Indice
1.1. Considerazioni
sull’economia del Mezzogiorno
L’economia italiana ha registrato un tasso di crescita inferiore alla media
dell’Unione Europea nel periodo 1994-1999 (rispettivamente
l’1,7% e il 2,3% in termini reali). Nel medesimo periodo,
anche il PIL pro capite in standard di potere d’acquisto (SPA)
ha subito una contrazione rispetto alla media UE. Secondo
le previsioni di primavera 2000 della Commissione Europea,
dovrebbe verificarsi un’accelerazione della crescita del PIL
negli anni 2000-2001; l’intensità di tale incremento dipenderà
in particolare da un sostenuto consumo privato, da un aumento
degli investimenti privati (stimolati da bassi tassi di interesse
e dalla stabilità dell’Unione Economica e Monetaria), dal
miglioramento delle finanze pubbliche e dalla crescita delle
esportazioni.
La situazione del mercato del lavoro in Italia ha mostrato un miglioramento
nel 1999, che ha riguardato l’area centro-settentrionale del
paese, registrando un tasso di crescita dell’occupazione pari
all’1,3% (rispetto all’1,3% nell’Unione Europea) e una riduzione
della disoccupazione all’11,4% (contro il 9,2% nell’UE). Tuttavia,
gli anni ’90 hanno segnato in generale un periodo caratterizzato
da tassi ridotti di sviluppo dell’occupazione e da un aumento
della disoccupazione. La disoccupazione di lunga durata rimane
in effetti a un livello elevato, pari al 67,9% del totale
dei disoccupati nel 1998 (rispetto al 49,3% nell’UE). Secondo
le previsioni della Commissione Europea, il miglioramento
riscontrato nel 1999 potrà essere confermato nel periodo 2000-2001,
in relazione anche alla realizzazione di ulteriori riforme
volte all’aumento dell’efficienza nel funzionamento del mercato
del lavoro.
Indicatori macroeconomici in Italia 1993-2001
|
1993 1994
1995 1996
1997
1998 1999
|
2000 2001
|
Crescita del PIL
variazione % annua
|
-0,9 2,2
2,9
1,1
1,8
1,5
1,4
|
2,7 2,7
|
PIL pro capite
SPA
(UE=100)
|
102,1 102,7
103,3
103,2 101,7
100,8
99,7
|
98,9 98,6
|
Occupazione
variazione % annua
|
-2,5 -1,5
-0,1
0,4
0,1 0,6
1,0
|
1,1 1,2
|
Disoccupazione
%
della forza lavoro
|
10,2
11,2 11,6
11,7
11,7
11,8 11,3
|
10,8
10,4
|
Prezzi al consumo
(indice
armonizzato)
variazione
% annua
|
4,5
4,2 5,4
4,0
1,9 2,0
1,7
|
2,1
1,9
|
Fonte:
Commissione Europea – Previsioni Economiche di Primavera 2000
Nota:
Dati effettivi per il periodo 1993-1999; previsioni per il
periodo 2000-2001
Per quanto riguarda le finanze pubbliche, l’aggiornamento del Programma di
Stabilità dell’Italia effettuato nel dicembre 1999 mostra
una riduzione dell’indebitamento netto dal 7,7% del PIL nel
1995 fino al 2% del PIL nel 1999. Il livello del debito pubblico
rimane elevato, ma è diminuito dal 119,8% del PIL nel 1997
al 114,9% del PIL nel 1999, e si prevedono ulteriori riduzioni
fino a raggiungere il 100% del PIL nel 2003. Il Programma
di Stabilità prevede una riduzione del totale delle entrate
delle amministrazioni pubbliche nel periodo 2000-2003 e una
diminuzione delle spese correnti e delle spese in conto capitale.
Le
finanze delle amministrazioni pubbliche (valori espressi in
% del PIL)
|
1997
1998 1999
|
2000
2001 2002
2003
|
Totale entrate
|
48,1
46,5
46,7
|
46,3
45,8
45,3
44,9
|
Spese
in conto capitale
|
3,5 3,7
4,0
|
4,0 3,9
3,6
3,5
|
Spese correnti
(al netto degli interessi)
|
38,0
37,6
37,9
|
37,3
36,9
36,5
36,2
|
Spesa
per interessi
|
9,5 8,0
6,9
|
6,5 6,1
5,7
5,3
|
Indebitamento netto
|
-2,8 -2,7
-2,0
|
-1,5
-1,0
-0,6
-0,1
|
Debito pubblico
|
120,2
116,8
114,7
|
111,7
108,5
104,3 100,0
|
Fonte:
Programma di Stabilità dell’Italia, aggiornamento dicembre
1999
Nota:
Dati effettivi per il periodo 1997-1998; stime per il 1999;
previsioni per il periodo 2000-2003
Il Mezzogiorno d’Italia durante il decennio 1990-1999 ha attraversato una
fase economica relativamente negativa se confrontato con il
resto delle regioni italiane e dell’Europa in generale. Infatti
si è assistito a un aumento del divario di sviluppo tra Sud
e Nord: la crescita registrata è stata inferiore a quella
attesa. Questo fenomeno non ha interessato però in egual misura
tutte le regioni meridionali; in molte aree si sono registrati
forti segnali di rinnovamento e di crescita sociale ed economica.
Nell’ultimo decennio la crescita economica al Sud è stata assai più debole
che nel resto del Paese; dal 1995 il tasso di crescita medio
annuo è rimasto significativamente al di sotto di quello medio
nazionale. Tra il 1992 e il 1998 la crescita cumulata del
PIL meridionale non raggiunge neanche i 3 punti percentuali.
Ancora più sfavorevole è il confronto con la media europea.
La crescita cumulata nei quindici paesi dell’Unione Europea
tra il 1992 e il 1998 è pari a quasi 13 punti percentuali.
Le conseguenze degli andamenti sfavorevoli si rilevano nelle dinamiche dei
differenziali di reddito. Nel decennio, i redditi pro-capite
delle regioni meridionali sono scesi di quattro punti rispetto
alla media nazionale.
Il confronto a livello europeo si rivela particolarmente sfavorevole:
il Mezzogiorno concorre alla formazione del Pil dell’UE a
15 paesi solo per il 4%, a fronte di un peso demografico di
circa il 6%. Di conseguenza, il livello del PIL per abitante
dista oltre 30 punti dalla media europea, con punte di particolare
intensità in Calabria, in Sicilia e in Campania.
Nei primi cinque anni dell’ultimo decennio, l’occupazione si è ridotta in
Italia di oltre un milione di unità, di cui la metà nel Mezzogiorno.
Nell’ultimo biennio, dopo un periodo di stasi, l’occupazione
meridionale ha mostrato segni di ripresa. L’occupazione però
rimane ancora inferiore ai livelli raggiunti all’inizio degli
anni novanta. La composizione attuale della forza lavoro appare
tuttavia diversa da quella precedente. Hanno perso notevolmente
peso l’agricoltura e le costruzioni, mentre aumenta il peso
relativo dell’industria manifatturiera, del commercio, del
turismo e dei servizi alle imprese.
La struttura produttiva del Mezzogiorno è caratterizzata ancora da una forte
debolezza strutturale. Nel confronto con il resto d’Italia
è infatti maggiore - e in assoluto ancora elevato - il peso
del settore agricolo (nei dati più recenti dell’Indagine sulle
forze di lavoro, il 9,4% delle persone occupate, contro il
5,4% della media nazionale); l’industria manifatturiera è
pari al 23,5% contro il 32% della media nazionale; è forte
il peso di servizi privati a bassa produttività; stante anche
l’inferiore livello di occupazione nell’area è più elevata
l’incidenza degli occupati della Pubblica Amministrazione,
che talvolta ha anche assolto un ruolo improprio di sostegno
dei redditi. Anche nel confronto europeo, la peculiarità della
struttura produttiva del Mezzogiorno emerge in tutta evidenza.
Struttura dell'occupazione
al 1997 (*)
|
|
Agricoltura
|
Industria
|
Servizi
|
Totale
|
Mezzogiorno
|
12,0
|
23,5
|
64,5
|
100,0
|
Italia
|
6,8
|
32,0
|
61,2
|
100,0
|
UE15
|
5,0
|
29,8
|
65,2
|
100,0
|
(*) Rilevazioni sulle forze di lavoro. Fonti: Istat,
Ocse.
|
La struttura dell’industria manifatturiera presenta un’incidenza molto forte
delle unità di piccola dimensione (gli stabilimenti con meno
di 10 occupati raccolgono circa il 35% degli addetti manifatturieri
complessivi), che determinano una dimensione media complessiva
sensibilmente minore che nel Centro-Nord (5,5 addetti contro
9). Inoltre, come effetto dell’intenso processo di localizzazione
di grandi impianti pubblici e privati sino alla prima metà
degli anni ’70, il peso delle unità di grandi dimensioni (500
e più addetti) è maggiore che nel resto del Paese. Il quadro
di frammentazione della struttura industriale del Mezzogiorno
appare ancora maggiore in confronto alla media europea. Nell’UE
a 15 paesi, le imprese industriali con meno di 10 addetti
raccolgono solo il 14% del totale degli occupati del settore.
L’adozione di nuovi indirizzi di politica economica generale improntati a
una riduzione quantitativa dei trasferimenti, al decentramento
amministrativo, all’utilizzo di strumenti di valutazione dell’opportunità
economica e sociale per la selezione degli investimenti, i
decisi segni di cambiamento nella gestione e nel controllo
del territorio (principalmente una maggiore capacità di governo
delle città e un più efficace contrasto della presenza criminale
nelle aree) hanno consentito l’emergere di nuovi ed importanti
elementi di vitalità economica e sociale, in massima parte
da ricondurre a scelte di investitori privati.
Un’importante indicazione di trend positivo si rileva nell’aumento della capacità
di esportazione del Sud. In sei anni il valore totale dell’export
è raddoppiato, dai 19 mila miliardi del 1992 ai quasi 43 mila
del 1999. Anche se favorita dalla svalutazione della lira
nel 1992, la maggiore propensione all’esportazione si è dimostrato
un fenomeno stabile nel tempo anche dopo il successivo recupero
del cambio “reale”.
La crescita delle esportazioni si accompagna ad un processo di trasformazione
del modello di specializzazione. L’aumento dell’export si
concentra oggi in alcuni beni tradizionali di consumo (abbigliamento,
calzature, mobili, prodotti principalmente da imprese meridionali
concentrate in alcuni distretti produttivi), nella meccanica
e nei mezzi di trasporto, cioè in alcuni dei settori di successo
del Made in Italy; minore è diventato il contributo all’export
meridionale dei prodotti agricoli e dell’industria di base.
Anche nel settore dei servizi, e in particolare nel turismo, vi sono segnali
di un miglioramento competitivo del Mezzogiorno. A partire
dal 1992 il numero di presenze turistiche straniere nelle
regioni meridionali cresce in misura apprezzabile - dal 12,8%
del totale nazionale al 13,4% del 1998. Nel 1999 le regioni
del Mezzogiorno hanno registrato tassi di crescita delle presenze
straniere più elevati (9,9% contro il 4,9% nazionale).
Interessanti segnali di vitalità emergono anche sul versante della demografia
imprenditoriale. Nel triennio 1996-98 il tasso di natalità
delle imprese segna una variazione positiva del 3,5%, rispetto
al 2% della media italiana.
Si manifesta quindi una crescente capacità di crescita autonoma, con la creazione
di un tessuto industriale diffuso in alcune aree. Su 365 sistemi
locali del lavoro identificati dall’Istat nel Mezzogiorno
(a specializzazione manifatturiera o meno) 102 registrano
un aumento dell’occupazione manifatturiera.
E’ il caso di Avellino, dei distretti industriali di Solofra,
Martina Franca, S.Giuseppe Vesuviano, Casarano, Matera (centrati
su imprese a capitale meridionale) e dell’area di Melfi dove
si sono insediate grandi imprese. I sistemi locali in difficoltà
si incontrano principalmente nelle isole, in Calabria ed in
Campania, ma anche intorno a rilevanti centri industriali
quali Torre Annunziata, Castellammare di Stabia, Manfredonia,
Pisticci, Crotone, Caltanissetta e Gela.
Sistemi locali del lavoro nel Mezzogiorno
(numero; quote percentuali sul totale
dell'occupazione manifatturiera nel 1996)
|
|
numero
|
%
|
Sistemi locali con crescita di occupazione manifatturiera (1991- 96)
|
102
|
22,0
|
Sistemi locali con diminuzione dell'occupazione (1991- 96)
|
179
|
59,0
|
di cui: inferiore al 13 per cento
|
74
|
27,0
|
tra
il 13 e il 26 per cento
|
105
|
32,0
|
Sistemi locali con forte riduzione dell'occupazione (superiore al 26%)
|
84
|
19,0
|
Fonte:
Istat
Aumentano i segnali di interesse da parte delle imprese multinazionali per
investimenti nel Mezzogiorno. Tra il 1996 e il 1998 si osservano
38 nuovi investimenti di imprese multinazionali estere nell’area,
di cui 30 nell’industria e 8 nei servizi. In 19 casi si tratta
di investimenti greenfield.
Ventuno nuovi investimenti sono venuti da imprese dell’UE,
in particolari tedesche e francesi. Sei nuovi investimenti
sono arrivati dagli Stati Uniti; tre dall’Asia.
Paralleli ai cambiamenti di taglio strettamente economico, si riscontra un’evoluzione
significativa negli assetti sociali e politici del Mezzogiorno.
Appare oggi maggiore la capacità di governo delle città, grazie
anche al sistema di elezione diretta dei sindaci che si è
tradotto in una maggiore stabilità politica delle amministrazioni
locali.
La criminalità è diminuita rispetto ai livelli raggiunti all’inizio del decennio
nelle quattro grandi regioni del Mezzogiorno (Campania, Calabria,
Sicilia, Puglia), in cui il fenomeno ha maggiore rilevanza.
Questi risultati sono dovuti non solo all’efficace azione
di contrasto delle forze dell’ordine, ma anche alla rinnovata
fiducia nella capacità di combattere il crimine organizzato
(segnalata dall’aumento del rapporto tra persone denunciate
e totale dei delitti) e anche alla maggiore disponibilità
a collaborare a difesa delle condizioni di sicurezza-legalità:
condizioni che risultano rafforzate non solo dai successi
contro la criminalità, ma anche dalla maggiore qualità e certezza
dei servizi pubblici ai cittadini e alle imprese.
Il permanere di una profonda debolezza strutturale dell’economia meridionale
si manifesta nella contestuale presenza di un basso tasso
di attività, di un’alta disoccupazione, di un’elevata quota
di economia sommersa. L’andamento dell’occupazione è risultato
storicamente insufficiente ad assorbire le dinamiche demografiche,
più rapide che nel resto del Paese.
L’analisi dei dati demografici (registrazioni anagrafiche) evidenzia come
durante gli anni ‘90 la popolazione meridionale abbia continuato
a crescere con saggi superiori alla media italiana (1,8 contro
1,5%), salendo fino a 20.910.000 unità nel 1998. Questa dinamica
trova origine in un saldo naturale positivo (+468.000 unità
fra il '92 e il '98), che è soltanto in parte compensato dal
fenomeno migratorio.
La più rapida dinamica demografica non si è completamente riflessa nei dati
dell’offerta di lavoro. Il tasso di attività è nelle regioni
del Mezzogiorno più basso di circa 12 punti rispetto alla
media europea, e di circa 4 rispetto alla pur contenuta media
italiana.
Tassi
di attività, 1998
|
|
UE15
|
Italia
|
Mezzogiorno
|
15
- 24
|
45,9
|
37,9
|
32,5
|
25
- 34
|
82,5
|
74,4
|
63,1
|
35
- 54
|
83,7
|
72,2
|
66,4
|
55
- 64
|
40,1
|
28,6
|
33,0
|
Totale
|
55,4
|
47,7
|
43,9
|
|
|
|
|
Maschi
|
65,9
|
61,0
|
60,2
|
Femmine
|
45,6
|
35,3
|
28,7
|
Fonte: Eurostat e Istat
Lo scarto nei tassi di attività è particolarmente forte per le donne e per
le classi di età giovanili (nella classe d’età 25-34 anni
è quasi 20 punti inferiore rispetto alla media europea). L’insufficiente
dinamica dell’occupazione, pur avendo compresso i tassi di
attività attraverso fenomeni di scoraggiamento, si è comunque
tradotta in elevatissimi tassi di disoccupazione, più che
doppi rispetto alla media europea.
Tassi di disoccupazione in Europa,
Italia e Mezzogiorno
|
|
UE15
|
Italia vecchia serie
|
Italia nuova serie
|
Mezzogiorno vecchia serie
|
Mezzogiorno nuova serie
|
1990
|
7,9
|
11,4
|
n.d.
|
20,7
|
n.d.
|
1995
|
11,2
|
12,0
|
11,6
|
21,0
|
20,3
|
1998
|
10,5
|
12,3
|
11,8
|
22,8
|
21,9
|
Fonte:
Ocse e Istat n.d.: non disponibile
Negli anni novanta la situazione del mercato del lavoro è peggiorata. Hanno
pesato fortemente su questo risultato la ristrutturazione
e il risanamento di molte grandi imprese. La caduta dell’occupazione
si è interrotta solo alla fine del 1996.
Il tasso di disoccupazione, pur avendo registrato recentemente una flessione,
è arrivato a un massimo storico. Nei nuovi dati messi a disposizione
dall’Istat (che pure rivedono verso il basso i dati precedentemente
disponibili) risulterebbe infatti pari al 21,9% nel 1998 e
al 22,4% a luglio 1999. Tra i disoccupati, circa il 75% lo
è da oltre dodici mesi. La disoccupazione raggiunge come noto
tassi elevatissimi per i giovani (nella classe di età fino
a 24 anni è ben oltre il 50%) e per le donne (oltre il 30%),
che più di altri gruppi risentono nell’area, oltreché della
effettiva scarsa disponibilità di occasioni, anche dell’inadeguatezza
delle informazioni sulle opportunità di impiego.
I tassi di disoccupazione sono tuttavia elevati anche per i gruppi tradizionalmente
forti sul mercato del lavoro (i maschi e gli scolarizzati).
E’ soprattutto questo connotato a caratterizzare la disoccupazione
meridionale. I disoccupati di lunga durata del Mezzogiorno
sono soprattutto giovani che trovano enormi difficoltà a inserirsi
nella prima esperienza di lavoro significativa.
Il fenomeno della disoccupazione nelle regioni meridionali si intreccia in
modo complesso con il persistere di una larga quota di lavoro
sommerso. Le unità di lavoro irregolari (al netto dei secondi
lavori) del Mezzogiorno vengono misurate dall’Istat in 1,7
milioni, superiori a un terzo del volume complessivo di lavoro
impiegato nella produzione di beni e servizi destinati alla
vendita.
L’incidenza dell’economia sommersa nel Mezzogiorno è senz’altro molto maggiore
rispetto alla media comunitaria. Secondo recenti studi, infatti,
il contributo delle attività sommerse è già a livello italiano
fra i più elevati in ambito europeo; ciò vale ancor di più
per il Mezzogiorno, per il quale si è documentata la diffusione
particolarmente ampia del fenomeno nel confronto con il resto
del paese.
Vi sono almeno tre tipologie distinguibili che presentano un diverso grado
di estraniamento dall’economia regolare.
Innanzi tutto vi è un sommerso da economia informale, discendente da attività
discontinue e non organizzate in forma di impresa, talora
esercitate nel contesto di una famiglia allargata, talora
sul mercato. Questa parte del sommerso si caratterizza per
non essere in generale la fonte principale di reddito dei
soggetti che vi partecipano.
Vi è poi la quota, forse prevalente del sommerso (anche al Centro-Nord), che
trova la sua origine nella difficoltà/impossibilità/non convenienza
di mantenere l’attività emersa nel corrente contesto delle
regole contributive e fiscali . Questo sommerso nasce da una
scelta razionale dell’imprenditore e del lavoratore di rimanere
al di fuori dell’economia regolata in maniera totale o di
nascondere parte del valore aggiunto prodotto.
Un’ultima categoria racchiude il sommerso derivante dall’arretratezza dell’organizzazione
produttiva e spesso culturale dell’imprenditore e dallo stato
di necessità della forza lavoro, il cui potere contrattuale
è molto basso. Accanto agli immigrati, partecipano a questa
forma di sommerso anche molti lavoratori meridionali e soprattutto
donne.
I costi unitari del lavoro rimangono più alti di quelli nazionali, perchè
il minore livello dei salari (circa 9 punti percentuali in
meno rispetto alla media italiana nel settore manifatturiero)
compensa solo in parte il differenziale negativo di produttività
(circa 20 punti percentuali in meno), malgrado il permanere
– fino al 2001 – di una parziale fiscalizzazione degli oneri
sociali.
La persistente disoccupazione ha tuttavia influito sull’atteggiamento dell’offerta
di lavoro. Le indagini statistiche registrano una crescente
disponibilità dell’offerta di lavoro all’impiego in condizioni
flessibili: è in costante aumento la quota delle persone in
cerca di lavoro che si dichiarano disponibili a lavorare a
qualsiasi orario e fuori dal comune di residenza.
Le recenti modifiche al regime regolamentare hanno aumentato
la flessibilità potenziale del mercato del lavoro, segnalata
dal ricorso crescente al part-time, ai contratti a tempo determinato
o atipici. Dal 1994 ad oggi, l’incidenza percentuale degli
occupati “part-time” è salita dal 5 al 6,5%, avvicinando la
media nazionale del 7,3%; l’incidenza degli occupati dipendenti
a termine è salita attorno al 15%, 4 punti percentuali superiore
alla media nazionale. Stante l’atteggiamento dell’offerta,
in presenza di un rafforzamento del processo di crescita,
questo canale potrebbe assorbire nell’occupazione regolare
un ampia quota della forza lavoro disponibile.
Il comparto agricolo continua a rivestire un ruolo importante nell’ambito
dell’economia della regioni dell’Obiettivo 1 in Italia. Il
settore primario, infatti, contribuisce per il 5,9% alla formazione
del valore aggiunto totale del Mezzogiorno, rispetto ad una
media a livello nazionale per l’agricoltura del 3,5%. Per
alcune regioni, quali la Basilicata e la Puglia, l’agricoltura
rappresenta rispettivamente il 7,6% ed il 7,8% del valore
aggiunto regionale. In termini di occupazione, l’agricoltura
nel sud impiega il 12% circa degli occupati totali contro
una media nazionale del 6,8%.
Nelle regioni dell’Obiettivo 1 troviamo il 50,4% delle aziende agricole operanti
in Italia, per un totale di 1,2 milioni di unità. La superficie
agricola utilizzata (SAU) rappresenta il 43,4% del totale
nazionale a fronte di una superficie globale del 39%. Di questa
superficie una gran parte é situata nelle zone svantaggiate
e di montagna (ex direttiva CE n° 268/75), che nelle regioni
dell’Obiettivo 1 rappresentano il 76% circa del totale, contro
una media nazionale del 67,5%. In alcune regioni, peraltro,
tali valori sono sensibilmente superiori come in Basilicata
(99,6%), Sardegna (90,4%), Calabria (86%) e Molise (85%).
Nel periodo 1990-1996 il valore aggiunto del settore agricolo delle regioni
dell’Obiettivo 1 é aumentato a tassi superiori (in media del
2,4% annuo) a quelli medi nazionali (+1,8%). In tale periodo,
inoltre, pur in presenza di un aumento della produttività
del lavoro e della terra superiore alla media italiana, il
valore aggiunto per unità di lavoro nell’agricoltura risulta
nel Mezzogiorno ancora nettamente inferiore a quello realizzato
nelle restanti regioni. In media tale valore nelle regioni
Obiettivo 1 rappresenta l’80% circa della media nazionale
ed il 70% circa delle regioni del Centro-Nord.
La caratteristica distintiva dell’agricoltura italiana, della forte presenza
di aziende agricole di ridotta dimensione (5,9 Ha/azienda
nel 1995 contro una media UE di 17,4 Ha/azienda) é ancora
più accentuata nelle regioni dell’Obiettivo 1, con una media
di 5,2 Ha/azienda (nel 1996) e con punte di 2,7 Ha/azienda
in Campania e 3,9 Ha/azienda in Calabria. È da rilevare, inoltre,
come ben il 58,8% delle aziende del sud disponga di meno di
2 Ha di superficie agricola utilizzata.
Anche per quanto riguarda le caratteristiche strutturali degli allevamenti
nelle regioni del sud si riscontra una dimensione media aziendale
decisamente inferiore alla media nazionale. In queste regioni,
infatti, il numero medio di capi bovini e/o bufalini per azienda
é di 22,4 capi contro i 31,3 capi a livello nazionale ed i
36,4 capi del Centro-Nord. Per gli allevamenti suini questi
valori sono di soli 7,4 capi/azienda nel sud, 31,4 capi/azienda
a livello nazionale e ben 60,6 capi per azienda al Centro-Nord.
Fra le carenze più significative, occorre segnalare quella relativa alla dotazione
infrastrutturale delle aree rurali, in particolare per quanto
riguarda le strade rurali e le risorse idriche destinate alla
popolazione e all’economia rurale che non sono adeguate ne
per favorire uno sviluppo orizzontale delle aziende del comparto
ne per consentire un aumento dei margini e quindi del reddito
degli agricoltori.
Ad accentuare i problemi strutturali del mezzogiorno concorre anche l’alta
incidenza percentuale, in tutte le circoscrizioni territoriali
considerate, di aziende condotte da anziani. Nelle regioni
dell’Obiettivo 1 i conduttori di età superiore ai 65 anni
rappresentano il 38%. Questo dato diviene preoccupante se
si considera che il reddito medio di questa fascia di produttori
risulta sensibilmente più basso rispetto a quello dei conduttori
ricadenti nelle fasce di età inferiori. In queste regioni,
inoltre, la percentuale di aziende condotte da anziani e di
dimensione economica inferiore ai due UDE (2.400 € di reddito
lordo standard), è superiore rispetto al Centro-Nord (23,1%
contro 19,8%).
Un’altra caratteristica da evidenziare per l’agricoltura di queste regioni
riguarda l’incidenza percentuale dei consumi intermedi sulla
produzione vendibile, che nel periodo 1993-1997 si attestano
in queste regioni sul 20% circa contro un valore del 33% per
il Centro-Nord Italia. La Campania, la Basilicata, e la Sardegna
presentano, tuttavia, livelli di consumi intermedi in linea
con quelli delle regioni del Centro-Nord.
L’incidenza contenuta dei consumi intermedi, indice di una relativamente più
bassa intensità produttiva dell’agricoltura e di un minore
contenuto tecnologico, si traduce in una scarsa integrazione
del primario con i settori a monte. Tuttavia, va anche sottolineato
che nel sud l’impiego di input chimici rimane relativamente
più contenuto, facendo anche registrare delle significative
riduzioni nel quinquennio 1993-1997 (concimi –2,8% come media
annua, antiparassitari –1,4% anno), il che comporta sicuramente
un’agricoltura meno intensiva e quindi un minor impatto ambientale.
In termini di produzione agricola finale, il valore delle produzioni meridionali
rappresenta il 35% circa di quella nazionale. All’interno
di questa produzione prevalgono nettamente le coltivazioni
erbacee ed arboree (78%) rispetto ai prodotti dell’allevamento
che rappresentano soltanto il 22%, contro una media per il
Centro- nord del 49% circa. Fra le produzioni principali da
segnalare quelle ortofrutticole e agrumarie, vitivinicole
e olivicole che nelle regioni meridionali incidono per il
64% della produzione lorda vendibile.
Nonostante gli elementi di debolezza del settore primario meridionale, bisogna
evidenziare alcuni rilevanti elementi positivi che caratterizzano
l'agricoltura di queste regioni.
La specializzazione produttiva delle regioni meridionali, stimolata dalle
caratteristiche climatiche e morfologiche del territorio,
è volta alla produzione di una gamma di prodotti per i quali
sembrano esistere sufficienti sbocchi di mercato e forti margini
di miglioramento qualitativo, sia a livello delle produzioni
di base ma soprattutto in quella della trasformazione e commercializzazione.
Gli ampi margini per il perseguimento di una strategia di
incremento della competitività delle produzioni può concretarsi
attraverso la forte caratterizzazione delle produzioni nel
senso della qualità e della tipicità. In questo ambito l’esistenza
di forti legami tra agricoltura e territorio e il carattere
spiccatamente "tipico" di molte produzioni ampiamente
diffuse nelle regioni meridionali può costituire un importante
fattore per favorire la penetrazione commerciale sul mercato.
Il
rilancio di molti settori produttivi passa attraverso la valorizzazione
di varietà particolari a forte tipizzazione, il miglioramento
della qualità dei prodotti e un’organizzazione commerciale
adeguata alle esigenze dei canali della distribuzione moderna.
Tra
le produzioni agricole che caratterizzano maggiormente le
regioni meridionali, un riferimento particolare va fatto al
settore agrumicolo, caratterizzato da una forte segmentazione
dei consumi e dall’incremento di prodotti di nicchia qualitativamente
elevati. Lo sviluppo di questo settore potrà dipendere anche
dalla sua capacità di riconquistare quote di mercato nelle
nicchie globali ad alto valore aggiunto.
Le
aree rurali
Nelle regioni meridionali una percentuale molto elevata di popolazione (circa
il 50%) è residente in territori con connotati di ruralità,
in termini di densità abitativa e livelli di occupazione agricola.
Le aree rurali costituiscono, in termini di superficie, oltre
l'80% del territorio del Mezzogiorno.
Le aree rurali del Mezzogiorno risultano estremamente differenziate dal punto
di vista della dotazione di risorse, delle caratteristiche
dell’agricoltura, del grado di integrazione tra le componenti
del sistema agro-alimentare e del loro collegamento con il
contesto economico e sociale circostante, della maggiore o
minore vicinanza alle principali arterie di traffico e ai
mercati di sbocco dei prodotti, della presenza di attività
industriali e terziarie e della qualità del tessuto istituzionale
locale.
Con riferimento alle regioni dell’Obiettivo 1, questa estrema varietà di situazioni
può essere ricondotta a due categorie principali di aree rurali:
le realtà agricole, dotate di elevate potenzialità di sviluppo,
che si contraddistinguono per un intenso dinamismo e dove
esistono i presupposti per uno sviluppo integrato tra industria
e agricoltura e per una crescita del settore agro-alimentare,
e le aree rurali caratterizzate da difficoltà nel processo
di sviluppo.
In queste ultime si osserva, in generale, una forte dipendenza del sistema
economico locale dall'attività agricola, e, pertanto, un elevato
tasso di occupazione nel settore primario, una presenza molto
contenuta di attività manifatturiere, una percentuale di occupati
nei servizi inferiore alla media nazionale, una contenuta
presenza di attività commerciali e ricettive, una tendenza,
a volte drammatica, allo spopolamento.
Quest’ultimo fenomeno presente in tutte le regioni, ad eccezione delle regioni
Puglia e Campania, implica, oltre che un depauperamento di
risorse nelle aree rurali, una parallela costante crescita
demografica dei comuni non rurali, nonché la crescita della
congestione e del degrado dei centri urbani maggiori, dove
peraltro si orientano i nuovi flussi migratori.
L'attività agricola va quindi inserita in un contesto economico e territoriale
più ampio, in rapporto alla capacità di generare reddito attraverso
la valorizzazione delle risorse naturali, paesaggistiche e
culturali, anche mediante l'apporto di altri settori (turismo,
artigianato).
La forte presenza in tutto il Mezzogiorno di risorse storico-culturali e ambientali,
suscettibili di ampia valorizzazione, rappresenta un'ulteriore
e fondamentale opportunità di crescita per le aree rurali,
in particolare per le realtà più marginali, dove le caratteristiche
strutturali delle aziende e la natura dei terreni spesso sono
tali da non consentire un risultato economico soddisfacente,
senza un'opportuna diversificazione delle fonti di reddito.
Del resto, molte aziende, anche di piccole dimensioni, nel processo di adattamento
al contesto economico locale hanno già imparato a fondare
la propria capacità di sopravvivenza su di una molteplicità
di fonti di reddito, finendo col rispondere a una pluralità
di funzioni economiche e sociali.
Il
settore forestale
Nelle regioni dell’obiettivo 1 le foreste, con circa due milioni di ettari,
ricoprono il 17% della superficie territoriale dell’area.
Non va trascurata l’importanza che il patrimonio forestale di queste regioni
assume in termini di offerta di servizi ambientali e ricreativi,
che possono rappresentare una componente piuttosto consistente
del reddito prodotto dalle foreste.
I maggiori problemi sono rappresentati dalla frammentazione delle proprietà
che, in assenza di un’efficace politica di promozione dell’associazionismo,
determina l’incapacità di offrire lotti di prodotto adeguati
alla domanda; dalla scarsa applicazione di strumenti di pianificazione
quali i piani di assestamento o di gestione forestale; dallo
scarso interesse da parte della proprietà pubblica e demaniale
agli aspetti più strettamente produttivi delle risorse forestali.
L’orientamento produttivo dei boschi del Mezzogiorno negli ultimi anni non
ha più soddisfatto la domanda industriale. Tutto il settore
delle utilizzazioni boschive è stato negli ultimi anni caratterizzato
da un grado di sviluppo ed innovazione insufficiente. A questo
si aggiunge la mancanza di collegamento tra le produzioni
primarie e le attività di trasformazione. In particolare,
fatta eccezione per alcune aree ed alcuni prodotti specifici,
mancano gli impianti di produzione industriale (cartiere,
industrie per la produzione di pannelli, segherie). Alcuni
dei pochi impianti esistenti sono stati chiusi o riconvertiti
ad altre produzioni.
Il
comparto agro-alimentare
In Italia l’industria alimentare, nel 1996, realizza il 6,6% del valore aggiunto
complessivo relativo all’industria nel suo complesso, mentre
nelle regioni dell’Obiettivo 1 l’incidenza del valore aggiunto
di questo settore é del 7% sul complessivo dell’industria
meridionale. Il settore industriale meridionale contribuisce,
tuttavia, solo per il 18% circa al valore aggiunto dell’industria
nazionale.
Lo sviluppo del settore nel Mezzogiorno sembra maggiormente orientato verso
la piccola dimensione aziendale e improntato sul modello di
impresa familiare.
Per tali aziende, la grande distribuzione organizzata (Gdo), se, da una parte,
assicura uno sbocco alla produzione delle piccole e medie
imprese di trasformazione, evitando costi di marketing e pubblicità,
dall’altra, l’enorme potere di mercato da questa raggiunto
riduce sensibilmente i margini di profitto.
Attualmente nel settore agro-alimentare sono presenti nel Mezzogiorno circa
28.000 aziende con un numero medio di addetti per azienda
di circa 3,9 rispetto ad un livello nazionale di circa 456.000
di aziende con 6,5 addetti di media.
Il settore é impegnato essenzialmente in attività di prima trasformazione
dei prodotti agricoli piuttosto che verso produzioni di prodotti
a più alto valore aggiunto.
L’industria alimentare, nelle regioni Obiettivo 1, rappresenta solo il 20%
del valore aggiunto del settore agricolo ed alimentare considerato
nel suo complesso, valore inferiore alla metà di quello registrato
per il Centro-Nord (43%), a dimostrazione di un’insufficiente
valorizzazione delle produzioni agricole di queste regioni.
Fra le principali criticità di cui soffre questo settore, oltre all’eccessiva
frammentazione dell’offerta e alla bassa percentuale di trasformazione
agricola rispetto alla produzione di base, é necessario segnalare
anche una ridotta capacità di essere presente in maniera più
diretta sui mercati al consumo nazionali ed esteri e una minore
capacità di investire ed innovare con riferimento agli standard
del Centro-Nord. La scarsa propensione verso modelli cooperativi
e associazionistici nella fase di trasformazione e commercializzazione
costituisce un ulteriore elemento di debolezza.
Un dato interessante é costituito dalla specializzazione dell’industria di
trasformazione dei prodotti agricoli meridionali negli stessi
comparti (oli e grassi, frutta e ortaggi ad esempio) in cui
esiste una specializzazione produttiva agricola che testimonia
una forte specificità di comparto e territoriale dell’industria
alimentare. Tale circostanza configura la possibilità di uno
sviluppo agro-industriale basato su filiere e distretti produttivi
finalizzati al mercato, in un’ottica di effettiva integrazione
degli operatori agricoli lungo tutti i segmenti della filiera.
In questo paragrafo si sintetizza la descrizione della situazione ambientale
di riferimento nel Mezzogiorno. Il testo completo del capitolo
"Analisi della situazione ambientale", incluso nella
valutazione ex-ante del Piano di Sviluppo del Mezzogiorno,
è disponibile nel sito web del Ministero del Tesoro, Bilancio
e Programmazione Economica (www.tesoro.it).
Nel Mezzogiorno il livello di conoscenza delle pressioni esercitate sull’ambiente
e lo stato delle qualità delle risorse è generalmente insoddisfacente
per quantità e qualità dei dati. La ragione risiede nella
carenza di reti di monitoraggio, nella frammentazione delle
conoscenze tra diversi soggetti, e nella quasi totale assenza
di sistemi informativi ambientali regionali.
Aria
Il confronto tra le stime delle emissioni in atmosfera relativamente agli
anni 1995 e 1990, da una parte, mostra tendenze positive per
quanto concerne le emissioni di anidride solforosa (dovuta
principalmente alla desolforazione dei combustibili fossili)
e di ossidi di azoto, dall’altra mette in evidenza una tendenza
all'aumento delle emissioni dei principali gas serra. Particolare
importanza assumono gli scenari di emissione di gas a effetto
serra in relazione a ipotesi di sviluppo socio-economico e
di innovazione tecnologica. Circa l’ozono troposferico sono
disponibili dati recenti ma incompleti: raccolti nel 1998
da sette stazioni localizzate in Campania e Sicilia, segnalano
eccedenze rispetto alla soglia di attenzione per la protezione
della salute umana prevista dalla “Direttiva ozono” 92/72/CEE.
Per quanto riguarda infine l’ozono stratosferico un elemento di particolare
criticità è dato, anche nel Mezzogiorno, dall'utilizzo in
agricoltura come fumigante per il trattamento antiparassitario
del terreno, del bromuro di metile, sostanza di cui l’Italia
è il maggiore consumatore in Europa.
Acque
e coste
Per le regioni del Mezzogiorno non è definibile lo stato di qualità delle
acque superficiali e di falda. Gli unici dati (parziali) disponibili
sulla qualità delle acque dolci superficiali si limitano ai
corpi idrici appartenenti a parchi nazionali e regionali.
In prospettiva, con l’attuazione del D.lgs. n. 152/99, si
potrà prevedere una conoscenza organica, integrata e territorialmente
significativa dello stato di qualità ambientale delle acque
superficiali e sotterranee con un approccio ecosistemico.
Per quanto concerne lo stato di qualità delle acque di balneazione,
i dati 1998 del Ministero della Sanità mostrano nel Mezzogiorno
percentuali di costa non balneabile in linea con la media
nazionale (6%), con l’eccezione della Campania (19%); negli
ultimi anni si è avuto nel complesso un lieve miglioramento,
a parte i casi di Calabria, Puglia e Molise, mentre permangono
rilevanti carenze di rilevazione di dati, in particolare in
Sicilia e Sardegna.
La dotazione dei depuratori (dati Istat 1993 e Noe 1998) è sulla carta apparentemente
soddisfacente nel Mezzogiorno. Dal punto di vista quantitativo,
infatti, il rapporto fra abitanti equivalenti ed abitanti
serviti risulta in linea con i più elevati standard nazionali,
anche tenuto conto della significativa quota di popolazione
turistica. Tuttavia molti impianti non funzionano o scaricano
fuori legge, condizione che riguarda un terzo della potenzialità
esistente nel Mezzogiorno (la punta negativa è in Puglia,
69%). Gli impianti funzionanti, d'altra parte, non rispettano
gli standard della normativa comunitaria (Dir. 91/271/CEE
recepita dal D.lgs. 152/99).
Suolo
Il rischio idrogeologico è, nel Mezzogiorno, consistente e diffuso. Una recente
indagine condotta dal Ministero dell’Ambiente ha classificato
i comuni in base al “Livello di attenzione per il rischio
idrogeologico” portando a evidenza un quadro estremamente
critico: 940 comuni (41,7%) presentano un livello di attenzione
elevato (540 comuni) o molto elevato (400 comuni). L’avvio
su un territorio così fragile di piani di realizzazione di
infrastrutture in carenza di strumenti pianificatori di area
vasta e di settore (Piani di bacino, ecc.), potrebbe causare
un peggioramento generalizzato delle situazioni di rischio
già note o potenziali.
I processi di degrado del suolo risultano in accelerazione, per effetto sia
delle attività agricole sia della presenza di aree industriali
dismesse e di discariche. L'uso eccessivo di mezzi chimici
è una delle principali cause di perdita di fertilità dei suoli.
Le attività agricole e agro-alimentari esercitano pressione
principalmente con l'uso di fertilizzanti e dei reflui dell'industria
agro-alimentare (tra cui le acque di vegetazione dei frantoi
oleari).
I fenomeni di desertificazione emergente in alcune aree (in particolare Sardegna
e Sicilia) sono determinati da una pluralità di cause tra
cui il mutamento del clima, gli incendi boschivi, il sovrapascolamento,
la salinizzazione dei suoli dovuta a sovrasfruttamento delle
falde in prossimità della fascia costiera (fenomeno che assume
rilievo soprattutto in Puglia).
Aree
protette
A livello nazionale la superficie complessiva del sistema delle aree naturali
protette (parchi nazionali e regionali, riserve terrestri
e marine) supera i 2,4 milioni di ettari. Altri ambiti riconosciuti
di particolare valore naturalistico, i 2.426 Siti di Interesse
Comunitario (SIC) identificati in base alla direttiva 92/43/CEE
‘Habitat’, e le 268 Zone di Protezione Speciale (ZPS) identificate
in base alla direttiva 79/409/CEE 'Uccelli selvatici'
(che in parte si sovrappongono o ricadono all'interno delle
aree protette), concorrono all'ampliamento del territorio
protetto per ulteriori 1,6 milioni di ettari. A questi si
aggiungono le aree cuscinetto e le aree contigue alle aree
protette (circa 0,5 milioni di ettari) e i corridoi di connessione
che, considerando i soli ambiti fluviali di pregio, le zone
montane a maggiore naturalità e gli ambiti di paesaggio più
integri, contribuiscono con ulteriori 1,5 milioni di ettari.
Nel complesso la rete ecologica (aree protette, SIC/ZPS, zone
cuscinetto, aree contigue alle aree protette, corridoi di
connessione) ha una dimensione nell’ordine del 19-20% del
territorio nazionale.
L’estensione delle aree protette del Mezzogiorno, pur distribuite in maniera
disomogenea fra le varie regioni, rappresenta il 30% circa
della superficie protetta totale, incidenza non trascurabile
cui contribuiscono in misura rilevante i tre grandi parchi
nazionali del Cilento, del Pollino e del Gargano, tutti di
recente istituzione.
Patrimonio
forestale
Circa un terzo dei boschi e delle foreste del Paese si trova nelle regioni
meridionali (dati 1985), con un contributo particolarmente
rilevante della Calabria e della Sardegna. Ma tale patrimonio
è fortemente esposto agli incendi, costituendo un allarmante
fattore di impoverimento e di distruzione degli ecosistemi
e di erosione e distruzione del suolo. Nel periodo 1986-95
sono stati interessati da incendi, in media, 12mila ettari
per anno, 49mila ettari solo nel 1995.
Paesaggio
e patrimonio culturale
Nel Mezzogiorno quasi il 45% del territorio è sottoposto a vincoli di natura
paesaggistica. La pianificazione di settore è tuttavia assai
debole. I piani paesaggistici approvati sono spesso qualitativamente
inadeguati, di generica definizione, e quindi insufficienti
a regolare le trasformazioni. In alcune regioni, come Calabria
e Puglia, sono assenti.
Secondo stime in corso di elaborazione (Touring Club Italiano, ISTAT) esistono
nel Mezzogiorno, tra complessi architettonici, siti archeologici
e centri storici urbani, oltre 3.200 siti in grado di esercitare
attrazione sulla domanda di turismo culturale. Si tratta di
un patrimonio consistente, superiore - se rapportato agli
abitanti - a quello esistente nel Nord Italia. Tuttavia le
istituzioni che presiedono a tale patrimonio vivono da tempo
una situazione di debolezza e di disagio organizzativo e finanziario,
cosicché molte risorse restano poco valorizzate o del tutto
non utilizzate, come mostra il divario nella dotazione di
strutture e servizi. L’offerta potenziale di aree archeologiche
è superiore nel Mezzogiorno, ma le effettive condizioni di
tutela e di gestione ne riducono di molto la fruibilità.
Rifiuti
Nelle regioni del Mezzogiorno la predisposizione e l'attuazione dei Piani
di gestione dei rifiuti in ottemperanza delle direttive comunitarie
e del DL 22/97 è in grave ritardo. Il ritardo di sviluppo
nella gestione dei rifiuti ha prodotto una dichiarata emergenza
ambientale e sanitaria: in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia
si è reso necessario l’intervento diretto del Ministero dell'Ambiente.
La Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti
ha evidenziato fenomeni di smaltimento illecito, con un’intollerabile
presenza di discariche abusive. Nel Mezzogiorno le discariche
sono di fatto l’unica forma di ‘gestione’ dei rifiuti urbani
(raccolgono oltre il 98% dei rifiuti prodotti). La raccolta
differenziata è di poco superiore all’1,4% (media nazionale
9,4%), si contano solo due inceneritori funzionanti, non è
in atto alcuna azione di prevenzione di produzione dei rifiuti,
gravi ritardi si registrano nell’attuazione di impianti alternativi
alle discariche, non esistono impianti di riciclaggio (al
riguardo, un fattore determinante è la mancanza di flussi
di materiali provenienti dalle raccolte differenziate). Il
quadro è dunque di forte divario dal resto del Paese. Il sistema
dei controlli è carente. L’assenza di gestioni a livello di
ambito territoriale intercomunale produce una parcellizzazione
delle gestioni e un freno agli investimenti per gli impianti
necessari alla gestione integrata. La realizzazione di sistemi
di raccolta differenziata è penalizzata all’origine dall’assenza
di impianti di nobilitazione e trattamento dei materiali,
nonché di punti di intermodalità strada/ferrovia per il loro
trasporto.
Per quanto riguarda i rifiuti industriali i dati disponibili non sono sufficienti
a fornire una rappresentazione organica e verificata della
produzione di questa componente di rifiuti. Sembra tuttavia
accertata un’alta produzione di rifiuti, che si estende dalle
grandi industrie del siderurgico, petrolifero, petrolchimico
e metallurgico, alle piccole (agro-industrie) e alle imprese
a carattere artigianale cui si aggiungono gli accumuli ingenti
di rifiuti pericolosi presso le grandi aree industriali dismesse
da cui derivano pesanti contaminazioni dei suoli e delle falde
(nella sola regione Campania, per esempio, sono stati segnalati
dai comuni 272 siti e 207 discariche che necessitano di bonifica).
Rischio
tecnologico
Nel Mezzogiorno si contano otto aree dichiarate a elevato rischio di crisi
ambientale.
Esse interessano complessivamente quasi 4,3 milioni di abitanti
distribuiti in quasi 150 comuni. Tali aree presentano un elevato
indice di degrado territoriale, ambientale e per la salute
umana; nella maggior parte è presente anche un elevato tasso
di disoccupazione, principalmente connesso con il fenomeno
del regresso industriale in atto, che ha determinato la dichiarazione
di area di crisi occupazionale. Solo per tre di esse è stato
già adottato il Piano di disinquinamento o di risanamento.
Per quanto attiene alle aree a rischio di incidente rilevante, in attuazione
della “Direttiva Seveso” in materia di rischi di incidente
rilevante (recepita con DPR 175/88), il Ministero dell'Ambiente
ha predisposto il primo Rapporto sui rischi esistenti in 18
aree ad elevata concentrazione di attività industriali. Sette
di queste aree sono situate nel Mezzogiorno.
Il Rapporto evidenzia l’elevata vulnerabilità delle aree studiate.
I rischi di incidente, secondo gli scenari, coinvolgono direttamente
importanti infrastrutture di trasporto (strade, ferrovie,
porti e aeroporti) e zone ad alta densità abitativa.
Ambiente
urbano
Dato l’elevato numero di persone esposte, l’inquinamento atmosferico nelle
aree urbane costituisce motivo di grande attenzione e preoccupazione
per la tutela della salute. Anche se recentemente si è assistito
a livello nazionale a un netto miglioramento della qualità
dell’aria nelle città relativamente al biossido di zolfo,
si affaccia ormai sempre più intensamente il problema dell’inquinamento
fotochimico che, con l’ozono, costituisce uno dei più importanti
motivi di preoccupazione. Problemi di inquinamento atmosferico
sono presenti nelle medie e grandi aree urbane, e appaiono
associabili all’incremento del traffico veicolare e alla mancanza
di progetti di riorganizzazione della mobilità. Nel regioni
meridionali, peraltro, il quadro informativo è tutt’altro
che ottimale.
L’inquinamento acustico associato al traffico veicolare è risultato, da un’indagine
di settore del Ministero dell’Ambiente (1995), la principale
causa di disturbo per le popolazioni urbane. Il rumore rappresenta
ormai una componente non secondaria del degrado ambientale
e del conseguente peggioramento della qualità della vita.
In Italia il 72% della popolazione residente in ambiente urbano
è esposto a livelli di rumore ampiamente superiori ai limiti
di accettabilità definiti in ambito comunitario e fissati
dalla normativa nazionale vigente.
*
* *
Le donne rappresentano una delle componenti dinamiche del mercato del lavoro
che però resta fortemente penalizzata sia in termini di possibilità
di inserimento sia di qualifica professionale realmente accessibile,
questa situazione presente su tutto il territorio nazionale
assume carattere di particolare gravità nel Sud.
L’accesso al mercato del lavoro nel Mezzogiorno per le donne risulta più difficile
rispetto agli uomini, nel periodo 1993-1998 si è registrato
un incremento di 140 mila unità della componente femminile
pari al 32,6% della forza lavoro impiegata rispetto al 66,1%
degli uomini: il divario è ancora di 1 a 2. Nel Nord invece
il divario è più contenuto; le donne occupano circa il 40,5%
del totale.
In termini di occupazione femminile la situazione appare più critica; nel
1998 il tasso di occupazione femminile al Sud è pari al 22,2%
contro il 40,5% del Nord. I dati mostrano poi come tra il
1993 e il 1998 al Nord il tasso di occupazione ha mostrato
un trend sostanzialmente positivo, mentre al Sud è stato di
segno negativo (dal 23% al 22,2%).
Altro elemento di differenziazione è rappresentato dall’articolazione settoriale,
dove la presenza femminile è principalmente concentrata nei
settori agricoli e in quello terziario molto di più di quanto
accada per la componente maschile (questi due settori assorbono
rispettivamente il 13,4% e il 76,1% della occupazione totale
per la componente femminile rispetto all’11,0% e al 60,3%
di quella maschile).
Sul fronte della stabilità del rapporto di impiego si rileva che per i maschi
la quota di occupazione temporanea al Sud è pari al 12,3%
per le donne è invece il 15,7%, che scende al 9,1% al Nord.
Questa posizione di svantaggio non è imputabile a una minore qualificazione
professionale, che ha raggiunto livelli equivalenti per le
due categorie, ma a una serie di concause tra le quali si
possono segnalare: inadeguata dotazione delle infrastrutture
sociali in grado di conciliare il lavoro con la vita familiare
e che sposta sulle donne l’onere di autoproduzione del lavoro
di cura all’interno della famiglia, una modesta presenza del
part-time nei settori extra-agricoli, dovuta oltrechè alle
più piccole dimensioni medie di impresa, anche al non favorevole
trattamento regolamentare-contributivo; una cultura diffusa
che colloca la componente femminile in posizione ancora inferiore
rispetto a quella maschile.
Questi elementi, pur presenti su tutto il territorio nazionale, sono molto
più accentuati, anche se con differenti tassi di intensità,
nel Mezzogiorno con particolare riferimento alle zone rurali
e quelle a ridosso dei centri urbani dove sono particolarmente
accentuati.
Punti
di forza
I punti di forza dell’economia meridionale si rintracciano nei segnali di
vitalità sociale e imprenditoriale e in una dotazione di fattori
produttivi che oggi sono sottoutilizzati.
Il Mezzogiorno è inoltre dotato di un capitale di risorse “immobili” - naturalistiche,
ambientali, storiche e culturali - di rilievo assoluto e che
costituiscono un fattore potenziale di competitività territoriale
in grado di innescare, ove opportunamente tutelate e gestite,
processi di sviluppo incentrati sulla piena valorizzazione
anche delle risorse “mobili” (capitali e lavoro) disponibili
sul territorio.
Nel corso degli anni novanta, il valore delle esportazioni del Mezzogiorno
è più che raddoppiato. L’incremento dell’export ha sopravanzato,
in media annua, quello del Centro-Nord (9,7% contro 5,8%).
Questo fenomeno è riconducibile ai miglioramenti strutturali
di una parte dei sistemi economici locali focalizzati verso
settori più dinamici del made in Italy - a svantaggio della
tradizionale industria di base e dell’agricoltura - e al nascere
e al consolidarsi di veri e propri distretti all’esportazione.
Il cambiamento delle specializzazioni e dell’export è la punta visibile di
una trasformazione più profonda, che coinvolge la parte più
avanzata del tessuto produttivo. Negli anni novanta è cresciuto
il numero totale delle imprese, segnale anche di una maggiore
attitudine/propensione culturale verso l’imprenditorialità.
E’ migliorato lo spessore strategico delle imprese locali
e la loro capacità di realizzare collegamenti e connessioni
all’interno di logiche di filiera (sebbene queste siano ancora
deboli).
I segnali di cambiamento si inseriscono in uno scenario di valorizzazione
delle risorse locali e di quelle di contesto che si vanno
traducendo in una capacità di attrazione nell’area anche di
operatori esteri.
Il consolidamento dei percorsi di crescita può contare poi sulla presenza
di un ampio bacino di manodopera, mediamente giovane, anche
con elevati livelli di istruzione, fortemente specializzata
in alcuni settori (anche se spesso operante nell’area del
sommerso), che rappresenta una forte riserva di produttività,
di capacità creativa e potenzialità di connessione con altre
aree e realtà produttive.
Al contempo anche l’economia locale si è sempre più aperta al mercato: i fenomeni
di privatizzazione hanno indotto riorganizzazioni degli assetti
proprietari, che hanno interessato sia l’industria manifatturiera
sia il settore bancario, con impulso alla competitività e
al processo di ammodernamento.
Segnali di trasformazione positiva attengono anche al più generale contesto
sociale e istituzionale. Appare in aumento la capacità di
governo delle amministrazioni locali, che anche grazie alla
maggiore stabilità degli ultimi anni, hanno prestato crescente
attenzione a valorizzare e promuovere le risorse del territorio.
L’accresciuta capacità di contrasto dei fenomeni criminali
e l’aumentata “disapprovazione sociale” dei fenomeni illegali,
con il consolidarsi di reti civiche, ha contribuito ad accrescere
il capitale di relazione e di fiducia, necessario al sostegno
dei processi di sviluppo.
Punti
di debolezza
Il contesto infrastrutturale appare ancora largamente inadeguato soprattutto
in termini di qualità del servizio reso. Per quanto riguarda
le infrastrutture di trasporto, modesta (se non spesso assente)
si presenta l’integrazione tra le diverse “modalità” e scarso
il collegamento con gli aspetti della logistica, rendendo
ancora più critico il problema della “lontananza” del Mezzogiorno
dai principali mercati di sbocco europei. La circostanza è
aggravata dalla modesta dotazione e capacità di utilizzo delle
nuove tecnologie telematiche a supporto della crescita del
potenziale produttivo e di mercato.
Il contesto sociale presenta ancora dei punti di grave criticità: la criminalità
diffusa, che risulta in diminuzione, è ancora mediamente molto
più presente che nel Centro-Nord e tale da agire da freno
all’investimento, scoraggiando la localizzazione di nuovi
impianti, specie da parte di imprese esterne all’area.
Si rileva un deterioramento del sistema ambientale, in particolare per la
scarsa connessione tra azioni di tutela e di mantenimento
da un lato e attività di promozione e di valorizzazione dall’altro.
A ciò va aggiunto il degrado dello stato di conservazione
del patrimonio culturale e l’assenza di una “cultura industriale”
nell’offerta di servizi che valorizzino queste risorse.
Nei centri metropolitani si riscontrano elevati livelli di congestione e bassa
qualità dei servizi pubblici e privati a cui è possibile accedere;
rilevanti sono i problemi di spopolamento e degrado nelle
aree interne, accompagnati a una modesta capacità dei piccoli
centri di sviluppare connessioni e collegamenti.
Altri fattori di debolezza si riscontrano all’interno del sistema produttivo,
sbilanciato in attività tradizionali a scarso contenuto di
innovazione, o dipendenti dalla spesa pubblica, con una modesta
capacità di interagire con il sistema della ricerca e dell’innovazione
tecnologica. Il sistema è complessivamente poco inserito in
logiche di circuito e di filiera, chiamato a sostenere forti
diseconomie esterne di localizzazione, e incontra difficoltà
nella valorizzazione commerciale dei prodotti/servizi e nell’accesso
e utilizzo di servizi finanziari e più in generale di terziario
alla produzione. Il ritardo comporta perciò uno scarto ancora
rilevante di produttività rispetto al resto del Paese (circa
20% con riferimento all’industria manifatturiera).
Tutto ciò si riflette sul funzionamento del mercato del lavoro, caratterizzato
da elevati livelli di disoccupazione e bassi tassi di attività
(in particolare tra i giovani e le donne), scarsa trasparenza
nei meccanismi allocativi – dovuta anche all’assenza di servizi
per le persone in cerca di lavoro - diffusi fenomeni di marginalità
e sottoutilizzazione di capitale umano “pregiato”, la cui
specializzazione è scarsamente allineata con i fabbisogni
professionali delle imprese, in parte per l’ancora esigua
qualità della domanda di lavoro che esse esprimono e in parte
per la scarsa capacità strategica del sistema formativo e
dell’istruzione.
Opportunità
Il Mezzogiorno si trova di fronte a una grande opportunità: veicolare i segnali
di vitalità economica e sociale verso un processo di convergenza
capace di assicurare lo sviluppo. Se assistita da un adeguato
processo di accumulazione, dalla valorizzazione delle risorse
disponibili, da riforme nei mercati del lavoro, dei prodotti
e dei servizi, dall’emersione di lavoro specializzato e delle
riserve di produttività è in grado di innescare un rapido
processo di crescita. Tale processo dipenderebbe dall’attrazione
di nuove risorse, ma esistono già alcuni vantaggi localizzativi
che potrebbero contribuire all’obiettivo di crescita. Questi
vantaggi sono ad esempio connessi alla crescita dell’area
del Mediterraneo, sulla crescente domanda di prodotti e risorse
“vocazionali” dell’area: quali le produzioni tipiche e l’agro-industria,
il turismo naturalistico-culturale connesso alla valorizzazione
di identità locali e alla fruizione delle risorse e degli
usi ricreativi e naturalistici, l’ispessimento dei circuiti
nazionali e internazionali di produzione culturale, l’affermarsi
di tendenze di consumo attente alla qualità delle produzioni.
In questo ambito strategie mirate di tutela e ripristino del patrimonio di
risorse naturalistiche, ambientali, storiche e culturali che
caratterizza il Mezzogiorno e politiche di valorizzazione
attuate attraverso progetti di qualità e secondo un approccio
di tipo integrato, costituiscono una potenziale “leva” di
sviluppo soprattutto nelle aree maggiormente vocate e nelle
quali esistono e sono mobilitabili risorse umane e finanziarie
adeguate
Meccanismi virtuosi potrebbero realizzarsi all’interno del processo di decentramento
amministrativo in atto e di riforma e modernizzazione delle
Amministrazioni, con importanti riflessi anche grazie al nuovo
sistema elettorale delle Regioni. La maggiore responsabilità
degli enti locali nella gestione delle politiche può rappresentare
un elemento per mirare le scelte d’intervento, nella linea
dell’integrazione delle diverse iniziative e attenzione alle
compatibilità ambientali, realizzando un effettivo ruolo di
sviluppo dei soggetti locali (anche nel miglioramento delle
funzioni urbane di rango elevato).
Opportunità per lo sviluppo del Mezzogiorno sono poi offerte dal più recente
sviluppo delle tecnologie di comunicazione. Richiedendo un’infrastrutturazione
leggera, in grado di offrire ritorni di profittabilità tali
da attrarre le risorse dell’investimento privato, e comunque
realizzabile anche in contesti caratterizzati da una bassa
dotazione iniziale di capitale, lo sviluppo di forme di produzione
e scambio legate alla cosiddetta new economy potrebbero portare
il Mezzogiorno a colmare una parte importante del gap di crescita
che lo caratterizza, agendo nella direzione dell’ispessimento
dei collegamenti e delle integrazioni.
Rischi
Il maggiore rischio per il Mezzogiorno è l’incapacità di conservare e attrarre
nel circuito della propria economia le risorse mobili pregiate
(capitali, risorse imprenditoriali, lavoro) necessarie per
finanziare e sostenere il processo di convergenza, se l’assenza
di interventi adeguati comporti un depauperamento delle risorse
immobili e il superamento della “capacità di carico” ambientale
Il rischio di una scarsa capacità di attrazione delle risorse mobili è inoltre
legato anche a fattori geografici, come la lontananza dalle
aree produttive più avanzate del mercato europeo, soprattutto
se il Mezzogiorno non riesce ad aumentare i suoi vantaggi
competitivi in termini di qualità e costo dei fattori produttivi.
La presenza di fenomeni di spillover della conoscenza e della tecnologia, esercita infatti una
forza centripeta sulla localizzazione delle attività produttive,
che può tradursi in un’accentuazione delle divergenze esistenti
Un rischio ulteriore è poi costituito dalla crescente concorrenzialità che
le aree in via di sviluppo esercitano nella produzione e nell’offerta
sui mercati mondiali di beni tradizionali. Si tratta di produzioni
in cui il Mezzogiorno conserva ancora una forte specializzazione,
ma sulle quali non è ovviamente in grado di competere in termini
di costo del lavoro con le economie emergenti. Analogo fenomeno
di riorganizzazione competitiva dell’offerta (e valorizzazione
delle risorse locali) si sta verificando nel settore turistico,
con riferimento al mercato del Mediterraneo e a quello dell’Est
europeo.
L’insieme di questi rischi determina un pericolo di depauperamento del capitale
umano, con ulteriore pericolo di sfruttamento delle fasce
più deboli. Un’eventuale incapacità di valorizzare il capitale
umano oggi disponibile in abbondanza porterebbe infatti a
un impoverimento qualitativo dello stesso, anche a causa dei
flussi migratori della forza lavoro specializzata che ne sarebbero
indotti. Il concatenarsi dei rischi potrebbe dare luogo a
fenomeni negativi concatenati: alla mancata valorizzazione
delle risorse disponibili potrebbe corrispondere un degrado,
con aumento della divergenza di reddito rispetto sia alle
regioni più ricche, sia alle altre aree oggi arretrate, ma
in grado di offrire migliore remunerazione ai fattori mobili
dello sviluppo.
Punti di Forza
|
Punti di Debolezza
|
·
Disponibilità risorse naturali, ambientali
e storico-culturali suscettibili di valorizzazione in
coerenza con le tendenze della domanda nazionale e internazionale
·
Elevato potenziale di attrazione turistica
·
Disponibilità forza lavoro scolarizzata
e specializzata in alcuni settori
·
Riserva di produttività della forza lavoro
·
Minore invecchiamento della popolazione
rispetto alla media europea
·
Vitalità imprenditoriale in alcuni sistemi
produttivi locali e sviluppo dello spirito di imprenditorialità
·
Aumento spontaneo della propensione all’export
e tendenziale sviluppo delle strategie imprenditoriali
·
Vivacità sociale, produttiva e culturale
di diversi poli urbani
·
Miglioramento
delle capacità di governo da parte delle Amministrazioni
locali
·
Crescente
disponibilità a creare relazioni fiduciarie e a sviluppare
capitale relazionale tra attori pubblici e privati
·
Vicinanza
geografica con il bacino del Mediterraneo, aree con
elevate prospettive di crescita futura
|
·
Bassa qualità nella dotazione di infrastrutture
in generale e in particolare di quelle di trasporto,
e bassa funzionalità di quelle per la localizzazione
produttiva
·
Segnali di deterioramento dei sistemi
ambientali e di degrado del patrimonio storico-culturale
·
Ancora modesta diffusione dell’attitudine/cultura
alla valorizzazione dei beni ambientali e culturali
·
Scarsa trasparenza nel funzionamento dei
meccanismi allocativi del mercato del lavoro
·
Ridotta partecipazione al mercato del
lavoro
·
Forte presenza di situazioni di irregolarità
lavorativa
·
Inadeguatezza del sistema di formazione
professionale e assenza dei servizi strategici per l’occupazione
·
Basso tasso di accumulazione e modesta
competitività delle produzioni
·
Sbilanciamento delle produzioni nei settori
maturi e a lento sviluppo della domanda
·
Scarso collegamento del sistema produttivo
e modesta presenza di logiche di circuito e di filiera
·
Insufficiente diffusione della tecnologia
e dell’innovazione, bassa dotazione e familiarità di
utilizzo a scopo produttivo delle tecnologie dell’informazione
·
Lontananza geografica dai mercati europei
·
Presenza di sfavorevoli fattori sociali
di contesto (criminalità, attitudine all’assistenzialismo
ecc.)
·
Congestione
dei centri urbani principali e bassa qualità dei servizi
pubblici e privati
·
Spopolamento
e debolezza dei piccoli centri e delle aree interne
|
Opportunità
|
Rischi
|
·
Ampia disponibilità di capitale umano qualificato e attivazione
di riserve di produttività connesse anche alla crescita
di nuovi bacini di lavoro
·
Attivazione di una politica degli investimenti pubblici per
la valorizzazione delle risorse immobili
·
Sviluppo delle nuove tecnologie della comunicazione per favorire
la commercializzazione e l’integrazione produttiva
·
Crescente
domanda di risorse e prodotti vocazionali dell’area
·
Ispessimento
dei circuiti nazionali e internazionali di produzione
culturale
·
Vantaggi
localizzativi connessi alla crescita dell’area del Mediterraneo
·
Rilancio del ruolo di sviluppo delle Amministrazioni locali
connesso al processo di riforma;
·
Maggiore
stabilità dei governi regionali indotta dalla riforma
del sistema di elezione
|
·
Perdita di capacità di attrazione delle
risorse mobili dello sviluppo
·
Attrazione di iniziative produttive e
di risorse umane qualificate del Mezzogiorno verso aree
a migliore disponibilità di economie esterne e di dotazioni
terziarie
·
Depauperamento del capitale umano e pericolo
di sfruttamento delle fasce più deboli
·
Esclusione/marginalizzazione dai processi
di spillover della conoscenza e della tecnologia
·
Perdita di competitività nei confronti
dei paesi e delle aree a basso costo del lavoro e di
quelli più attivi sul versante della valorizzazione
dei circuiti turistici
|
Il presente capitolo esamina la strategia del QCS attuata durante il periodo
1994-1999 e trae alcune lezioni chiave dall’esperienza corrente,
sulla base del lavoro di valutazione svolto a partire dal
1997, principalmente a livello di QCS.
Il QCS 1994-1999 contiene 7 principali assi prioritari:
1.
Infrastrutture di comunicazione;
2.
Industria e servizi;
3.
Turismo;
4.
Sviluppo rurale;
5.
Pesca;
6.
Infrastrutture per le imprese;
7.
Sviluppo delle risorse umane.
Tali assi si concretano in 54 forme di intervento: 11 programmi operativi
(PO) regionali, 24 PO multiregionali, 18 sovvenzioni globali
e un grande progetto. Circa il 50% delle risorse disponibili
è stato destinato all’obiettivo centrale mirante a sviluppare
la base produttiva nel Mezzogiorno (assi 2 e 6).
Le azioni di riprogrammazione hanno avuto come risultato un ulteriore aumento
delle risorse destinate a tali assi prioritari, in particolare
al regime di aiuti nazionale a favore dell’industria (la «Legge
488»). Di fatto, l’attuale QCS presenta notevoli differenze
(dopo la riprogrammazione) rispetto all’originale, a seguito
dell’introduzione di nuovi programmi nel 1997 e nel 1998,
oltre a varie azioni di riprogrammazione.
Le informazioni disponibili relativamente all’efficacia degli interventi realizzati
nel periodo 1994-1999 non consentono un esame approfondito
dei risultati conseguiti, se non per quelli di natura finanziaria
e per l’analisi di alcuni interventi quali, fra gli altri,
quelli cofinanziati dal FSE. Per alcuni interventi esistono
dati valutativi parziali, ad esempio per il regime di aiuti
nazionale a favore dell’industria, che ha registrato investimenti
privati per circa 9 miliardi di euro e 48.000 nuovi posti
di lavoro, benchè non sia stato valutato in quale misura gli
investimenti pubblici abbiano sostituito gli investimento
privati. Di particolare rilievo, in questo quadro, la carenza
di valutazioni ambientali.
Per quanto riguarda gli interventi sulle risorse umane, il precedente periodo
di programmazione ha avuto effetti consistenti sia per il
volume di popolazione coinvolta, sia nel supporto alla trasformazione
del sistema formativo e alla diversificazione dell’offerta
di opportunità. Con 1.116.000 beneficiari diretti degli interventi,
il FSE è riuscito a servire il 15% della popolazione giovanile
in cerca di occupazione e l’1,6% degli adulti disoccupati
di lunga durata. Un risultato così differenziato è dato sia
da scelte di policy mirate a concentrare l’attività sul segmento
di popolazione, i giovani, più colpito dalla disoccupazione,
sia dalle difficoltà incontrate nell’intercettare l’utenza
potenziale adulta.
In Italia si sono verificati notevoli ritardi nell’avvio di quasi tutti i
programmi. Nel 1994 l’attuazione del precedente QCS (1989-1993)
era giunta soltanto a metà e le autorità italiane hanno dovuto
chiedere una proroga per le scadenze dei relativi programmi.
Un’ulteriore richiesta di proroga delle scadenze per il periodo
1989-1993 è stata presentata nel 1995, quando la Commissione
era ormai seriamente preoccupata anche per la lentezza dell’attuazione
dei programmi del periodo 1994-1999.
Di conseguenza, nel luglio 1995 è stato negoziato un accordo (la cosiddetta
«Intesa») per il miglioramento della gestione dei programmi
dei Fondi Strutturali in Italia in cambio di un’ultima proroga
per i programmi 1989-1993. L’accordo comprendeva l’impegno
a rafforzare il coordinamento e l’amministrazione, ad ottimizzare
le procedure e a potenziare i meccanismi di monitoraggio,
valutazione e controllo dei PO ed è stato sottoscritto da
tutte le Regioni partecipanti alle azioni dei Fondi Strutturali.
Tale accordo ha ottenuto qualche risultato per l’attuazione dei programmi
1994-1999. Tuttavia, si sono registrati gravi ritardi in alcuni
programmi; ne è conseguita una forte azione di riprogrammazione
delle risorse in favore dei programmi più efficienti. In occasione
della valutazione intermedia, una quota significativa di risorse
non programmate è stata inoltre destinata a nuovi interventi.
È altresì migliorato il coordinamento centrale dei Fondi Strutturali – affidato
al Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e di Coesione
del Ministero del Tesoro, del Bilancio e della P.E. – anche
in termini di preparazione del comitato di sorveglianza del
QCS. Ciò ha contribuito a un significativo recupero dell’efficienza
finanziaria. Tuttavia, la qualità della gestione dei programmi
varia in misura considerevole sia tra le autorità centrali
che tra le amministrazioni regionali, evidenziando situazioni
ancora inefficienti.
Persistono numerose insufficienze nei meccanismi di monitoraggio e di valutazione.
Gli indicatori fisici, specialmente per gli interventi del
FESR, sono ancora scarsi ed è ancora necessario rendere pienamente
operativo un sistema per la raccolta e l’elaborazione dei
dati. Riguardo alla valutazione, la Commissione ha insistito
per avviare le valutazioni intermedie, ma alcune di esse non
erano ancora pienamente a regime a fine 1999. I pagamenti
sono stati sospesi fino a luglio 1999 per i programmi per
i quali non erano stati selezionati i valutatori.
Anche le opportunità offerte dall’assistenza tecnica sono state scarsamente
sfruttate. Di conseguenza, a parte poche eccezioni, essa non
ha contribuito a migliorare l’efficienza della Pubblica Amministrazione
né ad introdurre meccanismi di attuazione più efficaci.
Nel periodo 1994-99, per la verifica del principio dell’addizionalità è stata
elaborata una metodologia articolata e trasparente, basata
su una banca dati costruita ad
hoc e sottoposta ad un processo di affinamento quali-quantitativo
continuo.
La modifica sostanziale delle condizioni macroeconomiche ha comportato una
deviazione rispetto alle ipotesi assunte ex
ante; in particolare la drastica revisione della politica
finanziaria italiana, basata su interventi restrittivi in
materia di bilancio al fine di ridurre il deficit pubblico
e consentire l’ingresso nell’Unione Economica e Monetaria
ha comportato una riduzione della spesa pubblica e, quindi,
il non rispetto dell’addizionalità.
La mancanza di sistemi efficaci di monitoraggio e di valutazione nel periodo
1994-1999 rende difficile trarne insegnamenti per il periodo
2000-2006.
In generale, i risultati dell’attuazione della strategia del QCS 1994-1999,
pur considerando i forti progressi conseguiti sul piano dell’attuazione
finanziaria, non possono definirsi del tutto soddisfacenti
(ad esempio, nell’ambito delle iniziative industriali autorizzate
nel quadro della «Legge 488» si evidenziano effetti di inerzia
- “deadweight” - medio-alti, oltre a pronunciati effetti di
spiazzamento). Nonostante ciò, è possibile rilevare esperienze
positive in termini di idee innovative o di successo.
In questo contesto, vale la pena menzionare due esempi di “buone” e “cattive” pratiche per quanto riguarda l’attuazione
dei progetti:
·
il porto
di Gioia Tauro rappresenta un intervento integrato di successo,
cofinanziato dalla Pubblica Amministrazione e da investitori
privati, mirato non solo a creare un porto moderno di trasbordo
per un elevato volume di container, ma anche a migliorare
l’intermodalità dei trasporti (collegamento con ferrovia e
autostrada), a promuovere lo sviluppo locale mediante regimi
di aiuto a favore delle PMI legate all’attività portuale,
e a proteggere gli impianti dall’infiltrazione della criminalità
organizzata;
·
per contro,
la generale insufficienza delle misure adottate per realizzare
progetti nel settore dei rifiuti costituisce un chiaro esempio
di gestione non efficace degli interventi. Tale insufficienza
ha causato ampi ritardi nella messa in servizio dei sistemi
di gestione dei rifiuti e nella realizzazione dei progetti
(principalmente a causa dell’assenza di strategie e piani
regionali, ma anche per la mancanza di consenso a livello
locale, l’incapacità di presentare progetti validi e le procedure
di autorizzazione che richiedono tempi lunghi).
Il sistema formativo regionale, tradizionalmente specializzato nella formazione
di base dei giovani in possesso del solo obbligo scolastico,
si è in parte diversificato. Oggi le opportunità offerte riguardano
anche altre fasce di utenza debole quali i disoccupati di
lunga durata, gli adulti senza titolo di studio, gli immigrati,
i disabili e le donne che rientrano nel mercato del lavoro.
In parallelo alle politiche di equità sociale sviluppate con
il concorso del FSE, la programmazione 1994-1999 ha promosso
interventi, seppur finanziariamente limitati, di competitività
del territorio attraverso lo sviluppo di professionalità medio-alte
e della formazione continua nelle PMI.
Il sistema di istruzione, in particolare professionale e tecnica, si è rafforzato.
Ciò è avvenuto grazie a un massiccio intervento di azioni
professionalizzanti, integrate con il sistema delle imprese
locali.
Purtuttavia, le prime analisi di impatto indicano che lo « sforzo di
policy » effettuato dalle Amministrazioni regionali non
è risultato ancora sufficientemente efficace a causa della
persistente debolezza strutturale del Mezzogiorno e, nello
specifico, alla:
·
debolezza
del sistema delle imprese che, oltre a non produrre occupazione
aggiuntiva, non riesce a individuare ed esplicitare i propri
fabbisogni professionali e, di conseguenza, a fornire al sistema
formativo gli input di medio termine per progettare gli interventi
di sviluppo delle risorse umane;
·
debolezza
del sistema dell’offerta che non riesce ad assumere un ruolo
anticipatorio e propulsivo delle competenze professionali
necessarie allo sviluppo.
Riguardo alle procedure, va segnalata la diffusione generalizzata di sistemi
di selezione dei progetti basati su inviti a manifestazioni
di interesse o su procedure aperte di gara. Tali procedure
hanno consentito di conseguire un duplice risultato: da un
lato, la maggiore trasparenza dei meccanismi di assegnazione,
e dall'altro, il rafforzamento delle capacità di programmazione
e delle tecniche amministrative, dovuto alla necessità di
preparare gli inviti e i capitolati tecnici. Nel corso del
nuovo periodo dovrebbe essere possibile riassorbire i ritardi
di attuazione causati da tali procedure, poiché i meccanismi
potranno essere operativi sin dall’inizio.
Nel periodo di programmazione 1994-1999 le considerazioni di carattere ambientale
(ivi compresa la conformità con la legislazione comunitaria)
e il principio delle pari opportunità sono stati inseriti
in misura marginale sia nella strategia di sviluppo sia nei
programmi operativi. Il coinvolgimento delle autorità ambientali
nazionali e regionali nel Mezzogiorno è stato spesso insufficiente
e la partecipazione delle autorità in materia di pari opportunità
è stata scarsa, se non assente.