturato e degli ordinativi dell’industria nei primi mesi dell’anno.

Nei primi mesi dell’anno in corso sembrava che la crisi americana potesse lasciare indenne l’Europa, ma col trascorrere del tempo è apparso sempre più chiaro che il rallentamento degli Stati Uniti si potrà riflettere in misura sempre più pesante sul tasso di crescita dell’Unione Europea. Così, man mano che gli aggiornamenti delle previsioni si susseguono nel tempo, i dati vengono in continuazione modificati in senso peggiorativo.

Ai primi di aprile, infatti, le maggiori banche nazionali ed internazionali hanno tagliato le stime di crescita di tutti i paesi industrializzati per l’anno in corso, anche se generalmente continuano a prevedere una sensibile ripresa per il 2002. In particolare, le previsioni di crescita dell’Area dell’euro per l’anno in corso variano tra il 2,3% della Morgan Stanley e di Merryl Lynch al 2,5% dell’Abn Amro e della Comit, con incrementi previsti tra il mezzo punto e un punto percentuale per il 2002.

Leggermente più ottimistiche risultano le previsioni dell’Ocse, che danno per l’anno in corso una crescita del 2,7% sia per l’Area dell’euro, sia per l’intera Unione europea. Se si tiene conto che nei primi mesi dell’anno le previsioni di crescita dell’Europa erano attestate sul 3,5%, se ne deduce che la crisi americana verrà a costare al Vecchio Continente un buon punto percentuale in meno in termini di mancato sviluppo.

Nella seconda metà di aprile, sono state diramate le previsioni del FMI nel suo World Economic Outlook, che indica una crescita a livello mondiale del 3,2% per il 2001 (un punto percentuale in meno rispetto alla previsioni dell’ottobre 2000) contro il 4,8% dell’anno scorso. Secondo il FMI, la crescita dell’Europa si attesterà sul 2,4% nel 2001 (anch’essa un punto percentuale in meno rispetto alla previsioni dell’ottobre 2000) e sul 2,8% nel 2002, mentre le previsioni di primavera della Commissione europea indicano una crescita dell’Europa del 2,8% nel 2001 e del 2,9% nel 2002. Le previsioni della Commissione, quindi, che in ordine temporale arrivano per ultime insieme a quelle del FMI (25 aprile 2001), nonostante una limatura al ribasso dello 0,3% rispetto alle previsioni dell’autunno scorso, risultano essere anche quelle più ottimistiche per il Vecchio Continente.

Le previsioni della Commissione sono ottimistiche anche per quanto riguarda l’inflazione europea, che dovrebbe attestarsi leggermente al di sopra del 2% nel 2001, per scendere all’1,8% nel 2002.
A mantenerla sotto controllo contribuirà il prolungamento della moderazione salariale. I salari nominali nell’Area dell’euro, infatti, saliranno del 3% nel 2001 e del 3,2% nel 2002. I costi unitari del lavoro saliranno più rapidamente che negli ultimi anni, ma senza mettere a rischio la crescita dei profitti delle imprese.

Nel mercato del lavoro europeo, dopo la buona performance verificatasi nel 2000 con un incremento, come si è detto, di 2,9 milioni di nuovi posti di lavoro, la Commissione prevede che nel prossimo biennio ne verranno creati altri 3,9 milioni, per cui la disoccupazione dovrebbe scendere dal 7,7% nel 2001 al 7,2% nel 2002 nell’insieme degli stati dell’Unione e dall’8,5 al 7,9% nell’area dell’euro. Le migliori performance occupazionali sono previste in Spagna, Francia e Grecia.

Sul versante dei conti pubblici, grazie alle riforme e ai tagli fiscali in Germania e Olanda e ad un certo allentamento della politica di bilancio in alcuni paesi, tra cui l’Italia e la Gran Bretagna, l’Unione Europea beneficerà di una politica leggermente espansionistica, che dovrebbe comunque essere compatibile con l’obiettivo di consolidamento fiscale. Ma tutto questo, riconosce la Commissione, dipende dall’evoluzione a breve che subirà l’economia americana.

Le previsioni per gli Stati Uniti, infatti, sono più basse di quelle europee per l’anno in corso, ma in netta ripresa per il 2002. Nell’anno in corso, l’economia americana dovrebbe rallentare tra l’1,5-1,6% per Merryl Linch, Abn Amro e Comit, mentre Morgan Stanley prevede una vera e propria recessione, con una crescita di appena lo 0,9%, ma in forte ripresa (al 4,2%) nel 2002. Anche le previsioni dell’Ocse danno una crescita modesta per l’anno in corso, dell’1,7%, ed analogamente fa la Commissione europea, che prevede per gli Stati Uniti una crescita dell’1,6% per il 2001 e del 3% per il 2002.

Secondo il FMI, invece, una crescita dell’1,7% negli USA per il 2001 si può avere solo in uno scenario più favorevole in cui ad un primo semestre sostanzialmente piatto segua un secondo semestre in forte ripresa, dell’ordine del 3-4%. Ma questo scenario, pur essendo probabile, non è certo. Potrebbe accadere, infatti, che il rallentamento dell’economia americana sia più prolungato e si estenda anche al secondo semestre dell’anno. In tal caso saranno guai per tutti e non solo per gli USA, la cui crescita comunque, per il FMI non supererà nel 2001 l’1,5%. Gli elementi di maggiore preoccupazione dell’economia americana sono costituiti dalla sopravvalutazione del dollaro, dalle dimensioni abnormi del deficit delle partite correnti, dagli elevati prezzi azionari e dal tasso negativo di risparmio degli americani.

C’è tuttavia da rilevare che a fine aprile è stato diramato il dato ufficiale di crescita del PIL americano nel primo trimestre 2001, risultato pari al 2% e giudicato da tutti gli analisti superiore alle attese. Esso è stato spiegato dagli esperti come dovuto essenzialmente alla diminuzione delle importazioni per 43 miliardi di dollari, piuttosto che ad un aumento dei consumi e degli investimenti interni, che risentono invece del clima di sfiducia negativo di cui si è già detto.

Una situazione di grave recessione, peraltro, continua a permanere in Giappone, dove la crescita 2001 sarà minima o nulla. Le previsioni più ottimistiche (+1%) sono fornite dall’Ocse e dalla Commissione europea. Secondo il FMI, invece, la crescita di questo paese per l’anno in corso non supererà lo 0,6%, per salire all’1,5% nel 2002. E’ ovvio che il Giappone, avendo un’economia fortemente orientata verso l’esportazione, risenta, ancora più dell’Europa, del forte rallentamento dell’economia americana. Per questo paese, il FMI sottolinea l’importanza di procedere sulla strada delle riforme dei mercati finanziari. Il nuovo governo recentemente entrato in carica in Giappone sembra aver percepito l’importanza di dare priorità alla ristrutturazione del sistema bancario, mentre la nuova politica monetaria della Banca centrale dovrebbe sostenere la crescita mantenendo i tassi ufficiali vicino allo zero.

I mercati emergenti sono un’altra area che preoccupa il FMI. Con l’eccezione di India e Cina, che continueranno a mantenere tassi di crescita elevati, rispettivamente del 5 e del 7%, gli altri paesi asiatici verranno colpiti dalla recessione di USA e Giappone. In America latina, il Messico risente del rallentamento USA, mentre la situazione dell’Argentina si fa sempre più critica, col rischio sempre più concreto di ripercussioni negative anche negli altri paesi emergenti e soprattutto in Brasile. Infine, tra i paesi dell’Europa Orientale, restano invariate al 4% le previsioni di crescita per il 2001 della Russia.

La prossima congiuntura europea e nazionale Inizio Pagina

Nei principali paesi dell’UE, la Spagna è il paese con le migliori prospettive di crescita anche per l’anno in corso, che variano tra il 2,8% di Morgan Stanley e Abn Amro e il 3,2% di Merryl Lynch e della Commissione europea, mentre in Germania e Francia le previsioni variano tra il 2 e il 2,6% per l’anno in corso, con prospettive più favorevoli per il secondo paese rispetto al primo. Tra i paesi minori, invece, le migliori prospettive di crescita, pari al 7,5% nel 2001 e 7,1% nel 2002, si riferiscono all’Irlanda, il cui tasso di disoccupazione secondo la Commissione calerà ancora al 3,8% nel 2001 e al 3,5% nel 2002. Il costo maggiore pagato da questo paese per sostenere un ritmo di crescita così elevato, nettamente superiore a quello di qualsiasi altro paese sviluppato, è dato da un’inflazione al 4% nel 2001 e al 3,6% nel 2002.

L’Ocse, invece, prevede per il 2001 una crescita del 2,8% per la Francia e del 2,2% per la Germania, previsioni sostanzialmente simili a quelle della Commissione europea, mentre il FMI dà una crescita del 2,9% alla Spagna, del 2,6% alla Francia e solo dell’1,9% alla Germania.

Secondo il FMI, infatti, la Germania, più ancora dell’Italia, sarà il paese europeo che, avendo un’economia orientata verso le esportazioni, sarà maggiormente colpito dal rallentamento dell’economia americana. Rispetto alle previsioni dello stesso FMI del mese di settembre 2000, la crescita tedesca per il 2001 è stata rivista al ribasso di ben 1,4 punti percentuali, che si configura come l’aggiustamento più brusco previsto tra tutti i paesi europei.

Analogamente, anche secondo la Commissione europea, la Germania sarà il paese che risentirà in misura maggiore del rallentamento della crescita americana. Ciò in quanto, anche se le esportazioni negli USA rappresentano solo il 3% del PIL europeo, i paesi maggiormente esposti restano tuttavia la Germania, l’Italia e l’Irlanda, nonché la Svezia e la Finlandia per quanto riguarda l’industria hightech.
La Commissione riconosce che l’attuale rallentamento potrebbe prolungarsi oltre l’estate in un clima di volatilità dei mercati finanziari e dei cambi, visto il pesante deficit corrente e il basso tasso di risparmio americani. In questo scenario, ammonisce la Commissione, la domanda interna europea potrebbe essere investita da una crisi di fiducia e cominciare a perdere vigore, provocando una decelerazione della crescita più pronunciata di quanto non fosse prevedibile a fine aprile.

Nel complesso, la Commissione europea è consapevole dei grossi rischi insiti nell’attuale congiuntura internazionale. Perciò essa accompagna le sue previsioni di primavera con tre raccomandazioni, contenute nei Grandi Orientamenti di Politica Economica (GOPE) per l’Unione, che sono: a) preservare la spinta all’espansione dell’economia con una politica macroeconomica improntata alla stabilità, in modo da conquistare la fiducia degli investitori; b) rafforzare la crescita potenziale europea attraverso le riforme strutturali, il completamento del mercato unico, una maggiore flessibilità e mobilità del mercato del lavoro, crescenti iniezioni di concorrenza nell’economia, innovazione e sviluppo dello spirito imprenditoriale; c) prepararsi ad affrontare il problema dell’invecchiamento della popolazione con la riforma dei sistemi pensionistici e dello stato sociale.

Per l’Italia, l’Ocse prevede una crescita nel corso del 2001 del 2,5%, sostanzialmente simile a quella del governo e della Commissione europea. Tale previsione risulta leggermente al di sotto del 2,6% indicato dalla Comit, ma superiore al 2% previsto da Morgan Stanley. Leggermente più ottimistiche (+2,7%) sono anche le previsioni del CER, con una lieve tendenza all’aumento per gli anni 2002-3. La stessa Banca d’Italia, che prevede una crescita del 2,5%, pone in evidenza i segnali di rallentamento che arrivano dai principali indicatori anticipatori, mentre le altre previsioni di crescita per il 2001 variano tra il 2,5% della Confindustria e del Ref-Irs e il 2,4% dell’ISAE .

La crescita economica nel nostro paese è prevista attenuarsi, come nel resto d’Europa, soprattutto a causa del mutamento in atto nello scenario internazionale. Occorre, infatti, fare i conti non solo con la frenata dell’economia americana e il suo conseguente minore sostegno della domanda mondiale, ma anche con le continue tensioni provenienti dal Giappone e, almeno per quanto concerne l’Europa, con le preoccupazioni indotte dai più recenti dati sull’economia tedesca, di cui, come si è detto, si sono resi particolarmente interpreti sia il FMI, sia la Commissione europea. In particolare, il FMI risulta particolarmente severo nelle sue previsioni per il nostro paese. Esso stima, infatti, per l’Italia una crescita nel 2001 del 2%, sostanzialmente simile a quella prevista da Morgan Stanley. Entrambi i paesi, Italia e Germania, però, nelle previsioni del FMI, avranno un rimbalzo positivo nel 2002, che porterà le rispettive economie a crescere rispettivamente del 2,5 e del 2,6%.

La principale raccomandazione del FMI all’Italia è quella di ridurre il debito pubblico, altrimenti l’impegno di ridurre il rapporto deficit/PIL nel 2001 all’1% come annunciato dal governo (rispetto allo 0,8% fissato dal patto di stabilità) non potrà essere mantenuto ed il rapporto salirà all’1,3%, il che renderà certamente più faticoso il raggiungimento del pareggio di bilancio che il patto di stabilità prevede per il 2003. Le ulteriori previsioni del FMI per il nostro paese sono: inflazione 2,2 e 1,6 % rispettivamente nel 2001 e nel 2002; disoccupazione 9,9 e 9,5%; deficit/PIL 1,3 e 1,2% e debito/PIL 107,5 e 105,3%. Infine, il costo del lavoro per unità di prodotto, che nel 2000 è cresciuto dell’1,5%, crescerà nella stessa misura anche nel 2001 e dello 0,7% nel 2002.

Secondo la Commissione europea, invece, l’Italia sta perdendo competitività, con una deludente performance sui mercati europei, dovuta essenzialmente ai ritardi nelle liberalizzazioni e ai gap di produttività rispetto alle altre aree geografiche. Per recuperare, secondo la Commissione, sono necessarie incisive riforme che favoriscano la flessibilità e l’innovazione dei mercati ed avviino a soluzione il problema pensionistico.

La raccomandazione della Commissione (GOPE) fatta all’Italia, quindi, prevede che la politica di bilancio debba raggiungere nel 2001 l’obiettivo dello 0,8% del PIL per il deficit, con una riduzione costante nel 2002 ed il pareggio nel 2003. Molto dipenderà dal ritmo della crescita economica che, come si è detto, la Commissione prevede del 2,5% nel 2001 e del 2,7% nel 2002, con un tasso annuo d’inflazione rispettivamente del 2,2% e dell’1,9%, una disoccupazione in discesa dal 9,8 al 9,3%, investimenti in aumento del 5,5% e del 6,2% e debito pubblico in calo dal 105,7% del PIL quest’anno al 102,6% il prossimo.

In particolare, la Commissione raccomanda inoltre all’Italia di:

  1. adottare una maggiore differenziazione nella dinamica salariale per compensare il gap di produttività tra le diverse zone geografiche e tenere conto delle diverse condizioni del mercato del lavoro a livello locale;
  2. aumentare la flessibilità dello stesso mercato del lavoro combinando misure per migliorare la protezione sociale dei disoccupati con l’allentamento di quella degli occupati a tempo indeterminato;
  3. diminuire il carico fiscale sul lavoro riducendo gradualmente tasse ed oneri sociali,
    con un occhio di riguardo ai salari bassi, per aumentare le opportunità per i lavoratori poco qualificati, senza gravare troppo sul bilancio pubblico, né sui progressi da fare per ridurre il debito.

In conclusione, con riguardo allo scenario europeo, si può sostenere che il secondo anno di vita dell’euro sia stato, tutto sommato, un buon anno. La crescita del PIL è stata la più marcata da molti anni a questa parte e così è stato anche per l’occupazione, mentre il tasso di disoccupazione è sceso ai livelli di dieci anni fa. Inoltre, non vi sono state gravi tensioni inflazionistiche, salvo la fiammata dei prezzi del petrolio durata alcuni mesi. L’altro elemento negativo è costituito dalla sottovalutazione dell’euro nel mercato dei cambi, che tuttora persiste. Nel complesso, però, i mercati dei prodotti sono diventati più competitivi e i mercati dei capitali più integrati.

Quanto al mercato del lavoro, le riforme introdotte nei vari paesi lo hanno reso più flessibile, il che ha consentito un sostenuto incremento dell’occupazione, soprattutto di quella congiunturale. La disoccupazione strutturale, invece, permane ancora elevata nelle regioni meno sviluppate, come il Mezzogiorno italiano e la Germania dell’Est.

A queste notizie confortanti sullo scenario più immediato, però, fanno da contrappeso le previsioni di un forte rallentamento dell’economia mondiale per l’anno in corso, che non mancheranno di riflettersi negativamente non solo a livello nazionale ed europeo, ma anche a livello regionale. Per contrastare tali effetti negativi, è tanto più necessaria una politica regionale di sostegno agli investimenti produttivi e all’occupazione.

La prossima congiuntura regionale Inizio Pagina

Fare previsioni di crescita del PIL a livello regionale è un compito particolarmente complesso che raramente dà risultati attendibili. I soggetti pubblici e privati che in passato si sono cimentati al riguardo, di solito, sono stati smentiti successivamente dai dati reali a consuntivo. Ciò dipende essenzialmente dal fatto che un’economia regionale è ancora più influenzata di quella nazionale da eventi esterni che ne condizionano lo sviluppo. Le condizioni locali di sviluppo, cioè, sono molto più soggette a variabilità di quanto non lo siano quelle dell’economia nazionale o internazionale. Inoltre, comprensibilmente, più si disaggrega il sistema economico a livello locale e si , meno attendibili risultano le previsioni di crescita, sia del PIL, sia di altre macrovariabili significative come il valore aggiunto o l’occupazione.

Nel caso della Sardegna, inoltre, il compito previsivo è ancora più complicato dal fatto che gli ultimidati ufficiali di contabilità nazionale di cui si dispone risalgono, come si è detto, al 1998. Le previsioni di crescita, perciò, devono innanzitutto essere fatte per gli anni già trascorsi 1999 e 2000 e su queste si possono quindi innestare le previsioni vere e proprie riguardanti l’anno in corso ed eventualmente il prossimo anno.

Allo stato attuale esistono le stime per i due anni già passati 1999 e 2000 fatte dallo SVIMEZ, che vengono riportate nella tabella 7 insieme alle previsioni per il 2001 e 2002 riguardanti sia la Sardegna, sia l’Italia.

Le stime della SVIMEZ attribuiscono alla Sardegna un tasso di crescita del PIL dello 1,7% nel 1999 e dell’1,4% nel 2000. Quest’ultimo risulterebbe tra i tassi di crescita più bassi riferiti a tutte le regioni italiane. Dal confronto con i corrispondenti tassi di crescita a livello nazionale, pertanto, se questi dati fossero confermati dai futuri dati ufficiali dell’ISTAT, ne deriverebbe che dal 2000 la Sardegna cresce meno della media nazionale, il che potrebbe anche riportare il rapporto tra il PIL regionale e quello medio europeo al di sotto del 75%. Peraltro, la minore crescita regionale sarebbe in linea con il più basso tasso di sviluppo rispetto al Centro-Nord, che avrebbe caratterizzato l’economia del Mezzogiorno nel biennio 1999-2000, ma in contrasto con l’aumento dell’occupazione nello stesso periodo. Come si è già posto in evidenza, tuttavia, è possibile che i dati ufficiali che saranno diramati dall’ISTAT nei prossimi mesi possano smentire queste valutazioni.

Per quanto riguarda l’anno in corso, l’unica previsione esistente a livello regionale è quella del CRENOS, che stima una crescita del PIL dell’1,7%, mentre stima nell’1,9% la crescita del 2002.
Rispetto ai tassi di crescita previsti a livello nazionale (rispettivamente del 2,5 e del 2,7% nei due anni, nella tabella 7 sono riportate per comodità le previsioni della Commissione Europea), le previsioni di crescita del PIL regionale sono più contenute, ma allo stesso tempo sono soggette ad un forte elemento di aleatorietà.

Per completezza di esposizione, occorre notare che il governo nazionale stima per il Mezzogiorno di raggiungere nel biennio 2001-2 un tasso di crescita medio del 4% annuo attraverso, tra l’altro, la realizzazione di un nutrito programma di opere pubbliche, che interessano anche la Sardegna. Ci si può attendere, pertanto, che le politiche di sviluppo tracciate in questo documento insieme al programma di sviluppo del Mezzogiorno tracciato dal governo contribuiranno a sostenere un tasso di sviluppo medio regionale in grado di scavalcare quello medio nazionale e che si collochi ad un livello non inferiore al 3%.

 

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