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Indice

1. ANALISI DELLA SITUAZIONE DI PARTENZA

1.1. Considerazioni sull’economia del Mezzogiorno

1.1.1.     Situazione socioeconomica e divari regionali

 

L’economia italiana ha registrato un tasso di crescita inferiore alla media dell’Unione Europea nel periodo 1994-1999 (rispettivamente l’1,7% e il 2,3% in termini reali). Nel medesimo periodo, anche il PIL pro capite in standard di potere d’acquisto (SPA) ha subito una contrazione rispetto alla media UE. Secondo le previsioni di primavera 2000 della Commissione Europea, dovrebbe verificarsi un’accelerazione della crescita del PIL negli anni 2000-2001; l’intensità di tale incremento dipenderà in particolare da un sostenuto consumo privato, da un aumento degli investimenti privati (stimolati da bassi tassi di interesse e dalla stabilità dell’Unione Economica e Monetaria), dal miglioramento delle finanze pubbliche e dalla crescita delle esportazioni.

La situazione del mercato del lavoro in Italia ha mostrato un miglioramento nel 1999, che ha riguardato l’area centro-settentrionale del paese, registrando un tasso di crescita dell’occupazione pari all’1,3% (rispetto all’1,3% nell’Unione Europea) e una riduzione della disoccupazione all’11,4% (contro il 9,2% nell’UE). Tuttavia, gli anni ’90 hanno segnato in generale un periodo caratterizzato da tassi ridotti di sviluppo dell’occupazione e da un aumento della disoccupazione. La disoccupazione di lunga durata rimane in effetti a un livello elevato, pari al 67,9% del totale dei disoccupati nel 1998 (rispetto al 49,3% nell’UE). Secondo le previsioni della Commissione Europea, il miglioramento riscontrato nel 1999 potrà essere confermato nel periodo 2000-2001, in relazione anche alla realizzazione di ulteriori riforme volte all’aumento dell’efficienza nel funzionamento del mercato del lavoro.

Indicatori macroeconomici in Italia 1993-2001

 

1993      1994      1995      1996      1997      1998      1999

2000      2001

Crescita del PIL

variazione % annua

-0,9        2,2         2,9         1,1         1,8         1,5         1,4

2,7         2,7

PIL pro capite

SPA (UE=100)

102,1     102,7     103,3     103,2     101,7     100,8      99,7

98,9       98,6

Occupazione

variazione % annua

-2,5        -1,5       -0,1        0,4         0,1         0,6          1,0

1,1         1,2

Disoccupazione

% della forza lavoro

10,2       11,2       11,6       11,7       11,7       11,8        11,3

10,8       10,4

Prezzi al consumo

(indice armonizzato)

variazione % annua

4,5          4,2        5,4         4,0         1,9         2,0          1,7

2,1         1,9

Fonte: Commissione Europea – Previsioni Economiche di Primavera 2000

Nota: Dati effettivi per il periodo 1993-1999; previsioni per il periodo 2000-2001

Per quanto riguarda le finanze pubbliche, l’aggiornamento del Programma di Stabilità dell’Italia effettuato nel dicembre 1999 mostra una riduzione dell’indebitamento netto dal 7,7% del PIL nel 1995 fino al 2% del PIL nel 1999. Il livello del debito pubblico rimane elevato, ma è diminuito dal 119,8% del PIL nel 1997 al 114,9% del PIL nel 1999, e si prevedono ulteriori riduzioni fino a raggiungere il 100% del PIL nel 2003. Il Programma di Stabilità prevede una riduzione del totale delle entrate delle amministrazioni pubbliche nel periodo 2000-2003 e una diminuzione delle spese correnti e delle spese in conto capitale.

Le finanze delle amministrazioni pubbliche (valori espressi in % del PIL)

 

1997        1998        1999

2000        2001        2002        2003

Totale entrate

48,1         46,5         46,7

46,3         45,8         45,3         44,9

Spese in conto capitale

3,5           3,7           4,0

4,0           3,9           3,6           3,5

Spese correnti

(al netto degli interessi)

38,0         37,6         37,9

37,3         36,9         36,5         36,2

Spesa per interessi

9,5           8,0           6,9

6,5           6,1           5,7           5,3

Indebitamento netto

-2,8          -2,7         -2,0

-1,5         -1,0          -0,6          -0,1

Debito pubblico

120,2      116,8       114,7

111,7      108,5       104,3       100,0

Fonte: Programma di Stabilità dell’Italia, aggiornamento dicembre 1999

Nota: Dati effettivi per il periodo 1997-1998; stime per il 1999; previsioni per il periodo 2000-2003

Il Mezzogiorno d’Italia durante il decennio 1990-1999 ha attraversato una fase economica relativamente negativa se confrontato con il resto delle regioni italiane e dell’Europa in generale. Infatti si è assistito a un aumento del divario di sviluppo tra Sud e Nord: la crescita registrata è stata inferiore a quella attesa. Questo fenomeno non ha interessato però in egual misura tutte le regioni meridionali; in molte aree si sono registrati forti segnali di rinnovamento e di crescita sociale ed economica.

Nell’ultimo decennio la crescita economica al Sud è stata assai più debole che nel resto del Paese; dal 1995 il tasso di crescita medio annuo è rimasto significativamente al di sotto di quello medio nazionale. Tra il 1992 e il 1998 la crescita cumulata del PIL meridionale non raggiunge neanche i 3 punti percentuali. Ancora più sfavorevole è il confronto con la media europea. La crescita cumulata nei quindici paesi dell’Unione Europea tra il 1992 e il 1998 è pari a quasi 13 punti percentuali.

Le conseguenze degli andamenti sfavorevoli si rilevano nelle dinamiche dei differenziali di reddito. Nel decennio, i redditi pro-capite delle regioni meridionali sono scesi di quattro punti rispetto alla media nazionale[1]. Il confronto a livello europeo si rivela particolarmente sfavorevole: il Mezzogiorno concorre alla formazione del Pil dell’UE a 15 paesi solo per il 4%, a fronte di un peso demografico di circa il 6%. Di conseguenza, il livello del PIL per abitante dista oltre 30 punti dalla media europea, con punte di particolare intensità in Calabria, in Sicilia e in Campania.

Nei primi cinque anni dell’ultimo decennio, l’occupazione si è ridotta in Italia di oltre un milione di unità, di cui la metà nel Mezzogiorno. Nell’ultimo biennio, dopo un periodo di stasi, l’occupazione meridionale ha mostrato segni di ripresa. L’occupazione però rimane ancora inferiore ai livelli raggiunti all’inizio degli anni novanta. La composizione attuale della forza lavoro appare tuttavia diversa da quella precedente. Hanno perso notevolmente peso l’agricoltura e le costruzioni, mentre aumenta il peso relativo dell’industria manifatturiera, del commercio, del turismo e dei servizi alle imprese.

 

La struttura produttiva del Mezzogiorno è caratterizzata ancora da una forte debolezza strutturale. Nel confronto con il resto d’Italia è infatti maggiore - e in assoluto ancora elevato - il peso del settore agricolo (nei dati più recenti dell’Indagine sulle forze di lavoro, il 9,4% delle persone occupate, contro il 5,4% della media nazionale); l’industria manifatturiera è pari al 23,5% contro il 32% della media nazionale; è forte il peso di servizi privati a bassa produttività; stante anche l’inferiore livello di occupazione nell’area è più elevata l’incidenza degli occupati della Pubblica Amministrazione, che talvolta ha anche assolto un ruolo improprio di sostegno dei redditi. Anche nel confronto europeo, la peculiarità della struttura produttiva del Mezzogiorno emerge in tutta evidenza.

Struttura dell'occupazione al 1997 (*)

 

Agricoltura

Industria

Servizi

Totale

Mezzogiorno

12,0

23,5

64,5

100,0

Italia

6,8

32,0

61,2

100,0

UE15

5,0

29,8

65,2

100,0

(*) Rilevazioni sulle forze di lavoro. Fonti: Istat, Ocse.

 

La struttura dell’industria manifatturiera presenta un’incidenza molto forte delle unità di piccola dimensione (gli stabilimenti con meno di 10 occupati raccolgono circa il 35% degli addetti manifatturieri complessivi), che determinano una dimensione media complessiva sensibilmente minore che nel Centro-Nord (5,5 addetti contro 9). Inoltre, come effetto dell’intenso processo di localizzazione di grandi impianti pubblici e privati sino alla prima metà degli anni ’70, il peso delle unità di grandi dimensioni (500 e più addetti) è maggiore che nel resto del Paese. Il quadro di frammentazione della struttura industriale del Mezzogiorno appare ancora maggiore in confronto alla media europea. Nell’UE a 15 paesi, le imprese industriali con meno di 10 addetti raccolgono solo il 14% del totale degli occupati del settore[2].

L’adozione di nuovi indirizzi di politica economica generale improntati a una riduzione quantitativa dei trasferimenti, al decentramento amministrativo, all’utilizzo di strumenti di valutazione dell’opportunità economica e sociale per la selezione degli investimenti, i decisi segni di cambiamento nella gestione e nel controllo del territorio (principalmente una maggiore capacità di governo delle città e un più efficace contrasto della presenza criminale nelle aree) hanno consentito l’emergere di nuovi ed importanti elementi di vitalità economica e sociale, in massima parte da ricondurre a scelte di investitori privati.

Un’importante indicazione di trend positivo si rileva nell’aumento della capacità di esportazione del Sud. In sei anni il valore totale dell’export è raddoppiato, dai 19 mila miliardi del 1992 ai quasi 43 mila del 1999. Anche se favorita dalla svalutazione della lira nel 1992, la maggiore propensione all’esportazione si è dimostrato un fenomeno stabile nel tempo anche dopo il successivo recupero del cambio “reale”.

La crescita delle esportazioni si accompagna ad un processo di trasformazione del modello di specializzazione. L’aumento dell’export si concentra oggi in alcuni beni tradizionali di consumo (abbigliamento, calzature, mobili, prodotti principalmente da imprese meridionali concentrate in alcuni distretti produttivi), nella meccanica e nei mezzi di trasporto, cioè in alcuni dei settori di successo del Made in Italy; minore è diventato il contributo all’export meridionale dei prodotti agricoli e dell’industria di base.

Anche nel settore dei servizi, e in particolare nel turismo, vi sono segnali di un miglioramento competitivo del Mezzogiorno. A partire dal 1992 il numero di presenze turistiche straniere nelle regioni meridionali cresce in misura apprezzabile - dal 12,8% del totale nazionale al 13,4% del 1998. Nel 1999 le regioni del Mezzogiorno hanno registrato tassi di crescita delle presenze straniere più elevati (9,9% contro il 4,9% nazionale).

Interessanti segnali di vitalità emergono anche sul versante della demografia imprenditoriale. Nel triennio 1996-98 il tasso di natalità delle imprese segna una variazione positiva del 3,5%, rispetto al 2% della media italiana.

Si manifesta quindi una crescente capacità di crescita autonoma, con la creazione di un tessuto industriale diffuso in alcune aree. Su 365 sistemi locali del lavoro identificati dall’Istat nel Mezzogiorno (a specializzazione manifatturiera o meno) 102 registrano un aumento dell’occupazione manifatturiera[3]. E’ il caso di Avellino, dei distretti industriali di Solofra, Martina Franca, S.Giuseppe Vesuviano, Casarano, Matera (centrati su imprese a capitale meridionale) e dell’area di Melfi dove si sono insediate grandi imprese. I sistemi locali in difficoltà si incontrano principalmente nelle isole, in Calabria ed in Campania, ma anche intorno a rilevanti centri industriali quali Torre Annunziata, Castellammare di Stabia, Manfredonia, Pisticci, Crotone, Caltanissetta e Gela.

Sistemi locali del lavoro nel Mezzogiorno

(numero; quote percentuali sul totale dell'occupazione manifatturiera nel 1996)

 

numero

%

Sistemi locali con crescita di occupazione manifatturiera (1991- 96)

102

22,0

Sistemi locali con diminuzione dell'occupazione (1991- 96)

179

59,0

di cui:   inferiore al 13 per cento

74

27,0

             tra il 13 e il 26 per cento

105

32,0

Sistemi locali con forte riduzione dell'occupazione (superiore al 26%)

84

19,0

Fonte: Istat

Aumentano i segnali di interesse da parte delle imprese multinazionali per investimenti nel Mezzogiorno. Tra il 1996 e il 1998 si osservano 38 nuovi investimenti di imprese multinazionali estere nell’area, di cui 30 nell’industria e 8 nei servizi. In 19 casi si tratta di investimenti greenfield. Ventuno nuovi investimenti sono venuti da imprese dell’UE, in particolari tedesche e francesi. Sei nuovi investimenti sono arrivati dagli Stati Uniti; tre dall’Asia.

Paralleli ai cambiamenti di taglio strettamente economico, si riscontra un’evoluzione significativa negli assetti sociali e politici del Mezzogiorno. Appare oggi maggiore la capacità di governo delle città, grazie anche al sistema di elezione diretta dei sindaci che si è tradotto in una maggiore stabilità politica delle amministrazioni locali.

La criminalità è diminuita rispetto ai livelli raggiunti all’inizio del decennio nelle quattro grandi regioni del Mezzogiorno (Campania, Calabria, Sicilia, Puglia), in cui il fenomeno ha maggiore rilevanza. Questi risultati sono dovuti non solo all’efficace azione di contrasto delle forze dell’ordine, ma anche alla rinnovata fiducia nella capacità di combattere il crimine organizzato (segnalata dall’aumento del rapporto tra persone denunciate e totale dei delitti) e anche alla maggiore disponibilità a collaborare a difesa delle condizioni di sicurezza-legalità: condizioni che risultano rafforzate non solo dai successi contro la criminalità, ma anche dalla maggiore qualità e certezza dei servizi pubblici ai cittadini e alle imprese.

1.1.2.   Gli andamenti demografici e il mercato del lavoro    Inizio Pagina

Il permanere di una profonda debolezza strutturale dell’economia meridionale si manifesta nella contestuale presenza di un basso tasso di attività, di un’alta disoccupazione, di un’elevata quota di economia sommersa. L’andamento dell’occupazione è risultato storicamente insufficiente ad assorbire le dinamiche demografiche, più rapide che nel resto del Paese.

L’analisi dei dati demografici (registrazioni anagrafiche) evidenzia come durante gli anni ‘90 la popolazione meridionale abbia continuato a crescere con saggi superiori alla media italiana (1,8 contro 1,5%), salendo fino a 20.910.000 unità nel 1998. Questa dinamica trova origine in un saldo naturale positivo (+468.000 unità fra il '92 e il '98), che è soltanto in parte compensato dal fenomeno migratorio.

La più rapida dinamica demografica non si è completamente riflessa nei dati dell’offerta di lavoro. Il tasso di attività è nelle regioni del Mezzogiorno più basso di circa 12 punti rispetto alla media europea, e di circa 4 rispetto alla pur contenuta media italiana.

Tassi di attività, 1998

 

UE15

Italia

Mezzogiorno

15 - 24

45,9

37,9

32,5

25 - 34

82,5

74,4

63,1

35 - 54

83,7

72,2

66,4

55 - 64

40,1

28,6

33,0

Totale

55,4

47,7

43,9

 

 

 

 

Maschi

65,9

61,0

60,2

Femmine

45,6

35,3

28,7

Fonte: Eurostat e Istat

Lo scarto nei tassi di attività è particolarmente forte per le donne e per le classi di età giovanili (nella classe d’età 25-34 anni è quasi 20 punti inferiore rispetto alla media europea). L’insufficiente dinamica dell’occupazione, pur avendo compresso i tassi di attività attraverso fenomeni di scoraggiamento, si è comunque tradotta in elevatissimi tassi di disoccupazione, più che doppi rispetto alla media europea.

Tassi di disoccupazione in Europa, Italia e Mezzogiorno

 

UE15

Italia vecchia serie

Italia nuova serie

Mezzogiorno vecchia serie

Mezzogiorno nuova serie

1990

7,9

11,4

n.d.

20,7

n.d.

1995

11,2

12,0

11,6

21,0

20,3

1998

10,5

12,3

11,8

22,8

21,9

Fonte: Ocse e Istat         n.d.: non disponibile

Negli anni novanta la situazione del mercato del lavoro è peggiorata. Hanno pesato fortemente su questo risultato la ristrutturazione e il risanamento di molte grandi imprese. La caduta dell’occupazione si è interrotta solo alla fine del 1996.

Il tasso di disoccupazione, pur avendo registrato recentemente una flessione, è arrivato a un massimo storico. Nei nuovi dati messi a disposizione dall’Istat (che pure rivedono verso il basso i dati precedentemente disponibili) risulterebbe infatti pari al 21,9% nel 1998 e al 22,4% a luglio 1999. Tra i disoccupati, circa il 75% lo è da oltre dodici mesi. La disoccupazione raggiunge come noto tassi elevatissimi per i giovani (nella classe di età fino a 24 anni è ben oltre il 50%) e per le donne (oltre il 30%), che più di altri gruppi risentono nell’area, oltreché della effettiva scarsa disponibilità di occasioni, anche dell’inadeguatezza delle informazioni sulle opportunità di impiego.

I tassi di disoccupazione sono tuttavia elevati anche per i gruppi tradizionalmente forti sul mercato del lavoro (i maschi e gli scolarizzati). E’ soprattutto questo connotato a caratterizzare la disoccupazione meridionale. I disoccupati di lunga durata del Mezzogiorno sono soprattutto giovani che trovano enormi difficoltà a inserirsi nella prima esperienza di lavoro significativa.

Il fenomeno della disoccupazione nelle regioni meridionali si intreccia in modo complesso con il persistere di una larga quota di lavoro sommerso. Le unità di lavoro irregolari (al netto dei secondi lavori) del Mezzogiorno vengono misurate dall’Istat in 1,7 milioni, superiori a un terzo del volume complessivo di lavoro impiegato nella produzione di beni e servizi destinati alla vendita.

L’incidenza dell’economia sommersa nel Mezzogiorno è senz’altro molto maggiore rispetto alla media comunitaria. Secondo recenti studi, infatti, il contributo delle attività sommerse è già a livello italiano fra i più elevati in ambito europeo; ciò vale ancor di più per il Mezzogiorno, per il quale si è documentata la diffusione particolarmente ampia del fenomeno nel confronto con il resto del paese.

Vi sono almeno tre tipologie distinguibili che presentano un diverso grado di estraniamento dall’economia regolare.

Innanzi tutto vi è un sommerso da economia informale, discendente da attività discontinue e non organizzate in forma di impresa, talora esercitate nel contesto di una famiglia allargata, talora sul mercato. Questa parte del sommerso si caratterizza per non essere in generale la fonte principale di reddito dei soggetti che vi partecipano.

Vi è poi la quota, forse prevalente del sommerso (anche al Centro-Nord), che trova la sua origine nella difficoltà/impossibilità/non convenienza di mantenere l’attività emersa nel corrente contesto delle regole contributive e fiscali . Questo sommerso nasce da una scelta razionale dell’imprenditore e del lavoratore di rimanere al di fuori dell’economia regolata in maniera totale o di nascondere parte del valore aggiunto prodotto.

Un’ultima categoria racchiude il sommerso derivante dall’arretratezza dell’organizzazione produttiva e spesso culturale dell’imprenditore e dallo stato di necessità della forza lavoro, il cui potere contrattuale è molto basso. Accanto agli immigrati, partecipano a questa forma di sommerso anche molti lavoratori meridionali e soprattutto donne.

I costi unitari del lavoro rimangono più alti di quelli nazionali, perchè il minore livello dei salari (circa 9 punti percentuali in meno rispetto alla media italiana nel settore manifatturiero) compensa solo in parte il differenziale negativo di produttività (circa 20 punti percentuali in meno), malgrado il permanere – fino al 2001 – di una parziale fiscalizzazione degli oneri sociali.

La persistente disoccupazione ha tuttavia influito sull’atteggiamento dell’offerta di lavoro. Le indagini statistiche registrano una crescente disponibilità dell’offerta di lavoro all’impiego in condizioni flessibili: è in costante aumento la quota delle persone in cerca di lavoro che si dichiarano disponibili a lavorare a qualsiasi orario e fuori dal comune di residenza. Le recenti modifiche al regime regolamentare hanno aumentato la flessibilità potenziale del mercato del lavoro, segnalata dal ricorso crescente al part-time, ai contratti a tempo determinato o atipici. Dal 1994 ad oggi, l’incidenza percentuale degli occupati “part-time” è salita dal 5 al 6,5%, avvicinando la media nazionale del 7,3%; l’incidenza degli occupati dipendenti a termine è salita attorno al 15%, 4 punti percentuali superiore alla media nazionale. Stante l’atteggiamento dell’offerta, in presenza di un rafforzamento del processo di crescita, questo canale potrebbe assorbire nell’occupazione regolare un ampia quota della forza lavoro disponibile.

1.1.3.     L’agricoltura e lo sviluppo rurale    Inizio Pagina

Il comparto agricolo continua a rivestire un ruolo importante nell’ambito dell’economia della regioni dell’Obiettivo 1 in Italia. Il settore primario, infatti, contribuisce per il 5,9% alla formazione del valore aggiunto totale del Mezzogiorno, rispetto ad una media a livello nazionale per l’agricoltura del 3,5%. Per alcune regioni, quali la Basilicata e la Puglia, l’agricoltura rappresenta rispettivamente il 7,6% ed il 7,8% del valore aggiunto regionale. In termini di occupazione, l’agricoltura nel sud impiega il 12% circa degli occupati totali contro una media nazionale del 6,8%.

Nelle regioni dell’Obiettivo 1 troviamo il 50,4% delle aziende agricole operanti in Italia, per un totale di 1,2 milioni di unità. La superficie agricola utilizzata (SAU) rappresenta il 43,4% del totale nazionale a fronte di una superficie globale del 39%. Di questa superficie una gran parte é situata nelle zone svantaggiate e di montagna (ex direttiva CE n° 268/75), che nelle regioni dell’Obiettivo 1 rappresentano il 76% circa del totale, contro una media nazionale del 67,5%. In alcune regioni, peraltro, tali valori sono sensibilmente superiori come in Basilicata (99,6%), Sardegna (90,4%), Calabria (86%) e Molise (85%).

Nel periodo 1990-1996 il valore aggiunto del settore agricolo delle regioni dell’Obiettivo 1 é aumentato a tassi superiori (in media del 2,4% annuo) a quelli medi nazionali (+1,8%). In tale periodo, inoltre, pur in presenza di un aumento della produttività del lavoro e della terra superiore alla media italiana, il valore aggiunto per unità di lavoro nell’agricoltura risulta nel Mezzogiorno ancora nettamente inferiore a quello realizzato nelle restanti regioni. In media tale valore nelle regioni Obiettivo 1 rappresenta l’80% circa della media nazionale ed il 70% circa delle regioni del Centro-Nord.

La caratteristica distintiva dell’agricoltura italiana, della forte presenza di aziende agricole di ridotta dimensione (5,9 Ha/azienda nel 1995 contro una media UE di 17,4 Ha/azienda) é ancora più accentuata nelle regioni dell’Obiettivo 1, con una media di 5,2 Ha/azienda (nel 1996) e con punte di 2,7 Ha/azienda in Campania e 3,9 Ha/azienda in Calabria. È da rilevare, inoltre, come ben il 58,8% delle aziende del sud disponga di meno di 2 Ha di superficie agricola utilizzata.

Anche per quanto riguarda le caratteristiche strutturali degli allevamenti nelle regioni del sud si riscontra una dimensione media aziendale decisamente inferiore alla media nazionale. In queste regioni, infatti, il numero medio di capi bovini e/o bufalini per azienda é di 22,4 capi contro i 31,3 capi a livello nazionale ed i 36,4 capi del Centro-Nord. Per gli allevamenti suini questi valori sono di soli 7,4 capi/azienda nel sud, 31,4 capi/azienda a livello nazionale e ben 60,6 capi per azienda al Centro-Nord.

Fra le carenze più significative, occorre segnalare quella relativa alla dotazione infrastrutturale delle aree rurali, in particolare per quanto riguarda le strade rurali e le risorse idriche destinate alla popolazione e all’economia rurale che non sono adeguate ne per favorire uno sviluppo orizzontale delle aziende del comparto ne per consentire un aumento dei margini e quindi del reddito degli agricoltori.

Ad accentuare i problemi strutturali del mezzogiorno concorre anche l’alta incidenza percentuale, in tutte le circoscrizioni territoriali considerate, di aziende condotte da anziani. Nelle regioni dell’Obiettivo 1 i conduttori di età superiore ai 65 anni rappresentano il 38%. Questo dato diviene preoccupante se si considera che il reddito medio di questa fascia di produttori risulta sensibilmente più basso rispetto a quello dei conduttori ricadenti nelle fasce di età inferiori. In queste regioni, inoltre, la percentuale di aziende condotte da anziani e di dimensione economica inferiore ai due UDE (2.400 € di reddito lordo standard), è superiore rispetto al Centro-Nord (23,1% contro 19,8%).

Un’altra caratteristica da evidenziare per l’agricoltura di queste regioni riguarda l’incidenza percentuale dei consumi intermedi sulla produzione vendibile, che nel periodo 1993-1997 si attestano in queste regioni sul 20% circa contro un valore del 33% per il Centro-Nord Italia. La Campania, la Basilicata, e la Sardegna presentano, tuttavia, livelli di consumi intermedi in linea con quelli delle regioni del Centro-Nord.

L’incidenza contenuta dei consumi intermedi, indice di una relativamente più bassa intensità produttiva dell’agricoltura e di un minore contenuto tecnologico, si traduce in una scarsa integrazione del primario con i settori a monte. Tuttavia, va anche sottolineato che nel sud l’impiego di input chimici rimane relativamente più contenuto, facendo anche registrare delle significative riduzioni nel quinquennio 1993-1997 (concimi –2,8% come media annua, antiparassitari –1,4% anno), il che comporta sicuramente un’agricoltura meno intensiva e quindi un minor impatto ambientale.

In termini di produzione agricola finale, il valore delle produzioni meridionali rappresenta il 35% circa di quella nazionale. All’interno di questa produzione prevalgono nettamente le coltivazioni erbacee ed arboree (78%) rispetto ai prodotti dell’allevamento che rappresentano soltanto il 22%, contro una media per il Centro- nord del 49% circa. Fra le produzioni principali da segnalare quelle ortofrutticole e agrumarie, vitivinicole e olivicole che nelle regioni meridionali incidono per il 64% della produzione lorda vendibile.

Nonostante gli elementi di debolezza del settore primario meridionale, bisogna evidenziare alcuni rilevanti elementi positivi che caratterizzano l'agricoltura di queste regioni.

La specializzazione produttiva delle regioni meridionali, stimolata dalle caratteristiche climatiche e morfologiche del territorio, è volta alla produzione di una gamma di prodotti per i quali sembrano esistere sufficienti sbocchi di mercato e forti margini di miglioramento qualitativo, sia a livello delle produzioni di base ma soprattutto in quella della trasformazione e commercializzazione. Gli ampi margini per il perseguimento di una strategia di incremento della competitività delle produzioni può concretarsi attraverso la forte caratterizzazione delle produzioni nel senso della qualità e della tipicità. In questo ambito l’esistenza di forti legami tra agricoltura e territorio e il carattere spiccatamente "tipico" di molte produzioni ampiamente diffuse nelle regioni meridionali può costituire un importante fattore per favorire la penetrazione commerciale sul mercato.

Il rilancio di molti settori produttivi passa attraverso la valorizzazione di varietà particolari a forte tipizzazione, il miglioramento della qualità dei prodotti e un’organizzazione commerciale adeguata alle esigenze dei canali della distribuzione moderna.

Tra le produzioni agricole che caratterizzano maggiormente le regioni meridionali, un riferimento particolare va fatto al settore agrumicolo, caratterizzato da una forte segmentazione dei consumi e dall’incremento di prodotti di nicchia qualitativamente elevati. Lo sviluppo di questo settore potrà dipendere anche dalla sua capacità di riconquistare quote di mercato nelle nicchie globali ad alto valore aggiunto.

Le aree rurali

Nelle regioni meridionali una percentuale molto elevata di popolazione (circa il 50%) è residente in territori con connotati di ruralità, in termini di densità abitativa e livelli di occupazione agricola. Le aree rurali costituiscono, in termini di superficie, oltre l'80% del territorio del Mezzogiorno.

Le aree rurali del Mezzogiorno risultano estremamente differenziate dal punto di vista della dotazione di risorse, delle caratteristiche dell’agricoltura, del grado di integrazione tra le componenti del sistema agro-alimentare e del loro collegamento con il contesto economico e sociale circostante, della maggiore o minore vicinanza alle principali arterie di traffico e ai mercati di sbocco dei prodotti, della presenza di attività industriali e terziarie e della qualità del tessuto istituzionale locale.

Con riferimento alle regioni dell’Obiettivo 1, questa estrema varietà di situazioni può essere ricondotta a due categorie principali di aree rurali: le realtà agricole, dotate di elevate potenzialità di sviluppo, che si contraddistinguono per un intenso dinamismo e dove esistono i presupposti per uno sviluppo integrato tra industria e agricoltura e per una crescita del settore agro-alimentare, e le aree rurali caratterizzate da difficoltà nel processo di sviluppo.

In queste ultime si osserva, in generale, una forte dipendenza del sistema economico locale dall'attività agricola, e, pertanto, un elevato tasso di occupazione nel settore primario, una presenza molto contenuta di attività manifatturiere, una percentuale di occupati nei servizi inferiore alla media nazionale, una contenuta presenza di attività commerciali e ricettive, una tendenza, a volte drammatica, allo spopolamento.

Quest’ultimo fenomeno presente in tutte le regioni, ad eccezione delle regioni Puglia e Campania, implica, oltre che un depauperamento di risorse nelle aree rurali, una parallela costante crescita demografica dei comuni non rurali, nonché la crescita della congestione e del degrado dei centri urbani maggiori, dove peraltro si orientano i nuovi flussi migratori.

L'attività agricola va quindi inserita in un contesto economico e territoriale più ampio, in rapporto alla capacità di generare reddito attraverso la valorizzazione delle risorse naturali, paesaggistiche e culturali, anche mediante l'apporto di altri settori (turismo, artigianato).

La forte presenza in tutto il Mezzogiorno di risorse storico-culturali e ambientali, suscettibili di ampia valorizzazione, rappresenta un'ulteriore e fondamentale opportunità di crescita per le aree rurali, in particolare per le realtà più marginali, dove le caratteristiche strutturali delle aziende e la natura dei terreni spesso sono tali da non consentire un risultato economico soddisfacente, senza un'opportuna diversificazione delle fonti di reddito.

Del resto, molte aziende, anche di piccole dimensioni, nel processo di adattamento al contesto economico locale hanno già imparato a fondare la propria capacità di sopravvivenza su di una molteplicità di fonti di reddito, finendo col rispondere a una pluralità di funzioni economiche e sociali.

Il settore forestale

Nelle regioni dell’obiettivo 1 le foreste, con circa due milioni di ettari, ricoprono il 17% della superficie territoriale dell’area.

Non va trascurata l’importanza che il patrimonio forestale di queste regioni assume in termini di offerta di servizi ambientali e ricreativi, che possono rappresentare una componente piuttosto consistente del reddito prodotto dalle foreste.

I maggiori problemi sono rappresentati dalla frammentazione delle proprietà che, in assenza di un’efficace politica di promozione dell’associazionismo, determina l’incapacità di offrire lotti di prodotto adeguati alla domanda; dalla scarsa applicazione di strumenti di pianificazione quali i piani di assestamento o di gestione forestale; dallo scarso interesse da parte della proprietà pubblica e demaniale agli aspetti più strettamente produttivi delle risorse forestali.

L’orientamento produttivo dei boschi del Mezzogiorno negli ultimi anni non ha più soddisfatto la domanda industriale. Tutto il settore delle utilizzazioni boschive è stato negli ultimi anni caratterizzato da un grado di sviluppo ed innovazione insufficiente. A questo si aggiunge la mancanza di collegamento tra le produzioni primarie e le attività di trasformazione. In particolare, fatta eccezione per alcune aree ed alcuni prodotti specifici, mancano gli impianti di produzione industriale (cartiere, industrie per la produzione di pannelli, segherie). Alcuni dei pochi impianti esistenti sono stati chiusi o riconvertiti ad altre produzioni.

Il comparto agro-alimentare

In Italia l’industria alimentare, nel 1996, realizza il 6,6% del valore aggiunto complessivo relativo all’industria nel suo complesso, mentre nelle regioni dell’Obiettivo 1 l’incidenza del valore aggiunto di questo settore é del 7% sul complessivo dell’industria meridionale. Il settore industriale meridionale contribuisce, tuttavia, solo per il 18% circa al valore aggiunto dell’industria nazionale.

Lo sviluppo del settore nel Mezzogiorno sembra maggiormente orientato verso la piccola dimensione aziendale e improntato sul modello di impresa familiare.

Per tali aziende, la grande distribuzione organizzata (Gdo), se, da una parte, assicura uno sbocco alla produzione delle piccole e medie imprese di trasformazione, evitando costi di marketing e pubblicità, dall’altra, l’enorme potere di mercato da questa raggiunto riduce sensibilmente i margini di profitto.

Attualmente nel settore agro-alimentare sono presenti nel Mezzogiorno circa 28.000 aziende con un numero medio di addetti per azienda di circa 3,9 rispetto ad un livello nazionale di circa 456.000 di aziende con 6,5 addetti di media.

Il settore é impegnato essenzialmente in attività di prima trasformazione dei prodotti agricoli piuttosto che verso produzioni di prodotti a più alto valore aggiunto.

L’industria alimentare, nelle regioni Obiettivo 1, rappresenta solo il 20% del valore aggiunto del settore agricolo ed alimentare considerato nel suo complesso, valore inferiore alla metà di quello registrato per il Centro-Nord (43%), a dimostrazione di un’insufficiente valorizzazione delle produzioni agricole di queste regioni.

 

Fra le principali criticità di cui soffre questo settore, oltre all’eccessiva frammentazione dell’offerta e alla bassa percentuale di trasformazione agricola rispetto alla produzione di base, é necessario segnalare anche una ridotta capacità di essere presente in maniera più diretta sui mercati al consumo nazionali ed esteri e una minore capacità di investire ed innovare con riferimento agli standard del Centro-Nord. La scarsa propensione verso modelli cooperativi e associazionistici nella fase di trasformazione e commercializzazione costituisce un ulteriore elemento di debolezza.

Un dato interessante é costituito dalla specializzazione dell’industria di trasformazione dei prodotti agricoli meridionali negli stessi comparti (oli e grassi, frutta e ortaggi ad esempio) in cui esiste una specializzazione produttiva agricola che testimonia una forte specificità di comparto e territoriale dell’industria alimentare. Tale circostanza configura la possibilità di uno sviluppo agro-industriale basato su filiere e distretti produttivi finalizzati al mercato, in un’ottica di effettiva integrazione degli operatori agricoli lungo tutti i segmenti della filiera.

1.1.4.     La situazione ambientale    Inizio Pagina

In questo paragrafo si sintetizza la descrizione della situazione ambientale di riferimento nel Mezzogiorno. Il testo completo del capitolo "Analisi della situazione ambientale", incluso nella valutazione ex-ante del Piano di Sviluppo del Mezzogiorno, è disponibile nel sito web del Ministero del Tesoro, Bilancio e Programmazione Economica (www.tesoro.it).

Nel Mezzogiorno il livello di conoscenza delle pressioni esercitate sull’ambiente e lo stato delle qualità delle risorse è generalmente insoddisfacente per quantità e qualità dei dati. La ragione risiede nella carenza di reti di monitoraggio, nella frammentazione delle conoscenze tra diversi soggetti, e nella quasi totale assenza di sistemi informativi ambientali regionali.

Aria

Il confronto tra le stime delle emissioni in atmosfera relativamente agli anni 1995 e 1990, da una parte, mostra tendenze positive per quanto concerne le emissioni di anidride solforosa (dovuta principalmente alla desolforazione dei combustibili fossili) e di ossidi di azoto, dall’altra mette in evidenza una tendenza all'aumento delle emissioni dei principali gas serra. Particolare importanza assumono gli scenari di emissione di gas a effetto serra in relazione a ipotesi di sviluppo socio-economico e di innovazione tecnologica. Circa l’ozono troposferico sono disponibili dati recenti ma incompleti: raccolti nel 1998 da sette stazioni localizzate in Campania e Sicilia, segnalano eccedenze rispetto alla soglia di attenzione per la protezione della salute umana prevista dalla “Direttiva ozono” 92/72/CEE.

Per quanto riguarda infine l’ozono stratosferico un elemento di particolare criticità è dato, anche nel Mezzogiorno, dall'utilizzo in agricoltura come fumigante per il trattamento antiparassitario del terreno, del bromuro di metile, sostanza di cui l’Italia è il maggiore consumatore in Europa.

Acque e coste

Per le regioni del Mezzogiorno non è definibile lo stato di qualità delle acque superficiali e di falda. Gli unici dati (parziali) disponibili sulla qualità delle acque dolci superficiali si limitano ai corpi idrici appartenenti a parchi nazionali e regionali. In prospettiva, con l’attuazione del D.lgs. n. 152/99, si potrà prevedere una conoscenza organica, integrata e territorialmente significativa dello stato di qualità ambientale delle acque superficiali e sotterranee con un approccio ecosistemico. Per quanto concerne lo stato di qualità delle acque di balneazione, i dati 1998 del Ministero della Sanità mostrano nel Mezzogiorno percentuali di costa non balneabile in linea con la media nazionale (6%), con l’eccezione della Campania (19%); negli ultimi anni si è avuto nel complesso un lieve miglioramento, a parte i casi di Calabria, Puglia e Molise, mentre permangono rilevanti carenze di rilevazione di dati, in particolare in Sicilia e Sardegna.

La dotazione dei depuratori (dati Istat 1993 e Noe 1998) è sulla carta apparentemente soddisfacente nel Mezzogiorno. Dal punto di vista quantitativo, infatti, il rapporto fra abitanti equivalenti ed abitanti serviti risulta in linea con i più elevati standard nazionali, anche tenuto conto della significativa quota di popolazione turistica. Tuttavia molti impianti non funzionano o scaricano fuori legge, condizione che riguarda un terzo della potenzialità esistente nel Mezzogiorno (la punta negativa è in Puglia, 69%). Gli impianti funzionanti, d'altra parte, non rispettano gli standard della normativa comunitaria (Dir. 91/271/CEE recepita dal D.lgs. 152/99).

Suolo

Il rischio idrogeologico è, nel Mezzogiorno, consistente e diffuso. Una recente indagine condotta dal Ministero dell’Ambiente ha classificato i comuni in base al “Livello di attenzione per il rischio idrogeologico” portando a evidenza un quadro estremamente critico: 940 comuni (41,7%) presentano un livello di attenzione elevato (540 comuni) o molto elevato (400 comuni). L’avvio su un territorio così fragile di piani di realizzazione di infrastrutture in carenza di strumenti pianificatori di area vasta e di settore (Piani di bacino, ecc.), potrebbe causare un peggioramento generalizzato delle situazioni di rischio già note o potenziali.

I processi di degrado del suolo risultano in accelerazione, per effetto sia delle attività agricole sia della presenza di aree industriali dismesse e di discariche. L'uso eccessivo di mezzi chimici è una delle principali cause di perdita di fertilità dei suoli. Le attività agricole e agro-alimentari esercitano pressione principalmente con l'uso di fertilizzanti e dei reflui dell'industria agro-alimentare (tra cui le acque di vegetazione dei frantoi oleari).

I fenomeni di desertificazione emergente in alcune aree (in particolare Sardegna e Sicilia) sono determinati da una pluralità di cause tra cui il mutamento del clima, gli incendi boschivi, il sovrapascolamento, la salinizzazione dei suoli dovuta a sovrasfruttamento delle falde in prossimità della fascia costiera (fenomeno che assume rilievo soprattutto in Puglia).

Aree protette

A livello nazionale la superficie complessiva del sistema delle aree naturali protette (parchi nazionali e regionali, riserve terrestri e marine) supera i 2,4 milioni di ettari. Altri ambiti riconosciuti di particolare valore naturalistico, i 2.426 Siti di Interesse Comunitario (SIC) identificati in base alla direttiva 92/43/CEE ‘Habitat’, e le 268 Zone di Protezione Speciale (ZPS) identificate in base alla direttiva 79/409/CEE 'Uccelli selvatici'[4] (che in parte si sovrappongono o ricadono all'interno delle aree protette), concorrono all'ampliamento del territorio protetto per ulteriori 1,6 milioni di ettari. A questi si aggiungono le aree cuscinetto e le aree contigue alle aree protette (circa 0,5 milioni di ettari) e i corridoi di connessione che, considerando i soli ambiti fluviali di pregio, le zone montane a maggiore naturalità e gli ambiti di paesaggio più integri, contribuiscono con ulteriori 1,5 milioni di ettari. Nel complesso la rete ecologica (aree protette, SIC/ZPS, zone cuscinetto, aree contigue alle aree protette, corridoi di connessione) ha una dimensione nell’ordine del 19-20% del territorio nazionale.

L’estensione delle aree protette del Mezzogiorno, pur distribuite in maniera disomogenea fra le varie regioni, rappresenta il 30% circa della superficie protetta totale, incidenza non trascurabile cui contribuiscono in misura rilevante i tre grandi parchi nazionali del Cilento, del Pollino e del Gargano, tutti di recente istituzione.

Patrimonio forestale

Circa un terzo dei boschi e delle foreste del Paese si trova nelle regioni meridionali (dati 1985), con un contributo particolarmente rilevante della Calabria e della Sardegna. Ma tale patrimonio è fortemente esposto agli incendi, costituendo un allarmante fattore di impoverimento e di distruzione degli ecosistemi e di erosione e distruzione del suolo. Nel periodo 1986-95 sono stati interessati da incendi, in media, 12mila ettari per anno, 49mila ettari solo nel 1995.

Paesaggio e patrimonio culturale

Nel Mezzogiorno quasi il 45% del territorio è sottoposto a vincoli di natura paesaggistica. La pianificazione di settore è tuttavia assai debole. I piani paesaggistici approvati sono spesso qualitativamente inadeguati, di generica definizione, e quindi insufficienti a regolare le trasformazioni. In alcune regioni, come Calabria e Puglia, sono assenti.

Secondo stime in corso di elaborazione (Touring Club Italiano, ISTAT) esistono nel Mezzogiorno, tra complessi architettonici, siti archeologici e centri storici urbani, oltre 3.200 siti in grado di esercitare attrazione sulla domanda di turismo culturale. Si tratta di un patrimonio consistente, superiore - se rapportato agli abitanti - a quello esistente nel Nord Italia. Tuttavia le istituzioni che presiedono a tale patrimonio vivono da tempo una situazione di debolezza e di disagio organizzativo e finanziario, cosicché molte risorse restano poco valorizzate o del tutto non utilizzate, come mostra il divario nella dotazione di strutture e servizi. L’offerta potenziale di aree archeologiche è superiore nel Mezzogiorno, ma le effettive condizioni di tutela e di gestione ne riducono di molto la fruibilità.

Rifiuti

Nelle regioni del Mezzogiorno la predisposizione e l'attuazione dei Piani di gestione dei rifiuti in ottemperanza delle direttive comunitarie e del DL 22/97 è in grave ritardo. Il ritardo di sviluppo nella gestione dei rifiuti ha prodotto una dichiarata emergenza ambientale e sanitaria: in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia si è reso necessario l’intervento diretto del Ministero dell'Ambiente. La Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti ha evidenziato fenomeni di smaltimento illecito, con un’intollerabile presenza di discariche abusive. Nel Mezzogiorno le discariche sono di fatto l’unica forma di ‘gestione’ dei rifiuti urbani (raccolgono oltre il 98% dei rifiuti prodotti). La raccolta differenziata è di poco superiore all’1,4% (media nazionale 9,4%), si contano solo due inceneritori funzionanti, non è in atto alcuna azione di prevenzione di produzione dei rifiuti, gravi ritardi si registrano nell’attuazione di impianti alternativi alle discariche, non esistono impianti di riciclaggio (al riguardo, un fattore determinante è la mancanza di flussi di materiali provenienti dalle raccolte differenziate). Il quadro è dunque di forte divario dal resto del Paese. Il sistema dei controlli è carente. L’assenza di gestioni a livello di ambito territoriale intercomunale produce una parcellizzazione delle gestioni e un freno agli investimenti per gli impianti necessari alla gestione integrata. La realizzazione di sistemi di raccolta differenziata è penalizzata all’origine dall’assenza di impianti di nobilitazione e trattamento dei materiali, nonché di punti di intermodalità strada/ferrovia per il loro trasporto.

Per quanto riguarda i rifiuti industriali i dati disponibili non sono sufficienti a fornire una rappresentazione organica e verificata della produzione di questa componente di rifiuti. Sembra tuttavia accertata un’alta produzione di rifiuti, che si estende dalle grandi industrie del siderurgico, petrolifero, petrolchimico e metallurgico, alle piccole (agro-industrie) e alle imprese a carattere artigianale cui si aggiungono gli accumuli ingenti di rifiuti pericolosi presso le grandi aree industriali dismesse da cui derivano pesanti contaminazioni dei suoli e delle falde (nella sola regione Campania, per esempio, sono stati segnalati dai comuni 272 siti e 207 discariche che necessitano di bonifica).

Rischio tecnologico

Nel Mezzogiorno si contano otto aree dichiarate a elevato rischio di crisi ambientale[5]. Esse interessano complessivamente quasi 4,3 milioni di abitanti distribuiti in quasi 150 comuni. Tali aree presentano un elevato indice di degrado territoriale, ambientale e per la salute umana; nella maggior parte è presente anche un elevato tasso di disoccupazione, principalmente connesso con il fenomeno del regresso industriale in atto, che ha determinato la dichiarazione di area di crisi occupazionale. Solo per tre di esse è stato già adottato il Piano di disinquinamento o di risanamento.

Per quanto attiene alle aree a rischio di incidente rilevante, in attuazione della “Direttiva Seveso” in materia di rischi di incidente rilevante (recepita con DPR 175/88), il Ministero dell'Ambiente ha predisposto il primo Rapporto sui rischi esistenti in 18 aree ad elevata concentrazione di attività industriali. Sette di queste aree sono situate nel Mezzogiorno[6]. Il Rapporto evidenzia l’elevata vulnerabilità delle aree studiate. I rischi di incidente, secondo gli scenari, coinvolgono direttamente importanti infrastrutture di trasporto (strade, ferrovie, porti e aeroporti) e zone ad alta densità abitativa.

Ambiente urbano

Dato l’elevato numero di persone esposte, l’inquinamento atmosferico nelle aree urbane costituisce motivo di grande attenzione e preoccupazione per la tutela della salute. Anche se recentemente si è assistito a livello nazionale a un netto miglioramento della qualità dell’aria nelle città relativamente al biossido di zolfo, si affaccia ormai sempre più intensamente il problema dell’inquinamento fotochimico che, con l’ozono, costituisce uno dei più importanti motivi di preoccupazione. Problemi di inquinamento atmosferico sono presenti nelle medie e grandi aree urbane, e appaiono associabili all’incremento del traffico veicolare e alla mancanza di progetti di riorganizzazione della mobilità. Nel regioni meridionali, peraltro, il quadro informativo è tutt’altro che ottimale.

L’inquinamento acustico associato al traffico veicolare è risultato, da un’indagine di settore del Ministero dell’Ambiente (1995), la principale causa di disturbo per le popolazioni urbane. Il rumore rappresenta ormai una componente non secondaria del degrado ambientale e del conseguente peggioramento della qualità della vita. In Italia il 72% della popolazione residente in ambiente urbano è esposto a livelli di rumore ampiamente superiori ai limiti di accettabilità definiti in ambito comunitario e fissati dalla normativa nazionale vigente.

* * *

Nell’allegato A Installa Acrobat al QCS si riportano gli indicatori ambientali che potranno essere impiegati per il monitoraggio della situazione ambientale nel periodo di attuazione del QCS.

1.1.5.     La situazione in termini di pari opportunità    Inizio Pagina

Le donne rappresentano una delle componenti dinamiche del mercato del lavoro che però resta fortemente penalizzata sia in termini di possibilità di inserimento sia di qualifica professionale realmente accessibile, questa situazione presente su tutto il territorio nazionale assume carattere di particolare gravità nel Sud.

L’accesso al mercato del lavoro nel Mezzogiorno per le donne risulta più difficile rispetto agli uomini, nel periodo 1993-1998 si è registrato un incremento di 140 mila unità della componente femminile pari al 32,6% della forza lavoro impiegata rispetto al 66,1% degli uomini: il divario è ancora di 1 a 2. Nel Nord invece il divario è più contenuto; le donne occupano circa il 40,5% del totale.

In termini di occupazione femminile la situazione appare più critica; nel 1998 il tasso di occupazione femminile al Sud è pari al 22,2% contro il 40,5% del Nord. I dati mostrano poi come tra il 1993 e il 1998 al Nord il tasso di occupazione ha mostrato un trend sostanzialmente positivo, mentre al Sud è stato di segno negativo (dal 23% al 22,2%).

Altro elemento di differenziazione è rappresentato dall’articolazione settoriale, dove la presenza femminile è principalmente concentrata nei settori agricoli e in quello terziario molto di più di quanto accada per la componente maschile (questi due settori assorbono rispettivamente il 13,4% e il 76,1% della occupazione totale per la componente femminile rispetto all’11,0% e al 60,3% di quella maschile).

Sul fronte della stabilità del rapporto di impiego si rileva che per i maschi la quota di occupazione temporanea al Sud è pari al 12,3% per le donne è invece il 15,7%, che scende al 9,1% al Nord.

Questa posizione di svantaggio non è imputabile a una minore qualificazione professionale, che ha raggiunto livelli equivalenti per le due categorie, ma a una serie di concause tra le quali si possono segnalare: inadeguata dotazione delle infrastrutture sociali in grado di conciliare il lavoro con la vita familiare e che sposta sulle donne l’onere di autoproduzione del lavoro di cura all’interno della famiglia, una modesta presenza del part-time nei settori extra-agricoli, dovuta oltrechè alle più piccole dimensioni medie di impresa, anche al non favorevole trattamento regolamentare-contributivo; una cultura diffusa che colloca la componente femminile in posizione ancora inferiore rispetto a quella maschile.

Questi elementi, pur presenti su tutto il territorio nazionale, sono molto più accentuati, anche se con differenti tassi di intensità, nel Mezzogiorno con particolare riferimento alle zone rurali e quelle a ridosso dei centri urbani dove sono particolarmente accentuati.

1.2. Punti di forza e di debolezza del Mezzogiorno analisi SWOT   Inizio Pagina

Punti di forza

I punti di forza dell’economia meridionale si rintracciano nei segnali di vitalità sociale e imprenditoriale e in una dotazione di fattori produttivi che oggi sono sottoutilizzati.

Il Mezzogiorno è inoltre dotato di un capitale di risorse “immobili” - naturalistiche, ambientali, storiche e culturali - di rilievo assoluto e che costituiscono un fattore potenziale di competitività territoriale in grado di innescare, ove opportunamente tutelate e gestite, processi di sviluppo incentrati sulla piena valorizzazione anche delle risorse “mobili” (capitali e lavoro) disponibili sul territorio.

Nel corso degli anni novanta, il valore delle esportazioni del Mezzogiorno è più che raddoppiato. L’incremento dell’export ha sopravanzato, in media annua, quello del Centro-Nord (9,7% contro 5,8%). Questo fenomeno è riconducibile ai miglioramenti strutturali di una parte dei sistemi economici locali focalizzati verso settori più dinamici del made in Italy - a svantaggio della tradizionale industria di base e dell’agricoltura - e al nascere e al consolidarsi di veri e propri distretti all’esportazione.

Il cambiamento delle specializzazioni e dell’export è la punta visibile di una trasformazione più profonda, che coinvolge la parte più avanzata del tessuto produttivo. Negli anni novanta è cresciuto il numero totale delle imprese, segnale anche di una maggiore attitudine/propensione culturale verso l’imprenditorialità. E’ migliorato lo spessore strategico delle imprese locali e la loro capacità di realizzare collegamenti e connessioni all’interno di logiche di filiera (sebbene queste siano ancora deboli).

I segnali di cambiamento si inseriscono in uno scenario di valorizzazione delle risorse locali e di quelle di contesto che si vanno traducendo in una capacità di attrazione nell’area anche di operatori esteri.

Il consolidamento dei percorsi di crescita può contare poi sulla presenza di un ampio bacino di manodopera, mediamente giovane, anche con elevati livelli di istruzione, fortemente specializzata in alcuni settori (anche se spesso operante nell’area del sommerso), che rappresenta una forte riserva di produttività, di capacità creativa e potenzialità di connessione con altre aree e realtà produttive.

Al contempo anche l’economia locale si è sempre più aperta al mercato: i fenomeni di privatizzazione hanno indotto riorganizzazioni degli assetti proprietari, che hanno interessato sia l’industria manifatturiera sia il settore bancario, con impulso alla competitività e al processo di ammodernamento.

Segnali di trasformazione positiva attengono anche al più generale contesto sociale e istituzionale. Appare in aumento la capacità di governo delle amministrazioni locali, che anche grazie alla maggiore stabilità degli ultimi anni, hanno prestato crescente attenzione a valorizzare e promuovere le risorse del territorio. L’accresciuta capacità di contrasto dei fenomeni criminali e l’aumentata “disapprovazione sociale” dei fenomeni illegali, con il consolidarsi di reti civiche, ha contribuito ad accrescere il capitale di relazione e di fiducia, necessario al sostegno dei processi di sviluppo.

Punti di debolezza

Il contesto infrastrutturale appare ancora largamente inadeguato soprattutto in termini di qualità del servizio reso. Per quanto riguarda le infrastrutture di trasporto, modesta (se non spesso assente) si presenta l’integrazione tra le diverse “modalità” e scarso il collegamento con gli aspetti della logistica, rendendo ancora più critico il problema della “lontananza” del Mezzogiorno dai principali mercati di sbocco europei. La circostanza è aggravata dalla modesta dotazione e capacità di utilizzo delle nuove tecnologie telematiche a supporto della crescita del potenziale produttivo e di mercato.

Il contesto sociale presenta ancora dei punti di grave criticità: la criminalità diffusa, che risulta in diminuzione, è ancora mediamente molto più presente che nel Centro-Nord e tale da agire da freno all’investimento, scoraggiando la localizzazione di nuovi impianti, specie da parte di imprese esterne all’area.

Si rileva un deterioramento del sistema ambientale, in particolare per la scarsa connessione tra azioni di tutela e di mantenimento da un lato e attività di promozione e di valorizzazione dall’altro. A ciò va aggiunto il degrado dello stato di conservazione del patrimonio culturale e l’assenza di una “cultura industriale” nell’offerta di servizi che valorizzino queste risorse.

Nei centri metropolitani si riscontrano elevati livelli di congestione e bassa qualità dei servizi pubblici e privati a cui è possibile accedere; rilevanti sono i problemi di spopolamento e degrado nelle aree interne, accompagnati a una modesta capacità dei piccoli centri di sviluppare connessioni e collegamenti.

Altri fattori di debolezza si riscontrano all’interno del sistema produttivo, sbilanciato in attività tradizionali a scarso contenuto di innovazione, o dipendenti dalla spesa pubblica, con una modesta capacità di interagire con il sistema della ricerca e dell’innovazione tecnologica. Il sistema è complessivamente poco inserito in logiche di circuito e di filiera, chiamato a sostenere forti diseconomie esterne di localizzazione, e incontra difficoltà nella valorizzazione commerciale dei prodotti/servizi e nell’accesso e utilizzo di servizi finanziari e più in generale di terziario alla produzione. Il ritardo comporta perciò uno scarto ancora rilevante di produttività rispetto al resto del Paese (circa 20% con riferimento all’industria manifatturiera).

Tutto ciò si riflette sul funzionamento del mercato del lavoro, caratterizzato da elevati livelli di disoccupazione e bassi tassi di attività (in particolare tra i giovani e le donne), scarsa trasparenza nei meccanismi allocativi – dovuta anche all’assenza di servizi per le persone in cerca di lavoro - diffusi fenomeni di marginalità e sottoutilizzazione di capitale umano “pregiato”, la cui specializzazione è scarsamente allineata con i fabbisogni professionali delle imprese, in parte per l’ancora esigua qualità della domanda di lavoro che esse esprimono e in parte per la scarsa capacità strategica del sistema formativo e dell’istruzione.

Opportunità

Il Mezzogiorno si trova di fronte a una grande opportunità: veicolare i segnali di vitalità economica e sociale verso un processo di convergenza capace di assicurare lo sviluppo. Se assistita da un adeguato processo di accumulazione, dalla valorizzazione delle risorse disponibili, da riforme nei mercati del lavoro, dei prodotti e dei servizi, dall’emersione di lavoro specializzato e delle riserve di produttività è in grado di innescare un rapido processo di crescita. Tale processo dipenderebbe dall’attrazione di nuove risorse, ma esistono già alcuni vantaggi localizzativi che potrebbero contribuire all’obiettivo di crescita. Questi vantaggi sono ad esempio connessi alla crescita dell’area del Mediterraneo, sulla crescente domanda di prodotti e risorse “vocazionali” dell’area: quali le produzioni tipiche e l’agro-industria, il turismo naturalistico-culturale connesso alla valorizzazione di identità locali e alla fruizione delle risorse e degli usi ricreativi e naturalistici, l’ispessimento dei circuiti nazionali e internazionali di produzione culturale, l’affermarsi di tendenze di consumo attente alla qualità delle produzioni.

In questo ambito strategie mirate di tutela e ripristino del patrimonio di risorse naturalistiche, ambientali, storiche e culturali che caratterizza il Mezzogiorno e politiche di valorizzazione attuate attraverso progetti di qualità e secondo un approccio di tipo integrato, costituiscono una potenziale “leva” di sviluppo soprattutto nelle aree maggiormente vocate e nelle quali esistono e sono mobilitabili risorse umane e finanziarie adeguate

Meccanismi virtuosi potrebbero realizzarsi all’interno del processo di decentramento amministrativo in atto e di riforma e modernizzazione delle Amministrazioni, con importanti riflessi anche grazie al nuovo sistema elettorale delle Regioni. La maggiore responsabilità degli enti locali nella gestione delle politiche può rappresentare un elemento per mirare le scelte d’intervento, nella linea dell’integrazione delle diverse iniziative e attenzione alle compatibilità ambientali, realizzando un effettivo ruolo di sviluppo dei soggetti locali (anche nel miglioramento delle funzioni urbane di rango elevato).

Opportunità per lo sviluppo del Mezzogiorno sono poi offerte dal più recente sviluppo delle tecnologie di comunicazione. Richiedendo un’infrastrutturazione leggera, in grado di offrire ritorni di profittabilità tali da attrarre le risorse dell’investimento privato, e comunque realizzabile anche in contesti caratterizzati da una bassa dotazione iniziale di capitale, lo sviluppo di forme di produzione e scambio legate alla cosiddetta new economy potrebbero portare il Mezzogiorno a colmare una parte importante del gap di crescita che lo caratterizza, agendo nella direzione dell’ispessimento dei collegamenti e delle integrazioni.

Rischi

Il maggiore rischio per il Mezzogiorno è l’incapacità di conservare e attrarre nel circuito della propria economia le risorse mobili pregiate (capitali, risorse imprenditoriali, lavoro) necessarie per finanziare e sostenere il processo di convergenza, se l’assenza di interventi adeguati comporti un depauperamento delle risorse immobili e il superamento della “capacità di carico” ambientale

Il rischio di una scarsa capacità di attrazione delle risorse mobili è inoltre legato anche a fattori geografici, come la lontananza dalle aree produttive più avanzate del mercato europeo, soprattutto se il Mezzogiorno non riesce ad aumentare i suoi vantaggi competitivi in termini di qualità e costo dei fattori produttivi. La presenza di fenomeni di spillover della conoscenza e della tecnologia, esercita infatti una forza centripeta sulla localizzazione delle attività produttive, che può tradursi in un’accentuazione delle divergenze esistenti

Un rischio ulteriore è poi costituito dalla crescente concorrenzialità che le aree in via di sviluppo esercitano nella produzione e nell’offerta sui mercati mondiali di beni tradizionali. Si tratta di produzioni in cui il Mezzogiorno conserva ancora una forte specializzazione, ma sulle quali non è ovviamente in grado di competere in termini di costo del lavoro con le economie emergenti. Analogo fenomeno di riorganizzazione competitiva dell’offerta (e valorizzazione delle risorse locali) si sta verificando nel settore turistico, con riferimento al mercato del Mediterraneo e a quello dell’Est europeo.

L’insieme di questi rischi determina un pericolo di depauperamento del capitale umano, con ulteriore pericolo di sfruttamento delle fasce più deboli. Un’eventuale incapacità di valorizzare il capitale umano oggi disponibile in abbondanza porterebbe infatti a un impoverimento qualitativo dello stesso, anche a causa dei flussi migratori della forza lavoro specializzata che ne sarebbero indotti. Il concatenarsi dei rischi potrebbe dare luogo a fenomeni negativi concatenati: alla mancata valorizzazione delle risorse disponibili potrebbe corrispondere un degrado, con aumento della divergenza di reddito rispetto sia alle regioni più ricche, sia alle altre aree oggi arretrate, ma in grado di offrire migliore remunerazione ai fattori mobili dello sviluppo.

Punti di Forza

Punti di Debolezza

·         Disponibilità risorse naturali, ambientali e storico-culturali suscettibili di valorizzazione in coerenza con le tendenze della domanda nazionale e internazionale

·         Elevato potenziale di attrazione turistica

·         Disponibilità forza lavoro scolarizzata e specializzata in alcuni settori

·         Riserva di produttività della forza lavoro

·         Minore invecchiamento della popolazione rispetto alla media europea

·         Vitalità imprenditoriale in alcuni sistemi produttivi locali e sviluppo dello spirito di imprenditorialità

·         Aumento spontaneo della propensione all’export e tendenziale sviluppo delle strategie imprenditoriali

·         Vivacità sociale, produttiva e culturale di diversi poli urbani

·         Miglioramento delle capacità di governo da parte delle Amministrazioni locali

·         Crescente disponibilità a creare relazioni fiduciarie e a sviluppare capitale relazionale tra attori pubblici e privati

·         Vicinanza geografica con il bacino del Mediterraneo, aree con elevate prospettive di crescita futura

·         Bassa qualità nella dotazione di infrastrutture in generale e in particolare di quelle di trasporto, e bassa funzionalità di quelle per la localizzazione produttiva

·         Segnali di deterioramento dei sistemi ambientali e di degrado del patrimonio storico-culturale

·         Ancora modesta diffusione dell’attitudine/cultura alla valorizzazione dei beni ambientali e culturali

·         Scarsa trasparenza nel funzionamento dei meccanismi allocativi del mercato del lavoro

·         Ridotta partecipazione al mercato del lavoro

·         Forte presenza di situazioni di irregolarità lavorativa

·         Inadeguatezza del sistema di formazione professionale e assenza dei servizi strategici per l’occupazione

·         Basso tasso di accumulazione e modesta competitività delle produzioni

·         Sbilanciamento delle produzioni nei settori maturi e a lento sviluppo della domanda

·         Scarso collegamento del sistema produttivo e modesta presenza di logiche di circuito e di filiera

·         Insufficiente diffusione della tecnologia e dell’innovazione, bassa dotazione e familiarità di utilizzo a scopo produttivo delle tecnologie dell’informazione

·         Lontananza geografica dai mercati europei

·         Presenza di sfavorevoli fattori sociali di contesto (criminalità, attitudine all’assistenzialismo ecc.)

·         Congestione dei centri urbani principali e bassa qualità dei servizi pubblici e privati

·         Spopolamento e debolezza dei piccoli centri e delle aree interne

Opportunità

Rischi

·         Ampia disponibilità di capitale umano qualificato e attivazione di riserve di produttività connesse anche alla crescita di nuovi bacini di lavoro

·         Attivazione di una politica degli investimenti pubblici per la valorizzazione delle risorse immobili

·         Sviluppo delle nuove tecnologie della comunicazione per favorire la commercializzazione e l’integrazione produttiva

·         Crescente domanda di risorse e prodotti vocazionali dell’area

·         Ispessimento dei circuiti nazionali e internazionali di produzione culturale

·         Vantaggi localizzativi connessi alla crescita dell’area del Mediterraneo

·         Rilancio del ruolo di sviluppo delle Amministrazioni locali connesso al processo di riforma;

·         Maggiore stabilità dei governi regionali indotta dalla riforma del sistema di elezione

·         Perdita di capacità di attrazione delle risorse mobili dello sviluppo

·         Attrazione di iniziative produttive e di risorse umane qualificate del Mezzogiorno verso aree a migliore disponibilità di economie esterne e di dotazioni terziarie

·         Depauperamento del capitale umano e pericolo di sfruttamento delle fasce più deboli

·         Esclusione/marginalizzazione dai processi di spillover della conoscenza e della tecnologia

·         Perdita di competitività nei confronti dei paesi e delle aree a basso costo del lavoro e di quelli più attivi sul versante della valorizzazione dei circuiti turistici

 

1.3. Risultati conseguiti nel periodo di programmazione 1994-1999   Inizio Pagina

Il presente capitolo esamina la strategia del QCS attuata durante il periodo 1994-1999 e trae alcune lezioni chiave dall’esperienza corrente, sulla base del lavoro di valutazione svolto a partire dal 1997, principalmente a livello di QCS[7].

1.3.1.     Analisi del QCS 1994-1999   Inizio Pagina

Il QCS 1994-1999 contiene 7 principali assi prioritari:

1.      Infrastrutture di comunicazione;

2.      Industria e servizi;

3.      Turismo;

4.      Sviluppo rurale;

5.      Pesca;

6.      Infrastrutture per le imprese;

7.      Sviluppo delle risorse umane.

Tali assi si concretano in 54 forme di intervento: 11 programmi operativi (PO) regionali, 24 PO multiregionali, 18 sovvenzioni globali e un grande progetto. Circa il 50% delle risorse disponibili è stato destinato all’obiettivo centrale mirante a sviluppare la base produttiva nel Mezzogiorno (assi 2 e 6).

Le azioni di riprogrammazione hanno avuto come risultato un ulteriore aumento delle risorse destinate a tali assi prioritari, in particolare al regime di aiuti nazionale a favore dell’industria (la «Legge 488»). Di fatto, l’attuale QCS presenta notevoli differenze (dopo la riprogrammazione) rispetto all’originale, a seguito dell’introduzione di nuovi programmi nel 1997 e nel 1998[8], oltre a varie azioni di riprogrammazione.

Le informazioni disponibili relativamente all’efficacia degli interventi realizzati nel periodo 1994-1999 non consentono un esame approfondito dei risultati conseguiti, se non per quelli di natura finanziaria e per l’analisi di alcuni interventi quali, fra gli altri, quelli cofinanziati dal FSE. Per alcuni interventi esistono dati valutativi parziali, ad esempio per il regime di aiuti nazionale a favore dell’industria, che ha registrato investimenti privati per circa 9 miliardi di euro e 48.000 nuovi posti di lavoro, benchè non sia stato valutato in quale misura gli investimenti pubblici abbiano sostituito gli investimento privati. Di particolare rilievo, in questo quadro, la carenza di valutazioni ambientali.

Per quanto riguarda gli interventi sulle risorse umane, il precedente periodo di programmazione ha avuto effetti consistenti sia per il volume di popolazione coinvolta, sia nel supporto alla trasformazione del sistema formativo e alla diversificazione dell’offerta di opportunità. Con 1.116.000 beneficiari diretti degli interventi, il FSE è riuscito a servire il 15% della popolazione giovanile in cerca di occupazione e l’1,6% degli adulti disoccupati di lunga durata. Un risultato così differenziato è dato sia da scelte di policy mirate a concentrare l’attività sul segmento di popolazione, i giovani, più colpito dalla disoccupazione, sia dalle difficoltà incontrate nell’intercettare l’utenza potenziale adulta.

1.3.2.     Attuazione del QCS 1994-1999   Inizio Pagina

In Italia si sono verificati notevoli ritardi nell’avvio di quasi tutti i programmi. Nel 1994 l’attuazione del precedente QCS (1989-1993) era giunta soltanto a metà e le autorità italiane hanno dovuto chiedere una proroga per le scadenze dei relativi programmi. Un’ulteriore richiesta di proroga delle scadenze per il periodo 1989-1993 è stata presentata nel 1995, quando la Commissione era ormai seriamente preoccupata anche per la lentezza dell’attuazione dei programmi del periodo 1994-1999.

Di conseguenza, nel luglio 1995 è stato negoziato un accordo (la cosiddetta «Intesa») per il miglioramento della gestione dei programmi dei Fondi Strutturali in Italia in cambio di un’ultima proroga per i programmi 1989-1993. L’accordo comprendeva l’impegno a rafforzare il coordinamento e l’amministrazione, ad ottimizzare le procedure e a potenziare i meccanismi di monitoraggio, valutazione e controllo dei PO ed è stato sottoscritto da tutte le Regioni partecipanti alle azioni dei Fondi Strutturali.

Tale accordo ha ottenuto qualche risultato per l’attuazione dei programmi 1994-1999. Tuttavia, si sono registrati gravi ritardi in alcuni programmi; ne è conseguita una forte azione di riprogrammazione delle risorse in favore dei programmi più efficienti. In occasione della valutazione intermedia, una quota significativa di risorse non programmate è stata inoltre destinata a nuovi interventi.

È altresì migliorato il coordinamento centrale dei Fondi Strutturali – affidato al Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e di Coesione del Ministero del Tesoro, del Bilancio e della P.E. – anche in termini di preparazione del comitato di sorveglianza del QCS. Ciò ha contribuito a un significativo recupero dell’efficienza finanziaria. Tuttavia, la qualità della gestione dei programmi varia in misura considerevole sia tra le autorità centrali che tra le amministrazioni regionali, evidenziando situazioni ancora inefficienti.

Persistono numerose insufficienze nei meccanismi di monitoraggio e di valutazione. Gli indicatori fisici, specialmente per gli interventi del FESR, sono ancora scarsi ed è ancora necessario rendere pienamente operativo un sistema per la raccolta e l’elaborazione dei dati. Riguardo alla valutazione, la Commissione ha insistito per avviare le valutazioni intermedie, ma alcune di esse non erano ancora pienamente a regime a fine 1999. I pagamenti sono stati sospesi fino a luglio 1999 per i programmi per i quali non erano stati selezionati i valutatori.

Anche le opportunità offerte dall’assistenza tecnica sono state scarsamente sfruttate. Di conseguenza, a parte poche eccezioni, essa non ha contribuito a migliorare l’efficienza della Pubblica Amministrazione né ad introdurre meccanismi di attuazione più efficaci.

Nel periodo 1994-99, per la verifica del principio dell’addizionalità è stata elaborata una metodologia articolata e trasparente, basata su una banca dati costruita ad hoc e sottoposta ad un processo di affinamento quali-quantitativo continuo.

La modifica sostanziale delle condizioni macroeconomiche ha comportato una deviazione rispetto alle ipotesi assunte ex ante; in particolare la drastica revisione della politica finanziaria italiana, basata su interventi restrittivi in materia di bilancio al fine di ridurre il deficit pubblico e consentire l’ingresso nell’Unione Economica e Monetaria ha comportato una riduzione della spesa pubblica e, quindi, il non rispetto dell’addizionalità.

1.3.3.     Lezioni per il periodo 2000-2006   Inizio Pagina

La mancanza di sistemi efficaci di monitoraggio e di valutazione nel periodo 1994-1999 rende difficile trarne insegnamenti per il periodo 2000-2006.

In generale, i risultati dell’attuazione della strategia del QCS 1994-1999, pur considerando i forti progressi conseguiti sul piano dell’attuazione finanziaria, non possono definirsi del tutto soddisfacenti (ad esempio, nell’ambito delle iniziative industriali autorizzate nel quadro della «Legge 488» si evidenziano effetti di inerzia - “deadweight” - medio-alti, oltre a pronunciati effetti di spiazzamento). Nonostante ciò, è possibile rilevare esperienze positive in termini di idee innovative o di successo.

In questo contesto, vale la pena menzionare due esempi di “buone” e “cattive” pratiche per quanto riguarda l’attuazione dei progetti:

·        il porto di Gioia Tauro rappresenta un intervento integrato di successo, cofinanziato dalla Pubblica Amministrazione e da investitori privati, mirato non solo a creare un porto moderno di trasbordo per un elevato volume di container, ma anche a migliorare l’intermodalità dei trasporti (collegamento con ferrovia e autostrada), a promuovere lo sviluppo locale mediante regimi di aiuto a favore delle PMI legate all’attività portuale, e a proteggere gli impianti dall’infiltrazione della criminalità organizzata;

·        per contro, la generale insufficienza delle misure adottate per realizzare progetti nel settore dei rifiuti costituisce un chiaro esempio di gestione non efficace degli interventi. Tale insufficienza ha causato ampi ritardi nella messa in servizio dei sistemi di gestione dei rifiuti e nella realizzazione dei progetti (principalmente a causa dell’assenza di strategie e piani regionali, ma anche per la mancanza di consenso a livello locale, l’incapacità di presentare progetti validi e le procedure di autorizzazione che richiedono tempi lunghi).

Il sistema formativo regionale, tradizionalmente specializzato nella formazione di base dei giovani in possesso del solo obbligo scolastico, si è in parte diversificato. Oggi le opportunità offerte riguardano anche altre fasce di utenza debole quali i disoccupati di lunga durata, gli adulti senza titolo di studio, gli immigrati, i disabili e le donne che rientrano nel mercato del lavoro. In parallelo alle politiche di equità sociale sviluppate con il concorso del FSE, la programmazione 1994-1999 ha promosso interventi, seppur finanziariamente limitati, di competitività del territorio attraverso lo sviluppo di professionalità medio-alte e della formazione continua nelle PMI.

Il sistema di istruzione, in particolare professionale e tecnica, si è rafforzato. Ciò è avvenuto grazie a un massiccio intervento di azioni professionalizzanti, integrate con il sistema delle imprese locali.

Purtuttavia, le prime analisi di impatto indicano che lo « sforzo di policy » effettuato dalle Amministrazioni regionali non è risultato ancora sufficientemente efficace a causa della persistente debolezza strutturale del Mezzogiorno e, nello specifico, alla:

·        debolezza del sistema delle imprese che, oltre a non produrre occupazione aggiuntiva, non riesce a individuare ed esplicitare i propri fabbisogni professionali e, di conseguenza, a fornire al sistema formativo gli input di medio termine per progettare gli interventi di sviluppo delle risorse umane;

·        debolezza del sistema dell’offerta che non riesce ad assumere un ruolo anticipatorio e propulsivo delle competenze professionali necessarie allo sviluppo.

Riguardo alle procedure, va segnalata la diffusione generalizzata di sistemi di selezione dei progetti basati su inviti a manifestazioni di interesse o su procedure aperte di gara. Tali procedure hanno consentito di conseguire un duplice risultato: da un lato, la maggiore trasparenza dei meccanismi di assegnazione, e dall'altro, il rafforzamento delle capacità di programmazione e delle tecniche amministrative, dovuto alla necessità di preparare gli inviti e i capitolati tecnici. Nel corso del nuovo periodo dovrebbe essere possibile riassorbire i ritardi di attuazione causati da tali procedure, poiché i meccanismi potranno essere operativi sin dall’inizio.

Nel periodo di programmazione 1994-1999 le considerazioni di carattere ambientale (ivi compresa la conformità con la legislazione comunitaria) e il principio delle pari opportunità sono stati inseriti in misura marginale sia nella strategia di sviluppo sia nei programmi operativi. Il coinvolgimento delle autorità ambientali nazionali e regionali nel Mezzogiorno è stato spesso insufficiente e la partecipazione delle autorità in materia di pari opportunità è stata scarsa, se non assente.

[1] Nel periodo che va dal 1991 al 1998, un forte aumento del divario di PIL per abitante rispetto al resto delle regioni Italiane equipara la Campania, la Puglia e la Sicilia (regioni in cui si concentra il 70% della popolazione del Sud). Un peggioramento si osserva anche per la Sardegna e la Calabria. Il divario risulta sostanzialmente stazionario in Molise. La Basilicata è la sola, tra le regioni del Mezzogiorno, a ridurre il differenziale con il Centro-Nord.

[2] Cfr. ISTAT, Rapporto Annuale 1998.

[3] La metodologia adottata procede all’individuazione dei sistemi locali. Un sistema locale del lavoro a partire dall’aggregazion e dei comuni sulla base dei dati relativi agli spostamenti quotidiani della popolazione (pendolarismo) per lavoro e applicando ad essi un algoritmo di “autocontenimento” .

[4]    La designazione di ZPS è insufficiente nelle regioni Campania, Molise, Calabria e Sardegna

[5]    Manfredonia, Brindisi, Taranto, area del Sarno, provincia di Napoli, Gela-Caltanisetta, Priolo-Aaugusta-Siracusa, Sulcis- Inglesiente.

[6]    Porto Torres, Napoli, Brindisi, Taranto, Gela, Priolo, Cagliari, (tutte, a eccezione di Cagliari e Porto Torres, incluse in aree dichiarate a elevato rischio ambientale).

[7] Gli unici dati disponibili sono quelli della valutazione intermedia del QCS (Nucleo di valutazione, INEA e ISFOL, luglio 1997) e dei più recenti lavori di valutazione (Ecosfera-Ernst Young, luglio 1999 – ISFOL, Struttura di valutazione, luglio e settembre 1999). A questi si sono aggiunti studi tematici a livello comunitario e nazionale su quattro argomenti: RST, trasporti, ambiente e industria/PMI.

[8] I seguenti PO: "Protezione Civile", "Patti Territoriali", "Sicurezza", "Parco Progetti", "Sostegno ai prodotti ortofrutticoli"

 
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