Indice
PARTE
I
IL
RUOLO DELLA SARDEGNA NELLECONOMIA NAZIONALE ED INTERNAZIONALE
Lo scenario
Il recente andamento delleconomia della Sardegna presenta
alcuni segnali di cambiamento che lasciano supporre lesistenza
di una svolta positiva del processo di sviluppo economico.
I segnali che possono essere colti riguardano sia landamento
del reddito, sia quello delloccupazione e, per quanto
ancora deboli, lasciano tuttavia ben sperare in un loro consolidamento,
quantomeno se saranno accompagnati dalle giuste politiche
economiche, sia a livello nazionale, sia soprattutto a livello
regionale.
Con riguardo al reddito regionale, lIstat ha recentemente
reso noti i dati ufficiali del quadriennio 1995-98, dai quali
risulta un buon recupero della posizione relativa della Sardegna
nei confronti del resto del paese e, in particolare, rispetto
al resto del Mezzogiorno. Da essi si rileva che il reddito
medio regionale ha superato in quel quadriennio il 75% del
reddito medio europeo, che costituisce il limite posto dallUnione
Europea per considerare una regione sfavorita dal processo
di sviluppo economico e quindi meritevole di essere inclusa
nellobiettivo 1 del Quadro Comunitario di Sostegno.
La decisione finale sulleventuale esclusione della Regione
dai fondi strutturali dopo il 2006 dipenderà ovviamente
anche da altri fattori, come ad esempio linsularità,
nonché dallandamento del reddito regionale negli
anni successivi al 1998. Al riguardo, per il biennio successivo
già trascorso, si può rilevare che mentre il
1999 è risultato un anno di congiuntura ancora debole,
il 2000 è stato invece un anno di buona congiuntura
per lintera Europa e, in misura minore, anche a livello
nazionale. Non è da escludere, quindi, che soprattutto
nel 2000 la Sardegna abbia accelerato il passo nella convergenza
(catching up) della sua economia verso la media nazionale
ed europea.
Contrastanti, invece, i segnali sul mercato del lavoro, che
nellultima rilevazione del mese di aprile 2001 proseguono
il trend di ripresa avviato nellanno in corso per quanto
riguarda i dati sulloccupazione, mentre il tasso di
disoccupazione, dopo essere sceso al 18,6 nel gennaio 2001,
è risalito al 19,2. Lincremento delloccupazione
regionale nel corso del 2000 (media annuale), pari allo 0,2
%, è risultato decisamente inferiore allincremento
medio nazionale (1,9%).
Scende, invece, il numero dei disoccupati ufficiali, dai 132
mila dellaprile 2000 ai 125 mila dellaprile 2001
e, corrispondentemente, cala anche il tasso di disoccupazione
ufficiale che dal 20,2% passa al citato 19,2%. Delle 125 mila
persone in cerca di occupazione, 50 mila sono i disoccupati
in senso stretto (che hanno perso un lavoro).
Come detto, questi risultati sinseriscono allinterno
di una congiuntura internazionale in evoluzione, che ha visto
il brusco arresto della crescita delleconomia americana
nellultima parte del 2000 ed in questi primi mesi del
2001. Per contro, ciò ha interrotto la fase di ripresa
in corso in Europa, che ha raggiunto il suo culmine proprio
nel 2000. Inoltre, la frenata delleconomia americana
si sta ripercuotendo in misura particolarmente negativa proprio
su quelle economie con elevate esportazioni verso gli Stati
Uniti, quali la Germania e il Giappone. La frenata delleconomia
tedesca, a sua volta, frena le esportazioni italiane verso
quel mercato di sbocco, compromettendo così sul nascere
le possibilità di consolidamento dei timidi segnali
di ripresa che nel 2000 si erano verificati anche con riguardo
al nostro paese.
Le più recenti previsioni economiche, infatti, fanno
dipendere proprio dalle possibilità di ripresa delleconomia
americana nella seconda metà dellanno le residue
chances di evitare che il 2001 sia ricordato come un anno
di congiuntura decisamente sfavorevole a livello internazionale.
Esse confermano altresì che a livello internazionale
la vera locomotiva dello sviluppo è sempre quella americana
e, quando questa si ferma o sindebolisce, ne risente
landamento economico di tutti gli altri paesi del mondo,
a cominciare proprio dallEuropa e dal Giappone.
Levoluzione congiunturale internazionale
Il quadro economico internazionale, nel secondo semestre del
2000, è andato peggiorando per gli Stati Uniti e migliorando
per lEuropa. In particolare, dalla seconda metà
del 1999, gli Stati Uniti hanno mantenuto un ritmo di crescita
molto sostenuto, che nella prima metà del 2000 ha raggiunto
il 5,7% su base annua. Un leggero rallentamento si è,
invece, verificato nel corso del terzo trimestre (5,2% su
base annua), cui è seguita una frenata più consistente
nellultimo trimestre dellanno (3,4%). Di fatto,
nel quarto trimestre del 2000 si è verificato il rallentamento
delleco-nomia americana che gli analisti davano per
molto probabile già nella prima metà dellanno.
Tuttavia, la media annuale per il 2000 vede ancora per questo
paese una crescita sostenuta del PIL, pari al 5%. Tale crescita,
che in assenza di apprezzabili tensioni inflazionistiche durava
ininterrottamente da 10 anni, è attribuita, a parere
di molti osservatori, agli effetti dei massicci investimenti
in nuove tecnologie dellinformazione e delle telecomunicazioni
(ICT). Tali investi-menti sono aumentati anche nel corso del
2000 ad un tasso di poco inferiore al 30% annuo, facendo passare
la loro incidenza rispetto al PIL dal 2,1% del secondo trimestre
del 1991, inizio della fase di espansione americana, al 7,2%
del corrispondente periodo del 2000. Nella recente fase di
maggiore espansione, che va dal secondo trimestre del 1999
al corrispondente periodo del 2000, il tasso di sviluppo della
produttività del lavoro nel settore manifatturiero
americano è salito dal 6,3 al 7%.
La frenata delleconomia americana nel quarto trimestre
del 2000, peraltro, ha consentito un riavvicinamento dei ritmi
di crescita di questo paese con quelli europei, il che ha
permesso, a sua volta, un parziale recupero del valore delleuro
nei mercati valutari internazionali. I dati più recenti
diramati dallEurostat ai primi di marzo di questanno
sulla produzione europea, infatti, mostrano che questa è
cresciuta nella media dellanno 2000 ad un tasso del
3,4%, anche se in rallentamento nel corso dellanno.
Nel quarto trimestre, infatti, essa si è fermata al
3% su base annua, il che conferma leffetto negativo
di trascinamento dovuto al rallentamento delleconomia
americana.
Questultimo rende particolarmente incerte le prospettive
del quadro economico internazionale e tale incertezza contribuisce
a rendere particolarmente instabili i mercati finanziari.
Vi è il rischio, infatti, che la situazione americana
si riveli più difficile da gestire con le consuete
leve di manovra della domanda aggregata, quantomeno più
difficile di quanto inizialmente previsto. Al riguardo non
è di poco conto che alla decelerazione della produzione
interna si accompagni una caduta dei corsi azionari, che penalizza
i redditi delle famiglie e tende ad accrescere la propensione
al risparmio, penalizzando i consumi. Questa evoluzione è
naturale per uneconomia come quella statunitense, caratterizzata
da un forte indebitamento del settore privato e da una propensione
al risparmio bassissima, quasi nulla. Purtroppo, però,
i suoi effetti negativi tendono a propagarsi alle altre economie,
prima tra tutte quella europea, attraverso i mercati borsistici.
Perciò, le favorevoli condizioni di sviluppo della
domanda interna in Europa non riescono a compensare la correzione
al ribasso dei mercati borsistici europei dovuta alleffetto
domino negativo della borsa americana.
Inoltre, a risentire di questa situazione, ancora una volta,
è landamento del tasso di cambio delleuro,
il cui indebolimento rispetto alla valuta americana veniva
attribuito in un primo momento allesistenza dei seguenti
tre fattori: la presenza di un ampio differenziale dei tassi
reali dinteresse nei due continenti, il vigore del ciclo
espansivo americano e la maggiore redditività dellinvesti-mento
finanziario nel mercato americano. Poiché ora tutti
e tre questi fattori sono venuti meno, ci si aspetta nei prossimi
mesi una ripresa delle quotazioni delleuro nei mercati
valutari.
Permane, invece, landamento pesantemente negativo delleconomia
giapponese, mentre sussistono condizioni di debole ripresa
nei paesi del terzo mondo. In Giappone, la debole ripresa
delleconomia si è arrestata nel terzo trimestre,
in un contesto di fragilità finanziaria. Il PIL è
sceso, infatti, del 2,4% in ragione danno rispetto al
periodo precedente. Gli investimenti sono scesi di quasi il
9%, ma quelli pubblici in particolare sono scesi del 36%,
mentre ristagnano anche i consumi privati e le esportazioni,
che nel terzo trimestre del 2000 sono addirittura diminuite.
Alla fine del 2000, laccentuarsi delle difficoltà
delleconomia e del sistema finanziario giapponese si
è ripercosso sul tasso di cambio dello yen, che si
è svalutato del 10% nei confronti del dollaro e del
16% nei confronti delleuro, consentendo così
alleconomia giapponese di riacquistare parte della competitività
perduta nei mercati internazionali. La competitività
di questo paese, infatti, è migliorata nel corso del
2000 dell8%.
Nei paesi emergenti dellAsia e dellAmerica latina,
la situazione è andata decisamente migliorando, soprattutto
nella prima metà del 2000. Ma lattività
è rallentata nella seconda metà dellanno.
In particolare, la situazione sembra essersi normalizzata
in Brasile e in Messico, mentre lArgentina incontra
difficoltà a portare a termine le riforme strutturali
programmate. Inoltre, a causa del regime di tasso di cambio
fisso del peso (la moneta locale) col dollaro, questo paese
ha perso quasi il 5% di competitività nel corso del
2000. LArgentina e la Turchia sono interessate a fenomeni
di instabilità finanziaria. In America latina, gli
indici azionari sono caduti, rispetto ai valori massimi del
marzo 2000, in misura compresa tra il 20 e il 30% in Messico,
in Argentina e in Cile, e tra il 5 e il 10% in Brasile e in
Colombia.
Nel caso della Turchia, le tensioni sono state temporaneamente
contenute dagli interventi della comunità internazionale,
ma lo scorso 22 febbraio la pressione sui mercati valutari
e finanziari ha costretto le autorità turche ad abbandonare
il regime di crawling peg (cambio scorrevole, ovvero sostanzialmente
fisso, ma aggiustabile con piccole correzioni), consentendo
la libera fluttuazione della lira turca nel mercato dei cambi,
che si è immediatamente svalutata del 28%. Per fortuna
la
crisi turca non ha avuto effetti di contagio significativi
sui mercati finanziari internazionali.
Sono in leggera ripresa, dopo il crollo del 1999, i paesi
del Sud-Est Asiatico, mentre viaggia a ritmi molto sostenuti
la Cina, con una produzione interna che cresce ad un ritmo
dell8% allanno. Corea del Sud ed India sono gli
altri due paesi asiatici con tassi di crescita del PIL abbastanza
significativi, dellordine del 5-6% allanno. In
Europa, la Russia sta uscendo dalla crisi del 1999, con una
crescita del PIL nel 2000 stimata nellordine del 7,5-8%.
Nel complesso, la crescita mondiale verificatasi nel corso
del 2000 è avvenuta in condizioni di relativa stabilità
dei prezzi. Questi, dopo qualche fase di tensione dovuta allaumento
del prezzo del petrolio, si sono nuovamente stabilizzati sul
mercato internazionale, né si intravedono a breve scadenza
nuovi motivi di tensione.
Levoluzione congiunturale in Italia e in Europa
LIstat ha recentemente diffuso le stime ufficiali del
prodotto interno lordo (PIL) nazionale e dellindebitamento
netto delle amministrazioni pubbliche per lanno 2000,
rilevanti ai fini del calcolo degli indicatori di convergenza
previsti dal trattato di Maastricht. A livello europeo, nel
secondo semestre del 2000, la crescita del PIL nellarea
delleuro ha mantenuto un ritmo relativamente sostenuto,
pari al 2,6% su base annua rispetto al semestre precedente.
Il rallentamento rispetto al 3,6% del primo semestre, cui
ha contribuito il rincaro del prezzo del petrolio, è
stato nettamente più contenuto di quello registrato
dalleconomia americana. In Europa, infatti, lattività
economica è stata favorita dagli effetti ritardati
del prolungato deprezzamento delleuro, esauritosi in
autunno in concomitanza con la frenata delleconomia
americana.
Come si è già posto in evidenza, nella media
del 2000 laumento del PIL dellarea delleuro
ha raggiunto il 3,4%, circa un punto in più rispetto
al 1999. Laccelerazione è dovuta, essen-zialmente,
alla domanda estera netta, favorita dalla debolezza delleuro,
che ha contribuito alla crescita per 0,6 punti percentuali.
Ma, nel contempo, la debolezza delleuro e lincremento
del prezzo del petrolio hanno portato il disavanzo corrente
della bilancia dei pagamenti dei paesi dellarea da 5,4
a 28,3 miliardi di euro.
Gli elevati ritmi produttivi hanno favorito lo sviluppo delloccupazione
europea, facendo scendere il numero di disoccupati ai livelli
più bassi degli ultimi dieci anni. Peraltro, landamento
del ciclo è risultato simile nei vari paesi dellarea,
con unaccentuazione dellandamento ciclico tra
il primo e il secondo semestre in Germania ed una minore accentuazione
in Francia, Italia e Spagna.
Nei maggiori paesi dellarea, il reddito reale è
cresciuto del 3,2% in Germania e del 3,1% in Francia. Ma nel
primo paese, come si è detto, laccentuazione
ciclica è stata maggiore: nel primo trimestre, infatti,
la crescita è stata del 3,9% e nel secondo addirittura
del 4,8% in ragione danno. Nella seconda metà
dellanno, invece, il rallentamento del PIL tedesco è
stato molto marcato: 1,1% nel terzo trimestre e 0,8% nel quarto.
A sostenere la crescita in Germania è stata soprattutto
la dinamica delle esportazioni, che nel corso del 2000 sono
aumentate del 13,2%, crescita che è proseguita anche
nel secondo semestre dellanno, anzi accentuandosi nel
quarto trimestre (+19,1% in ragione danno), mentre la
domanda interna, sia di beni di consumo, sia di beni dinvestimento,
è stata alquanto fiacca (+2 % nellintero anno).
Peraltro, unaccentuazione significativa, nel corso dellanno,
è stata registrata anche dalle importazioni (+10,2%).
In Francia, invece, la crescita è stata continua e
sostenuta durante lintero anno. Nei quattro trimestri,
infatti, si è passati da una crescita del 2,2% nel
primo, al 2,8% nel secondo, al 2,4% nel terzo e, per finire,
al 3,9% nel quarto. A sostenere tali ritmi di crescita è
stata soprattutto la dinamica delle esportazioni, che in questo
paese sono aumentate del 13% in ragione danno, nonché
della domanda interna dei beni dinvestimento (+6,5%).
Molto più contenuta, invece, è stata la dinamica
dei consumi (+2,4%). Infine, le importazioni hanno avuta una
dinamica superiore alle esportazioni (+14,2% nella media dellanno).
Infine, in Spagna la crescita ha mantenuto lalto profilo
degli ultimi anni, nonostante la flessione del secondo semestre
abbia interessato anche questo paese. Nella media annuale,
questo paese è cresciuto ad un tasso di oltre il 4%
allanno negli ultimi cinque anni. Nel 2000, la crescita
del PIL è stata del 4,1% nella media dellanno,
ma tale dato sconta una forte accelerazione nel primo trimestre
(+5,6%), con una riduzione intorno al 3% nei successivi trimestri
dellanno. In particolare, nel quarto trimestre del 2000
il tasso di crescita di questo paese (2,9%) è allineato
con quello medio italiano e con quello medio dellintera
area delleuro. In ogni caso, a sostenere la crescita
spagnola, più che la domanda estera (le esportazioni
sono cresciute del 10,8% e le importazioni del 10,4%) è
stata la domanda interna (+4,1%) ed in particolare i consumi
delle famiglie, la cui dinamica (+4%) è stata superiore
a quella di tutti gli altri maggiori paesi dellarea
delleuro.
In Italia, il valore del PIL italiano ai prezzi di mercato
nel 2000 è stato pari a 2.257.066 miliardi di lire
correnti, con un aumento del 5,2% in termini nominali rispetto
al 1999. In termini reali, invece, cioè depurata dellinflazione,
la crescita è stata del 2,9%, che risulta essere il
tasso di crescita più elevato degli ultimi cinque anni.
Come nellinsieme dellarea delleuro, anche
in Italia laccelerazione della crescita del PIL (dall1,6%
registrata nel 1999) è riconducibile alla domanda estera
netta, il cui contributo (che nel 1999 era stato negativo
per 1,3 punti percentuali) nel 2000 è tornato positivo
per 0,6 punti. Con riguardo alla formazione del prodotto,
a sostenere la crescita in termini reali del PIL sono stati
i settori dei servizi (+3%), dellindustria in senso
stretto (+2,7%) e delle costruzioni (+2,6%), mentre il settore
dellagricoltura, silvicoltura e pesca ha fatto registrare
una flessione del valore aggiunto (-2,1%).
Landamento ciclico negativo nel nostro paese è
stato marcato soprattutto nel secondo trimestre dellanno
passato, quando il PIL è cresciuto di appena l1%.
La crescita è stata molto sostenuta, invece, nel primo
trimestre dellanno (4,4%) e relativamente buona negli
ultimi due trimestri, rispettivamente del 2,4 e del 3%. Alla
crescita del prodotto, si è accompagnata una crescita
delle importazioni di beni e servizi pari all8,3%, che
ha determinato un incremento delle risorse disponibili pari
al 4,1%. Laumento delle importazioni è stato
sostenuto dagli alti ritmi produttivi nei settori caratterizzati
da un maggior impiego di input esteri.
Le importazioni di beni sono aumentate del 9,5% in quantità,
trainate dallaccelerazione dellattività
produttiva. Più elevata è stata la crescita
degli acquisti dai paesi extra UE (+12,3%), in particolare
dai paesi dellEuropa dellEst, che risultano essere
unimportante area di delocalizzazione di attività
produttive italiane, e dalla Cina, la cui quota di mercato
in Italia, in costante crescita dal 1997, ha registrato un
eccezionale incremento.
Dal lato degli impieghi, invece, la crescita in termini reali
è stata del 2,6% per quanto riguarda i consumi finali
nazionali (+2,9% per la spesa a carico delle famiglie residenti,
+1,7% per la spesa della pubblica amministrazione e delle
istituzioni sociali private) e +6,1% per gli investimenti
fissi lordi. La crescita complessiva della domanda è
stata contenuta nel 2,3%, in diminuzione rispetto al 3% del
1999. Laccentuato ricorso al magazzino, dopo tre anni
di accumulazione di scorte, infatti, ha frenato lo sviluppo
della domanda nazionale, cresciuta quindi nel 2000 a un tasso
inferiore di circa 0,7 punti percentuali rispetto a quella
del 1999.
Le esportazioni di beni e servizi hanno fatto registrare un
aumento complessivo del 10,2%, dovuto sia ai beni (9,7%),
sia ai servizi (12,4%), per cui, oltre alla domanda interna,
anche il saldo con lestero ha contribuito positivamente
alla crescita del PIL in termini reali, con uninversione
di tendenza rispetto agli ultimi tre anni quando i tassi di
crescita del PIL sono stati, rispettivamente, del 2% nel 1997,
dell1,8% nel 1998 e dell1,6% nel 1999.
La crescita delle esportazioni è stata sospinta dai
cospicui guadagni di competitività di prezzo sui mercati
esterni allarea delleuro. Essa è tuttavia
risultata inferiore a quella del commercio mondiale e delle
esportazioni negli altri maggiori paesi, le cui quote di mercato
hanno recuperato i livelli del 1997. Nei paesi extra Unione
Europea, infatti, le esportazioni italiane sono cresciute
del 17,2%. Gli incrementi maggiori si sono verificati soprattutto
nei confronti degli Stati Uniti, dellarea asiatica e
dei paesi dellOPEC. Tutti i principali settori esportatori
hanno aumentato le vendite in questi paesi ed in particolare
i settori tradizionali (tessile, abbigliamento, cuoio e calzature),
le cui vendite sono sostanzialmente tornate sui livelli precedenti
la crisi asiatica.
La dinamica delle esportazioni italiane negli altri paesi
delleuro, invece, nei cui confronti non si è
verificato alcun recupero di competitività di prezzo
dovuto alla svalutazione delleuro, è risultata
meno sospinta (+5,9%), soprattutto nei confronti della Germania,
nostro principale mercato di sbocco. Perciò è
verosimile che la specializzazione produttiva delle imprese
italiane si sia rivelata esposta alla concorrenza dei paesi
dellEuropa orientale. Le esportazioni italiane in Germania
hanno ristagnato (+1,2%), a fronte di un elevato aumento della
domanda tedesca di importazioni (+9,7%, con un +13,7% dai
paesi dellUE).
Peraltro, anche in Italia, come nel resto degli altri paesi
dellarea delleuro, i maggiori esborsi relativi
alle importazioni nette di minerali energetici (la cui incidenza
sul PIL è passata dall1,2% nel 1999 al 2,3% nel
2000) hanno peggiorato il saldo dellinterscambio commerciale.
Lavanzo è sceso a 22.600 miliardi di lire (1%
del PIL). Perciò, il concomitante ampliamento del deficit
delle partite invisibili (servizi) ha contribuito a determinare,
per la prima volta dal 1993, un disavanzo corrente della bilancia
dei pagamenti, pari allo 0,4% del PIL.
Laumento dei consumi privati interni è stato
del 3,3%, superiore a quello dei consumi finali delle famiglie
residenti. Tale fatto è imputabile ad una dinamica
molto positiva dei consumi effettuati dai non residenti a
fronte di una diminuzione della spesa allestero dei
residenti. La spesa delle famiglie è cresciuta del
2,9% (contro il 2,3% del 1999), più che in Francia
e Germania, ma meno che in Spagna.
Per quanto riguarda gli investimenti lordi, il loro buon andamento
è generalizzato a tutti i comparti. Le dinamiche più
sostenute, tuttavia, sono state registrate dai beni immateriali
(+11,6%), dai mezzi di trasporto (+9,9%) e dai macchinari
e attrezzature (6,9%). Più contenuta, invece, è
stata la dinamica delle costruzioni (+3,6%). Nella prima metà
dellanno, infatti, quando le aspettative di crescita
delleconomia mondiale erano ancora favorevoli, le imprese
italiane hanno intensificato lattività dinvestimento,
grazie anche alle buone condizioni finanziarie. Successivamente
si è verificato un rallentamento, particolarmente brusco
negli investimenti in costruzioni.
Con riguardo ai prezzi, cè da segnalare che nel
corso del 2000 si è verificato un aumento del deflatore
del PIL del 2,2%, che sale al 2,8% con riguardo alla spesa
delle famiglie residenti.
Linflazione al consumo, invece, è stata del 2,6%.
Inoltre, si è verificato un netto peggioramento delle
ragioni di scambio con lestero. I prezzi allimportazione
di beni e servizi, infatti, sono aumentati del 12,7% nel corso
dellanno, per effetto sia della crescita dei prezzi
dei prodotti energetici, sia della svalutazione delleuro
nei confronti del dollaro. I prezzi allesportazione,
invece, sono aumentati solo del 6%. Tutto ciò ha favorito
il recupero di competitività di prezzo del nostro paese
nei confronti dellestero, che sta alla base, come si
è già detto, del miglioramento delle nostre
esportazioni nei confronti dei paesi esterni allarea
delleuro. Nei confronti degli altri paesi dellarea,
invece, lItalia ha fatto registrare una perdita di competitività
dello 0,5%, mentre la Germania ha guadagnato il 3,6% e Francia
e Spagna hanno mantenuto sostanzialmente invariata la loro
competitività intraeuropea.
Tuttavia, la pressione al rialzo esercitata dallaumento
del prezzo del petrolio e dal deprezzamento delleuro
è stata contenuta dalla moderazione salariale e dalla
crescita della produttività. I margini di profitto
nellindustria sono rimasti sostanzialmente invariati.
Il divario dinflazione rispetto alle altre economie
dellarea delleuro si è temporaneamente
annullato in autunno. Al netto delle componenti più
erratiche dellindice dei prezzi, esso è tuttavia
risultato superiore a mezzo punto percentuale, solo di poco
inferiore a quello registrato nel 1999.
Come noto, i dati della contabilità economica nazionale
contengono anche i dati sulloccupazione espressa in
termini di unità di lavoro equivalenti al netto della
cassa integrazione guadagni. Tali dati mostrano che loccupazione
totale nel 2000 è cresciuta in Italia dell1,5%
per le unità di lavoro dipendenti e dell1,3%
per quelle indipendenti. Dal punto di vista settoriale, si
è registrata una riduzione delloccupazione totale
nel settore agricolo (-2,4%), un lieve incremento nellindustria
in senso stretto (0,1%) ed aumenti più consistenti
sia nelle costruzioni (+1,6%), sia nel complesso dei servizi
(+2,3%). I redditi da lavoro dipendente nellintera economia
sono aumentati, sempre nel 2000, del 4,5% e le retribuzioni
lorde del 4,7%. In particolare, laumento delle retribuzioni
è stato pari all1,4% nel settore agricolo, al
2,7% nellindustria e al 5,7% nel settore dei servizi.
La struttura delleconomia: i nuovi dati sul reddito
nazionale
Di recente, lIstat ha proceduto ad una revisione generale
della contabilità economica nazionale sulla base del
nuovo sistema europeo di conti, noto come SEC95. La revisione
ha riguardato sia i conti nazionali, sia i conti territoriali
compilati a livello regionale. Le serie dei conti economici
territoriali secondo il SEC95, relativamente agli anni 1995-1998,
sono state rese disponibili definitivamente il 15 marzo 2001.
Poiché tali dati sono quelli ufficiali con cui vengono
regolati i rapporti delle regioni con lUnione Europea,
quindi sono quelli che fanno testo agli effetti della distribuzione
dei fondi strutturali, è opportuno esaminarli con attenzione,
anche perché rispetto ai dati del SEC79 i nuovi dati
presentano differenze sostanziali, che li rendono inconfrontabili
con le vecchie serie.
Un elemento centrale del calcolo del reddito, sia a livello
nazionale, sia a livello regionale, rimane linput di
lavoro, che rappresenta linformazione di base non solo
per garantire lesaustività delle stime del prodotto,
ma anche per incorporare nel PIL regionale una stima delleconomia
non osservata (economia sommersa). Tale input è stato
distinto nelle sue due componenti: quella regolare e quella
irregolare, con un livello di attendibilità da indurre
lIstat a promettere la pubblicazione a breve scadenza
di stime del lavoro sommerso a livello regionale.
Per la stime dei valori pro capite e del valore aggiunto regionale,
inoltre, vengono utilizzati i dati provenienti dalle indagini
annuali sui conti delle imprese, che sono stati estesi a tutti
i settori dellattività economica. Ciò
rende molto più affidabili le stesse stime, senza dover
ricorrere ad integrazioni da altre fonti delle informazioni
mancanti.
Per lanno 1995, le vecchie e le nuove serie si sovrappongono,
il che consente di verificare gli effetti della revisione
sulle singole variabili macroeconomiche considerate. Leffetto
delle modifiche introdotte riguardo alle definizioni e alle
classificazioni risulta diversificato da regione a regione,
a seconda delle caratteristiche produttive. In particolare,
è risultata modificata la graduatoria delle regioni
in termini di PIL pro capite, con un ridimensionamento del
peso delle regioni del nord-est ed una rivalutazione del peso
di quelle nord-occidentali, mentre non ha subito variazioni
di rilievo il rapporto tra Mezzogiorno e resto del paese.
Il PIL regionale della Sardegna viene rivalutato statisticamente,
il che non mancherà di produrre conseguenze rilevanti
agli effetti dei rapporti regionali con lUE.
Come fa notare lo stesso Istat, con ladozione del SEC95,
che è espressamente un sistema di conti nazionali e
regionali integrati, la produzione di dati regionali rientra
tra i compiti istituzionali dello stesso Istituto di statistica
imposti da un regolamento comunitario. Di conseguenza, il
problema dellarmonizzazione delle definizioni e dei
metodi di stima si pone necessariamente anche nelle analisi
territoriali. Peraltro, proprio per limportanza dei
dati regionali agli effetti della ripartizione dei fondi strutturali,
è stata compiuta in sede comunitaria unazione
orientata a garantire la confrontabilità delle stime
regionali.
Levoluzione e la struttura economica delle regioni italiane
Con la disaggregazione dei dati della contabilità nazionale
a livello territoriale, è possibile svolgere due ulteriori
tipi dindagine, sfruttando sia i dati sinora resi disponibili
dallIstat, sia quelli resi disponibili da altre fonti.
Il primo riguarda lanalisi strutturale del sistema economico
italiano a livello regionale e per macroaree (Nord-Ovest,
Nord-Est, Centro e Sud-Isole). Lindagine in questione,
che riguarda il PIL regionale e le altre principali macrovariabili
legate al reddito regionale, viene condotta sulla base dei
conti economici regionali sinora pubblicati dallIstat.
Il secondo tipo dindagine, invece, cerca di ricostruire
landamento congiunturale delle macroregioni anche dopo
il 1998, utilizzando altre fonti statistiche come i dati dellISAE
e quelli dellUnioncamere-Istituto Tagliacarne.
Il quadro della produzione del reddito che emerge a livello
disaggregato per regioni mostra una situazione variegata,
dove le regioni del nord, ad eccezione della Liguria e del
Friuli-Venezia Giulia, hanno un livello medio del PIL per
abitante che varia tra i 40 e i 50 milioni di lire. Queste
ultime due regioni, invece, sono assimilabili a quelle centrali
(Toscana, Marche, Lazio ed Umbria), dove il PIL per abitante
varia tra i 30 e i 40 milioni di lire. In questa classifica,
la Sardegna fa gruppo con lAbruzzo e il Molise, dove
il PIL per abitante varia tra 25 e 30 milioni di lire. Infine,
tutte le altre regioni del Mezzogiorno costituiscono il gruppo
di coda, con un PIL per abitante compreso tra 20 e 25 milioni
di lire.
Posto uguale a 100 il PIL medio per abitante a livello nazionale,
la regione più ricca è la Val dAosta,
con un indice pari a 137,3, mentre quella più povera
è la Calabria, con un indice pari a 61. La prima, quindi,
ha un reddito più che doppio della seconda. In questa
graduatoria, lindice corrispondente alla Sardegna è
stato di 75,5 nel 1997, anno cui si riferiscono gli altri
dati sopra riportati. Nel 1998, tale indice per la Sardegna
è salito al 75,9. Per un confronto, la media del Mezzogiorno
nel 1997 è pari a 66,9, per cui il PIL pro capite in
Sardegna risulta maggiore di quello medio del Mezzogiorno
di 9 punti percentuali. A livello di grandi macroaree, il
PIL pro capite del Nord-Ovest è pari a 124,5, quello
del Nord-Est a 122,7 e quello del Centro a 107,5.
Un interessante elemento di valutazione è costituito
dalla scomposizione per macroaree del PIL nazionale e dal
corrispondente confronto della distribuzione della spesa privata
delle famiglie e di quella pubblica. Con riguardo al PIL del
1998, la sua distribuzione per macroaree vede il Nord-ovest
col 32,6%, il Nord-est col 22,4%, il Centro col 20,6% ed il
Mezzogiorno col 24,4%.
In termini di spesa delle famiglie per consumi, invece, mentre
lincidenza del Centro è pressoché simile
a quella del PIL (20,5%), le incidenze del Nord-ovest (30,2)
e del Nord-est (21,3) vengono entrambe ridimensionate a favore
del Mezzogiorno (27,9). Nel caso della spesa per investimenti,
invece, mentre risulta ridotta rispetto alle corrispondenti
incidenze del PIL per le macroaree Nord-ovest (30,8) e Centro
(18,8), risulta nel contempo aumentata per le macroaree Nord-est
(23,4) e Mezzogiorno (27,1). Ciò significa che, in
particolare per il Mezzogiorno, cè una fetta
di risorse non prodotte nellarea che però viene
consumata o investita nellarea. Come noto, ciò
avviene attraverso vari meccanismi di trasferimento del reddito
tra le macroaree, che nel caso della spesa privata delle famiglie
e degli investimenti avviene attraverso meccanismi di mercato.
Tali meccanismi consentono al Mezzogiorno di avere un tenore
di vita, in termini di spesa globale per consumi e per investimenti,
più elevato di quello che gli sarebbe consentito dalla
sua sola produzione interna e, comunque, più vicino
a quello del Centro-Nord.
Oltre ai meccanismi di mercato, però, nella ridistribuzione
del reddito tra le macroaree operano in misura ancora più
intensa quelli della politica economica attraverso il ruolo
giocato dalla spesa pubblica. La spesa delle amministrazioni
pubbliche e delle istituzioni sociali private, infatti, si
distribuisce per il 24,6% a favore del Nord-ovest, per il
18,6 % a favore del Nord-est e per il 20,4% a favore del Centro,
mentre lincidenza della spesa pubblica a favore del
Mezzogiorno sale al 36,4%. Il Mezzogiorno, quindi, rispetto
alla sua partecipazione alla formazione del prodotto lordo,
partecipa con oltre 3 punti percentuali in più nella
distribuzione della spesa privata e con ben 12 punti percentuali
in più nella distribuzione della spesa pubblica.
Con riguardo allandamento congiunturale a livello territoriale,
invece, si può notare subito che nel secondo semestre
del 2000 la dinamica produttiva del settore manifatturiero
delle singole ripartizioni territoriali ha rispecchiato il
rallentamento manifestatosi a livello nazionale. Tuttavia,
essa è risultata più sostenuta al Centro e in
calo nel Nord-Est. Le esportazioni, invece, hanno continuato
a crescere anche nel terzo trimestre dellanno, con una
dinamica più accentuata nel Mezzogiorno rispetto al
Centro-Nord.
Dai dati ISAE sugli indicatori congiunturali nelle macroregioni
italiane, il livello della produzione ha subito una decelerazione
accentuata alla fine del 1998, soprattutto nel Centro e nel
Nord-Ovest. Nel corso del 1999 e nella prima metà del
2000, invece, proprio in queste due macroaree la ripresa è
stata più sostenuta, ma con tendenza generale verso
il rallentamento nel secondo semestre 2000. Le vendite allestero
delle regioni del Nord-Ovest, sostenute dalle esportazioni
di prodotti metalmeccanici, farmaceutici e delle fibre sintetiche
e artificiali, sono cresciute in valore del 17,5% nei primi
nove mesi dellanno rispetto allo stesso periodo del
1999, al di sotto della media nazionale (18,6%).
Nella prima metà del 2000, la produzione manifatturiera
ha raggiunto livelli assai elevati nel Nord-Est. Successivamente,
essa ha registrato un calo, più accentuato in Emilia
Romagna e Friuli Venezia Giulia, in linea col rallentamento
della domanda individuato dagli indicatori qualitativi dellISAE.
Nei primi nove mesi del 2000, il valore delle esportazioni
delle regioni nord-orientali è risultato più
alto del 15,2% rispetto allo stesso periodo del 1999. Solo
il settore dei mezzi di trasporto ha fatto registrare tassi
di crescita significativamente superiori alla media nazionale,
grazie soprattutto allaumento delle vendite di costruzioni
navali.
Nel Centro la crescita nel primo semestre del 2000 rispecchia
il valore medio nazionale. Il livello della produzione e della
domanda continua a mantenersi stazionario nel terzo trimestre,
per accelerare leggermente nel corso del quarto trimestre.
Nei primi nove mesi dellanno, le vendite allestero
hanno fatto registrare una crescita (22,8%) superiore alla
media nazionale, grazie alleccezionale incremento del
terzo trimestre (+14,5%). Particolarmente dinamiche in questarea
sono risultate le esportazioni di prodotti tessili e dellabbigliamento,
del cuoio e delle calzature, che da sole costituiscono un
quarto del totale delle esportazioni dellarea, nonché
quelle di prodotti chimici di base, di prodotti farmaceutici
e di prodotti in metallo.
Nel Mezzogiorno, gli incrementi della produzione industriale
sono rimasti regolarmente al di sotto della media nazionale
nel biennio 1998-99 e nel primo trimestre del 2000. Solo nel
secondo trimestre di tale anno lincremento della produzione
industriale in questarea ha superato leggermente (5,1%)
la media nazionale (5%). Le indagini ISAE segnalano un andamento
della produzione sostanzialmente stabile nella seconda parte
del 2000. Il dato è confermato dal
sondaggio sulla congiuntura del Mezzogiorno condotto alla
fine dellanno dalla Confindustria, che segnala altresì
un aumento del livello degli investimenti nel corso dello
stesso anno 2000. Anche lindagine trimestrale condotta
dallOsservatorio delle piccole e medie imprese del gruppo
Banca di Roma conferma che nel secondo semestre del 2000 si
è verificata una contenuta crescita della produzione
(+0,8%).
Nonostante la decelerazione registrata nel terzo trimestre,
nei primi nove mesi del 2000 le esportazioni del Mezzogiorno
sono cresciute, rispetto al corrispondente periodo del 1999,
nettamente al di sopra della media nazionale (+27,9%). Vi
ha contribuito in larga misura laumento dei prezzi dei
prodotti petroliferi, la cui produzione, conseguente alla
raffinazione del greggio, è concentrata prevalentemente
in questarea. Al netto dei prodotti petroliferi, lincremento
delle esportazioni del Mezzogiorno resta tuttavia ragguardevole
(+20,5%) ed è dovuto alle vendite di apparecchi elettrici
e di precisione, di macchine e apparecchi meccanici e di prodotti
metalmeccanici.
Tabella
Contabilità
economica della Sardegna: produzione e reddito.
La nuova serie dei conti economici regionali comprende, per
ogni regione del paese, il conto delle risorse e degli impieghi,
il conto della distribuzione del PIL, il conto della formazione
del valore aggiunto (VA) e i conti della distribuzione dei
consumi e degli investimenti per settore e categoria merceologica
dei beni e servizi. Altri dati riguardano le retribuzioni
lorde, i redditi interni da lavoro dipendente e i contributi
sociali effettivi e figurativi, nonché le unità
di lavoro totali e gli occupati totali.
Nel complesso, si tratta di una ricchezza di dati di cui si
dispone per la prima volta in assoluto, che, insieme alla
maggiore articolazione (anche per provincia) dei dati sul
mercato del lavoro, consentono di descrivere la situazione
economica regionale in modo più approfondito e dettagliato
di quanto non fosse possibile in passato. Il limite principale
è costituito dal ritardo di due anni con cui i dati
relativi al reddito regionale sono stati resi disponibili.
Il processo di revisione condotto dallIstat, con riguardo
al 1995, che costituisce, come si è detto, lunico
anno di sovrapposizione tra le vecchie e le nuove serie di
macrovariabili regionali, ha implicato per la Sardegna una
leggera rivalutazione del PIL totale ed una contemporanea
riduzione della popolazione regionale riferita a tale anno
di oltre 20 mila unità, il cui risultato complessivo
ha fatto lievitare verso lalto il PIL per abitante.
Per effetto di questa semplice correzione statistica nel 1995
lincidenza del PIL pro capite regionale sulla media
nazionale è così passata dal 74,3 al 74,6%.
Per gli anni successivi, il divario tra i recenti dati dellIstat
e quelli forniti a suo tempo dallo Svimez, che peraltro sono
stati utilizzati, in assenza di altri riferimenti ufficiali,
anche dai precedenti DPEF regionali, si amplificano ulteriormente.
Il PIL regionale della Sardegna a prezzi correnti nel 1998
è stato di 45.186 miliardi di lire (Tav. 1). Aggiungendo
le importazioni nette di beni e servizi, pari a 7.988 miliardi,
si arriva a un totale di risorse regionali disponibili di
53.174 miliardi, che sono state così ripartite dal
lato degli impieghi:
42.102 miliardi (79,2%) in consumi finali interni e 11.072
miliardi (20.8%) in investimenti, inclusa la variazione delle
scorte. In particolare, la spesa per consumi finali delle
famiglie è risultata di 29.884 miliardi (56,2% del
totale delle risorse), mentre la spesa delle amministrazioni
pubbliche e delle istituzioni sociali private è stata
di 12.217 miliardi (23% del totale delle risorse).
I corrispondenti valori a prezzi costanti 1995 consentono
di vedere la dinamica delle macrovariabili regionali in termini
reali, cioè depurata dalla variazione dei prezzi (Tav.
2). Si scopre così che il PIL reale è rimasto
pressoché stazionario nel 1996, con un incremento quasi
insignificante dello 0,04% (valore nazionale 1,1%), mentre
è cresciuto più della media nazionale nel 1997
(3,9% contro 2%) e nel 1998 (1,9% contro 1,8%). Tali dati
confermano lelevata imprecisione delle previsioni a
suo tempo formulate da vari organismi pubblici e privati con
riguardo al PIL regionale, che per entrambi gli anni davano
tassi di crescita significativamente inferiori.
Dal conto della distribuzione del PIL (Tav. 3), emerge che
per il 1998 alla formazione di tale aggregato hanno contribuito
i redditi da lavoro dipendente per 18.583 miliardi di lire
(41,2%), il risultato lordo di gestione ed i redditi misti
di lavoro e capitale per 19.993 miliardi (44.2%) e le imposte
indirette nette per 6.610 miliardi (14,6%).
Il dato più significativo di contabilità regionale
è ovviamente il reddito pro capite o PIL pro capite
(Tav. 4), i cui valori per il quadriennio 1995-98 sono riportati
nella tabella 1 seguente, dove i dati regionali sono messi
a confronto con quelli medi nazionali. In tale tabella, ai
dati ufficiali ISTAT, che arrivano sino al 1998, sono stati
aggiunti i dati di fonte SVIMEZ relativi al biennio 1999-2000.
Tab.1
Confronto tra il PIL pro capite in Sardegna ed in Italia
Anno
|
Sardegna
|
Italia
|
Rapporto
Sardegna/Italia %
|
1995
|
23.270.900
|
31.191.200
|
74,6
|
1996
|
24.431.300
|
33.142.500
|
73,7
|
1997
|
26.035.300
|
34.494.500
|
75,5
|
1998
|
27.253.100
|
35.905.100
|
75,9
|
1999
|
28.276.200*
|
37.209.000
|
76,0
|
2000
|
29266.200*
|
39.076.600
|
74,9
|
Fonte:
ISTAT; *Dato SVIMEZ |
Tab.2
Rapporti caratteristici tra PIL pro capite espressi
in euro
Anno
|
Rapporto
Sar/Ita %
PIL espresso in lire
|
Rapporto
Sar/EU-15%
PIL espresso in euro*
|
Rapporto
Sar/EU-15
Prezzi espressi in euro
|
1995
|
74,6
|
82,8
|
61,7
|
1996
|
73,7
|
91,4
|
67,4
|
1997
|
75,5
|
92,0
|
69,5
|
1998
|
75,9
|
91,2
|
69,2
|
1999
|
76,0
|
89,9
|
68,3
|
2000
|
74,9
|
88,7
|
66,4
|
*
Fonte: Economie Européenne, 2000, n. 70. |
Il
PIL pro capite della Sardegna nel 1998 è stato di poco
superiore ai 27 milioni di lire, pari a poco meno del 76%
del reddito medio nazionale. Come si desume dallultima
colonna della tabella 1, lincidenza del reddito regionale
sulla media nazionale è andata aumentando nel quadriennio
considerato, ad eccezione del 1996 che, come si è già
detto, è risultato un anno di crisi (a crescita nulla)
per la Sardegna. Secondo la SVIMEZ, il PIL pro capite regionale
nel 2000 è stato di poco superiore ai 29 milioni di
lire.
Applicando allultima colonna della tabella 1, che riporta
lincidenza percentuale del PIL pro capite regionale
su quello nazionale, la colonna dei corrispondenti rapporti
tra il PIL pro capite nazionale e quello medio europeo, dove
i valori rapportati in questo caso sono dati ufficiali espressi
in euro, si ottengono i rapporti di incidenza, nei vari anni,
del reddito regionale su quello medio europeo. Questo risultato
è riportato nellultima colonna della tabella
2.
Come si è detto nel DPEF 2001-2003, quando si fanno
confronti internazionali sui livelli del reddito pro capite,
i paragoni possono essere falsati dal differente potere dacquisto
delle monete implicate nel calcolo, per cui lUnione
Europea trasforma le statistiche sul reddito dei vari paesi
espresse in euro ricalcolandole in termini di parità
di potere dacquisto (PPA).
Tab.3
Rapporti caratteristici tra PIL pro capite espressi
in parità
di poteri dacquisto (PPA)
Anno
|
Rapporto
Sar/Ita %
PIL espresso in lire
|
Rapporto
Sar/EU-15%
PIL espresso in PPA*
|
Rapporto
Sar/EU-15
Prezzi espressi in PPA
|
Rapporto
Sar/EU-15
Medie mobili triennali
|
1995
|
74,6
|
82,8
|
61,7
|
|
1996
|
73,7
|
91,4
|
67,4
|
76,7
|
1997
|
75,5
|
92,0
|
69,5
|
76,5
|
1998
|
75,9
|
91,2
|
69,2
|
76,4
|
1999
|
76,0
|
89,9
|
68,3
|
76,5
|
2000
|
74,9
|
88,7
|
66,4
|
|
*
Fonte: Economie Européenne, 2000, n. 70. |
Le
statistiche sul reddito così ricalcolate sono diventano
la base ufficiale per le decisioni della Commissione Europea,
tra cui quella più importante riguarda lindividuazione
delle aree e regioni dintervento a favore delle quali
indirizzare luso dei fondi strutturali nellambito
del Quadro Comunitario di Sostegno (QCS). In particolare,
la Sardegna è interessata dai finanziamenti che nellambito
di tale Quadro affluiscono allinterno dellObiettivo
1, che riguarda tutte le regioni in
ritardo di sviluppo, dove linserimento nellObiettivo
1 è riconosciuto solo a quelle regioni che non raggiungono
il 75% del reddito medio pro capite comunitario espresso in
PPA. Questultima percentuale, quindi, diventa molto
importante perché costituisce il fatto discriminatorio
per laccesso ai finanziamenti dei fondi strutturali.
Nel confronto con la media europea, in termini di potere dacquisto
il reddito italiano nel 2000 è valutato circa dieci
punti percentuali in più; ciò significa che
con gli stessi euro mediamente si acquista in Italia il 10%
di beni in più rispetto alla media europea. Come si
può notare dalla quarta colonna della tavola 3, il
rapporto in questione si mantiene costantemente al di sopra
del 75%, ad eccezione del 2000 quando ricade al 74,1%. Ciò
significa che la Sardegna rischia di non avere più
il presupposto del reddito per restare inclusa tra le regioni
dellobiettivo 1 del QCS.
Contabilità economica della Sardegna: valore aggiunto,
consumi e investimenti.
Nel SEC95, viene introdotto il nuovo concetto di valore aggiunto
ai prezzi base. I prezzi base includono i contributi ai prodotti
ed escludono lIVA e le altre imposte indirette sugli
stessi prodotti.
Determinante per lespressione del valore aggiunto ai
prezzi base, quindi, è la distinzione, richiesta dalla
Comunità Europea, tra contributi ai prodotti ed altri
contributi alla produzione. Tra i contributi ai prodotti rientrano
gli aiuti della nuova PAC (politica agricola comunitaria)
ai seminativi (cereali, semi oleosi ed altri) e alla produzione
di olio doliva, nonché i premi per bovini e ovicaprini
ed altri premi. Rientrano, invece, tra i contributi alla produzione
i contributi in conto interessi, quelli per calamità
naturali e gli aiuti nazionali e regionali allagricoltura.
Nei settori extragricoli, rientrano tra i contributi ai prodotti
quelli per il tabacco, bieticoltura, vino (mosti), ammassi,
trasformazione di pomodoro, frutta, vini (distillazione),
le compensazioni finanziarie, le restituzioni alle esportazioni
ed altri contributi vari.
Perciò, il valore aggiunto ai prezzi base (VApb)
include i contributi ai prodotti ed esclude le imposte indirette
sui prodotti. Includendo, invece, queste ultime ed escludendo
i contributi ai prodotti, si ritorna al concetto di PIL. In
pratica, se dal valore del PIL regionale, che nel 1998 era,
come si è detto, pari a 45.186 miliardi di lire, si
toglie lIVA e le altre imposte indirette, comprese le
imposte sulle importazioni, al netto dei contributi ai prodotti,
che nel 1998 erano di 5.419 miliardi di lire, si ottiene il
valore aggiunto regionale ai prezzi base, che nel 1998 è
stato di 39.766 miliardi di lire. Come noto, il valore aggiunto
include solo i beni di consumo e dinvestimento finali,
ma non i consumi intermedi. Esso corrisponde al valore della
produzione e, quindi, del reddito che si forma in ognuno dei
settori produttivi.
Riferendo lesposizione allultimo anno di cui si
dispone dei dati, cioè il 1998, il valore aggiunto
del settore agricolo è risultato leggermente inferiore
ai 2.000 miliardi di lire (Tav.5). Perciò, il contributo
di questo settore al VApb regionale è stato del 5%,
con unoccupazione del 9,1% delloccupazione totale
regionale. A livello nazionale, lincidenza del VApb
è del 3%, quindi ancora inferiore a quella regionale.
In particolare, alla produzione agricola regionale contribuiscono,
con unincidenza leggermente inferiore al 50%, le coltivazioni
agricole e con unincidenza leggermente superiore al
50% lallevamento. Quasi insignificante risulta, invece,
il contributo alla produzione della silvicoltura e della pesca.
Tra le coltivazioni, il contributo maggiore alla produzione
(circa il 40%) è dato dalle patate e dagli ortaggi,
dalle foraggiere (11%) e dai prodotti vitivinicoli (11%).
Tra i prodotti di allevamento, infine, le incidenze maggiori
si registrano per le carni e il latte.
Le differenze sostanziali tra la struttura del sistema produttivo
regionale e quello nazionale si verificano soprattutto nel
settore industriale e nella pubblica amministrazione (PA).
Il primo è sottodimensionato rispetto a quello nazionale,
la seconda è sovradimensionata. Il VApb del settore
industriale in Sardegna, infatti, è di poco inferiore
ai 6.000 miliardi di lire, pari al 14,4% del totale del VApb
regionale. La corrispondente incidenza media nazionale è
invece del 24%, ma nellItalia Nord-Occidentale essa
sale al 30%. In particolare nellindustria manifatturiera,
lincidenza del VApb è di poco superiore al 10%
a livello regionale, mentre la media nazionale è del
21,3% e nellItalia Nord-Occidentale essa è di
oltre il 27%, cioè quasi tre volte maggiore di quella
regionale.
Il VApb della PA in Sardegna, invece, è pari a 11.215
miliardi di lire. Esso incide a livello regionale per oltre
il 26% sul valore aggiunto totale, mentre nella media nazionale
esso incide solo per il 18,5%. In particolare, sussistono
le seguenti differenze tra i valori regionali e quelli medi
nazionali riportati tra parentesi: nella pubblica amministrazione
in senso stretto, inclusa la difesa e lassicurazione
sociale obbligatoria, lincidenza del VApb regionale
è del 9% (media nazionale 5,7%), nellistruzione
è di poco superiore all8% (5%), nella sanità
e altri servizi sociali è di poco superiore al 6% (4,6%),
mentre negli altri servizi pubblici, sociali e personali è
del 2,8% (3,3%).
Un quarto del valore aggiunto, sia a livello regionale, sia
a livello nazionale, è prodotto dal settore del commercio,
riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni.
In valori assoluti il VApb regionale di questo settore ammonta
ad oltre 10.000 miliardi di lire. Identicamente, non ci sono
grandi differenze nelle incidenze del VApb degli altri settori.
In particolare, il settore dellintermediazione monetaria
e finanziaria e delle attività immobiliari ed imprenditoriali
incide in
Sardegna per quasi il 23%, pari a 9.450 miliardi di lire,
mentre a livello nazionale esso incide per poco più
del 19%; infine, il settore delle costruzioni incide in Sardegna
per oltre il 7%, mentre a livello nazionale per meno del 5%
(Tavv.5 e 6).
Come si è già detto, i consumi delle famiglie
in Sardegna nel 1998 sono risultati pari a 29.884 miliardi
di lire (Tavv.7 e 8), corrispondenti a un consumo medio per
abitante di 18 milioni di lire.
Poiché
il consumo medio delle famiglie a livello nazionale è
di 21,4 milioni, lincidenza del consumo medio regionale
delle famiglie rispetto al corrispondente dato nazionale è
dell84%, cioè superiore di 8 punti percentuali
alla corrispondente incidenza del PIL pro capite regionale
su quello nazionale (75,9%). I consumi pubblici pro capite
a livello regionale, pari a 7,2 milioni, sono invece superiori
al corrispondente dato medio nazionale, pari a 6,5 milioni.
Sommando le due categorie di consumi ed aggiungendo anche
i consumi delle istituzioni sociali private, risulta che il
consumo totale regionale pro capite, come si è già
detto al paragrafo precedente, è di 25,4 milioni, contro
i 28 milioni del consumo totale pro capite nazionale, con
unincidenza del 90,1% del primo dato sul secondo.
Detto in altri termini, ogni sardo produce mediamente il 76%
della produzione media di ogni italiano, ma consuma il 90%
del consumo medio di ogni italiano.
Questo dato può essere interpretato come un indice
del benessere medio o livello di vita della popolazione. Si
può, cioè, sostenere che il livello di benessere
medio della popolazione regionale è circa il 90% del
corrispondente livello medio nazionale, nonostante che il
reddito medio regionale sia solo i tre quarti di quello medio
nazionale. Come si è già detto nel paragrafo
2.2.4., la spiegazione di questo apparente paradosso sta nei
trasferimenti di reddito dalle regioni più sviluppate
a quelle meno sviluppate, compiuti sia attraverso meccanismi
di mercato, sia attraverso la ridistribuzione del reddito
operata dalla pubblica amministrazione per il tramite della
spesa pubblica.
Per quanto riguarda la distribuzione della spesa delle famiglie
per categorie merceologiche, le voci più consistenti
sono i generi alimentari e bevande non alcoliche (5.054 miliardi),
le spese per labitazione, elettricità, gas ed
altri combustibili (5.736 miliardi), i trasporti (4.573 miliardi),
i mobili, elettrodomestici, articoli vari e servizi per la
casa (2.849 miliardi) e il vestiario e calzature (2.570 miliardi).
La distribuzione della spesa della PA, invece, riguarda prevalentemente
la sanità (3.000 miliardi) e listruzione (3.478
miliardi). Altre voci consistenti sono i servizi generali
(1.478 miliardi), lordine pubblico e la sicurezza (1.241
miliardi) e gli affari economici (1.208 miliardi).
Gli investimenti fissi lordi in Sardegna nel 1998 sono ammontati
a 10.754 miliardi di lire (Tavv.9 e 10), di cui le componenti
principali riguardano lindustria in senso stretto (2.416
miliardi), lintermediazione monetaria e finanziaria
e le attività immobiliari e imprenditoriali (3.070
miliardi), il commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti,
trasporti e comunicazioni (2.092 miliardi) e la pubblica amministrazione
(2.088 miliardi). Per branca produttrice, gli investimenti
totali si ripartiscono in 5.442 miliardi nel settore delle
costruzioni e 5.312 miliardi nel settore delle macchine, attrezzature,
mezzi di trasporto e altri prodotti. Infine, gli investimenti
nel settore agricolo sono risultati pari a 841 miliardi.
Come si è posto in evidenza nel paragrafo precedente,
il PIL regionale (45.186 miliardi) si ripartisce, nel conto
della distribuzione del prodotto interno lordo (Tav.3), in
redditi da lavoro dipendente (18.583 miliardi), imposte indirette
nette (6.610 miliardi) e risultato lordo di gestione (19.993
miliardi). Questultimo include anche i redditi misti
da lavoro e capitale.
I redditi da lavoro dipendente, a loro volta, possono essere
scomposti in retribuzioni lorde (13.800 miliardi) e contributi
sociali effettivi e figurativi (4.783 miliardi). Ciascuno
di questi aggregati, poi, può essere scomposto per
ramo e branca di attività economica (Tavv.12 e 13).
Si scopre così che il 46,5% dei redditi da lavoro dipendente
(8.649 miliardi su 18.583) sono erogati dalla pubblica amministrazione
in senso lato, compresa cioè listruzione, la
sanità e i servizi sociali. Gli altri redditi da lavoro
dipendente ammontano a 3.726 miliardi (20% del totale) nel
commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti e
comunicazioni, a 2.068 miliardi (11%) nellinterme-diazione
monetaria e finanziaria, attività immobiliari ed imprenditoriali,
a 2.741 miliardi (14,8%) nellindustria in senso stretto
e a 442 miliardi (2%) in agricoltura, silvicoltura e pesca.
Proporzioni simili si ripetono anche per la distribuzione
per branche delle retribuzioni lorde e per i contributi sociali
effettivi e figurativi.
La produttività del lavoro
Come noto, insieme ai dati di contabilità nazionale
e regionale, lIstat pubblica anche i dati relativi alle
unità di lavoro totali e agli occupati totali, suddivisi
in dipendenti ed indipendenti. Ciascuno di tali aggregati,
inoltre, è suddiviso per branca e ramo di attività
economica. In tal caso, lunità di misura è
costituita dallunità di lavoro standard
(ULA). Le unità di lavoro totali esprimono le unità
di equivalenza a tempo pieno, cioè riducono il numero
totale di lavoratori ad unità di lavoro standard.
Tra i dati delle unità di lavoro totali, calcolate
incrociando le informazioni di contabilità nazionale
con quelle dei censimenti e delle indagini campionarie sulla
rilevazione delle forze di lavoro, di cui si parlerà
più diffusamente al prossimo paragrafo, e quelli relativi
alle stesse indagini campionarie, sussistono talvolta ampie
differenze, come nel caso della Sardegna. Ad esempio, con
riguardo alla media del 1998, tale differenza è costituita
da 35 mila unità lavorative registrate in meno dalla
contabilità regionale rispetto al totale delle forze
di lavoro emergente dalle indagini campionarie.
Come si vede, la differenza non è di poco conto e ridimensiona
notevolmente la misura del tasso di disoccupazione nella sua
espressione tradizionale. La differenza tra unità di
lavoro ed occupati totali, infatti, si riduce ad appena il
3% del totale delle unità di lavoro.
In totale, le unità di lavoro nella media annuale del
1998 in Sardegna, infatti, si sono ragguagliate a 564,6 mila,
di cui 181 mila (32% del totale) riferibili al settore della
PA in senso lato, includente listruzione, la sanità,
lassicurazione sociale obbligatoria e gli altri servizi
pubblici sociali e personali.
Circa 154 mila unità sono presenti nel settore del
commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti e
comunicazioni, mentre una cifra variabile tra 60 e 65 mila
unità è presente in ciascuno degli altri settori
più importanti: 61 mila in agricoltura, 65 mila nellindustria
in senso stretto e 62 mila nelle attività dintermediazione
monetaria e finanziaria e nelle attività immobiliari
ed imprenditoriali (Tavv.14, 15 e 16).
Dividendo il PIL per le unità di lavoro totali, si
ottiene il PIL per occupato, che costituisce la misura della
produttività del lavoro. Il valore riferito alla Sardegna
nel 1998 è risultato di 80 milioni, contro i 90.2 milioni
del corrispondente dato medio nazionale (Tav.4). Ciò
significa che la produttività media del lavoro in Sardegna
è pari all88,7% di quella media nazionale.
Nello stesso anno, gli occupati totali in Sardegna risultanti
dai dati della contabilità regionale sono stati 547,6
mila, di cui 390,6 mila dipendenti e 157 mila indipendenti.
La distribuzione degli occupati per branca e ramo di attività
economica rispecchia essenzialmente quella delle unità
di lavoro (Tavv.17, 18 e 19).
Anche i dati elaborati da fonte Svimez relativi al CLUP regionale
(costo del lavoro per unità di prodotto, ottenuto dividendo,
per ogni unità di lavoro, il reddito con il valore
aggiunto), rilevano un crescente svantaggio competitivo dellisola
rispetto al Centro-Nord per tutta la seconda metà degli
anni 90.
Il mercato del lavoro in Sardegna
Come si è posto in evidenza nel DPEF 2001-03, un indicatore
che nel mercato del lavoro regionale si mantiene relativamente
stabile è costituito dal tasso di attività,
cioè dal rapporto tra le forze di lavoro e la popolazione
totale da 15 anni in su. Questo indicatore, che può
essere interpretato come una misura sintetica dellofferta
di lavoro, relativamente alla popolazione residente, oscilla
in Sardegna intorno a valori compresi tra il 45-46% sin dalla
seconda metà degli anni 70. Esso ha raggiunto
la punta massima del 50% nel 1992, per poi ridiscendere ai
suoi livelli abituali al di sotto del 47%. Negli ultimi anni,
la punta massima è stata toccata nellaprile 1999,
con un valore del 46,9%, ma nella media del 2000 il suo valore
è ridisceso al 46,5% (Tab.4). Il tasso di attività
a livello nazionale, invece, è del 48,2%, ma nel Mezzogiorno
esso scende al 43,9%.
In
valori assoluti, le forze di lavoro rilevate nellIsola
nella media 2000 sono risultate pari a 649 mila unità,
con una tendenza verso la diminuzione rispetto al valore medio
registrato nel 1997, ma in aumento rispetto al valore del
1998. Di queste, solo 515 mila unità sono risultate
occupate nella media del 2000, con un tasso di occupazione
totale (rapporto tra occupati e totale della popolazione di
15 anni e oltre) del 36,9%. Questultimo dato può
essere confrontato col tasso di
occupazione medio nazionale del 43,1% e con quello del Mezzogiorno
del 34,6%.
Il tasso di occupazione può essere considerato come
un indicatore sintetico della domanda di lavoro, sempre in
relazione alla popolazione potenzialmente attiva. Il tasso
di occupazione riferito alla principale classe di età,
cioè a quella compresa tra i 15-64 anni, in Sardegna
è diminuito dal 46,5% nel 1977 al 42,2% nel 1998, in
ciò assecondando una tendenza generale verso la diminuzione
presente in questo periodo anche in Italia e, più in
generale, nellintera Europa. Negli ultimi due anni,
però, esso è risalito al 43,9% nel 1999 e al
44,2% nel 2000. Lattuale tasso di
occupazione in Sardegna implica che su quattro persone in
età compresa tra 15-64 anni, lavorano solo 1,8 persone,
mentre lo stesso dato in Italia è pari a 2, in Europa
è pari a 2,5 e negli Stati Uniti è pari a 3.
Rispetto al totale della popolazione al di sopra dei 15 anni,
il tasso di occupazione in Sardegna nel 2000 è risultato,
come si è già detto, pari al 36,9%, il che significa
che mediamente ogni lavoratore sardo ha a carico altre due
persone (Tab.5).
La
maggiore evidenza delle debolissime condizioni del mercato
del lavoro regionale sono sintetizzate dal tasso di occupazione
ancora meglio di quanto non faccia il tasso di disoccupazione,
di cui si parlerà tra breve, anche se le sue più
recenti evoluzioni mostrano una leggera tendenza al rialzo.
Nel 1999, infatti, il tasso di occupazione regionale si è
attestato, come si è detto, sul 43,9%, con un recupero
di 1,7 punti percentuali sul 1998, che rispecchia un recupero
analogo verificatosi anche a livello nazionale (dal 50,8 nel
1998 al 52,5% nel 1999). Nel 2000 si è verificato un
ulteriore leggero recupero, che ha portato il valore del tasso
di occupazione in Sardegna al 44,2%.
Tale incremento riguarda essenzialmente le classi di età
giovanili, dai 15 ai 25 anni, dove tale tasso è aumentato
dal 15,4% nel 1999 al 17,5% nel 2000, mentre per le classi
più anziane il tasso in questione è leggermente
diminuito (Tab.6).
Peraltro,
la scomposizione di questo indicatore per genere e classi
di età conferma che anche in Sardegna il problema occupazionale
riguarda essenzialmente i giovani e le donne, mentre per quanto
riguarda i maschi della fascia principale di età (30-64
anni) il problema si presenta relativamente meno drammatico.
Il corrispondente tasso di occupazione regionale di questa
classe di età, infatti, nel 2000 si è attestato
sul 73,3%, con un leggero incremento sul 1999, contro un livello
di poco superiore nella media nazionale (76,9%) e, tutto sommato,
non molto discosto dalla media europea. Le differenze, anche
molto consistenti, sorgono invece con riferimento alloccupazione
giovanile e femminile. Per quanto riguarda i giovani, ovvero
la classe di età compresa tra 15-24 anni, il tasso
di occupazione medio in Sardegna nel 2000 è risultato
del 17,5%, in crescita rispetto al 15,4% del 1999. Esso risulta,
però, di molto inferiore al corrispondente tasso nazionale
(26%) e notevolmente inferiore a quello europeo (38%), per
non parlare di quello medio statunitense (52%).
Per le donne, poi, il tasso di occupazione complessivo è
prima migliorato, passando dal 26,4% nel 1998 al 28,2% nel
1999, ma poi è ridisceso al 27,5% nel 2000. Ciò
testimonia del fatto che la situazione del mercato del lavoro
femminile in Sardegna resta molto debole. Di fatto, mediamente
solo una donna su quattro lavora in Sardegna, mentre in Italia
il tasso di occupazione femminile è superiore di dieci
punti percentuali a quello regionale (39,6%) ed in Europa
esso supera il 50%. Per non parlare degli Stati Uniti, dove
il tasso di occupazione femminile è del 68%. Tra le
giovani donne 25 (classe di età 15-24 anni), infine,
solo il 12% risultano occupate in Sardegna, contro valori
medi pari al 22,1% in Italia, 33% in Europa e 52% negli USA.
Peraltro, la distribuzione settoriale delloccupazione
in Sardegna mostra una netta prevalenza delloccupazione
nel settore dei servizi (68,7% nella media del 2000), di cui
il 16,5% riguarda il settore del commercio. Scarso risulta
il contributo degli altri settori, suddiviso tra il 9,1% in
agricoltura, il 9,5% nellindustria in senso stretto
e l11,1% nel settore delle costruzioni. In valori assoluti,
loccupazione regionale nel 2000 si è attestata
sulle 515 mila unità, meno di un terzo dellintera
popolazione.
Come si è detto, il totale degli occupati in Sardegna
nella media del 2000 è risultato di 515 mila unità.
Di questi, 470 mila sono risultati occupati a tempo pieno,
mentre 45 mila unità sono risultate occupate a tempo
parziale, pari all8,7% (media nazionale 8,4%) del totale
degli occupati. In particolare, loccupazione a tempo
parziale è stata di 4 mila unità in agricoltura,
7 mila unità nellindustria e 34 mila unità
nei servizi.
Alla debolezza del mercato del lavoro regionale in termini
di tasso di occupazione fa da riscontro altrettanta debolezza
in termini di tasso di disoccupazione. In valori assoluti,
le persone in cerca di occupazione in Sardegna nella media
del 2000 sono risultate, come si è detto, pari a 134
mila unità, corrispondenti al 20,6% del totale delle
forze di lavoro. Nella drammaticità di questo dato,
un aspetto, se così si può dire, ancora più
drammatico è costituito dal fatto che per la maggior
parte si tratta di disoccupazione di lunga durata (oltre i
due anni). Questultima, infatti, è pari a 86
mila unità (64% della disoccupazione totale). Solo
28 mila unità sono considerate disoccupate di durata
breve (sotto un anno) e 18 mila di durata media (tra uno e
due anni). Se poi si tiene conto che oltre alle 134 mila persone
alla ricerca attiva di un lavoro se ne aggiungono altre 130
mila che, pur non facendo parte delle forze di lavoro, tuttavia
cercano ugualmente unoccupazione anche se in maniera
non attiva (48 mila) o essendo disposte a lavorare solo a
determinate condizioni (82 mila), se ne conclude che lattuale
situazione del mercato del lavoro regionale, quanto al fenomeno
disoccupazionale, sia ancora abbastanza preoccupante.
Il problema della disoccupazione si è andato aggravando
in Sardegna dopo il 1978. Sino a tale anno, infatti, il tasso
di disoccupazione era ancora contenuto al di sotto del 12%.
A partire dal 1979, invece, esso balza subito oltre il 14%
e va continuamente crescendo negli anni successivi, sino a
raggiungere il 21,5% nel 1985, per poi rimanere su livelli
compresi tra il 18 e il 21% negli ultimi quindici anni. Nella
media del 1999, esso si è attestato proprio al livello
del 21%, dove in
pratica sosta dal 1995, mentre nella media del 2000 si è
verificata una leggera diminuzione al 20,6% (Tav.6). Si tratta
di un livello allineato col corrispondente dato del Mezzogiorno
e doppio rispetto al dato medio nazionale (10,6%).
Anche con riferimento a questo indicatore del mercato del
lavoro, il dato medio in realtà nasconde una varietà
di situazioni molto più articolata. Come si è
già visto per la debolezza del tasso di occupazione,
infatti, anche il problema della disoccupazione riguarda molto
meno i maschi della principale classe di età (30-64
anni), mentre si concentra per lo più sui giovani e
sulle donne. Per i primi, dopo un peggioramento dal 9,1% nel
1998 al 10,5% nel 1999, è seguito un netto miglioramento
al 9% nel 2000. Anche il tasso di disoccupazione della classe
di età 15-24 anni è 26 migliorato, passando
dal 47,7% nel 1999 al 44,4% nel 2000, mentre è rimasto
invariato il tasso di disoccupazione della classe 25-29 anni
al 35,6%.
Per le donne, invece, la situazione si presenta veramente
drammatica, con un valore medio del tasso di disoccupazione
che si mantiene costante intorno al 30% negli ultimi tre anni,
ma che diventa del 65,2% per le giovani nel 1999, sceso al
62,3% nel 2000. Per la classe di età 15-24 anni, peraltro,
non ci sono grandi differenze tra maschi e femmine ed il dato
disoccupazionale medio si attesta oltre il 55% nel 1999, scendendo
al 52,1% nel 2000.
In valori assoluti, la disoccupazione in Sardegna ha subito
un aumento nel biennio 1998-99. Si è passati,
infatti, da un numero di disoccupati dellordine di 130-135
mila unità nel biennio 1997-98 a 142 mila unità
nel 1999, confermando così la tendenza al peggioramento
già posta in evidenza dallesame del tasso di
disoccupazione. Nel 2000, invece, si è verificato un
calo della disoccupazione assoluta di circa 8.000 unità.
Nella media dellanno, infatti, il numero di disoccupati
è risultato di 134 mila unità.
Con riguardo alla più recente dinamica settoriale,
il settore più dinamico è quello dei servizi,
il quale è passato da 301 mila occupati del 1993 ai
354 mila dello scorso gennaio, con un incremento di 51 mila
posti (+17% in sette anni). Dopo sei anni di costante discesa,
inoltre, nel gennaio 2001 inverte la sua tendenza occupazionale
anche il settore industriale, che aumenta loccupazione
di 8 mila unità rispetto al gennaio 2000.
In costante calo, infine, il settore agricolo, che a gennaio
scorso ha registrato unoccupazione di appena 46 mila
unità, circa mille unità in meno della media
del 2000. Rispetto al 1993, la flessione delloccupazione
in questo settore è di 14 mila persone, con un calo
del 23,3%. In questo periodo, cioè, un lavoratore su
quattro ha abbandonato il settore agricolo in Sardegna.
Le previsioni di evoluzione della congiuntura a breve
scadenza
La prossima congiuntura internazionale
Come si è detto nei paragrafi precedenti, il quadro
congiunturale nei primi mesi del 2001 sta evolvendo significativamente,
se non proprio verso una recessione, certamente verso un forte
rallentamento dellespansione del reddito e delloccupazione.
Il picco superiore del ciclo è stato raggiunto tra
il secondo ed il terzo trimestre del 2000, mentre il rallentamento,
iniziato come si è visto già nel quarto trimestre
dellanno scorso, sta proseguendo nel corso dei primi
mesi del 2001.
Segnali inequivocabili di tale rallentamento sono costituiti,
oltre che dalle previsioni dei principali istituti di ricerca,
anche dal crollo nel mese di marzo dellindice del clima
di fiducia delle imprese sia in America, sia in Europa ed,
in particolare, nellArea delleuro. Altri segnali
sono costituiti dal forte calo degli ordini di beni durevoli
negli Stati Uniti e, in Italia, dalla diminuzione del fatturato
e degli ordinativi dellindustria nei primi mesi dellanno.
Nei primi mesi dellanno in corso sembrava che la crisi
americana potesse lasciare indenne lEuropa, ma col trascorrere
del tempo è apparso sempre più chiaro che il
rallentamento degli Stati Uniti si potrà riflettere
in misura sempre più pesante sul tasso di crescita
dellUnione Europea. Così, man mano che gli aggiornamenti
delle previsioni si susseguono nel tempo, i dati vengono in
continuazione modificati in senso peggiorativo.
Ai primi di aprile, infatti, le maggiori banche nazionali
ed internazionali hanno tagliato le stime di crescita di tutti
i paesi industrializzati per lanno in corso, anche se
generalmente continuano a prevedere una sensibile ripresa
per il 2002. In particolare, le previsioni di crescita dellArea
delleuro per lanno in corso variano tra il 2,3%
della Morgan Stanley e di Merryl Lynch al 2,5% dellAbn
Amro e della Comit, con incrementi previsti tra il mezzo punto
e un punto percentuale per il 2002.
Leggermente più ottimistiche risultano le previsioni
dellOcse, che danno per lanno in corso una crescita
del 2,7% sia per lArea delleuro, sia per lintera
Unione europea. Se si tiene conto che nei primi mesi dellanno
le previsioni di crescita dellEuropa erano attestate
sul 3,5%, se ne deduce che la crisi americana verrà
a costare al Vecchio Continente un buon punto percentuale
in meno in termini di mancato sviluppo.
Nella seconda metà di aprile, sono state diramate le
previsioni del FMI nel suo World Economic Outlook, che indica
una crescita a livello mondiale del 3,2% per il 2001 (un punto
percentuale in meno rispetto alla previsioni dellottobre
2000) contro il 4,8% dellanno scorso. Secondo il FMI,
la crescita dellEuropa si attesterà sul 2,4%
nel 2001 (anchessa un punto percentuale in meno rispetto
alla previsioni dellottobre 2000) e sul 2,8% nel 2002,
mentre le previsioni di primavera della Commissione europea
indicano una crescita dellEuropa del 2,8% nel 2001 e
del 2,9% nel 2002. Le previsioni della Commissione, quindi,
che in ordine temporale arrivano per ultime insieme a quelle
del FMI (25 aprile 2001), nonostante una limatura al ribasso
dello 0,3% rispetto alle previsioni dellautunno scorso,
risultano essere anche quelle più ottimistiche per
il Vecchio Continente.
Le previsioni della Commissione sono ottimistiche anche per
quanto riguarda linflazione europea, che dovrebbe attestarsi
leggermente al di sopra del 2% nel 2001, per scendere all1,8%
nel 2002.
A mantenerla sotto controllo contribuirà il prolungamento
della moderazione salariale. I salari nominali nellArea
delleuro, infatti, saliranno del 3% nel 2001 e del 3,2%
nel 2002. I costi unitari del lavoro saliranno più
rapidamente che negli ultimi anni, ma senza mettere a rischio
la crescita dei profitti delle imprese.
Nel mercato del lavoro europeo, dopo la buona performance
verificatasi nel 2000 con un incremento, come si è
detto, di 2,9 milioni di nuovi posti di lavoro, la Commissione
prevede che nel prossimo biennio ne verranno creati altri
3,9 milioni, per cui la disoccupazione dovrebbe scendere dal
7,7% nel 2001 al 7,2% nel 2002 nellinsieme degli stati
dellUnione e dall8,5 al 7,9% nellarea delleuro.
Le migliori performance occupazionali sono previste in Spagna,
Francia e Grecia.
Sul versante dei conti pubblici, grazie alle riforme e ai
tagli fiscali in Germania e Olanda e ad un certo allentamento
della politica di bilancio in alcuni paesi, tra cui lItalia
e la Gran Bretagna, lUnione Europea beneficerà
di una politica leggermente espansionistica, che dovrebbe
comunque essere compatibile con lobiettivo di consolidamento
fiscale. Ma tutto questo, riconosce la Commissione, dipende
dallevoluzione a breve che subirà leconomia
americana.
Le previsioni per gli Stati Uniti, infatti, sono più
basse di quelle europee per lanno in corso, ma in netta
ripresa per il 2002. Nellanno in corso, leconomia
americana dovrebbe rallentare tra l1,5-1,6% per Merryl
Linch, Abn Amro e Comit, mentre Morgan Stanley prevede una
vera e propria recessione, con una crescita di appena lo 0,9%,
ma in forte ripresa (al 4,2%) nel 2002. Anche le previsioni
dellOcse danno una crescita modesta per lanno
in corso, dell1,7%, ed analogamente fa la Commissione
europea, che prevede per gli Stati Uniti una crescita dell1,6%
per il 2001 e del 3% per il 2002.
Secondo il FMI, invece, una crescita dell1,7% negli
USA per il 2001 si può avere solo in uno scenario più
favorevole in cui ad un primo semestre sostanzialmente piatto
segua un secondo semestre in forte ripresa, dellordine
del 3-4%. Ma questo scenario, pur essendo probabile, non è
certo. Potrebbe accadere, infatti, che il rallentamento delleconomia
americana sia più prolungato e si estenda anche al
secondo semestre dellanno. In tal caso saranno guai
per tutti e non solo per gli USA, la cui crescita comunque,
per il FMI non supererà nel 2001 l1,5%. Gli elementi
di maggiore preoccupazione delleconomia americana sono
costituiti dalla sopravvalutazione del dollaro, dalle dimensioni
abnormi del deficit delle partite correnti, dagli elevati
prezzi azionari e dal tasso negativo di risparmio degli americani.
Cè tuttavia da rilevare che a fine aprile è
stato diramato il dato ufficiale di crescita del PIL americano
nel primo trimestre 2001, risultato pari al 2% e giudicato
da tutti gli analisti superiore alle attese. Esso è
stato spiegato dagli esperti come dovuto essenzialmente alla
diminuzione delle importazioni per 43 miliardi di dollari,
piuttosto che ad un aumento dei consumi e degli investimenti
interni, che risentono invece del clima di sfiducia negativo
di cui si è già detto.
Una situazione di grave recessione, peraltro, continua a permanere
in Giappone, dove la crescita 2001 sarà minima o nulla.
Le previsioni più ottimistiche (+1%) sono fornite dallOcse
e dalla Commissione europea. Secondo il FMI, invece, la crescita
di questo paese per lanno in corso non supererà
lo 0,6%, per salire all1,5% nel 2002. E ovvio
che il Giappone, avendo uneconomia fortemente orientata
verso lesportazione, risenta, ancora più dellEuropa,
del forte rallentamento delleconomia americana. Per
questo paese, il FMI sottolinea limportanza di procedere
sulla strada delle riforme dei mercati finanziari. Il nuovo
governo recentemente entrato in carica in Giappone sembra
aver percepito limportanza di dare priorità alla
ristrutturazione del sistema bancario, mentre la nuova politica
monetaria della Banca centrale dovrebbe sostenere la crescita
mantenendo i tassi ufficiali vicino allo zero.
I mercati emergenti sono unaltra area che preoccupa
il FMI. Con leccezione di India e Cina, che continueranno
a mantenere tassi di crescita elevati, rispettivamente del
5 e del 7%, gli altri paesi asiatici verranno colpiti dalla
recessione di USA e Giappone. In America latina, il Messico
risente del rallentamento USA, mentre la situazione dellArgentina
si fa sempre più critica, col rischio sempre più
concreto di ripercussioni negative anche negli altri paesi
emergenti e soprattutto in Brasile. Infine, tra i paesi dellEuropa
Orientale, restano invariate al 4% le previsioni di crescita
per il 2001 della Russia.
La prossima congiuntura europea e nazionale
Nei principali paesi dellUE, la Spagna è il paese
con le migliori prospettive di crescita anche per lanno
in corso, che variano tra il 2,8% di Morgan Stanley e Abn
Amro e il 3,2% di Merryl Lynch e della Commissione europea,
mentre in Germania e Francia le previsioni variano tra il
2 e il 2,6% per lanno in corso, con prospettive più
favorevoli per il secondo paese rispetto al primo. Tra i paesi
minori, invece, le migliori prospettive di crescita, pari
al 7,5% nel 2001 e 7,1% nel 2002, si riferiscono allIrlanda,
il cui tasso di disoccupazione secondo la Commissione calerà
ancora al 3,8% nel 2001 e al 3,5% nel 2002. Il costo maggiore
pagato da questo paese per sostenere un ritmo di crescita
così elevato, nettamente superiore a quello di qualsiasi
altro paese sviluppato, è dato da uninflazione
al 4% nel 2001 e al 3,6% nel 2002.
LOcse, invece, prevede per il 2001 una crescita del
2,8% per la Francia e del 2,2% per la Germania, previsioni
sostanzialmente simili a quelle della Commissione europea,
mentre il FMI dà una crescita del 2,9% alla Spagna,
del 2,6% alla Francia e solo dell1,9% alla Germania.
Secondo il FMI, infatti, la Germania, più ancora dellItalia,
sarà il paese europeo che, avendo uneconomia
orientata verso le esportazioni, sarà maggiormente
colpito dal rallentamento delleconomia americana. Rispetto
alle previsioni dello stesso FMI del mese di settembre 2000,
la crescita tedesca per il 2001 è stata rivista al
ribasso di ben 1,4 punti percentuali, che si configura come
laggiustamento più brusco previsto tra tutti
i paesi europei.
Analogamente, anche secondo la Commissione europea, la Germania
sarà il paese che risentirà in misura maggiore
del rallentamento della crescita americana. Ciò in
quanto, anche se le esportazioni negli USA rappresentano solo
il 3% del PIL europeo, i paesi maggiormente esposti restano
tuttavia la Germania, lItalia e lIrlanda, nonché
la Svezia e la Finlandia per quanto riguarda lindustria
hightech.
La Commissione riconosce che lattuale rallentamento
potrebbe prolungarsi oltre lestate in un clima di volatilità
dei mercati finanziari e dei cambi, visto il pesante deficit
corrente e il basso tasso di risparmio americani. In questo
scenario, ammonisce la Commissione, la domanda interna europea
potrebbe essere investita da una crisi di fiducia e cominciare
a perdere vigore, provocando una decelerazione della crescita
più pronunciata di quanto non fosse prevedibile a fine
aprile.
Nel complesso, la Commissione europea è consapevole
dei grossi rischi insiti nellattuale congiuntura internazionale.
Perciò essa accompagna le sue previsioni di primavera
con tre raccomandazioni, contenute nei Grandi Orientamenti
di Politica Economica (GOPE) per lUnione, che sono:
a) preservare la spinta allespansione delleconomia
con una politica macroeconomica improntata alla stabilità,
in modo da conquistare la fiducia degli investitori; b) rafforzare
la crescita potenziale europea attraverso le riforme strutturali,
il completamento del mercato unico, una maggiore flessibilità
e mobilità del mercato del lavoro, crescenti iniezioni
di concorrenza nelleconomia, innovazione e sviluppo
dello spirito imprenditoriale; c) prepararsi ad affrontare
il problema dellinvecchiamento della popolazione con
la riforma dei sistemi pensionistici e dello stato sociale.
Per lItalia, lOcse prevede una crescita nel corso
del 2001 del 2,5%, sostanzialmente simile a quella del governo
e della Commissione europea. Tale previsione risulta leggermente
al di sotto del 2,6% indicato dalla Comit, ma superiore al
2% previsto da Morgan Stanley. Leggermente più ottimistiche
(+2,7%) sono anche le previsioni del CER, con una lieve tendenza
allaumento per gli anni 2002-3. La stessa Banca dItalia,
che prevede una crescita del 2,5%, pone in evidenza i segnali
di rallentamento che arrivano dai principali indicatori anticipatori,
mentre le altre previsioni di crescita per il 2001 variano
tra il 2,5% della Confindustria e del Ref-Irs e il 2,4% dellISAE
.
La crescita economica nel nostro paese è prevista attenuarsi,
come nel resto dEuropa, soprattutto a causa del mutamento
in atto nello scenario internazionale. Occorre, infatti, fare
i conti non solo con la frenata delleconomia americana
e il suo conseguente minore sostegno della domanda mondiale,
ma anche con le continue tensioni provenienti dal Giappone
e, almeno per quanto concerne lEuropa, con le preoccupazioni
indotte dai più recenti dati sulleconomia tedesca,
di cui, come si è detto, si sono resi particolarmente
interpreti sia il FMI, sia la Commissione europea. In particolare,
il FMI risulta particolarmente severo nelle sue previsioni
per il nostro paese. Esso stima, infatti, per lItalia
una crescita nel 2001 del 2%, sostanzialmente simile a quella
prevista da Morgan Stanley. Entrambi i paesi, Italia e Germania,
però, nelle previsioni del FMI, avranno un rimbalzo
positivo nel 2002, che porterà le rispettive economie
a crescere rispettivamente del 2,5 e del 2,6%.
La principale raccomandazione del FMI allItalia è
quella di ridurre il debito pubblico, altrimenti limpegno
di ridurre il rapporto deficit/PIL nel 2001 all1% come
annunciato dal governo (rispetto allo 0,8% fissato dal patto
di stabilità) non potrà essere mantenuto ed
il rapporto salirà all1,3%, il che renderà
certamente più faticoso il raggiungimento del pareggio
di bilancio che il patto di stabilità prevede per il
2003. Le ulteriori previsioni del FMI per il nostro paese
sono: inflazione 2,2 e 1,6 % rispettivamente nel 2001 e nel
2002; disoccupazione 9,9 e 9,5%; deficit/PIL 1,3 e 1,2% e
debito/PIL 107,5 e 105,3%. Infine, il costo del lavoro per
unità di prodotto, che nel 2000 è cresciuto
dell1,5%, crescerà nella stessa misura anche
nel 2001 e dello 0,7% nel 2002.
Secondo la Commissione europea, invece, lItalia sta
perdendo competitività, con una deludente performance
sui mercati europei, dovuta essenzialmente ai ritardi nelle
liberalizzazioni e ai gap di produttività rispetto
alle altre aree geografiche. Per recuperare, secondo la Commissione,
sono necessarie incisive riforme che favoriscano la flessibilità
e linnovazione dei mercati ed avviino a soluzione il
problema pensionistico.
La raccomandazione della Commissione (GOPE) fatta allItalia,
quindi, prevede che la politica di bilancio debba raggiungere
nel 2001 lobiettivo dello 0,8% del PIL per il deficit,
con una riduzione costante nel 2002 ed il pareggio nel 2003.
Molto dipenderà dal ritmo della crescita economica
che, come si è detto, la Commissione prevede del 2,5%
nel 2001 e del 2,7% nel 2002, con un tasso annuo dinflazione
rispettivamente del 2,2% e dell1,9%, una disoccupazione
in discesa dal 9,8 al 9,3%, investimenti in aumento del 5,5%
e del 6,2% e debito pubblico in calo dal 105,7% del PIL questanno
al 102,6% il prossimo.
In particolare, la Commissione raccomanda inoltre allItalia
di:
- adottare
una maggiore differenziazione nella dinamica salariale per
compensare il gap di produttività tra le diverse
zone geografiche e tenere conto delle diverse condizioni
del mercato del lavoro a livello locale;
- aumentare
la flessibilità dello stesso mercato del lavoro combinando
misure per migliorare la protezione sociale dei disoccupati
con lallentamento di quella degli occupati a tempo
indeterminato;
- diminuire
il carico fiscale sul lavoro riducendo gradualmente tasse
ed oneri sociali,
con un occhio di riguardo ai salari bassi, per aumentare
le opportunità per i lavoratori poco qualificati,
senza gravare troppo sul bilancio pubblico, né sui
progressi da fare per ridurre il debito.
In
conclusione, con riguardo allo scenario europeo, si può
sostenere che il secondo anno di vita delleuro sia stato,
tutto sommato, un buon anno. La crescita del PIL è
stata la più marcata da molti anni a questa parte e
così è stato anche per loccupazione, mentre
il tasso di disoccupazione è sceso ai livelli di dieci
anni fa. Inoltre, non vi sono state gravi tensioni inflazionistiche,
salvo la fiammata dei prezzi del petrolio durata alcuni mesi.
Laltro elemento negativo è costituito dalla sottovalutazione
delleuro nel mercato dei cambi, che tuttora persiste.
Nel complesso, però, i mercati dei prodotti sono diventati
più competitivi e i mercati dei capitali più
integrati.
Quanto al mercato del lavoro, le riforme introdotte nei vari
paesi lo hanno reso più flessibile, il che ha consentito
un sostenuto incremento delloccupazione, soprattutto
di quella congiunturale. La disoccupazione strutturale, invece,
permane ancora elevata nelle regioni meno sviluppate, come
il Mezzogiorno italiano e la Germania dellEst.
A queste notizie confortanti sullo scenario più immediato,
però, fanno da contrappeso le previsioni di un forte
rallentamento delleconomia mondiale per lanno
in corso, che non mancheranno di riflettersi negativamente
non solo a livello nazionale ed europeo, ma anche a livello
regionale. Per contrastare tali effetti negativi, è
tanto più necessaria una politica regionale di sostegno
agli investimenti produttivi e alloccupazione.
La prossima congiuntura regionale
Fare previsioni di crescita del PIL a livello regionale è
un compito particolarmente complesso che raramente dà
risultati attendibili. I soggetti pubblici e privati che in
passato si sono cimentati al riguardo, di solito, sono stati
smentiti successivamente dai dati reali a consuntivo. Ciò
dipende essenzialmente dal fatto che uneconomia regionale
è ancora più influenzata di quella nazionale
da eventi esterni che ne condizionano lo sviluppo. Le condizioni
locali di sviluppo, cioè, sono molto più soggette
a variabilità di quanto non lo siano quelle delleconomia
nazionale o internazionale. Inoltre, comprensibilmente, più
si disaggrega il sistema economico a livello locale e si ,
meno attendibili risultano le previsioni di crescita, sia
del PIL, sia di altre macrovariabili significative come il
valore aggiunto o loccupazione.
Nel caso della Sardegna, inoltre, il compito previsivo è
ancora più complicato dal fatto che gli ultimidati
ufficiali di contabilità nazionale di cui si dispone
risalgono, come si è detto, al 1998. Le previsioni
di crescita, perciò, devono innanzitutto essere fatte
per gli anni già trascorsi 1999 e 2000 e su queste
si possono quindi innestare le previsioni vere e proprie riguardanti
lanno in corso ed eventualmente il prossimo anno.
Allo stato attuale esistono le stime per i due anni già
passati 1999 e 2000 fatte dallo SVIMEZ, che vengono riportate
nella tabella 7 insieme alle previsioni per il 2001 e 2002
riguardanti sia la Sardegna, sia lItalia.
Le
stime della SVIMEZ attribuiscono alla Sardegna un tasso di
crescita del PIL dello 1,7% nel 1999 e dell1,4% nel
2000. Questultimo risulterebbe tra i tassi di crescita
più bassi riferiti a tutte le regioni italiane. Dal
confronto con i corrispondenti tassi di crescita a livello
nazionale, pertanto, se questi dati fossero confermati dai
futuri dati ufficiali dellISTAT, ne deriverebbe che
dal 2000 la Sardegna cresce meno della media nazionale, il
che potrebbe anche riportare il rapporto tra il PIL regionale
e quello medio europeo al di sotto del 75%. Peraltro, la minore
crescita regionale sarebbe in linea con il più basso
tasso di sviluppo rispetto al Centro-Nord, che avrebbe caratterizzato
leconomia del Mezzogiorno nel biennio 1999-2000, ma
in contrasto con laumento delloccupazione nello
stesso periodo. Come si è già posto in evidenza,
tuttavia, è possibile che i dati ufficiali che saranno
diramati dallISTAT nei prossimi mesi possano smentire
queste valutazioni.
Per quanto riguarda lanno in corso, lunica previsione
esistente a livello regionale è quella del CRENOS,
che stima una crescita del PIL dell1,7%, mentre stima
nell1,9% la crescita del 2002.
Rispetto ai tassi di crescita previsti a livello nazionale
(rispettivamente del 2,5 e del 2,7% nei due anni, nella tabella
7 sono riportate per comodità le previsioni della Commissione
Europea), le previsioni di crescita del PIL regionale sono
più contenute, ma allo stesso tempo sono soggette ad
un forte elemento di aleatorietà.
Per completezza di esposizione, occorre notare che il governo
nazionale stima per il Mezzogiorno di raggiungere nel biennio
2001-2 un tasso di crescita medio del 4% annuo attraverso,
tra laltro, la realizzazione di un nutrito programma
di opere pubbliche, che interessano anche la Sardegna. Ci
si può attendere, pertanto, che le politiche di sviluppo
tracciate in questo documento insieme al programma di sviluppo
del Mezzogiorno tracciato dal governo contribuiranno a sostenere
un tasso di sviluppo medio regionale in grado di scavalcare
quello medio nazionale e che si collochi ad un livello non
inferiore al 3%.
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