PRIMO LEVI

Le opere:

Tra i numerosi libri di Primo Levi sono fondamentali Se questo è un uomo (1947), che racconta delle condizioni di vita dei deportati di Auschwitz; La tregua (1958), che descrive il lungo viaggio verso casa attraverso la Polonia e la Russia dei sopravvissuti ai campi di sterminio; Il sistema periodico (1975), una serie di storie, spesso di ispirazione autobiografica, intitolate col nome degli elementi chimici intese come metafore di tipi umani; Se non ora, quando? (1982), con cui ritorna sulla tematica della guerra e dell'ebraismo. Fra le altre sue opere sono i racconti di Storie naturali (1963), Vizio di forma (1971) e Lilít e altri racconti (1981); le poesie dell'Osteria di Brema (1975) e Ad ora incerta (1984); i romanzi La chiave a stella (1978) e I sommersi e i salvati (1986); i saggi dell'Altrui mestiere (1985). Dalla Tregua ha tratto un film Francesco Rosi nel 1997.

 Se questo è un uomo
Quest'opera è sia un libro di ricordi, sia un documento storico, unico nel suo genere, che ci permette di conoscere le atrocità compiute nei campi di sterminio dalla voce di chi ha vissuto in prima persona questa terribile esperienza.
Se questo è un uomo narra la prigionia di Primo Levi dal momento dell'arresto da parte dei soldati tedeschi  e del trasferimento successivo (tematica del viaggio)al campo di Auschwitz su di un treno carico di uomini stipati nelle carrozze. Inizialmente non si capacita di questo arresto, essendo lui nato in Italia, ma questo è giustificato dalle origini ebree dei suoi famigliari. Arrivato al campo, trova un'atmosfera terribile dove tutti i prigionieri sono costretti a durissimi lavori forzati (a cui verrà destinato anche lui).
Durante il lavoro ha modo di comunicare con molta gente e questo gli permette di rimanere vivo e non perdere completamente la sua identità ed aumentare quindi, il senso di solitudine che lo pervade. In questo libro, sono descritti inoltre, i giorni nel loro succedersi allucinante, uguale, e pur imprevedibile, segnati dalla fame, dalla fatica, dalla paura, che annebbia lo spirito, confondo bene e male, e domano i corpi, fino al cedimento, alla malattia, occasione questa di selezioni micidiali, per far posto a nuove ondate di sventurati. La sera, nel suo letto, meditava su tutte queste cose, la perdita dell'identità, le atrocità compiute dai tedeschi e si poneva domande più importanti sulla sua sopravvivenza e sulla sua condizione di uomo.
Il suo profondo senso di solitudine e le sue paure erano alimentate dal fatto che non poteva sapere nulla della guerra in corso. Durante la prigionia si ammala e spera così di tornare a casa, invece lo curano e poi lo rimandano a lavorare. I maltrattamenti continuano. Un giorno arriva la notizia i tedeschi sono stati sconfitti e quindi viene liberato e questa scarcerazione, coincide con l'arrivo dei soldati sovietici. Dopo di che Primo Levi comincia un nuovo viaggio, quello per tornare a casa, ma quando, dopo lunghe peregrinazioni, riesce ad arrivare nel suo paese natale, si accorge di aver perso comunque la sua identità e ciò lo porterà poi al suicidio.
Primo Levi, chimico di professione, la cui lacerante vicenda di prigioniero nei lager nazisti, ha lasciato in lui indelebile, oltre allo stupido numero tatuato, la volontà di ricordare, di serbare testimonianze di quell'estrema degradazione dell'individuo, dell'orrore di assistere impotente alla demolizione di un uomo. Arrestato dalla milizia fascista perché operante nel gruppo partigiano di "Giustizia e Libertà" e deportato prima a Carpi-Fossoli, presso Modena, e poi ad Auschwitz nel 1944, vi rimase sino al gennaio del 1945, quando la avanzata delle forze alleate determinò il crollo del nazismo e del sistema dei lager. Levi, a contatto con il lager ha imparato molte cose «sugli uomini e sul mondo». «..., questo passato mi ha reso più ricco e più sicuro. Una mia amica, che era stata deportata giovanissima al lager femminile di Ravensbruck, dice che il campo è stata la sua Università: io credo di poter dire altrettanto, ...». Egli, tuttavia, diversamente da come a noi oggi appare, durante la prigionia non si considera un intellettuale «per immaturità morale, ignoranza ed estraniamento» e se mai, come dice, lo è diventato poi, lo deve paradossalmente all'esperienza del lager: «se non avessi vissuto la stagione di Auschwitz, probabilmente non avrei mai scritto nulla. Non avrei avuto motivo, incentivo, per scrivere [...], i problemi di stile mi sembravano ridicoli... mi pareva, questo libro, di averlo già in testa tutto pronto, di doverlo solo lasciare uscire e scendere sulla carta»; «È stata l'esperienza del lager a costringermi a scrivere...». In effetti, lo stesso stile sobrio, scarno, il tono colloquiale, la narrazione impersonale, la scrittura chiara, comunicativa, rigorosamente aderente ai fatti e attenta alle sfumature, esprimono l'intento di offrire una testimonianza che solleciti la riflessione sulla civiltà edificata dall'Occidente. Ed è forse per questo che egli riesce a cogliere, con l'equilibrio e la lucida analisi, che siamo soliti riconoscere ai classici, «i tempi cruciali della vita nel lager, rifiutando ogni indugio, tendendo allo essenziale [...] restituendo alla pagina quella sua dignità umana e civile che la configura sotto il segno del nuovo referto, ed ad un tempo la arricchisce e la carica di significazioni più vaste che scaturiscono dagli episodi, dai fatti, dal minimo risvolto doloroso che trasuda da ogni riga del libro». In alcuni passi, in modo particolare, si coglie il modo di rapportarsi da parte di Levi a quanto, apparentemente insignificante, accadeva durante il monotono scorrere del tempo nel campo, così per esempio: «... una camera grande e vuota, e noi stanchi di stare in piedi, e c'è un rubinetto che gocciola e l'acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente. Come pensare? Non si può più pensare, è come essere già morti». «Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c'è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorranno conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di far sí che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.». Pertanto, non siamo di fronte ad uno dei tanti letterati che, pur riferendosi a vicende vissute personalmente, finiscono sempre per trasfigurarle, ma ad uno scrittore che, almeno nella sua prima produzione, intende solo lasciar parlare «gli orrori», senza nulla concedere alle esigenze estetiche. Primo Levi considera universale l'esperienza del lager e comunque non come un fatto concluso, un evento imprevedibile e circoscritto, insomma un incidente della storia, ma come una vicenda esemplare che «è avvenuta, quindi può accadere di nuovo» attraverso cui è possibile capire fin dove può giungere l'uomo nel ruolo di carnefice e in quello di vittima. L'eliminazione pianificata della dignità dell'uomo, le violenze fisiche, ma soprattutto quelle psicologiche che tendono ad annientare ogni forma comunicativa, le inutili denudazioni pubbliche, i rituali macabri, non sono che «l'espressione sensibile della follia geometrica» del lager, di quella «risoluzione altrui di annullarci prima come uomini per ucciderci poi lentamente».
Di qui il mettere allo scoperto aspetti della progressiva disumanizzazione che per pudore sarebbero stati volentieri taciuti. «Tutti avevamo rubato: alle cucine, alla fabbrica, al campo, insomma agli altri, alla controparte, ma sempre furto era; alcuni, pochi, erano discesi sino a rubare il pane al compagno. Avevamo dimenticato non solo il nostro paese e la nostra cultura, ma la famiglia, il passato, il futuro che ci eravamo rappresentato perché, come gli animali, eravamo ristretti al momento presente.». Egli combatte l'annullamento a cui la logica del campo vuol portare convincendo che nessuno sarebbe uscito dal lager e avrebbe portato «al mondo, insieme col segno impresso nella carne, la mala novella di quanto, ad Auschwitz, è bastato all'uomo di fare all'uomo»; invece no, profondamente segnato dagli orrori di cui è stato testimone, fa di questa sua eccezionale avventura, materia di una produzione sui generis, come una dura e inflessibile denuncia dei momenti cruciali «di una stagione umana che, se lo riguarda in prima persona, coinvolge poi chiaramente tutta l'Umanità». È cosí che in quel luogo, in quella grande macchina per ridurre a bestie «si doveva sopravvivere e voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza.».

Levi non si limita a chiarire gli aspetti del fenomeno lager, che restano ancora in parte oscuri; la sua è soprattutto una produzione militante, in quanto combatte contro ogni forma di falsificazione e negazione dell'Umanità, contro l'inquinamento del senso etico e l'assuefazione a quella degradazione dell'individuo che riempie le cronache di questi decenni. Forte è in lui l'esigenza «di fare gli altri partecipi di quella tragica notte della ragione vissuta dagli uomini del suo tempo». È un nuovo compito dell'intellettuale quello promosso da Levi, che si muove continuamente tra la fedeltà ai valori morali più che estetici e l'intima esigenza di cambiare il mondo, di denunciare tutte le sofferenze cui l'uomo è soggetto, invece di limitarsi a consolarlo con una produzione di evasione, un divertissement puro e semplice, in cui rifugiarsi e dimenticare.

Dopo Se questo è un uomo, scritto di getto nel 1946, dieci anni più tardi Levi scrive La tregua, che rievoca il viaggio di ritorno con un gruppo di compagni di prigionia, un'incredibile odissea attraverso un'Europa ancora stravolta dal conflitto, un vero e proprio diario del viaggio che ha inizio dalle nebbie del lager ancora infestato dalla morte e prosegue attraverso scenari suggestivi (come la Bielorussia, Ucraina, Polonia...), popolati da personaggi indimenticabili.

Levi Primo fu catturato dai tedeschi a 24 anni, fu "buttato" in un vagone con altre persone e viaggiò per 4 giorni poi, scaricato dal treno, assieme ad altre persone fu caricato su un camion e portato nel campo di Monowitz, dove fu trattato duramente. Alla fine i prigionieri furono liberati dai Russi e lui riuscì a incontrare i suoi amici del campo. Una poesia mi ha colpito molto: "Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, Voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo: che lavora nel fango che non conosce pace che lotta per mezzo pane che muore per un sì o per un no".

dal libro....

Ci apparve una vasta banchina illuminata da riflettori. Poco oltre, una fila di autocarri… bisognava scendere coi bagagli, e depositare questi lungo il treno. In un momento la banchina fu brulicante di ombre… Una decina di SS stavano in disparte, l’aria indifferente, piantati a gambe larghe. A un certo momento penetrarono fra di noi e, con voce sommessa, con visi di pietra, presero a interrogarci rapidamente… "Quanti anni? Sano o malato?" e in base alla risposta ci indicavano due diverse direzioni.
Tutto era silenzioso come in un acquario, e come in certe scene di sogni. Ci saremmo attesi qualcosa di più apocalittico: sembravano semplici agenti d’ordine. Era sconcertante e disarmante. Qualcuno osò chiedere dei bagagli: risposero "bagagli dopo"; qualche altro non voleva lasciare la moglie: dissero "dopo di nuovo insieme"; molte madri non volevano separarsi dai figli: dissero "bene bene, stare con figlio". …
In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente. Oggi però sappiamo che in quella scelta rapida e sommaria, di ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no lavorare utilmente per il Reich; sappiamo che nei campi rispettivamente di Buna-Monowitz e Birkenau, non entrarono, del nostro convoglio, che novantasei uomini e ventinove donne, e che di tutti gli altri, in numero di più di cinquecento, non uno era vivo due giorni più tardi.

Levi, Se questo è un uomo, pagg. 19-20

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