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I
vantaggi della conciliazione.
Aspetti psicologici del conflitto
ISABELA BUZZI
ABSTRACT
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Country:
Italy
Language:
English
Italian
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Nella mediazione delle controversie commerciali e socio-aziendali, il
conciliatore gestisce le negoziazioni tra le parti in lite cosicché possano
raggiungere una transazione. Il conciliatore non ha molto tempo a sua
disposizione, sovente solo una o due sedute, e deve utilizzare al meglio
di tutte le sue conoscenze sugli aspetti psicologici del conflitto.
La relatrice traccerà le basi teoriche ed esperienziali per una interpretazione
del conflitto come evento relazionale, interazionale e comunicativo, ed
analizzerà soprattutto quelle emozioni negative che spesso impediscono
alle parti di affrontare e risolvere positivamente la conflittualità.
Inoltre, esaminerà il problema classico delle "intenzioni nascoste" dando
alcuni suggerimenti per stimolare le parti all'apertura e al dialogo,
così da raggiungere un clima maggiormente adatto risolvere le dispute.
Il tutto verrà illustrato da casi pratici.
In
commercial, business and work mediation, the mediator manage the negotiations
between the conflicting parties so as they can reach a transaction. The
mediator is not having much time to use, just one or two sessions, and
he/she must profit of all his/her knowledge about psychological aspects
of conflict.
The speaker shall give a clear interpretation of conflict as a relational
and communicational event, and analyse those negative emotions that are
usually refraining the parties from facing and solving the conflictuality.
Than she shall examine hidden agendas' problem and shall give some suggestions
to stimulate the parties to be open and ready to the dialogue, so as to
reach a climate in which it will be possible to solve the disputes. Everything
will be illustrate through real case-stories.
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Psicopedagogista, dottore in Psicologia, mediatrice familiare e dei conflitti
commerciali e sul lavoro, collabora con il Centro di Psicologia Giuridica
dell'Università Cattolica di Milano e si occupa a livello nazionale di
formazione professionale presso centri di formazione, strutture aziendali
pubbliche e private, e camere di commercio.
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Index
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Come
è visto il conflitto nella
nostra
società?
Le
ricerche scientifiche
Che
cosa è il conflitto?
Definizione
e classificazione
del conflitto
Gli
atteggiamenti conflittuali
Affrontare
o non affrontare
i
conflitti?
Che
cos'è e come controllare
la collera?
La
collera altrui
Riferimenti
bibliografici
Note
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COME E'
VISTO IL CONFLITTO NELLA NOSTRA SOCIETÀ?
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L'esperienza comune
Il fine principale della presente relazione è la comprensione del
conflitto finalizzata alla sua gestione. Nell'esperienza storica occidentale
il conflitto è stato la costante che ha dato vita a processi storici
di trasformazione sociale, politica e culturale. Sembra dunque che la
dinamica interna dei processi di crescita e di trasformazione individuale
e sociale passi obbligatoriamente attraverso i conflitti, ci ricorda infatti
Stefano Carta: "Là dove sembra regnare la pace e l'armonia
totale, cova inesorabilmente la malattia". 2
Osserveremo dapprima il conflitto così come rappresentato nel pensiero
comune e poi, in breve, i risultati sintetici della riflessione scientifica.
Un grande influsso nel modo comune di affrontare i rapporti con gli altri
3, comunque vissuti come conflittuali,
può essere fatto risalire alla teorizzazione neo-industriale dell'Homo
homini lupus e a sua volta al filosofo greco Epicuro e al suo fondamentale
concetto di egoismo umano. Ritroviamo queste posizioni in quella filosofia
spicciola del "furbo", che potremmo identificare in frasi come:
"il mondo è dei furbi", oppure "attento a non farti
fregare dal primo furbo che passa". In questo mondo di furbi si vive
una continua lotta contro gli altri, vissuti come minaccia. La convinzione
di partenza sembra essere che sia insito nella natura umana essere egoisti
e quindi in determinate occasioni anche crudeli verso i propri simili.
E' possibile trovare anche una corrente di pensiero apparentemente opposta
alla precedente, che può essere fatta risalire alle riflessioni
socio-educative di Rousseau e al suo Mito del buon selvaggio, concetti
che ancora oggi fanno sognare che, ad esempio in cima alle montagne del
Tibet o in un'isola dell'Oceano Indiano esistano luoghi sereni e pacifici,
liberi dal peso del condizionamento sociale e dalla lotta per il denaro,
fonte di vizio, corruzione, malcostume e conflitto. L'origine del conflitto
non sta nell'uomo, che comunque è buono per natura, ma nella cosiddetta
società civile organizzata, nel sistema capitalistico, o nel progresso
industriale. Gli esponenti di questa corrente di pensiero sembrano ritirarsi
dalla "mischia" sociale più allargata, per rifugiarsi
nei piccoli gruppi di amici o nella famiglia, unici luoghi in cui, a loro
parere, è possibile ritrovare l'autenticità dei buoni sentimenti.
Come risultato però anche nel mondo dell'organizzazione burocratica
gerarchica e dei rapporti mascherati da interessi e convenienze, si vive
in continua lotta contro gli altri, vissuti come insinceri (non possono
essere buoni in una struttura che spinge ad essere malvagi). Sembra che
secondo questa filosofia dell'uomo comune, intrisa di miti romantici e
nostalgici, la vera natura positiva dell'uomo non possa più essere
espressa liberamente nella nostra società.
E' possibile trovare una terza teorizzazione, a favore del vivere organizzato
e del libero commercio. Rispetto al conflitto e alle sue origini questa
filosofia dell'uomo comune si distingue dalle precedenti in quanto, ripercorrendo
il pensiero aristotelico, o dell'inglese John Locke, dell'uomo quale "animale
sociale", il conflitto è inteso come originato ad hoc, ovverosia
pianificato e costruito razionalmente e scientificamente in base a piani
più o meno complessi e ad alti livelli di potere. Dunque il conflitto
perderebbe la propria parte "maligna", più emotiva e
istintiva, connaturata all'uomo o al vivere sociale, per diventare uno
strumento di potere. Sia che la natura dell'uomo sia benigna o crudele,
sociale o avida di denaro, il conflitto per coloro che si riconoscono
in questa corrente di pensiero è visto come essenzialmente legato
a dinamiche di potere, che può essere gestito da coloro che si
preparano tecnicamente a farlo. In un mondo simile non esiste spazio per
il caso e l'improvvisazione, così appare solo per quanti non hanno
accesso alle informazioni e, quindi, al potere stesso.
Concludendo nella consapevolezza che quanto esposto non voglia rappresentare
uno strumento per categorizzare il pensiero comune (cosa che tra l'altro
resterebbe fine a se stessa), ma che possa essere uno spunto per invitarci
alla riflessione personale, possiamo osservare che tutti noi, anche se
non apparteniamo alle categorie dei filosofi, dei religiosi o di quanti
identifichiamo come "addetti ai lavori", siamo più o
meno consapevolmente guidati nei rapporti con gli altri e nel modo di
affrontare situazioni critiche e conflittuali da una serie di riflessioni
appartenenti al modo di "leggere" i rapporti tra l'uomo e la
sua società. 4
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Ritroviamo le stesse correnti ora accennate nel pensiero comune anche nelle
origini del pensiero scientifico.5
La psicoanalisi, ad esempio, è una psicologia che si è essenzialmente
sviluppata sul conflitto tra uomo e società, dove il disturbo psichico
non nasce, come allora pensavano gli specialisti della salute mentale, per
un difetto dell'organizzazione psichica, bensì per l'urto di energie
opposte: la vita pulsionale o libido, altrimenti definita come principio
del piacere, da un lato e le istanze di controllo derivanti dalla convivenza
sociale dall'altra. 6 Anche Karl Marx e
Max Weber hanno considerato il conflitto come l'inevitabile risultato della
creazione e del mantenimento delle classi e dell'organizzazione gerarchica
sociale. In poche parole, secondo questi autori, le condizioni ufficiali
imposte al vivere organizzato condizionano le relazioni interpersonali e
questi comportamenti sono in conflitto con le regole burocratiche, le modificano
a livello informale.
Con Al di là del principio di piacere del 1920, Freud però
non considera più il conflitto come scontro tra pulsioni inconsce
e spontanee dell'individuo da un lato ed esigenze del mondo esterno dall'altro,
ma come scontro intrinseco e irriducibile all'interno dell'individuo stesso,
tra le pulsioni di vita o Eros, in cui si esprimono gli impulsi libidici,
e le pulsioni di morte o Thanatos, in cui si esprime la tendenza di ogni
essere vivente alla distruttività. Ciò ha portato l'analisi
del conflitto ad una dimensione più interiore e se si vuole anche
alla sua normalizzazione: ognuno di noi si trova a dover gestire dentro
di sé le proprie pulsioni di vita e quelle di morte.
Questo aspetto dialettico del conflitto viene ripreso nel pensiero scientifico
più recente, ovvero nell'Approccio Dialettico al Conflitto Organizzativo
7, che è un modo di considerare
la relazione tra le caratteristiche tradizionali del conflitto organizzativo
e i loro opposti: ciò che può apparire come un fenomeno distinto
può essere veramente compreso solo in riferimento al suo opposto,
anche se il concetto opposto può risultare non immediatamente visibile.
Gli opposti bipolari, comunque, non sono meramente diversi tra loro, essi
formano una dualità in cui si escludono reciprocamente e includono
simultaneamente l'altro: un tipo di dualità che è emersa frequentemente
nella letteratura sul conflitto è la competizione/cooperazione. La
relazione tra questi due temi classici fornisce un esempio di come due fenomeni
opposti si includano e si escludano simultaneamente l'un l'altro.
Inizialmente, gli studiosi della Teoria dei giochi avevano costruito situazioni
di laboratorio che riflettevano simulazioni pure di competitività
o di situazioni cosiddette "A somma-zero", in cui i partecipanti
cercassero di massimizzare i loro guadagni e di ridurre le loro perdite.
Poi hanno cominciato a realizzare che la competizione nel conflitto non
poteva essere veramente capita senza il suo opposto, la cooperazione. Questo
perché le parti in conflitto devono fare affidamento l'una sull'altra
per raggiungere i loro obiettivi individuali, devono collaborare per competere.
Anche se le due parti in conflitto vedono i propri obiettivi come incompatibili
o reciprocamente escludentisi, in effetti l'affidamento di ciascuna parte
sull'altro per ottenere il proprio obiettivo individuale fa sì che
la competizione includa la collaborazione. Di qui ne deriva inoltre che
il movimento o il cambiamento sia una proprietà fondamentale dell'approccio
dialettico.
Per tornare al precedente esempio, non appena il conflitto viene agito comportamenti
e motivazioni competitive possono gradualmente escludere ogni azione collaborativa,
tanto che il polo competitivo finisce col negare il suo opposto. Questa
fase-schema è caratterizzata da escalation conflittuali. Allo stesso
modo un confronto diretto può portare ad una transazione, risultante
in uno scambio altamente collaborativo, in cui entrambe le parti rinunciano
all'obiettivo individuale iniziale. Dunque è possibile che a fasi
alterne i due poli si alternino e uno predomini sull'altro, escludendolo.
Queste riflessioni sono nate dall'evoluzione della più classica corrente
di pensiero dei cosiddetti Teorici del Management, tra i quali ricordiamo
Tajlor, Walton, Mayo, Barnard e altri. La corrente dei Teorici del Management,
che copre un numero molto vaso di tradizioni, segnala che il conflitto nei
grandi gruppi organizzati consiste per lo più in difetti potenzialmente
correggibili tramite regolamenti interni (soprattutto per Taylor), obiettivi
comuni e incentivi sulla produzione (soprattutto per Barnard). Questo perché
il vero valore organizzativo, sempre da perseguire, risiederebbe nella cooperazione.
Questa posizione, nonostante studi successivi abbiano minato molti dei suoi
assiomi, è così altamente ricercata e apprezzata, che ancora
oggi il ruolo conflitto nelle organizzazioni viene considerato solo come
elemento di disturbo e quindi viene trascurato.
Per i Teorici della Conflittualità, tra i quali Gouldner, Blau, Dalton
e Crosier, che si sono riallacciati a una posizione post-weberiana, e che
concepiscono le organizzazioni come gli inevitabili campi di battaglia delle
differenze rintracciabili non tanto nelle differenze tra individui, ma negli
attributi strutturali dell'organizzazione e nelle relazioni intergruppo,
il conflitto risulta essere un problema strutturale. Come tale esso risulta
comunque ancora risolvibile attraverso l'intervento manageriale, che può
alterare i sistemi di premio e incentivazione, i criteri di valutazione
e decisionali, effettuare un diverso sistema di rapporti meritori e di denuncia,
e altri meccanismi di pianificazione organizzativa.
Più recentemente il conflitto e le sue manifestazioni, secondo una
numerosissima corrente di teorici che vengono identificati come "politici",
tra i quali Pondy, Pettigrew, March e Olson, Kanter, Pfeffer e Salancik,
Bacharach e Lawler, è diventata una questione interessante un numero
molto più ampio di elementi organizzativi, e quindi non più
una dinamica che si esplica semplicemente nella contrapposizione tra chi
dà gli ordini e chi li esegue. Considerando le organizzazioni essenzialmente
come un insieme di gruppi che in continuazione si trasferiscono e cambiano,
per i Teorici Politici il conflitto non è più un fenomeno
episodico o problematico, ma un fatto pervasivo delle interazioni e diventa
l'essenza dell'organizzazione (Pondy, 1989) 8.
Le organizzazioni sono i luoghi di scontro dei conflitti, in cui mutamenti
di coalizioni con diversi interessi e risorse competono per l'influenza
e il controllo. Il conflitto viene risolto attraverso la negoziazione sugli
obiettivi e sistematica attenzione alle decisioni da prendere.
Recenti sviluppi sia nell'ambito delle scienze del diritto, che tra antropologi
e sociologi, hanno suggerito una modalità dinamica nello studio dei
processi legali, per mettere a confronto la varietà dei modi con
cui i conflitti vengono affrontati prima di diventare pubblici e quindi
soggetti al diritto. Questa prospettiva, che viene definita disputing, o
del disputare, sposta l'interesse speculativo dalle strutture organizzative
e le regole formali al processo di espressione della conflittualità
e le modalità di agire il conflitto, ovvero sul comportamento delle
parti nel tempo e sull'interazione tra il conflitto stesso e le diverse
procedure adottate per gestirlo (i modi essenziali di rendere significative
le questioni e di risolverle). 9
La nozione di disputa implica una complessa interazione di questioni, parti
in gioco, contesti e processi di discussione come nesso per la comprensione
di come i conflitti vengano gestiti nei differenti contesti. Mettendo in
luce le diverse forme adottate per risolvere i conflitti diventa possibile
identificare alcune forme di conflittualità meno ovvie e celate come
l'evitamento, la vendetta, il pettegolezzo e altre forme di soluzioni indipendenti
e personali. Le ricerche condotte in questo campo suggeriscono che la procedura
adottata in una disputa dipenderà dalla relazione tra le parti coinvolte,
dal tipo di questioni da risolvere e dalla cultura di riferimento in cui
le procedure sono immerse. In altre parole, le questioni e i problemi nelle
dispute trovano significato solo nel contesto in cui vengono agite; quindi
esiste una interazione diretta tra i conflitti, come essi vengono interpretati
e parafrasati da un lato, e il modo in cui essi vengono gestiti dall'altro
(come possiamo osservare nello schema 1).
Lo schema 1 esemplifica come il punto i vista degli ufficiali militari,
degli strateghi politici e dei mass-media incida non solo sulla lettura
del problema, tanto che sembri trattarsi addirittura di tre situazioni diverse,
ma anche e soprattutto sulla scelta operativa da effettuarsi. Mentre è
facile riconoscere una diversa interpretazione dei fenomeni a partire da
posizioni e da funzioni operative ben caratterizzate come nell'esempio nello
schema 1, occorrerebbe riconoscere anche una preliminare impostazione trasversale
alle funzioni operative e che potremmo definire "culturale". Un
esempio molto semplice e dettagliato è dato da Enzo Spaltro 10,
che analizza lo spazio interumano come composto da tre livelli di interazione
e quindi da tre culture.
Il primo livello di interazione umana è quello duale: l'io è
contrapposto agli altri, all'altro da sé. In questa cultura relazionale,
definibile come cultura di coppia, c'è spazio solo per chi comanda
e chi esegue, per chi parla e chi ascolta, ecc. Il secondo livello di interazione
umana è quello gruppale, caratterizzato dalla cultura di gruppo,
ovvero appartenente a sistemi come: gruppi di pari, piccoli gruppi di lavoro
o task forces, gruppi di soci, ecc. Il terzo livello è quello collettivo,
caratterizzato dalla cultura organizzativa, l'esempio potrebbe essere quello
di grandi organizzazioni internazionali che coordinano organismi nazionali,
o associazioni nazionali di categoria che coordinano gruppi d'impresa, ecc.
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CASO: FRAMMENTAZIONE IN RUSSIA - 1993 11
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Come gli ufficiali militari possono avere interpretato il fenomeno:
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Qual è il problema? |
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Che cosa può essere fatto? |
Leadership militare in contrasto con la leadership |
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Un legame più efficace tra le fazioni politiche
politica e quelle militari |
Altre repubbliche rappresentano potenziali minacce e
fuoriuscita di risorse |
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Creare patti di non aggressione reciproci |
I cambiamenti nella situazione geopolitica fanno diminuire
la necessità della forza militare di sicurezza |
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Riciclare dopo una specifica formazione il personale
militare nelle misure interne così da poter attaccare il crimine
organizzato |
Come gli strateghi politici posso aver interpretato il fenomeno:
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Qual è il problema? |
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Che cosa può essere fatto? |
Frammentazione della leadership |
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Integrare, unificare la leadership |
Emergere di regionalismi |
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Stabilire una confederazione che supporti in forma esplicita
la mutua assistenza a un Governo eletto democraticamente |
Il declino del partito comunista ha creato un vuoto
di potere |
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Come i mass-media possono aver interpretato il fenomeno:
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Qual è il problema? |
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Che cosa può essere fatto? |
La copertura locale degli eventi è inefficace
la gente non sa che cosa sta accadendo |
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Importare alcuni esperti della BBC |
Le notizie non sono precise e vengono diffuse lentamente
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La Reuter espande gli uffici nel territorio, affitta
locali, forma personale
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Privatizzazione dei mezzi di comunicazione |
Il paese ha una diffusione molto limitata di tecnologia
moderna per le telecomunicazioni |
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Associazioni tra il consorzio delle telecomunicazione
di Stato e le organizzazioni occidentali |
Schema 1 Esempio di diversi approcci al conflitto
Consapevoli del fatto che ogni descrizione per scopi
esplicativi risulti sempre molto estremizzata, possiamo subito osservare
in che cosa si distinguano le tre culture. A livello di cultura di coppia:
- c'è un solo capo, l'obbedienza cieca è un valore e il
dissenso è negativo;
- i conflitti sono patologia del sistema uomo-uomo, e si trattano con
suddivisione di territorio o di competenze;
- il potere è monodimensionale, l'influenza interumana è
vista come dipendenza (con controdipendenza 12)
e la relazione è interpersonale, la dipendenza è un valore.
Il potere è magico, cattivo, un tabù, è inconoscibile
e immutabile. Consiste nel diritto di veto, si esercita in seconda battuta,
è una forma di controllo, è visto come capacità di
impedire il cambiamento. Il potere è a somma costante: "mors
tua vita mea". Esiste il braccio di ferro: "o con me o contro
di me". E' la quantità del potere ad avere valore;
- la verità è unica e ha sorgente unica, è molto
credibile, stabile, obbiettiva;
- l'informazione è il metodo ideale del cambiamento, l'uomo cerca
spontaneamente la verità (il motore è il dovere), ed esiste
un solo modo per fare bene una cosa.
A livello di cultura di gruppo invece:
- ci sono tre capi o leaders. Il capo gerarchico, ovvero scelto in rappresentanza
del gruppo, il capo funzionale, ovvero scelto per le capacità operative
e tecniche, e il capo emotivo, ovvero scelto per la capacità di
comprendere e accogliere i bisogni emotivi dei singoli e del gruppo in
quanto tale;
- l'obbedienza cieca è negativa e il dissenso acquista valore;
- i conflitti sono fisiologia, cioè risorsa del sistema uomo-uomo,
e si trattano tentandone al massimo una condivisione;
- il potere, come la leadership, è pluridimensionale, l'influenza
interumana è vista come interdipendenza e la relazione è
sociale. Il consenso verso la leadership è un valore. Il potere
è: umano, buono, quotidiano, conoscibile, analizzabile, modificabile,
consiste nell'iniziativa, si esercita in prima battuta, è di stimolo,
è lievitativo (consiste nella capacità di provocare cambiamenti).
E' a somma variabile: "mors tua mors mea, vita tua vita mea".
Il motto è: "per me e non contro di te". E' la qualità
del potere a rappresentare un valore;
- la verità è plurima e ha sorgente plurima, è poco
credibile, è instabile, è convenzionale;
- l'emozione è il metodo ideale del cambiamento, l'uomo cerca spontaneamente
la qualità di vita (il motore è il piacere), ed esistono
molti modi per fare bene una cosa.
Infine vediamo che nella cultura del collettivo:
- la leadership è di gruppo, con accentuazione del capo più
funzionale. Vi è capacità di tollerare il dissenso (da intendersi
come differenziazione) e di imporre l'obbedienza cieca come valore (ovvero
l'integrazione);
- i conflitti sono emozioni collettive e quindi hanno minimi e massimi
livelli, vanno mantenuti in un area determinata dell'organizzazione, non
vanno eliminati, ma neppure estesi a tutta l'organizzazione;
- il potere è funzionale e l'influenza interumana è vista
in chiave di efficienza (ossia nello scarto tra costi e prodotti, o benefici).
La relazione è collettiva e l'efficienza collettiva è un
valore. Il potere è il mezzo per ottenere risultati, per migliorare
l'efficienza del sistema uomo-uomo; è visto come equilibrio tra
stimolo e controllo seguendo gli scopi collettivi (organizzativi e/o istituzionali).
E' una risorsa per provocare o impedire cambiamenti, e vi è una
mescolanza ottimale tra quantità e qualità del potere come
valore. La contrattazione tra le parti avviene ai tre livelli del contro
e del pro (me, noi, altri),
- la verità è conflittuale e sorgente da controllare sempre,
è contraddittoria, proviene da diversi gruppi, è "cambiante",
- occorre continuamente contrattare, la mediazione è vista come
metodo ideale di cambiamento, l'uomo cerca spontaneamente la sua efficienza
sociale. I modi per fare bene una cosa dipendono dai fini collettivi.
E' facile prevedere che in genere i conciliatori si servano
di una chiave di lettura dei rapporti interumani e della conflittualità
appartenente alla cultura di gruppo o, meglio, alla cultura del collettivo,
perché la cultura di coppia non ammette conflitto, dissenso, verità
plurime e negoziabili. Traslando dal contesto della conflittualità
coniugale e mutuando una serie di intuizioni di Lenard Marlow che ha riflettuto
sul modo diverso di vedere il divorzio da parte del mondo legale (il mondo
delle monadi) e di quello relazionale o mediativo (il mondo delle coppie),
notiamo che restando chiusi nella cultura del rapporto diadico o di coppia
e non ci aprissimo alla cultura gruppale o collettiva, continueremo a
cercare l'unica verità, ci troveremo sempre a dover affrontare
crimini e soprusi, spersonalizzeremo le persone (che diventeranno "personaggi")
alla luce di principi etici e di ideali che devono prevalere a qualsiasi
costo sulla realtà dell'imperfezione umana. Il rischio è,
secondo Marlow, quello di dover forzare ogni situazione concreta nella
sua complessità e nella sua ricchezza per poterla assimilare ad
un problema legale già codificato, dove le considerazioni personali
delle parti non avranno più valore. Il rischio di colui che viene
chiamato ad operare come "esperto" in situazioni simili è
quello di pretendere di essere tenuto a mantenere sempre il controllo
sulle parti, esprimendo come consigli i propri giudizi personali, perché
la propria parola di esperto è legge. In tale prospettiva l'accordo
ottenuto non sarà mai finalizzato a migliorare il rapporto reale
nella situazione attuale tra quelle precise persone, perché costituirà
un precedente, un esempio tecnico da includere in una disciplina.
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CHE COSA E'
IL CONFLITTO?
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Conflitto, violenza e responsabilità
Il conflitto, come abbiamo potuto già osservare nel paragrafo precedente,
sembra presentarsi come una realtà vitale sia per l'uomo come singolo
sia per le organizzazioni, pertanto non deve essere identificato né
come negativo né come positivo in senso assoluto.13
Per molti tuttavia esiste una sovrapposizione tra conflitto e violenza.
Questa sovrapposizione nasce dall'osservazione di come venga oggi rappresentato
il conflitto nella fiction televisiva o cinematografica, o addirittura
nei cartoni animati per bambini. Come spettatori potremmo dunque essere
talmente assuefatti alla dimensione violenta del conflitto, da non voler
considerare gli aspetti positivi del disaccordo e accettare che, anche
se la detestiamo, la violenza faccia parte della nostra vita comune. Del
resto, che si tratti di una partita di calcio o di una causa legale, in
genere l'attitudine è quella a caricarsi di collera e a voler vincere
a qualsiasi costo l'avversario o la controparte.
Essendo questa l'attitudine più diffusa, non stupisce il pregiudizio
che la scelta della conciliazione sia un modo debole, perdente e utopistico
per affrontare le dispute: in guerra non è possibile ammettere
che anche "il nemico" possa avere diritto ad essere simile a
noi, e che possa avere opinioni e sentimenti come noi. Questo accade perché
l'attitudine prescelta nell'affrontare qualsiasi controversia è
sempre quella della guerra, anche in situazioni in cui il conflitto potrebbe
essere affrontato e risolto senza schieramenti di forza, ma in modo molto
funzionale e positivo per tutti coloro che ne sono coinvolti.
Tuttavia anche se si è dunque comunemente d'accordo che il modo
migliore per affrontare i conflitti sia quello di prevenire e controllare
la violenza, l'abitudine maturata nell'esperienza quotidiana porterebbe
non pochi a reclamare nel timore che si voglia togliere l'eccitazione
dalle loro vite, non solo, ma anche che si voglia togliere loro la possibilità
di esprimersi ed agire liberamente sulla base dei loro sentimenti più
spontanei e delle loro convinzioni. Proporre a queste persone di sedersi
a tavolino e di pensare ad una soluzione decisa di comune accordo sulla
base delle reciproche necessità, è come suggerire di rinunciare
ai loro diritti fondamentali.
Tutti coloro che operano nell'ADR hanno potuto constatare che il modo
per vincere veramente una controversia non è il "farsi la
guerra", ma l'impegnarsi per scoprire il problema e affrontarlo essendo
sicuri che tutte le parti coinvolte abbiano ottenuto un accordo in grado
di soddisfare il più alto numero di bisogni reciproci. Nonostante
ciò nelle situazioni più critiche siamo tutti automaticamente
propensi a lasciarci coinvolgere emotivamente nel fraintendimento che
il problema sia originato dalle cattive intenzioni dell'altro, che diventerà
subito un nemico pronto a ferirci, a danneggiarci, a colpirci a tradimento.
Ogni scontro col nostro nemico ci proverà quanto noi siamo nel
giusto e il nostro nemico sia nel torto, permettendoci di giustificare
ogni nostra peggiore azione come necessaria perché finalizzata
a contrastare le sue cattive intenzioni. Il nemico dà a noi e al
nostro gruppo la possibilità di scaricare al di fuori della nostra
persona e del nostro gruppo ogni nostra responsabilità 14,
fornendoci l'alibi di smettere di ascoltare la nostra buona coscienza.
Ecco perché quanto più a lungo e aspramente saremo rimasti
coinvolti in una disputa, tanto più difficile sarà tornare
a gestire la situazione.
Volendo fare un paragone, ignorare il conflitto ed evitare di occuparsene
scaricando tutte le responsabilità sul nostro nemico, equivale
ad ignorare per anni i segnali di stress che il nostro corpo ci dà
ed evitare di cambiare abitudini di vita o d'alimentazione scorrette.
Trascurare troppo a lungo la nostra salute potrebbe portarci a temutissime
diagnosi e a ricoveri ospedalieri, allo stesso modo quando si arriva davanti
al giudice, è perché per troppo tempo abbiamo evitato di
accettare il conflitto, di affrontarlo, di capirlo. Se solo l'avessimo
fatto prima, senz'altro avremmo avuto moltissime possibilità di
successo e sarebbe stato comunque più facile, più economico
e più rapido.
In ogni conflitto occorre portare a livello di consapevolezza la responsabilità
dei partecipanti: vedo il conflitto come una lotta tra me e il mio nemico?
Ognuno sceglie come percepire il conflitto, occorre riflettere sulla naturale
tendenza ad incolpare gli altri e l'automatismo a prepararsi a vere e
proprie battaglie: è necessario esplorare le proprie intenzioni
e azioni personali. Sarebbe utile incontrare in quei momenti qualcuno
che ci ponga domande come: "Come ti senti veramente relativamente
a questo conflitto? Che cosa ne pensi veramente di quello che è
accaduto? Come potresti aver contribuito personalmente al problema? Vuoi
impegnarti in una guerra ad oltranza, costi quello che costi, o vuoi impegnarti
per la tua pace, per il tuo benessere?".
Raramente ci accade di osservare esempi simili in televisione o al cinema,
sarebbe estremamente poco spettacolare osservare persone impegnate nella
soluzione pacifica dei propri problemi, tuttavia è piuttosto comune
che situazioni simili a quella appena descritta si verifichino alla presenza
del conciliatore.
Il conflitto in se stesso non è una esperienza negativa, può
essere anche un momento di grande apprendimento, ma è come si sceglie
di rispondere alle situazioni conflittuali a determinarlo. Quindi per
prima cosa occorre essere maggiormente attivi e non reattivi, mantenere
il controllo sulle proprie emozioni e cercare di osservare il presente
proiettando le conseguenze delle nostre scelte nel futuro. Una volta che
avremo acquisito maggior chiarezza sui nostri bisogni personali, sui nostri
desideri, convinzioni e responsabilità, è possibile procedere
e lavorare sul problema in sé.
Il semplice domandarci: "Se questa situazione dovesse verificarsi
ancora, che cosa farei di diverso?", oppure anche: "Che cosa
penso di avere imparato da tutto quello che è successo, inclusa
la causa legale in corso?", non sempre è sufficiente per cominciare
a riflettere su quanto si sta attraversando in modo più ragionevole,
a volte ci si sente ancora troppo incolleriti nei confronti dell'altro.
Non è raro che i clienti esplodano con frasi tipo: "Non ha
uno di quei bei posacenere pesanti che glie lo voglio spaccare in testa?
Come si fa a ragionare con uno così!?!". Queste situazioni
sono comprensibili, tutta la nostra energia in momenti simili si scatena,
ma è proprio quando la rabbia è più acuta che non
si pensa alle conseguenze delle nostre azioni e si rischia di cedere all'uso
della violenza verbale -se la situazione trascende per alcuni può
anche esplodere la violenza fisica-, occorre che la rabbia diminuisca,
anche se non di molto, prima che sia possibile ragionare in modo responsabile
e ragionevole (osservare fig. 2).
La presenza del conciliatore è utile proprio per le persone più
incollerite, perché le aiuta ad esprimere in modo più produttivo
esigenze importanti a volte per troppo tempo soffocate o represse in modo
tale da evitare loro di cadere vittime di una serie di reazioni e condizioni
imposte dall'esterno e non personalmente scelte e negoziate.
La collera e le emozioni negative portano sovente a sentire la necessità
improrogabile di rispondere, di reagire alle circostanze esterne e alle
azioni altrui. Questo crea situazioni di forte sofferenza e di soffocante
dipendenza tra le parti in lite, di conseguenza esse cessano di nutrire
speranze nella risoluzione dei problemi perché si sentono reciprocamente
vittime impotenti. In realtà stanno entrambe attivamente mantenendo
aperto il circolo vizioso della reciproca sofferenza e vivono nella dipendenza
dalla reazione altrui.
Annamaria e Piergiorgio sono soci rispettivamente al 70% e al 30%
di un negozio di fiori, Annamaria non sa guidare e ama stare in negozio
per gestire il rapporto con i clienti, mentre Piergiorgio è più
dinamico e creativo quindi oltre che provvedere alle consegne e a gestire
il magazzino pensa alle composizioni e agli addobbi floreali. Annamaria,
essendo socio maggioritario e più anziana, considera e tratta Piergiorgio
da subalterno.
Piergiorgio, che percepisce di avere maggiori responsabilità di
un semplice impiegato, ma che si sente squalificato da Annamaria sia nei
suggerimenti sulla gestione dei fornitori che nelle iniziative pubblicitarie,
ricambia Annamaria andandola a prendere in ritardo, assentandosi oltre
il necessario nelle consegne, tenendo il magazzino in disordine, impegnandosi
al telefono con gli amici anche quando in negozio occorre il suo aiuto,
rifiutandosi di stare in negozio la domenica mattina.
Di rimando Annamaria lo rimprovera in continuazione, considera il suo
atteggiamento come evidente segnale della sua eterna immaturità
e sbadataggine e, considerando il suo scarso attaccamento al negozio,
perde fiducia in lui, diventa insicura e si consiglia in tutto con Renato,
un comune amico che ha già gestito un negozio di fiori in passato.
Entrambi Piergiorgio e Annamaria reagiscono al comportamento dell'altro
arroccandosi sempre di più nelle proprie posizioni e considerando
come spontaneo e genuino il comportamento dell'altro: Piergiorgio dice
che Annamaria "è" insicura, pedante e accentratrice,
Annamaria dice che Piergiorgio "è" irresponsabile, disordinato
e superficiale. Entrambi, puntando il dito accusatore sull'altro, evitano
di affrontare il conflitto e finiscono per osservare la cosa senza porre
se stessi al centro del problema, o della soluzione.
Nelle fasi di maggiore emotività il conciliatore ha il compito
di aiutare le parti a fermarsi, a guardare attentamente prima dentro se
stesse e poi fuori, e le invita ad ascoltare prima di agire, prima ancora
di pensare a volte.
Lo scopo è quello di aiutarle a raggiungere maggiore obbiettività,
farle sentire meno spaventate dall'altro e di cominciare a diventare più
"possibiliste" e flessibili a proposito del loro futuro. Questa
attitudine si raggiunge quando si è compreso di avere il potere
di influenzare positivamente l'altra persona, così da non pensare
alla lotta ad oltranza come unica scelta possibile.
Contrariamente a quanto si crede quando si è immersi in un conflitto,
è sufficiente che una sola delle persone coinvolte scelga di agire
in modo responsabile, perché sia possibile addivenire ad una conciliazione.
Se una persona è convinta che sia nel suo interesse scegliere l'approccio
conciliativo per risolvere la sua controversia, con tutta probabilità,
una volta aiutata a riconoscere gli strumenti più adatti alla gestione
mediata dei conflitti, i suoi sforzi avranno successo. In altre parole,
mentre una situazione difficile o problematica richiede il coinvolgimento
di due o più persone, la decisione di una sola di esse di rispondere
attivamente, piuttosto che di reagire passivamente a quella situazione
e a quei giochi può stabilire un contesto di dialogo e di apertura.
Il primo passo, lo ripetiamo, consiste proprio nell'esplorare la volontà
di assumersi la propria personale responsabilità nel conflitto
in atto, sia come individui che come parti di una relazione, e sondare
l'intenzione di affrontare e risolvere tali conflitti in maniera non aggressiva,
ma integrando i bisogni dell'altro insieme ai propri e quindi in modo
positivo per se stessi e per la continuità della relazione con
l'altro.
Qualcuno ritiene che esistano conflitti unilaterali, ovvero conflitti
in cui solo una parte vive il conflitto: si è portati ad esempio
a ritenere tale un conflitto tra inquilino e padrone di casa, se l'inquilino,
senza ragione, non versa l'affitto stabilito. In un conflitto bilaterale,
invece ognuno vuole qualcosa dall'altro. Se l'inquilino non paga l'affitto
perché è rimasto senza riscaldamento per due mesi, o perché
il tetto perde e gli piove in casa, o perché l'abitazione è
stata dichiarata inagibile, il conflitto è bilaterale: l'inquilino
vuole che vengano immediatamente fatte le riparazioni necessarie, mentre
il padrone di casa vuole che le venga corrisposto il denaro pattuito.
Spesso però i conflitti unilaterali sono tali solo in superficie,
e mentre sembra che non ci sia alcuna ragione per un comportamento aggressivo,
a volte le persone possono essersi irritate inconsapevolmente.
L'inquilino non paga l'affitto, apparentemente senza una ragione precisa.
Non è perché non ha denaro, o perché il padrone di
casa è stato negligente sul contratto, si tratta di un azione di
aggressività passiva che non ha spiegazione razionale: lui stesso
non sa spiegarselo. E' semplicemente da un anno che si dimentica di inviare
gli assegni, nonostante i numerosi solleciti.
E' capitato però che l'anno precedente l'inquilino fosse rimasto
vedovo e il padrone di casa non gli avesse assolutamente comunicato, né
personalmente, né per iscritto, le proprie condoglianze. L'inquilino,
nonostante il dolore e lo stordimento causatogli dal lutto, pensò
che fosse strano che il proprietario di casa si comportasse così
e ne rimase ferito. Con il passare del tempo aveva dimenticato il ricordo
di questo episodio, ma inconsciamente aveva poi anche dimenticato di pagare
l'affitto.
Ogni conflitto, una volta esaminato, ha un'origine nella relazione tra
le parti, che sia conosciuta e consapevole o inconscia e inconsapevole,
quindi possiamo dire che qualsiasi conflitto è sempre bilaterale
e a volte anche plurilaterale.
Abbiamo inoltre già anticipato che in ogni conflitto è possibile
identificare un livello della conflittualità agita.15
Ci si può malauguratamente trovare di fronte all'estremo più
violento, dove l'ostilità cresce a tal punto da portare le parti
a volere l'eliminazione fisica del nemico, che perde ogni connotazione
di essere umano.
In altre situazioni meno drastiche la collera è sempre presente,
ma la "guerra" non viene dichiarata apertamente, sono tuttavia
presenti provocazioni, sabotaggi e scoppi d'ira con lo scopo di ferire
e di sopraffare l'altro.
Nei tribunali si assiste ad una forma più civilizzata di conflittualità,
dove norme e leggi vengono utilizzate da rappresentanti delle parti per
colpire l'altro in una forma più sottile, simbolica: le ostilità
sono aperte e vengono dichiarate secondo un codice espressivo e procedurale
prefissato, atto a tutelare le parti.
In alcune situazioni conflittuali si può avvertire un senso non
dichiarato di ostilità, in cui le persone avvertono che c'è
qualcosa nell'aria, ma nessuno sa bene come definirla. Raramente il bersaglio
di queste ostilità non se ne avvede, ma dipende dalla sua reazione
se l'ostilità verrà ignorata, superata, o dichiarata apertamente.
Vi sono inoltre situazioni in cui la semplice presenza di una data persona
crea per l'altro tensione e nervosismo, o fastidio; questo in genere viene
comunemente identificato come un caso di incompatibilità elettiva
(che potrebbe dipendere da intenzioni nascoste inconsapevoli). Altre volte
succede che alcune controversie possano essere state composte, ma che
purtroppo la relazione si sia fortemente incrinata; occorre molto tempo
e molta pazienza per recuperare una relazione incrinata e spesso accade
che, alla prima occasione, questa fatica venga abbandonata e la relazione
venga interrotta definitivamente. Si tratta di situazioni di allerta in
cui le parti si studiano e cercano il primo pretesto sufficiente per poter
interrompere definitivamente il rapporto.
L'intervento del conciliatore è sempre possibile, in ciascuno dei
succitati livelli di conflittualità, ovviamente però la
premessa è che le parti accettino di impegnarsi soprattutto nel
riconoscere la presenza del conflitto, e poi per risolvere i problemi
riconoscendo il reciproco desiderio di veder riconosciuti i propri bisogni
che, perché ignorati, hanno scatenato il conflitto, e che potranno
costituire le basi di un accordo soddisfacente e duraturo.
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Definizione e classificazione
del conflitto
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Il conflitto è un processo relazionale, una dinamica e non un prodotto
assoluto.
E' anche l'indicatore dell'insoddisfazione presente all'interno di una relazione,
un segnale di stress che può avere origine dall'interno del sistema,
ovverosia nascente nella relazione diretta tra le persone (ad es. tra due
dirigenti della stessa azienda), o dall'esterno del sistema, ovverosia nascente
da dinamiche esterne alla relazione tra le persone coinvolte direttamente
nella disputa (ad es. tra due responsabili delle vendite a causa di una
circolare aziendale che impone cambiamenti di gestione nel settore).
Abbandonata la visione del conflitto come "problema" è
più facile ottenere una visione del conflitto come "relazione",
e dunque, in quest'ottica il vero problema nasce quando i negoziatori meno
esperti finiscono con il perdere di vista l'obiettivo da raggiungere per
coinvolgersi unicamente nella discussione. Questo accade perché il
conflitto può coinvolgere aspetti molto diversi della relazione.
E' possibile, per cercare di migliorare l'approccio al conflitto, distinguere
gli aspetti conflittuali della relazione in: conflitto emotivo, conflitto
di dati, conflitto di interessi e conflitto strutturale o di valori.
Conflitto emotivo: si tratta in genere di dispute che hanno origine all'interno
della relazione, in cui i sentimenti reciproci ne sono sovente la causa
scatenante. A volte la collera che si accompagna agli altri sentimenti cresce
a tal punto da provocare azioni vendicative, atteggiamento che di certo
contribuisce a mantenere aperto il conflitto, perché non importa
quanto buone siano le giustificazioni a proprio favore, se si è intenzionati
a dar sfogo ai sentimenti più negativi, dimenticando di capire la
situazione e di accettare le proprie responsabilità nella disputa
in atto, il conflitto verrà continuamente alimentato. Il conflitto
emotivo può essere illustrato come spontanea antipatia tra le persone
coinvolte, ma in genere risale ad eventi affettivo-emotivi tra persone che
altrimenti non troverebbero difficoltà di relazione. Sovente i conflitti
emotivi escono dalla cerchia delle relazioni affettive familiari ed amicali,
l'esempio precedente dell'inquilino e del padrone di casa può essere
ricondotto ad un conflitto emotivo.
Una situazione classica in cui si sviluppa il conflitto emotivo è
quando si trascura l'opportunità di chiarire netti confini tra se
stessi e gli altri, in modo tale che sia per tutti chiaro che cosa vogliamo
dagli altri e che cosa siamo in grado di dare agli altri. In altre parole,
il rischio quando evitiamo di chiarire i nostri confini è quello
di notare con rammarico che qualcuno ha approfittato di noi, questo naturalmente
creerà in noi molto risentimento e il risentimento porta al conflitto,
conflitto emotivo.
Rossella, ad esempio, è una ragazza molto gentile
e disponibile, la sua direttrice si è separata di recente e trovando
in Rossella una buona ascoltatrice, tutte le sere dopo cena le telefona
e sta con lei al telefono per quasi due ore. Rossella comincia a stancarsi
delle telefonate della sua direttrice, ma non vuole chiederle di cambiare
questa abitudine perché teme di urtare i suoi sentimenti: "Poverina",
dice, "è così un brutto momento per lei!". Così
evita di affrontare il problema e acquista una segreteria telefonica con
cui seleziona le telefonate serali. La direttrice finisce col sospettare,
giustamente, che Rossella cerchi di evitarla. Adesso i suoi sentimenti
sono veramente stati urtati e immediatamente diventa fredda e risentita
nei confronti di Rossella. Rossella dal canto suo si offende e ritiene
di essere stata sfruttata: "Lo sapevo, dice, ma non ci si può
certo aspettare della gratitudine dai superiori".
Tracciando invece i nostri confini in modo semplice e chiaro, nel momento
in cui vengono minacciati, ricordandone la presenza, comunichiamo rispetto
per noi stessi e diamo alla persona che li minaccia l'opportunità
di rispettarci. Al contrario, tutte le volte che permettiamo agli altri
di approfittare di noi è generalmente perché temiamo il
confronto diretto o perché temiamo di essere rifiutati.
E' infatti la paura a creare la maggior parte dei conflitti di origine
emotiva, anche se poi possono diventare conflitti di dati, di interessi,
strutturali o una combinazione di questi. La paura può essere la
principale forza motivante sia la rinuncia a tracciare confini chiari,
sia la generale mancanza di apertura e di onestà, l'esclusivo investimento
sul proprio sistema di convinzioni personali e la creazione di altre barriere
difensive che impediscono una comunicazione sincera e aperta.
Comunemente quando siamo coinvolti in un conflitto, o in un potenziale
conflitto, ci sentiamo tutti come minacciati. In alcuni casi possiamo
ritenere troppo pericoloso essere onesti, perché, temendo la collera
dell'altra persona, il suo rifiuto o una ripercussione negativa, ci sentiamo
troppo vulnerabili. Oppure possiamo essere preoccupati di perdere qualcosa
di veramente importante per noi, quindi non possiamo lasciare che il conflitto
la minacci, anche se esso resta comunque presente.
Ada (33 anni),16 sta
affrontando una grave crisi da quando ha scoperto che Antonio (33 anni),
suo marito, ha una relazione fissa con un'altra donna da ormai quattro
anni. Ada smette di mangiare e di dormire, si angoscia e cerca di fare
finta di non sapere niente, ma non riesce più a coinvolgersi nella
vita coniugale e familiare. Vorrebbe affrontare la cosa col marito e spingerlo
a scegliere se continuare con l'altra donna e quindi separarsi, oppure
interrompere la relazione extra-coniugale, ma ha molta paura per il suo
futuro e per il proprio mantenimento economico, perché è
sempre stata molto dipendente da Antonio, e quindi tace. Diventa critica,
fredda, sospettosa, dubbiosa e risentita, e pur sapendo che così
facendo allontana ulteriormente da sé Antonio, non riesce ad aprirsi
e ad esprimere la sua sofferenza, perché ha troppa paura di perdere
le proprie sicurezze.
A volte evitiamo accuratamente di esprimere i nostri sentimenti più
veri perché non vogliamo che gli altri si arrabbino con noi, o
temiamo che ci rifiutino completamente.
E' sempre la paura che spinge alcune persone ad essere oltremodo rigide
nelle proprie opinioni e nei propri valori, sovente con questo atteggiamento
nascondono un senso di sé molto fragile: dal momento che temono
di essere colti in errore o di essere visti in modo negativo, leggono
qualsiasi sfida al loro sistema di valori come un attacco personale, una
minaccia alla loro identità (come osserveremo nell'affrontare gli
atteggiamenti conflittuali).
Il conflitto di dati, si ha quando le persone coinvolte in una controversia
non condividono gli stessi elementi, o possiedono informazioni parziali,
o travisate. Altrimenti definito anche come "fraintendimento",
è ciò che accade quando sentimenti, intenzioni e azioni
vengono decodificate in modo diverso da chi li riceve rispetto a chi li
ha emessi.
La ragione per cui spesso accade di non comunicare con successo è
dovuta al presupposto comune che per farlo basti parlare la stessa lingua,
o codice comunicativo. Per comunicare i nostri messaggi utilizziamo spesso
il canale auditivo e visivo, occorre ricordarsi che: la comunicazione
ha luogo quando uno parla e l'altro ascolta (la figura 3 illustra lo schema
della comunicazione tra una persona e il suo ascoltatore. Lo schema è
mutuato dallo schema classico della comunicazione divulgato dalla Scuola
di Palo Alto).
Certamente chi comunica il suo messaggio ha il compito di
formularlo in modo tale da raggiungere il suo ascoltatore, ma colui a
cui è rivolto il messaggio dovrà impegnarsi nell'accogliere
il messaggio. Possono esserci molte difficoltà nella comunicazione,
sia a livello degli elementi comunicativi: codice linguistico, messaggio
e canale, sia a livello di feed-back 17,
ovverosia le persone nel comunicare devono essere in grado di scambiarsi
critiche costruttive atte a migliorare la qualità della loro comunicazione,
e per finire le difficoltà possono insorgere anche a livello di
significazione contestuale (il qui e ora dell'atto comunicativo), che
è importante in quanto impregna di meta-significato la comunicazione
interpersonale tra i singoli individui. Pensiamo ad esempio a quanto influisca
nelle nostre comunicazioni quotidiane il ruolo sociale e professionale
che occupiamo, ai compiti che la società ci richiede o ai pregiudizi
che ci imputa: molto più spesso di quanto non si creda ci è
difficile prendere per buono il significato apparente di ciò che
ascoltiamo o che leggiamo. Anche quando c'è l'intenzione di farsi
capire e di capire chi comunica, la vera comprensione è difficile
che avvenga.
Le cose si complicano ulteriormente quando nella comunicazione si accompagnano
emozioni quali sospettosità, tensione e ansia: chi ascolta è
così attento a pecche e difetti, argomenti e ragioni di disaccordo,
che il desiderio e l'abilità di chi vuole comunicare vengono virtualmente
disabilitati. Chi comunica non potrà dimenticare che, come sempre
accade, quello che sta dicendo stimola in chi ci ascolta una serie di
risposte, indipendentemente dal significato apparente di ciò che
voleva dire: il vero significato, nell'atto comunicativo è dato
da chi ascolta e non tanto da colui che emette il messaggio.
Ricapitolando, chi lancia il messaggio desidera trasmettere qualche cosa
sia relativamente all'oggetto della comunicazione, sia relativamente a
se stesso, ed è importante che abbia e che quindi trasmetta un
impulso chiaro, che desideri essere compreso e che sappia quello che vuole
dire all'altro. Per ricevere in modo ottimale la comunicazione è
importante che colui che ascolta desideri comprendere correttamente quello
che l'altro dice.
Nell'esempio che segue vediamo quanto esposto concretizzarsi nella quotidianità.
Due ex-compagne di scuola 18, Tania
e Michela, avevano deciso di aprire insieme un negozio d'abbigliamento.
Pochi giorni dopo l'apertura del negozio si svolse una conversazione che
venne riportata pressappoco così.
TANIA: Michela, hai visto la pagina degli annunci del quotidiano?
MICHELA: Che cosa stai cercando?
T.: Voglio comprarmi una bicicletta usata da tenere qui in negozio.
M.: Perché?
T.: Mi piace andare in bici e voglio fare un po' di esercizio. Tra l'altro
ci sono dei posticini fantastici da visitare qui nei dintorni nella pausa
di chiusura.
M. (con un tono di voce piuttosto irritato): E quanto ci costerà
questa cosa?
T. (sorpresa): Perché ti preoccupi? La bici la pago io.
M.: Già, hai sempre avuto l'abitudine di sprecare i soldi per cose
inutili.
T.: Michela, ci sono problemi se mi compro una bicicletta?
M.: Sì che ce ne sono. Non mi sembra né elegante né
prudente tenere una bicicletta in negozio o legata fuori. Io non voglio
avere responsabilità se poi te la rubano.
T.: Va bene, vorrà dire che chiederò al custode dello stabile
se posso metterla in cortile o in cantina.
M. (anche più nervosa): Non è questo il punto, Tania.
T.: Allora qual è il punto?
M.: Sono stufa di vedere che non riesci a prendere niente sul serio! Ti
impedirò di comprare la bicicletta!
T.: Senti Michela, ti devo dare una brutta notizia. Sei la mia socia e
non mia madre, in più io ho trentotto anni e sono indipendente
da quando ne avevo venti, e che ti piaccia o no, se voglio comprare una
bicicletta, io me la compro.
M. Lo fai solo per ferirmi!
T.: No che non lo faccio per ferirti. Lo faccio perché ho voglia
di fare delle passeggiate in bici nella zona. Quindi, non discutiamone
più.
Parlandone in seguito, emerse che Tania aveva riflettuto a lungo su quella
conversazione e aveva pensato che, dal momento che Michela si era appena
separata dal marito, stesse attraversando un periodo molto difficile e
di grande solitudine. Capì che Michela non si era arrabbiata per
la bicicletta in sé, ma perché probabilmente si era spaventata
al pensiero del tempo che Tania avrebbe trascorso in bicicletta invece
di stare insieme a lei. Disse di aver capito che forse Michela aveva paura
di essere abbandonata un'altra volta. Michela nel sentirselo dire pianse
e riconobbe che, anche se non ci aveva pensato, probabilmente era vero.
La lucidità di Tania nel considerare i bisogni di Michela, e il
fatto che si fosse rivolta direttamente e con onestà a Michela
per rassicurarla nei suoi timori, permise di riaprire positivamente la
comunicazione tra loro e di impostare diversamente i loro ruoli e compiti
nella gestione del negozio. La bicicletta rossa di Tania è sempre
legata ad un palo, fuori dal loro negozio.
Può anche accadere che, sulla base di una lacuna o di una mancata
verifica iniziale di ciò che si è capito, la serie successiva
di informazioni venga decodificata in modo scorretto, creando una falsa
conferma al fraintendimento iniziale.
Il conflitto di dati, quando è puro, è tuttavia la forma
di conflitto più semplice da trattare, in quanto per la sua composizione
basta ripercorrere a ritroso la vicenda, o ridescrivere l'oggetto di discussione,
rendendo comuni le informazioni e i dati posseduti dalle parti;
Il conflitto di interessi, si riscontra quando le parti hanno interessi
contrastanti che possono essere soddisfatti solo a detrimento dell'interesse
dell'altro. Occorre chiarire che non sempre i bisogni delle parti sono
tali non poter essere reciprocamente raggiunti, con vicendevoli vantaggi,
tuttavia accade di trovarsi di fronte a conflitti di interessi quando:
a) le persone non sono state completamente oneste e aperte nelle proprie
richieste o nell'esprimere i propri bisogni e uno dei due si è
sentito raggirato o tradito nella sua buona fede. Non è necessaria
una truffa in piena regola perché scoppi un conflitto di interessi,
anche una mezza-verità, o una verità semi-nascosta può
mettere in crisi una relazione di fiducia;
b) ci si ritrova di fronte a reiterata negligenza, promesse non mantenute,
responsabilità evitate, leggerezze, ritardi, ecc. Queste sono tutte
potenziali micce per innescare un conflitto e incrinare una relazione
di reciproca affidabilità;
c) una o entrambe le parti hanno "intenzioni nascoste".
Un'organizzazione commerciale che fa un'offerta molto generosa nell'acquisto
di una compagnia, non a causa dell'andamento del mercato, ma perché
così facendo getta le basi per poter in futuro inserirsi nel commercio
di altre merci, è un esempio di intenzione nascosta "consapevole",
ma a volte le intenzioni nascoste possono essere "inconsapevoli".
Essendo inconsapevoli risultano nascoste anche a chi le ha, e possono
essere la causa di dispute che vengono generalmente identificate come
"incompatibilità di carattere". Chi inconsapevolmente
è mosso da intenzioni nascoste si trova ad agire e a dire parole
in grado di accendere e mantenere vivo il conflitto, senza capire il perché
del proprio comportamento.
Conflitto strutturale o di valori: si tratta di un conflitto che non riguarda
tanto le singole persone che vi si trovano coinvolte, ma il gruppo e l'organizzazione
sociale cui le persone appartengono.
Il direttore e la direttrice di due aree diverse dello stesso servizio
non riescono mai a risolvere i problemi nei momenti di urgenza o di crisi
e finiscono con lo scontrarsi e con lo scaricarsi reciprocamente le responsabilità.
Anna dice: "E' uno di cui non mi posso fidare, non si sa mai che
cosa ne pensa. Io devo capire la situazione per provvedere a chiamare
i tecnici più adatti, e bisogna cavargli le parole con le pinze.
Invece di rispondere alle mie domande, dice che mi richiama e mi mette
giù il telefono!", risponde Piero: "Per forza, è
troppo emotiva, si agita e invece di lasciarmi riflettere su che cosa
sia meglio fare, continua a fare domande e a confondermi! Perché
qui, perché lì, perché, perché, perché?!?".
Anche se potrebbe sembrare tale, non si tratta di un problema personale,
quello nell'esempio è un classico conflitto strutturale tra sessi,
se ci fosse Maria o Benedetta al posto di Anna, e se ci fosse Vittorio
o Marco al posto di Piero, assisteremmo comunque a discussioni simili,
perché la modalità prevalente di affrontare e risolvere
i problemi non è la medesima per i due sessi.
Altre volte è il contesto valoriale o politico a determinare il
conflitto e le persone coinvolte non si conoscono neppure. Questo tipo
di conflitto quindi non ha molto a che fare con la specifica situazione
o con le singole persone coinvolte, tuttavia se chi ne è coinvolto
e ne è il portavoce per il proprio gruppo di riferimento resta
attaccato alle proprie considerazioni, opinioni o preconcetti e si aspetta
che siano gli altri a cedere, difficilmente sarà possibile comporre
la disputa in atto senza l'uso della forza.
Infine, occorre ricordare che il conflitto può anche presentarsi
in modo talmente articolato e complesso da essere difficilmente identificabile
in un'unica e precisa categoria, ma risultare descrivibile grazie a una
combinazione tra due o più generi tra quelli precedentemente illustrati.
Nel concludere il paragrafo ricordiamo alcuni consigli di un giudice californiano
19, il quale scrive che per evitare
che il conflitto diventi una esperienza difficile e dolorosa occorre focalizzarsi
su:
1) consapevolezza, ovvero l'osservazione della situazione non solo ed
esclusivamente dal proprio punto di vista ma cercando anche di "mettersi
nei panni degli altri",
2) onestà, principalmente verso se stessi, ammettendo i propri
bisogni, le propri paure e debolezze, e poi verso gli altri, concedendo
loro la possibilità di aprirsi senza rischi,
3) l'intenzione di risolvere il conflitto nel modo più pacifico
e reciprocamente vantaggioso possibile,
4) la volontà di rinunciare all'orgoglio di avere sempre ragione.
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Gli atteggiamenti
conflittuali
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Osservando il modo in cui ci si può porre di fronte ad un conflitto,
è possibile distinguere quattro stili diversi; per alcuni potrebbe
trattarsi di uno stile conflittuale abituale, per altri potrebbe essere
uno stile adottato solo in determinate relazioni interpersonali, o a seconda
del ruolo sociale e lavorativo occupato, e dei relativi compiti da svolgere.
20
L'Attaccante-Difensore si distingue perché sembra sempre alla ricerca
di potenziali nemici da combattere, focalizza subito la sua attenzione
sui motivi per cui gli altri sono in errore e sui vantaggi da ottenere
in ogni situazione. Si tratta essenzialmente di una mentalità "da
combattimento", antitetica a negoziazioni aperte e collaborative,
e refrattaria ai discorsi sulla prevenzione della violenza.
In genere l'attaccante-difensore tende a prevaricare sugli altri per paura
che questi finiscano con approfittare di quelle che ritiene essere le
sue "debolezze", e si presenta sempre eccessivamente sicuro
di ciò che vuole e che otterrà.
Dal momento che non c'è alcuna volontà di apprendimento
nel modo di affrontare i conflitti da parte dell'attaccante-difensore,
e non c'è alcuna volontà di concedere agli altri bisogni
e obiettivi conciliabili con i propri, l'attaccante-difensore con il suo
atteggiamento verificazionista 21conferma
i propri assunti di base cadendo vittima del circolo vizioso: "Dovevo
agire così, o l'altro avrebbe fatto a me quello che io ho fatto
a lui!".
Il Remissivo sembra adottare, a prima vista, un comportamento agli antipodi
rispetto all'attaccante-difensore: invece di cogliere la più piccola
provocazione come una dichiarazione di guerra, il remissivo farà
di tutto pur di "mantenere la pace". L'esempio storico perfetto
è il Primo Ministro inglese Neville Chamberlain, che accettò
di cedere la Cecoslovacchia a Hitler nel falso convincimento che quest'azione
avrebbe addolcito l'aggressore e mantenuto la pace in Europa.
I remissivi generalmente non agiscono da una posizione di forza, la loro
motivazione è la paura e la convinzione di non avere potere. Negli
scontri cedono subito dicendo a sé stessi che dal momento che non
potranno avere ciò che desiderano, è meglio arrendersi.
Dal momento che detestano combattere, è meglio "porgere l'altra
guancia".
I remissivi si presentano altrettanto falsamente sicuri degli attaccanti-difensori,
in quanto sono ugualmente determinati nel non voler indagare sulle proprie
responsabilità nel problema da affrontare; molto spesso infatti
affermano di assumersi la piena ed esclusiva responsabilità del
conflitto, perché così facendo riescono ad evitare di analizzare
la realtà delle cose. In più nel loro intimo i remissivi
sono altrettanto incolleriti ed offesi degli attancanti-difensori, e sono
altrettanto convinti, nonostante il loro silenzio, di essere nel giusto.
Ciò che li distingue dagli attaccanti-difensori è che sono
passivamente ostili, mentre gli attaccanti-difensori lo sono in forma
attiva.
Lo Sfuggente rappresenta l'estremizzazione del remissivo: non vuole nemmeno
arrivare a riconoscere che esista un conflitto. Come l'attaccante-difensore
e il remissivo, lo sfuggente si astiene dall'ammettere una sua qualche
responsabilità nel conflitto, ma lo fa a modo proprio, ovvero ne
nega semplicemente l'esistenza. La negazione sembra essere un bisogno
radicato e profondo negli sfuggenti, dal momento che fanno di tutto per
evitare di confrontarsi con i propri problemi; la comunicazione alla pari
e l'onestà, che nasce prima dall'accettazione globale di se stessi
e poi degli altri, sono schemi di comportamento che generalmente rifiutano.
Sembrano quasi paralizzati dalla paura: come i remissivi, gli sfuggenti
hanno una concezione eccessivamente bassa del proprio valore personale
e questo li porta ad una mentalità vittimistica priva della speranza
di vie d'uscita, ma il loro modo di gestire la sensazione di mancanza
di potere è di pretendere che tutto stia andando comunque bene
e che basti lasciare tutto così com'è.
Lo stile del Congelatore è ben esemplificato nell'esempio che segue.
Due sorelle già piuttosto avanti negli anni, dovevano spartirsi
gli oggetti lasciati dalla defunta madre. La divisione fu equa e soddisfacente
per entrambe, finché non giunsero ad un cammeo che entrambe avrebbero
voluto tenere per sé. Si accese la discussione finché Maria,
tagliando corto, se lo prese, dicendo che andava a lei perché lei
era la maggiore. Questo avvenne dieci anni fa, ed è da allora che
queste due sorelle non si sono più parlate. Maria e Carla sono
un buon esempio di persone che affrontano il conflitto congelandolo.
Il congelatore si presenta più preoccupato di mantenere intatta
la "santità" della propria posizione, che di fare qualche
cosa per risolvere il conflitto. Il congelatore non sente l'impulso ad
attaccare o a sconfiggere l'altra persona, piuttosto la sua soddisfazione
si autoalimenta nel restare trincerato nel proprio punto di vista.
Come l'attaccante-difensore, anche il congelatore sembra guidato dall'incontenibile
bisogno di aver ragione e lo vuole provare chiudendo qualsiasi comunicazione
con l'altro, deterrente questo di qualsiasi soluzione genuina ed onesta
dei conflitti.
Occorre riconoscere una radice comune in tutti i modi di affrontare i
conflitti finora osservati: ogni conflitto viene impostato stabilendo
che per forza debba esserci una parte vincente, la propria, e una perdente,
il proprio antagonista. Più spesso accade, in conseguenza ad un
approccio simile, che entrambe le parti, non avendo affrontato il conflitto
per "risolverlo" ma solo per "vincerlo", ne escano
comunque perdenti, quando osserviamo il risultato di tanto reciproco accanirsi
nelle loro vite e in quelle dei loro cari.
Riassumendo e semplificando quanto espresso finora, ogni conflitto sembra
associarsi a numerosi fattori: delusione o tradimento di aspettative,
competitività sugli obiettivi, interessi incompatibili, questioni
di principio o valoriali, comunicazioni perverse o che confondono, ecc.
e vede coinvolte persone che, avendo un'immagine debole di sé e
scarsa autostima, per lo più sono restie ad affrontare i problemi
accogliendo onestamente i propri ed altrui bisogni, di conseguenza non
riescono a risolvere il conflitto mettendosi in gioco in prima persona.
La chiave per affrontare al meglio il conflitto, come già osservato
è la comprensione dei bisogni che stanno alla base delle posizioni
assunte dalle parti. Nella figura 1 sono rappresentati i bisogni in una
piramide dove alla base troviamo quelli più fondamentali e irrinunciabili,
e al vertice quelli più sofisticati. E' ormai assodato che la maggior
parte di noi affronta le proprie dispute aggrappandosi a concetti prefissati
di che cosa sia lecito e doveroso ottenere, ovverosia assumiamo una posizione
ben determinata definita come pretesa. Raramente accettiamo di esplorare
i bisogni che stanno alla base delle pretese e quali alternative valide
possano essere disponibili per soddisfare gli stessi bisogni. Questo perché
può accadere che nelle situazioni di tensione si ritiene sia meglio
esprimere delle richieste precise, piuttosto che fare la figura di chi
ha le idee poco chiare e perdere un'occasione preziosa di "portare
a casa" un successo. Dal momento però che nelle situazioni
conflittuali le emozioni raggiungono livelli molto elevati, le richieste
diventano spesso esagerate, passando da meri desideri a pretese, o addirittura
minacce: "E' un mio diritto, anzi di mia figlia, quello di vedermi.
Se non mi fai vedere la bambina", gridava un padre disperato all'ex-moglie,
"ti chiedo i danni morali!". Purtroppo, anche se il bisogno
di continuità affettiva tra questo padre e la figlia è del
tutto comprensibile ed accettabile, la strategia adottata per ottenerlo
spinge la sua ex-moglie alla chiusura e all'automatica difesa dalle sue
minacce. Bisogni e strategie devono essere tenute ben distinte.
Spesso restiamo aggrappati all'idea di quello che crediamo di meritarci:
il nostro diritto, a spese della realtà, della ragionevolezza e
della possibilità di comporre la controversia in modo soddisfacente
per tutte le parti coinvolte. Restando attaccati a questo preteso diritto,
rinunciamo a priori a cercare di scoprire il nostro vero bisogno e ad
esplorare altre opzioni che incontrino anche quelli dell'altra parte in
causa. Raramente sappiamo riconoscere il nostro reale bisogno sotto la
superficie della nostra richiesta materiale. Ma se è vero che è
quasi impossibile accontentare un bisogno di cui non siamo consapevoli,
è anche vero che pur conoscendolo occorre prima liberarci da una
serie di preconcetti e convinzioni sulle nostre richieste per far sì
che esse siano realizzabili. Idealmente dunque è positivo ammettere
di non sapere con precisione che cosa vogliamo, ma nello stesso tempo
impegnarci per soddisfare i nostri bisogni.
Figura 4 Sequenze e livelli di bisogni 22
Parte della chiarezza che il conciliatore aiuta a raggiungere
nelle discussioni è sulla differenziazione di termini tra "bisogno"
e "richiesta". I bisogni, come abbiamo potuto osservare nella
figura 4, possono essere quelli più fondamentali per noi esseri
umani, come aria, cibo, acqua, vestiti, un riparo, ecc. Ci sono anche
importanti bisogni emotivi per noi, come il bisogno di essere sostenuti,
amati, rispettati, apprezzati, ecc. Le richieste invece sono il risultato
del nostro adattamento sociale, della nostra cultura e delle nostre abitudini
di vita, così noi abbiamo bisogno di cibo, e per esempio vogliamo
cibo cinese; abbiamo bisogno di essere amati, e per esempio vogliamo che
in nostro coniuge sia più affettuoso quando torna a casa dal lavoro;
abbiamo bisogno di autorealizzazione, e per esempio vogliamo ottenere
una posizione più elevata nella nostra azienda. Accade poi che
le richieste diventino esse stesse dei bisogni, ossia proiettiamo i nostri
bisogni su soluzioni già adottate da persone famose o in vista,
o che altri, attraverso il condizionamento sociale e la pubblicità,
hanno indotto in noi, e ci convinciamo che per essere felici, ad esempio,
occorra vivere nel tal posto e guidare la tale automobile o, più
banalmente, mangiare quel tale cibo.
Fig. 5 Passaggio dalla posizione iniziale alle opzioni
Nella figura 5 è rappresentato schematicamente il
lavoro di chiarimento dei bisogni condotto in conciliazione. Il cliente
si presenta al conciliatore con una posizione iniziale: la sua richiesta,
e il conciliatore per riuscire a esplorare l'eventualità di soluzioni
alternative a quella unilaterale portata dal cliente deve passare attraverso
i suoi filtri cognitivi per arrivare ad esplorare i suoi bisogni, le sue
paure e le sue preoccupazioni. I filtri cognitivi consistono nella percezione
della realtà, nelle attitudini personali, nella cultura di appartenenza,
nelle tradizioni di famiglia, negli schemi percettivi (ovvero il personale
modo per classificare eventi e persone), ed infine nei valori e ciò
in cui crediamo. Tutto ciò guida quotidianamente ciascuno di noi
nella vita e ci condiziona nello scegliere come soddisfare i nostri bisogni
e acquietare le nostre paure. Ecco che allora, una volta capiti i bisogni
di ciascun cliente il conciliatore potrà esplorare insieme a loro
opzioni diverse da quelle unilaterali di partenza, per una soluzione della
controversia che raggiunga reciproca soddisfazione.
Esiste tuttavia una serie di bisogni definiti come "compulsivi"
e che prendono la forma di vere e proprie forme di dipendenza. E' possibile
reperire forti dipendenze psicologiche e fisiche anche a prescindere dalle
tossicodipendenze, dal tabagismo e dall'alcolismo: cibo, soldi, sesso,
sport, lavoro, gioco, ecc. per alcuni possono diventare bisogni compulsivi
allo stesso livello di una droga. Coloro che hanno bisogni compulsivi,
hanno "falsi" bisogni in quanto ritengono di non poter assolutamente
fare a meno di quella determinata cosa, al punto tale da tralasciare la
normale cura di sé, dei propri affetti e delle proprie attività.
E' importante esaminare se nella controversia in atto sono state associate
al problema forme di dipendenza, in quanto queste giocano un ruolo cruciale
sia nel creare che nel perpetuare i conflitti, questo perché sono
solitamente legate a richieste inflessibili o aspettative che polarizzano
le parti. Inoltre minano alla base il potere personale e l'amor proprio
di chi ne è vittima, requisiti che invece occorre mantenere se
si vuole esaminare onestamente e con successo la situazione generale e
il ruolo che le parti hanno giocato nel determinarla.
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AFFRONTARE
O NON AFFRONTARE I CONFLITTI?
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L'attitudine personale nei confronti del conflitto, la percezione individuale
delle modalità di effettuazione dei cambiamenti e il senso etico
sociale hanno un effetto dinamico importante sullo stile conflittuale
che in genere adottiamo. Abbiamo tuttavia potuto osservare che la tendenza
generale è di evitare di affrontare direttamente il conflitto vero
e proprio. Attaccanti-difensori, remissivi, sfuggenti e congelatori, a
proprio modo, si adoperano tutti con molta energia nell'evitare di risolvere
il conflitto e si preparano a combattere il nemico esterno invece di indagare
criticamente in se stessi e cercare di capire la situazione con realismo.
Questo spostamento all'esterno di un disagio che ha generalmente radici
intime e personali profonde non è tipico solo del conflitto, ma
possiamo ritrovarlo anche in molte altre situazioni. Sembra più
facile costruire un'immagine positiva di noi stessi e accettarci se personalizziamo
il nostro conflitto e le sue cause al di fuori di noi, piuttosto che osservare
le cose senza egocentrismo e parzialità, riconoscerci invece il
merito di aver capito chi siamo e perché.23
Alla base di questi atteggiamenti di evitamento troviamo filosofie dell'uomo
comune che non solo li giustificano, ma spingono ad innalzare ulteriormente
le difese attraverso l'insincerità, a migliorare le armi legali
e sociali a disposizione e ad ispessire la corazza dell'egoismo. L'atteggiamento
che viene proposto dal conciliatore prima di affrontare le sedute di mediazione
è opposto, il conciliatore è un agente di realtà
e per poterla esaminare, occorre aprire un varco nelle proprie paure e
affrontare gli altri concedendo loro la possibilità di essere altrettanto
incolleriti e spaventati. La causa principale di ogni espressione violenta
del conflitto, più o meno attiva, grave o diffusa, dichiarata o
sommersa, lo ricordiamo, è sintetizzabile come timore, o paura.
La paura della collera di un'altra persona è uno dei timori più
diffusi. Dipende in genere dal fatto che si è cresciuti a contatto
con figure autoritarie che si è imparato a temere e a cui ci si
è adattati, questi schemi appresi nell'infanzia tendono a ripresentarsi
nell'età adulta quando si ha a che fare con superiori, coniugi,
o chiunque sia stato ceduto il proprio potere a causa di un senso di impotenza.
Laura 24 aveva ottenuto la sua prima
grande occasione come pubblicista: avrebbe lavorato insieme ad una giornalista
di cronaca già affermata. La giornalista famosa con cui doveva lavorare,
però, era estremamente esigente e critica che Laura dopo pochi giorni era
arrivata al punto di non voler più lavorare con lei. Disse di voler rinunciare
al lavoro, nonostante rappresentasse un'occasione unica nella sua carriera
di giornalista, perché tutte le volte che la incontrava, le montava la collera
e, come risultato si sentiva gelare dalla paura. Laura viveva da sola con
la madre, che la tiranneggiava in continuazione con le sue critiche e che
spesso aveva scoppi d'ira anche violenta, quindi aveva imparato a temere
la collera. Le chiesi se avesse mai detto alla giornalista esattamente come
si sentiva, ovvero che il suo comportamento aggressivo e irascibile la stava
alienando dal lavoro, e che si trovava in grandi difficoltà di fronte a
comportamenti simili a causa di esperienze infantili con figure analogamente
aggressive. Laura rispose di non averlo fatto per timore che allora la giornalista
si sarebbe veramente infuriata contro di lei. Convinsi Laura a considerare
che anche la giornalista poteva essere vittima di schemi precostituiti e
che, come donna, aveva probabilmente dovuto assumere molto presto un comportamento
più aggressivo del normale per potersi affermare sui colleghi uomini. Laura
decise di dire alla giornalista qualcosa di simile a questo: "Capisco che
lei voglia pubblicare sempre articoli perfetti, ma io ho un problema personale.
A causa del modo in cui mia madre mi ha sempre trattata, ho moltissime difficoltà
a gestire la collera degli altri. Quando lei si arrabbia con me io mi sento
gelare e non riesco più scrivere con lucidità emotiva, come invece vorrei.
Stando così le cose, trovo molto difficile continuare a lavorare con lei".
Risultò che la giornalista non ritenne affatto di essere una persona irritabile
o aggressiva, ma rispettò i sentimenti di Laura e accettò che si potesse
sentire vulnerabile in sua presenza e, dal momento che riteneva che Laura
fosse una buona collaboratrice, cercò di avere più riguardo e attenzioni
nei suoi confronti. Certamente il merito di questo risultato va a Laura
e al suo coraggio.
E' necessario molto coraggio per interrompere questi circoli viziosi,
ma soprattutto occorre la volontà di cambiare qualcosa. Certo non
conviene cambiare prima di avere avuto segni della possibilità
che le cose possano migliorare, tuttavia, dall'esperienza di quanti operano
nel campo delle conciliazioni, sembra che sia sufficiente averne l'intenzione:
avere maggiore fiducia nella possibilità di raggiungere un accordo
soddisfacente.
Quando si tende, come Laura, a lasciarsi paralizzare dalle proprie paure,
ovvero dalla collera degli altri, per prima cosa è necessario essere
consapevoli della realtà della situazione e accettare che occorra
rendere palese il proprio impulso emotivo, poi occorre realizzare che
questo impulso, anche se palesato, non cambierà subito la situazione.
Abitudini apprese nel tempo, o a giovane età, richiedono tempo
per essere modificate.
Quindi, per riuscire a cambiare simili situazioni di disagio, occorre
prendere la decisione di rispondere in modo diverso al nostro impulso
emotivo. Abbiamo senz'altro maggior controllo su noi stessi che sulle
persone che ci circondano, quindi occorre chiedere a noi stessi: "Mi
sento molto a disagio, che cosa mi può far sentire meglio?".
Molti hanno trovato aiuto nell'autoironia, altri si prendono una pausa,
altri ancora invocano l'aiuto della propria fede. In tutti questi casi,
queste persone cercano di sottrarsi al circolo vizioso della situazione
e vogliono evitare di reagire automaticamente.
Infine, la logica intellettuale non basta a risolvere i problemi emotivi,
è necessario agire: occorre mettere in atto i nuovi schemi comportamentali
nella realtà quotidiana. Ognuno potrà scegliere il modo
migliore per farlo, quello in cui si sentirà più a suo agio,
Laura ha deciso di parlare direttamente alla giornalista, altri possono
sentirsi meno spaventati nello scrivere una lettera o parlandone al telefono,
ma ad ogni modo ciò che conta è l'intenzione di aprire una
comunicazione onesta e di affrontare, anziché sfuggire, il conflitto.
Certo è meglio cominciare da situazioni meno complesse e più
"leggere" da affrontare, ma poi sarà possibile arrivare
ad affrontare con maggiore serenità qualsiasi conflitto anche i
più gravi.
La paura di essere rifiutati, derisi o di venire ostracizzati è
piuttosto comune, e impedisce di assumere rischi o di essere aperti e
onesti nella propria carriera lavorativa, così come nelle relazioni
interpersonali.
Giulia 25 evita di rimproverare
le segretarie del proprio ufficio, perché teme che anch'esse possano
avere qualcosa da ridire su di lei e non sopporterebbe di venire giudicata
negativamente da persone a lei subordinate, quindi preferisce credere
ciecamente che le sue segretarie abbiano di lei un'ottima opinione.
Come nel caso della paura della collera altrui, anche lo schema comportamentale
legato alla paura di venire rifiutati o derisi richiede molto tempo per
essere modificato.
Occorre cominciare ad osservare se stessi con onestà e sincerità,
chi siamo, che posizione occupiamo e che cosa pensiamo, sentiamo, facciamo;
evitando giudizi di valore e sospendendo ogni sentimento, senza aggiungere
nessuna condizione positiva o negativa a ciò che scopriamo di noi
stessi, accettando il fatto che siamo così come siamo, ma che,
se lo vogliamo, possiamo migliorare. E' normale che qualcuno ci giudichi
diversamente da come vorremmo apparire, ma possiamo cercare le cause di
tale giudizio e comportarci in modo tale da raggiungere una immagine di
noi stessi che ci piaccia di più e che sia condivisa dagli altri.
La paura di ascoltare è altrettanto diffusa e può portare
le persone a discutere per anni senza mai affrontare il conflitto vero
e proprio, basta cercare un buon alibi per evitare di accettare se stessi
e quindi gli altri. In questa operazione lo sfogo emotivo diventa così
impellente, che ci si "passa" il proprio nervosismo, volendo
entrambi essere ascoltati nelle proprie ragioni, ma, dal momento che non
si intende affrontare veramente il conflitto, ci si rifiuta di ascoltare
l'altro e quindi di capire.
Anche se si tende a volerlo evitare, in queste situazioni si esauriscono
comunque le proprie energie nello sforzo di sfuggire alla propria profonda
sofferenza e al proprio disagio. Lo stratagemma è quello di spostare
su versanti "più leggeri" la discussione, che si cerca
di mantenere aperta il più possibile. La prima persona che non
vorremmo ascoltare, in questi casi, siamo noi stessi; ma in ordine alla
corretta gestione del conflitto, è essenziale dare ascolto con
attenzione a noi stessi: occorre lasciare che l'altro, facendoci da specchio,
ci restituisca quegli aspetti di noi stessi che non volevamo accettare
perché troppo dolorosi e che quindi abbiamo finito per proiettare
ad di fuori di noi, nell'altro. 26
Da più di trent'anni Enza lavora per Mariella, come segretaria.
27 Mariella è amministratrice
di immobili e con la sua attività gestisce diversi condomini e
proprietà, per un giro d'affari piuttosto elevato. Enza e Mariella
discutono da trent'anni sulla stessa questione: il modo disordinato e
sporco di tenere l'ufficio da parte di Enza. Mariella vorrebbe un ufficio
pulito e ordinato, ma sfortunatamente questa non sembra essere mai stata
una priorità per Enza. Più Mariella si lamenta e protesta
di non trovare le pratiche al loro posto e della polvere che invade il
computer, più Enza rinuncia a pulire e quindi periodicamente Mariella
ha affidato le pulizie a un'impresa e ha cercato una praticante o una
neolaureata per aiutarla a riordinare le pratiche. Nessuna delle due tuttavia
si è mai fermata a guardare "sotto" la polvere. Entrambe
avevano quelle che abbiamo identificate come intenzioni nascoste più
o meno inconsapevoli, ma risultava per entrambe troppo penoso indagarle.
Durante le sedute di conciliazione risultò che poco dopo l'assunzione
Enza aveva sostenuto Mariella, che stava affrontando una causa legale
nei confronti del suo precedente socio, aveva anche testimoniato a suo
favore (avendo assistito a diversi episodi in cui questi l'aveva minacciata
e poi, tramite l'inganno, le aveva arrecato danno fisico, morale ed economico).
Enza era stata fra i testimoni più convincenti. Nonostante questo,
Mariella non aveva cambiato il suo modo formale di rapportarsi a lei ed
Enza, che invece si era sentita più vicina a Mariella nel periodo
della causa, aveva vissuto con stupore e tristezza questo rifiuto ad instaurare
un rapporto di maggiore amicizia. Considerando che comunque Mariella era
sempre stata più che corretta nei suoi confronti e che oltre allo
stipendio la ricompensava attraverso piccoli favori e regali, pensò
che in qualche modo, il fatto di non essere riuscita a diventare amica
di Mariella fosse per un proprio difetto. In conseguenza a questo fatto
era caduta in depressione ed era diventata abulica, soprattutto in cose
come l'ordine e la pulizia. Enza, però, era anche terribilmente
arrabbiata con Mariella, che continuava dopo anni a presentarla a tutti
e a riferirsi a lei semplicemente come la sua segretaria. In realtà
Enza faceva molto di più di quanto non fosse richiesto a una segretaria,
era in grado di sostituire Mariella completamente durante i lunghi periodi
in cui si recava all'estero, e si era lasciata coinvolgere nella gestione
quotidiana delle due figlie di Mariella. Se inizialmente Enza aveva scelto
questo lavoro proprio perché Mariella le dava molta più
libertà e responsabilità, in seguito aveva finito per sentirsi
sfruttata e per detestare questo stesso atteggiamento di Mariella.
Allo stesso modo Mariella aveva dovuto lasciare che Enza arrivasse a conoscere,
fin dai primi momenti del loro rapporto di lavoro, questioni molto riservate
della sua vita privata e dell'ufficio. Essendo in genere molto riservata,
aveva apprezzato la lealtà di Enza e aveva lasciato quindi che
continuasse ad essere presente in aspetti anche molto delicati dell'amministrazione,
ma aveva il timore che Enza avrebbe finito per acquisire troppo potere
su di lei e, volendo mantenere il controllo, si era imposta il rigido
rispetto dei ruoli lavorativi e l'uso del "lei", evitando di
chiamare Enza per nome proprio. Anche se apprezzava molto Enza per la
lealtà dimostrata in tutti gli anni di lavoro comune, aveva incominciato
a nutrire un senso di frustrazione per la dipendenza che era venuta a
crearsi nei confronti di Enza e che continuava a crescere anno per anno.
Fin da principio si era vergognata per aver lasciato che Enza sapesse
della situazione con il suo precedente socio, e per aver avuto bisogno
della sua testimonianza durante la causa, ma incapace di discutere di
questi sentimenti con Enza, aveva concentrato la sua attenzione su un
argomento "sicuro" su cui scaricare tutta la sua rabbia e la
sua frustrazione personale: la pulizia e l'ordine.
Se osserviamo questo esempio, ci sono livelli diversi di intenzioni nascoste
in questa situazione, infatti Enza tiene l'ufficio in disordine per "ripagare"
Mariella, ma anche perché è depressa, ed è depressa
a causa della sua bassa autostima; come se quell'ufficio trasandato rappresentasse
metaforicamente Enza: "Non sono una persona gradevole, non ispiro
simpatia.
Non posso rimproverare Mariella se non mi vuole per amica!". Mariella
è arrabbiata con se stessa per aver lasciato che Enza conoscesse
molti aspetti delicati di sé e dell'amministrazione e per aver
avuto bisogno del suo aiuto in un momento di estrema debolezza, quindi
ha cominciato a temere il potere che Enza aveva assunto. Nascosto sotto
il suo risentimento c'è vergogna e senso di colpa, da qui la percepita
necessità di mantenere rigidamente le distanze tra sé, in
qualità di titolare dell'attività, e Enza, la segretaria.
L'atteggiamento di Mariella è dovuto alla paura di essere "scoperta":
tutti scoprirebbero che Mariella non è, o non è sempre stata,
quella donna di polso e di successo che pretende di essere.
Questo non è un esempio unico nelle realtà lavorative. Ogni
volta che "attacchiamo" un'altra persona a qualche livello,
stiamo distogliendo lo sguardo da una nostra verità. La questione
fondamentale del problema di Enza e Mariella è la stessa: la scarsa
autostima, ed ognuna rimproverava l'altra per i propri sentimenti di inadeguatezza.
Chi evita di affrontare il conflitto, chi ne ha paura, in genere teme
di riconoscere se stesso, dunque si attacca al proprio bisogno di avere
ragione, impedendosi di gioire di una relazione vitale di fiducia, sostegno
e vera intimità, anche sul lavoro. Molti anzi ritengono che quanto
abbiamo appena visto sia utile nelle relazioni affettive, ma che sul lavoro
sia molto meglio non esporsi a nessun rischio, temono il confronto e preferiscono
mentire. Sul lavoro, chiusi nell'ottica produttiva, si è spesso
troppo impegnati a mantenere il controllo e a proteggere il proprio senso
di sé, per ascoltare quello che gli altri vogliono dirci, o per
riconoscere che abbiano dei sentimenti, ma come possiamo quotidianamente
notare è su lavoro che i conflitti andrebbero affrontati e risolti
il prima possibile.
Dal momento che pochi sanno veramente affrontare il conflitto, e che tra
l'altro la gestione dei conflitti non è mai stata una materia di
studio scolastica, in genere si finisce per non gestirlo o per gestirlo
male. La maggior parte di noi è comunque a disagio quando deve
affrontare un conflitto, e a meno che la situazione non diventi veramente
dolorosa e insopportabile, si finisce con l'abituarsi allo status quo,
perché in genere non piace il cambiamento ed è apparentemente
più facile accettare ciò che si conosce piuttosto che ciò
che non si conosce, atteggiamento comunemente definito di "resistenza
al cambiamento".
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CHE COS'È
E COME CONTROLLARE LA COLLERA?
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La nostra collera
Universalmente, una delle maggiori espressioni del conflitto è la
collera, che come abbiamo visto è anche ciò che mette più
a disagio sia nei rapporti informali, che nei rapporti formali o di lavoro.
Come abbiamo già osservato, il conflitto, che viene descritto dalla
maggior parte delle persone come un'esperienza negativa, in sé e
per sé è una parte della vita naturale, sana e inevitabile,
anzi, se affrontato costruttivamente può diventare un'esperienza
positiva in quanto, portando ad aumentare l'autoconsapevolezza, comporta
lo sviluppo di empatia 28 e di abilità
intra- ed inter-personali che aiutano ad evitare di ritrovarsi ancora coinvolti
in situazioni conflittuali dolorose, aggressive o violente.
Abbiamo visto nei precedenti paragrafi che la risposta migliore alla conflittualità
consiste, per prima cosa, nella capacità di separare i sentimenti,
o le paure riguardo persone e situazioni, dalla realtà delle circostanze.
In parole semplici dovremmo poterci distaccare dalle nostre emozioni per
avere una visione della situazione più calma e obbiettiva, e riconoscere
che una parte delle nostre emozioni e paure distorcono o ingigantiscono
i fatti.
Per riuscire a neutralizzare emozioni negative come la collera o la paura,
occorre tenere separato il riconoscimento di un'emozione dalla sua espressione
o dalla sua influenza su di noi. Questa abilità, che in genere ogni
conciliatore viene invitato a sviluppare, consiste in un operazione di auto-formazione
e in una costante opera di auto-osservazione che possiamo distinguere per
praticità espositiva in tre momenti.
Per prima cosa infatti occorre riconoscere le emozioni, esse sono reali
e infatti coinvolgono gran parte delle nostre energie, sia fisiche che psichiche.29
Dal momento che questo primo livello di attivazione resta ad un livello
di involontarierà, non sarà possibile controllarlo, ma dal
momento in cui decidiamo di osservare ciò che ci sta succedendo stiamo
già operando in modo consapevole. Accade infatti che molti di noi
per apprendimento educativo o culturale finiscano per impedirsi di "sentire",
soprattutto quando si tratta di emozioni negative e per fingere di essere
sempre in uno stato emotivo positivo o neutro; il risultato è che
chi si è condizionato in tale modo, reprime le proprie emozioni fino
al momento in cui queste, accumulandosi, non esploderanno in uno sfogo improvviso,
in un azione totalmente imprevedibile o in una malattia cronica, in quanto
la collera inespressa può avere un effetto devastante sul sistema
immunitario. Altre volte le emozioni negative che cerchiamo di soffocare
deturpano il nostro viso, cambiano il colore del nostro incarnato, la nostra
postura e il nostro atteggiamento, il nostro modo di camminare, di vestirci
e così via, quindi chi ci osserva può notare che in noi si
annidano emozioni quali tristezza, collera, rabbia, frustrazione e paura.
Sappiamo, quando accade, di provare una sofferenza o una gioia emotiva,
la cosa più semplice da fare è di riconoscerlo, e poi, anche
se gli studiosi per primi poi discutono sulla classificazione più
corretta delle emozioni, riuscire a identificare ciò che stiamo provando.30
Quindi se abbiamo provato un sentimento, ne siamo stati consapevoli e lo
abbiamo identificato, allora siamo anche pronti per esprimerlo in qualche
forma. Il modo che scegliamo per esprimere i nostri sentimenti dovrebbe
infatti dipendere dalla situazione in cui ci troviamo: a volte se siamo
in collera verso qualcuno può essere perfettamente appropriato mostrarlo
direttamente all'interessato, purché ovviamente non si finisca per
urtare o addirittura abusare dell'altra persona. Altre volte può
essere invece più appropriato "ingoiare la pillola" e aspettare
di sfogarsi e gridare da soli in macchina o in un altro posto isolato in
cui esprimersi liberamente.
Quando qualcuno ferisce i nostri sentimenti, potrebbe esserci necessario
lasciar emergere le lacrime, oppure aspettare di crollare nel proprio letto
e farsi un bel pianto. Il punto è che possiamo scegliere come esprimere
i nostri sentimenti, o addirittura scegliere se farlo o no, ma se vogliamo
prevenire la sofferenza che il conflitto potrebbe causarci, occorre arrivare
ad esprimere i propri sentimenti con onestà e al più presto
possibile.
Quando si considerano i sentimenti e le risposte naturali, la collera in
genere è in capo a ogni lista (osservare la nota 30), è una
realtà della nostra vita che si esprime con fortissima energia e
spesso si accompagna a calore e forza. La collera infatti viene considerata
dalle religioni orientali come la grande forza che può condurre a
consapevolezza, 31 anche l'esperienza
della collera può essere positiva se espressa costruttivamente. Ogni
conciliatore impara che l'espressione della collera non va frenata, ma gestita
e diretta, dicono i maestri orientali: "Si può evitare di far
bollire l'acqua premendovi sopra con forza il coperchio, o è meglio
togliere la pentola dal fuoco?".
L'operazione appena descritta viene regolarmente messa in atto dal conciliatore,
che lascia che l'acqua bolla e si limita a togliere la pentola dal fuoco
riportando i clienti al problema da risolvere e chiedendo, nei momenti di
maggiore pathos, se hanno sotto controllo la situazione o preferiscono prendersi
una pausa. Certamente se la collera viene espressa in modo positivo, in
un ambiente sicuro e controllato, spesso procura un effetto catartico e
ritemprante notevole, al contrario delle lunghe discussioni condotte a livello
razionale, con lo sforzo parallelo di celare qualsiasi impulso emotivo.
Una volta sfumata la collera è spesso possibile vedere le cose con
più chiarezza, ma è estremamente difficile non creare ulteriori
difficoltà dando libero corso alla propria rabbia in situazioni che
non siano protette dalla mediazione di una terza persona, come in conciliazione.
Come abbiamo precedentemente già potuto osservare più si è
incolleriti, più è difficile mantenere il proprio controllo,
quindi il mero limitarsi a sguinzagliare la propria rabbia non è
certo positivo; in effetti può aiutare a sentirsi meglio, ma ci sono
molte probabilità di far sentire ancora peggio l'oggetto della nostra
rabbia, e questo provocherà la sua reazione di timore, di difesa
o semplicemente reagirà con la stessa rabbia, o anche di più
forte.
Paolo, direttore capo di una società di pubbliche relazioni,
è noto per la sua irritabilità. 32
Tutte le volte che si arrabbia, e accade molto spesso, Paolo lascia libero
sfogo alla propria ira su chiunque gli capiti sotto tiro. Poi, tanto rapidamente
come gli è montata la rabbia se ne va e Paolo si sente molto meglio,
ma tutti gli altri stanno malissimo. I suoi impiegati hanno paura di lui
e lo detestano, di conseguenza l'atmosfera che regna negli uffici quando
lui è presente è veramente molto tesa. In questo caso l'espressione
della collera non rende certo più acuta e lucida la mente di Paolo,
si tratta semplicemente di sollievo dalla frustrazione. Fino a quando
Paolo non andrà a ricercare in se stesso la fonte della sua stizza,
continuerà a fare un uso distruttivo e non costruttivo delle proprie
emozioni.
Molte volte la nostra collera è dovuta al fatto che siamo stati
feriti, possiamo essere consapevoli di ciò che ci ha fatto soffrire,
oppure possiamo aver represso l'origine di questo dolore. Una volta che
ci saremo rimessi in contatto con quel dolore, potremo scegliere un grande
numero di vie costruttive e sane per dar sfogo ai nostri sentimenti.
Vediamo l'esempio di Stefano, project manager per l'Italia di una compagnia
aerea americana da otto anni. 33 La sua
scheda professionale segnalava valutazioni eccellenti e si è sempre
trovato molto bene sia con i suoi colleghi che con i superiori. Poi un giorno
è arrivata Silvia, il suo nuovo capo e sono subito cominciati i guai.
Lo stile dominante e aggressivo di Silvia si è subito scontrato con
il comportamento più posato e meticoloso di Stefano. Lei è
abituata ad avere pronte le cose in fretta, mentre l'approccio di Stefano
è più riflessivo e metodico. Silvia ha impilato il lavoro
sulla scrivania di Stefano e nel frattempo lo ha criticato apertamente per
la sua lentezza. Molto presto Stefano ha cominciato a temere il licenziamento.
Dopo aver raccolto queste poche informazioni, ho chiesto a Stefano se si
trattasse di una situazione conflittuale o di reciproca antipatia:
"Qual è la differenza?", chiede Stefano.
"Se si tratta di reciproca antipatia è un conto, ma se c'è
un reale conflitto in termini di obiettivi e di attese deluse, è
un'altra cosa", chiarisco.
"C'è certamente un conflitto in atto", replica Stefano.
"E quale può essere la base di questo conflitto?", domando.
"Quella str... vuole farmi licenziare", esplode Stefano.
"Torniamo un attimo indietro. E' un fatto reale? Ha ricevuto un'informazione
assolutamente sicura in proposito? O è una sensazione, una reazione
allo stile dirigenziale di Silvia?".
Stefano ammise che, anche se aveva la forte sensazione che Silvia stesse
cercando di rendere il suo lavoro così difficile che sarebbe stato
per forza costretto o a lasciare il lavoro o a farsi licenziare, non aveva
nessuna prova certa di questo suo sospetto.
"Passiamo oltre", riprendo, "Che cosa pensa di volere di
più in questa situazione?".
"Voglio tenermi il posto".
"E che cosa ancora?", chiedo.
Dopo aver riflettuto, "Voglio essere in grado di lavorare a modo mio,
e vorrei essere trattato in modo umano".
"Nient'altro? Che cosa mi dice della possibilità di migliorare
il rapporto con Silvia".
Stefano ammise che sarebbe stato bello in teoria, ma, vista l'indole di
Silvia, aggiunse che sarebbe stato quasi impossibile riuscirci. Poi passammo
a discutere sul come riuscire a realizzare i suoi obiettivi, aveva le seguenti
possibilità: a) restare nella posizione attuale e cercare di forzare
i propri tempi e metodi lavorativi per adattarsi a Silvia; b) provare a
parlare con Silvia, per un accordo, anche informale e verbale, ma reciprocamente
vantaggioso. Dal momento che aveva sempre consegnato in tempo il suo lavoro
e aveva sempre ricevuto complimenti dai suoi superiori, Stefano non sentiva
né necessario, né possibile cambiare il suo stile personale.
"Sono fatto così, sono un pignolo e un perfezionista, ma sono
anche meticoloso e porto spesso il lavoro a casa per consegnarlo in tempo".
Quindi la decisione fu quella di cercare di discutere con Silvia.
Dunque Stefano è stato messo in grado di ammettere le proprie
paure e di scegliere una strategia per affrontare il conflitto con Silvia,
che rispondesse ai suoi bisogni e alle sue possibilità, valutando
le conseguenze strategiche della scelta fatta.
Per affrontare in modo costruttivo i conflitti è importantissimo
raccogliere informazioni sull'altro, vedremo in seguito che però
non occorrono informazioni qualsiasi, ma determinate informazioni. Ci
sono infatti informazioni inutili al fine di risolvere la controversia
e informazioni inutili o dannose. Osserviamo, nel testo che segue, come
raccogliere informazioni utili nel caso di Stefano, dal momento che ha
deciso di affrontare la cosa il più obiettivamente e coscienziosamente
possibile.
Stefano ha deciso che il modo migliore per avere le informazioni di
cui ha bisogno è di parlare a qualcuno che conosce Silvia e che
abbia già lavorato con lei. Ha telefonato a Elisabetta e le ha
chiesto di uscire insieme a pranzo.
STEFANO: Elisabetta, ti ho invitata a pranzo perché, e spero che
questo non ti sorprenda, ho delle difficoltà con Silvia Verdi.
ELISABETTA: Silvia, eh? Povero te.
S.: Sono arrivato al punto di temere per la mia salute. Penso che anche
Silvia si sia accorta delle mie difficoltà in proposito. Quindi
mi chiedevo se puoi concedermi un po' di tempo per ascoltare che cosa
sta succedendo.
E.: Certo.
S.: Vorrei anche discutere con te alcune idee, e sarebbe bello poter avere
da te, che hai più esperienza e che conosci bene Silvia, informazioni
utili. Cosa ne dici?
E.: Sono contenta di poterti aiutare.
S.: Dunque, volevo dirti che il mio scopo non è quello di avere
da te informazioni da utilizzare "contro" Silvia. Anche se c'è
stato un momento in cui avrei voluto metterle le mani addosso, quando
entrava nel mio ufficio lanciando grida e bestemmie nei miei confronti.
E.: Sì, so che fa così a volte.
S.: Ho sentito l'istinto omicida nascere in me, ma per fortuna adesso
mi è passata e voglio veramente trovare un modo per lavorare con
lei senza sentirmi frustrato e offeso, altrimenti non riesco più
a far bene il mio lavoro e ci tengo tantissimo al mio lavoro. Voglio che
comunque tu sappia che non mi interessa che tu mi riveli informazioni
confidenziali o che non ti senta di condividere con me.
E.: Beh, grazie.
S.: Bene, allora dimmi di Silvia, delle sue qualità positive.
E.: Nella mia esperienza mi sembra che con Silvia sia molto difficile,
soprattutto all'inizio perché lei è insicura di carattere,
ma poi...
S.: Insicura? Come?
E.: Sai, è appena rimasta vedova. Lo sapevi?
E.: No, e quando è stato?
S.: L'anno scorso. Era stato un lunghissimo matrimonio felice, credo che
lei e il marito avessero fatto il liceo insieme. Sai un incidente d'auto.
Comunque fa molta fatica a superare il lutto e ad occuparsi da sola del
figlio.
E.: Quanti anni ha suo figlio?
S.: Vediamo, dovrebbe avere nove anni adesso. Quindi, è naturale
che sia stressata, e in più sai cosa vuol dire lavorare per questa
compagnia aerea. Sono tutti lì con gli occhi puntati sul profitto.
A livello dirigenziale si ha sempre paura di un trasferimento o di un
licenziamento. E adesso che è rimasta sola ha ancora più
bisogno di lavorare, quindi sarà tremendamente sulle spine fino
a quando non sentirà di aver assunto il completo controllo del
suo nuovo territorio.
E.: Io ho avuto degli scontri personali con Silvia per il mio modo di
lavorare. Tendo ad essere molto metodico, lento e accurato, e lei è
più svelta, rapida e vorrebbe le cose pronte per ieri. Voglio dimostrarle
che posso fare un ottimo lavoro, ho sempre ricevuto molti complimenti
sul mio rendimento. Ma mi sembra che voglia forzarmi ad adottare il suo
modo di fare e io non posso cambiare il mio modo di essere. Quindi vorrei
parlargliene ma non so quale sia il modo migliore. Mi dai qualche consiglio?
S.: Quello che devi fare è affrontarla in un momento in cui è
più rilassata, che tra l'altro potrebbe essere nel primo pomeriggio,
quando fa la pausa per il caffè. Io le direi esattamente quello
che hai detto a me. Perché Silvia è una persona che ama
andare subito al punto e ha l'intelligenza per capire subito di che si
tratta. Penso che sia una buona persona, ci sono stati momenti in cui
mi ha veramente aiutata ad affrontare situazioni difficili. Ma non penso
che si renda veramente conto di quando è nervosa e diventa insopportabile.
Ed è talmente preoccupata di perdere il nuovo incarico e di venir
ripresa dai suoi diretti superiori, che al momento non credo che abbia
sufficiente fiducia in te.
E.: Fammi vedere se ho ben capito quello che mi hai detto. Il momento
migliore per parlarle è nel primo pomeriggio, durante la pausa
del caffè. E poi devo semplicemente esporle il mio problema?
S.: Sì.
E.: Suggeriresti di entrare direttamente nel suo ufficio, o di scriverle
prima un appunto o una lettera ufficiale?
S.: Puoi mandarle un promemoria, se ti senti più a tuo agio. Ma
penso che non ci sia nessun pericolo ad andare direttamente nel suo ufficio,
mentre sta bevendo il suo caffè, e dirle che ti piacerebbe parlarle,
quando ha un momento, di qualcosa di importante.
E.: Ci sono altri episodi simili al mio che tu ti ricordi e che possono
averti fatto capire che cosa sia più utile che io faccia, o non
faccia?
S.: Aspetta che ci penso. Non è la prima volta che Silvia ha attraversato
situazioni simili. Le è già successo con Giovanna Rossi
dell'archivio informatico.
E.: Che cosa è successo allora?
S.: Giovanna è andata dall'ingegner Bianchi che l'ha convocata
in sua presenza per riprenderla.
E.: Che cosa pensi che abbia imparato Silvia da quell'esperienza?
S.: Non penso che abbia imparato la lezione, e forse è per questo
che è stata trasferita al tuo settore. Ma comunque mi ricordo che
quell'incidente la fece innervosire parecchio, perché lei ha sempre
paura dell'opinione dei suoi superiori, quindi è "uscita di
testa" quando Giovanna ha mandato una lettera al Bianchi.
E.: Mmmmh. Questo mi dice che sarebbe meglio non scriverlo il promemoria,
perché potrebbe andare a toccare una ferita ancora aperta. Potrebbe
aver paura che anche io mi possa comportare come Giovanna.
S.: Già, capisci?
E.: Quindi è meglio che dica qualcosa tipo: "Mi sento molto
ansioso e preoccupato del mio rendimento, te ne vorrei parlare e vorrei
chiarire le nostre divergenze prima che crescano a tal punto da sfuggirci
di mano".
S.: Mi sembra che vada bene.
E.: Perfetto! Ascolta, Elisabetta, ti sono veramente grato per quanto
stai facendo per me. E senti, non mi sembra che sia probabile, ma se Silvia
venisse a chiederti qualcosa di me, dille pure di questa conversazione.
Non voglio fare niente di scorretto o in segreto.
S.: Lo so, e spero che funzioni. Fammi sapere.
Abbiamo potuto osservare nel dialogo tra Stefano e Elisabetta come è
possibile trasformare la collera in un atteggiamento positivo per noi
e per gli altri, e raccogliere informazioni utili per affrontare la persona
con cui siamo in conflitto pensando a costruire intorno a noi relazioni
sincere e, se possibile, positive. Ha dichiarato apertamente le sue intenzioni
e ha dato a Elisabetta l'opportunità di decidere se rispondere
alle sue domande o ritirarsi semplicemente. Ha cercato al più possibile
di mantenersi obbiettivo ed imparziale nel descrivere la situazione (cercando
di mettersi anche nella posizione di Silvia), ha chiesto soprattutto informazioni
e non impressioni o sentimenti così si è tenuto al sicuro
da pettegolezzi e schieramenti, e ha domandato quali fossero le buone
qualità di Silvia per avere un quadro completo e informato della
situazione e per rivalutare Silvia come persona. Infine ha controllato
con Elisabetta di avere ben capito ciò che gli ha detto o che intendeva
suggerirgli, evitando di far nascere fraintendimenti a discapito proprio
o di Elisabetta. L'aver saputo che Silvia e fondamentalmente una brava
persona ma che è insicura e che, oltre ai problemi personali, è
stressata da pressioni lavorative, lo ha aiutato a simpatizzare un po'
di più con lei e a ridurre le sue difese. Ha scoperto il momento
e il modo migliore per affrontarla e quale è meglio evitare, e
il fatto che in passato sia stata vicina a Elisabetta e ad altri gli ha
dato buone speranze per tentare di risolvere positivamente la situazione.
Alle due del pomeriggio Stefano vede Silvia andare presso il proprio
ufficio con il caffè, fa un bel respiro, si fa il segno della croce
e bussa alla porta dell'ufficio di Silvia.
STEFANO: Ciao Silvia, posso entrare?
SILVIA (sospettosamente): Sì entra!
ST. (sedendosi): Come stai oggi?
SIL.: Bene. Mi prendo una pausa dopo il pranzo. Bene, cosa posso fare
per te?
ST.: Non voglio portarti via troppo tempo, ma mi chiedevo se avessi dieci
minuti per parlare con me.
SIL.: Ho sempre dieci minuti a disposizione per questo, lo sai che fa
parte delle politiche aziendali e io ci tengo ad essere una buona rappresentante
della nostra compagnia. Spara!!!
ST.: Senti Silvia, ultimamente ho sentito molta la tensione tra noi. Ho
la sensazione che tu abbia delle riserve sul mio modo di lavorare.
SIL.: Esattamente, sei troppo lento con la tua mania di ricontrollare
le cose mille volte, e mi fa piacere che te ne sia accorto.
ST.: Mi chiedevo se tu potessi dirmi qualcosa di più di sulle tue
impressioni e su ciò che ti aspetti da me.
SIL.: Molto volentieri. Come manager di questa compagnia voglio essere
sicura di fare al meglio il mio lavoro, e voglio essere sicura che tutti
in questa sezione lavorino al massimo delle loro possibilità e
della loro efficienza, tutti dobbiamo ottenere ottimi risultati. Il nostro
rapporto deve sempre essere emesso con puntualità. Questo è
il mio modo di lavorare ed è molto importante per me, mi segui?
Bene, una delle cose che ho notato subito è che tu, in confronto
agli altri di questa sezione, sembra che stia lì a perder tempo.
Sono preoccupata che a lungo andare questo tuo atteggiamento nuocerà
all'intero settore e io, se non faccio qualcosa per impedirlo, sarò
acqua passata.
ST.: Bene, mi fa piacere constatare che la tua impressione derivi dal
tuo desiderio di eseguire al meglio il tuo lavoro. Comunque, io faccio
questo lavoro da ormai più di sei anni. Ho ottenuto dei complimenti
ufficiali per il mio lavoro, che è stato giudicato come veramente
eccellente. Mi può servire più tempo rispetto agli altri,
ma questo è perché io ho la tendenza ad essere più
scrupoloso rispetto alla maggioranza delle persone. Per questo potrai
veramente contare sulla qualità del lavoro che ti verrà
consegnato da parte mia. Ma, ora come ora, sento che da parte tua c'è
una certa mancanza di fiducia nei miei confronti. Questo mi innervosisce
parecchio, e volevo parlartene per vedere se riuscivamo a risolvere la
situazione a vantaggio di entrambi.
SIL.: Beh, mi fa piacere che tu sia venuto a parlarmene oggi. Vorrei chiarire
che nel poco tempo che sono stata qui e da quello che ho osservato finora
non posso farti nessuna critica sulla qualità del tuo lavoro. Il
mio scontento nasce dalla quantità di tempo che tu utilizzi per
farlo e dal sapere che ci sono delle scadenze che temo di non poter rispettare.
Fino a quando la qualità del tuo lavoro continuerà a reggere,
presumo che la qualità sia la cosa più importante.
ST.: Mi puoi dire come pensavi di risolvere questa situazione?
SIL.: Certo. Voglio essere sicura che le tue lungaggini non finiranno
per procurarmi un ulcera, quindi voglio sapere con certezza che il lavoro
che ti consegno, che non è certo di più di quello che do
da fare agli altri, sarà sulla mia scrivania quando voglio che
sia sulla mia scrivania. Sai che odio perder tempo su queste cose.
ST.: Quindi quello che stai dicendomi è che se io consegnerò
il mio lavoro in tempo per le scadenze non ci saranno più problemi
tra noi.
SIL.: Esatto, e per maggior chiarezza, non voglio che tu mi consegni i
rapporti all'ultimo minuto. Voglio avere l'opportunità di prenderne
visione prima di inviarli.
ST.: Forse non stavo tenendo in considerazione questa cosa. Con il precedente
direttore avevo una relazione di lavoro diversa. D'accordo quindi, cercherò
di farti avere il lavoro per quando ne avrai bisogno. Adesso ti vorrei
parlare di una cosa di cui anche io avrei molto bisogno, ossia di non
sentirmi esageratamente sotto pressione. Ho la sensazione che tu mi abbia
dato molto lavoro extra. Questo probabilmente perché volevi che
io lavorassi di più. Ma io mi stresso tantissimo in queste situazioni
e finisco per diventare ancora più lento per paura che qualcosa
di importante mi possa sfuggire.
SIL.: Mmmh, mi sembra di averti dato da fare tanto quanto agli altri.
Ma forse sono stata un po' più dura con te. Non so, non era mia
intenzione. Farò così: controllerò quello che ho
chiesto di fare agli altri e quello che ho chiesto a te. Farò il
confronto e, se risulta che hai ragione, farò delle correzioni.
ST.: Mi sembra giusto.
SIL.: Ma non ti prometto niente! Se risulta che non era il caso, e mi
hai fatto perdere tempo per niente...
ST.: Non sarà così, vedrai! Un'altra cosa di cui volevo
parlarti è l'incontro di staff della settimana scorsa, mi sei "saltata
in testa" davanti a tutti.
SIL.: Non è vero! Che cosa ti avrei detto?
ST.: Beh, tu mi hai detto...
SIL.: Sarà meglio che tu sia in grado di provare un'affermazione
simile. Considero di essere un ottimo direttore e un buon direttore non
se ne va in giro dicendo cose simili. Forse sei tu che sei un po' ipersensibile.
ST.: Diversi altri colleghi hanno commentato l'accaduto con me, quindi
non credo che si tratti della mia immaginazione.
SIL.: Mmmh. Guarda, lasciami riflettere sugli appunti dell'incontro, ma
ti voglio assicurare fin da subito che non era mia intenzione offenderti
o sminuirti. Credo nella franchezza, ecco tutto!
ST.: Tutto ciò mi sembra onesto da parte tua, Silvia. Bene, non
penso di avere altro da dirti. Volevo solo che tu sapessi quanto io ami
il mio lavoro e che ci tengo a farlo bene. Mi piacerebbe molto che noi
due si andasse d'accordo.
SIL.: Allora siamo sulla stessa lunghezza d'onda, perché questo
è quello che voglio anch'io. Vuoi un caffè?
Esiste un meccanismo di adattamento naturale alle relazioni, se attacchiamo
qualcuno, questi si pone sulla difensiva, ma se spezziamo questo automatismo?
Silvia in principio era sulle difensive, ma realizzando che Stefano non
stava attaccandola personalmente, ma cercava di svolgere al meglio il
suo lavoro e che voleva migliorare il suo rapporto di collaborazione,
si è potuta rilassare ed è stata in grado di rispondere
positivamente alle sollecitazioni di Stefano e di aprirsi. Stefano ha
adottato un'ottima strategia per raggiungere i suoi obiettivi.
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Non è facile operare in qualità di conciliatori, spesso
le persone sono molto in collera e la collera le rende scortesi e irragionevoli.
Proprio perché sono così arrabbiate, irragionevoli e scortesi
può essere difficile ricordare che: "Spesso le persone sono
migliori delle situazioni in cui si trovano". Questa frase che spesso
viene utilizzata nella formazione statunitense, deve portarci a guardare,
come conciliatori, oltre la collera delle persone. Come fare per non lasciarsi
andare ad un giudizio affrettato sulle responsabilità reali, legali
e morali delle parti e continuare a considerare queste persone con lucidità,
aiutandole a trovare da sé le basi per un accordo reciprocamente
vantaggioso? Occorre "trattare" la loro collera, per prima cosa.
Abbiamo già visto numerosi suggerimenti sul processo di auto-consapevolezza
che si può fare insieme al singolo nei casi di consulenza, o anche
insieme ad entrambi nei casi di conciliazione. 34
Vedremo ora come fare per gestire la collera dei partecipanti alla conciliazione,
prima ancora di aver dato inizio al processo di conciliazione, per farla
diminuire e ottenere la fiducia delle parti.
Occorre ricordare che chi è in collera pensa di aver subito un
torto o un danno di qualche tipo: si sente frustrato per il fatto aver
lasciato che gli accadesse qualcosa che lo ha danneggiato, indipendentemente
dal fatto che si tratti di un danno fisico o di un danno psicologico o
morale, oppure potrebbe sentirsi accusato ingiustamente di aver procurato
un danno. Dal suo punto di vista chi è in collera ha subito un
torto ed è stato trattato ingiustamente, quindi chiede una riparazione
al torto che ritiene di aver subito.
Per avere successo nel sedare la collera, proteste, lamentele, o reclami,
vanno trattati come se fossero validi. Ciò non significa dare per
scontato che chiunque sia incollerito debba ottenere solo per questo soddisfazione
a tutte le sue richieste, anche le più bizzarre. Semplicemente
vuol dire che verrà trattato con rispetto e comprensione.
E' relativamente semplice affrontare e gestire trattative che vedono persone
ragionevoli e serene discutere di soluzioni ponderate, che considerano
il migliore interesse di tutte le parti in gioco e che adottano metodologie
e strategie adatte a perseguire il loro migliore interesse reciproco.
Diverso è trovarsi di fronte a persone in collera, che strillano,
gridano critiche e osservazioni umilianti, e mantenere la calma, o non
consumare eccessive energie nello sforzo di tenere sotto controllo la
situazione, o ancora non uscirne emotivamente esausti. Dunque occorre
affrontare e sedare la collera delle parti al più presto possibile
nelle trattative.
E' importante ricordare che la collera può manifestarsi sotto altre
forme 35, non altrettanto riconoscibili
come quella appena menzionata; in genere, il comportamento collerico può
essere suddiviso in tre categorie 36
concernenti il comportamento passivo di chi lascia che le circostanze
controllino le proprie reazioni, quello di coloro che invece sono più
portati a voler risolvere i problemi, nonostante le emozioni che stanno
provando, che potremmo definire razionale, ed infine il comportamento
aggressivo di cui prima abbiamo già accennato (per la descrizione
comportamentale durante le trattative osservare la tabella alla figura
7).
Spesso chi è passivo non reclama per il torto subito o per il suo
disagio, e quando lo fa può essere difficile capire che si tratta
di una persona emotivamente turbata (spesso se interrogati direttamente
in proposito negano di essere o di essersi mai arrabbiati). Può
darsi che il passivo dimostri la propria collera solo nel tono che sta
usando: pacato e riluttante a dare informazioni, oppure può darsi
che si serva dello humour o del sarcasmo. Quello che è certo è
che una persona che esprime la propria rabbia attraverso un comportamento
passivo può arrivare nel tempo a nuocere profondamente al suo nemico,
attraverso tattiche come sabotaggio, passaparola negativo, assenteismo
o scarso rendimento, e boicottaggio a seconda delle situazioni e delle
opportunità; può essere molto più distruttivo di
chi esprime la propria rabbia con aggressività, ma dal momento
che non strilla, non grida, né cerca di far tacere gli altri, raramente
ci si sforza di calmare queste persone. Possono finire per adottare un
comportamento conflittuale da sfuggenti o da congelatori, oppure anche
da remissivi (se vedono di essere in posizione di debolezza), ma certamente
i passivi durante le negoziazioni non sono pronti ad affrontare il conflitto.
A causa della collera non possono essere aperti e onesti, quindi portano
la conciliazione a continui cambi di programma, a ripensamenti e colpi
di scena, e spesso al fallimento, in quanto non partecipano per risolvere
il problema ma per acquisire informazioni da sfruttare altrove o in altri
contesti dove pensano di potersi vendicare o proteggere meglio. Quindi
è importante che il conciliatore dedichi ai passivi la propria
attenzione iniziale e che li aiuti a far scendere il livello della collera
o frustrazione, quindi lavori con loro sull'opportunità di affrontare
il conflitto in atto direttamente (come abbiamo osservato negli esempi
ai paragrafi precedenti).
PASSIVO
|
RAZIONALE
|
AGGRESSIVO
|
Silenzio,Mancanza di coinvolgimento |
Dichiara sentimenti e bisogni |
Attacca l'altro |
Si arrende troppo presto |
Pone domande reciproche |
Interrompe in continuazione |
Permette le interruzioni |
Parla per se stesso |
Subordina |
Permette la propria stereotipizzazione |
Evita epiteti |
Utilizza stereotipi |
Non mantiene il contatto degli occhi |
Mantiene il contatto degli occhi |
Lancia occhiate di sfida |
Postura dimessa |
Postura aperta |
Postura invadente |
Trattiene informazioni opinioni, sentimenti |
Rivela informazioni opinioni, sentimenti |
Nasconde informazioni opinioni, sentimenti |
Ascolto inefficace o selettivo |
Ascolto efficace |
Ascolto selettivo |
Indecisione e ripensamenti |
Capacità di prestare attenzione alle opzioni |
Volontà di dominare |
Spiacente o, volte sarcastico |
Esamina interessi e bisogni |
Chiassoso, abusante, colpevolizzante e sarcastico o offensivo |
Mancanza di confidenza e utilizzo dello humour in senso difensivo |
Confidenza |
Eccessiva confidenza |
Passività |
Assertività |
Aggressività |
Percezione del conflitto come negativo |
Percezione del conflitto come opportunità |
Percezione del conflitto come lotta |
Nasconde |
Coopera |
Compete |
|
|
|
Fig. 7 Categorie di espressione della colle
A volte si ha la rara fortuna di incontrare persone che esprimono la
loro collera in modo razionale, ovvero persone che sono naturalmente portate
ad affrontare i problemi per trovare soluzioni ottimali e reciprocamente
vantaggiose. In genere si tratta di persone che ci fanno sapere di essersi
adirate, ma che hanno un buon autocontrollo, e che si aspettano di poter
risolvere i loro problemi, restano razionali e rispondono rapidamente
alle sollecitazioni positive della controparte o, in mancanza, del conciliatore,
non appena si convincono che quella della conciliazione possa risultare
la strada migliore da intraprendere.
Infine troviamo l'aggressivo, che tutti noi identifichiamo a prima vista
e che talvolta temiamo. In genere è utile ricordare che il comportamento
aggressivo può essere controllato e gestito. Tuttavia occorre distinguere
le cosiddette "persone difficili" vere e proprie, dalle persone
che si trovano in una situazione difficile, come già osservato.
La persona veramente difficile può darsi che sia così fin
dalla sua infanzia, quando ha appreso che riusciva ad averle tutte vinte
se si mostrava offensiva e dura. Essendo un comportamento premiante, non
ha mai smesso di adottarlo. In genere queste persone controllano benissimo
la propria collera, ma non vogliono affatto darlo a vedere al proprio
antagonista. Reagiscono al conflitto con un atteggiamento da attaccanti-difensori
e usano la collera come un'arma.
Vediamo un esempio di una persona difficile in una caso di mediazione
familiare. 37
Manuela 38 accettò con riluttanza
il consiglio del proprio avvocato di cercare un accordo con l'ex-marito,
dichiarando che fosse tempo perso e aggiunse di temere per la sua incolumità
a causa del comportamento prepotente del marito. Enzo infatti fin dai
primi minuti della seduta mostrò un atteggiamento aggressivo, minacciando
Manuela, gridando, alzandosi e arrivando col pugno chiuso a sfiorarle
l'orecchio. Manuela assunse anch'essa fin dall'inizio un atteggiamento
passivo, ma quando Enzo la sfiorò col pugno, quasi trionfante,
disse al mediatore familiare: "Vede? Glielo avevo detto che è
impossibile!". Il mediatore sorridendo con calma fece notare a Enzo
che nessuno nella stanza fosse sordo e che quindi non era il caso di alzare
la voce, e aggiunse: "Credo che voi siate delle persone decisamente
migliori rispetto alla situazione che adesso vi trovate a dover affrontare
e che vogliate veramente bene a vostro figlio. Sono sicura che siete qui
per questo, per trovare il modo di crescere vostro figlio con affetto
e nel migliore dei modi possibile". Quindi il mediatore chiese ad
Enzo se gli fosse possibile spiegare di nuovo con calma che cosa intendesse
dire alla moglie, ed Enzo lo fece. Durante la seduta Enzo alzò
ancora un paio di volte la voce con la moglie, che in passato aveva sempre
ceduto di fronte alle minacce, ma accompagnò la cosa ad una strizzatina
d'occhio e senza alzarsi più in piedi, segnalando al mediatore
di avere la situazione perfettamente sotto controllo. Certamente Manuela,
dovette in seguito imparare a non farsi più intimorire dalle sfuriate
e a imporsi per ottenere la sua serenità, ed Enzo dovette imparare
altri modi per rapportarsi a lei ed ottenere soddisfazione alle proprie
richieste. Ma le trattative non furono meno difficili per Enzo, che per
Manuela, o il mediatore.
Le persone difficili, come precedentemente osservato, hanno adottato
il comportamento aggressivo come un cliché che permette loro o
di mascherare il loro senso di impotenza, o di ottenere quasi tutto ciò
che desiderano raggirando, intimidendo e tenendo sotto controllo gli altri,
perciò in genere sanno come controllare la propria emotività
e possono lucidamente agire in modo aggressivo, anche senza necessariamente
essere veramente incolleriti. Quindi i tentativi per "calmare"
queste persone non risulteranno efficaci perché piuttosto inutili,
occorrerà invece che il mediatore agisca sulla loro autostima,
sull'oservazione delle conseguenze del loro atteggiamento, e sulla loro
volontà di ottenere un accordo veramente vantaggioso e duraturo.
Ottenere la collaborazione di una persona difficile è possibile,
ma il suo comportamento aggressivo potrà essere una costante durante
le negoziazioni.
Le persone aggressive a causa della situazione che stanno affrontando
e che quindi sono preda della propria collera sono apparentemente più
indomabili, ma possono essere ricondotte alla ragione (con più
o meno pazienza, o tempo). In genere, una volta contenuta la loro emotività,
sono in grado di arrivare a prendere in considerazione il punto di vista
dell'altro e a proporre per primi delle soluzioni reciprocamente vantaggiose.
Riassumendo, prima di poter identificare l'eventuale problema da risolvere
nel conflitto, la sua causa e la sua soluzione, è necessario prima
calmare la collera che i clienti stanno provando.
Infine occorre prendere in considerazione un'ulteriore situazione difficile
che si potrebbe venire a creare a causa del conciliatore stesso. Ricordiamo
che, dal momento che la collera è un sistema per ottenere il controllo,
col suo comportamento chiassoso, maleducato o anche offensivo, la persona
aggressiva sta cercando di assumere il controllo della trattativa. Perché
ha questa necessità? Sente forse di essere insufficientemente preso
in considerazione, anche dal conciliatore? E' possibile che stia chiedendo
maggiore spazio per esprimere le proprie esigenze o le proprie paure,
ma che non si senta sufficientemente sicuro o accettato per poterlo fare.
E' molto facile, di fronte a persone in lite, lasciarsi avvincere dalla
soluzione del problema "formale" così come riportato
dalle persone, occorre invece ricordare che il conflitto potrebbe essere
più complesso e che non è raro imbattersi in intenzioni
nascoste e in emozioni antiche che non solo non sono mai state espresse,
ma che i contendenti hanno anche buona cura di celare. Dal momento che
il conciliatore lavora per la possibilità che i contendenti intreccino
accordi soddisfacenti, non è positivo evitare di affrontare il
conflitto vero e proprio, occorre scoprire le loro paure e cercare di
soddisfare i loro bisogni. Come sovente viene ripetuto dai conciliatori
negli Stati Uniti: "Le persone sono più importanti della soluzione
dei problemi!". Ciò significa che è meglio che i conciliatori
si dedichino prima alle persone e al loro stato d'animo, poi, insieme
a loro, potranno passare al problema concreto da risolvere.
Che cosa è immediatamente d'aiuto per gestire le emozioni negative
delle persone? Per prima cosa è importante saper ascoltare, ovvero
consentire loro di "sfogarsi", di dire la causa del problema
dal proprio punto di vista, ricordando che nella fase della collera, emozioni
ed esagerazioni possono oscurare i veri motivi che hanno condotto al conflitto.
In questi momenti non è utile correre subito ai fatti, ma è
meglio restare con la persona e le sue emozioni o preoccupazioni, ci sarà
tempo in seguito per appurare i fatti. Perciò nella fase iniziale
è meglio dedicarsi alla persona, a ciò che pensa, a ciò
che ritiene sia accaduto, il tutto cercando ovviamente di ancorarla alla
realtà e spingendola ad analizzare sé stessa e il conflitto
in atto (osservare il dialogo iniziale all'esempio di Stefano). Ascoltare,
come abbiamo visto è un'abilità che permette di gestire
i conflitti con buone possibilità di risolverli positivamente.
39
Molti ritengono di saper ascoltare bene, ma vi sono motivi oggettivi connaturati
alla nostra struttura fisica per cui in realtà è difficile
saperlo fare: dal momento che la velocità di espressione vocale
è di media di 125 parole al minuto e quella di ascolto è
di media di 500 parole al minuto, è molto difficile focalizzare
l'attenzione e concentrarsi su quanto viene detto. La nostra mente, che
funziona a grandissima velocità, è sempre in movimento e
affollata di pensieri e sensazioni da selezionare e classificare, di conseguenza
è quasi automatico trarre conclusioni non approfondite, approntare
le nostre difese e tracciare pregiudizi e, se l'interlocutore diventa
prolisso o insistente, preoccuparsi del tempo necessario per risolvere
la questione, o distrarsi pensando ad altro, a cose personali o più
piacevoli. Quanto tempo occorrerà allora perché il nostro
interlocutore abbia la sensazione di essere stato capito? In più,
la nostra fretta interiore sta consentendo a chi sta alterandosi sempre
più, di farci conoscere il motivo della sua frustrazione o della
sua collera? Pensiamo a noi stessi; quanto fastidio ci darebbe, nel momento
in cui fossimo già a disagio e temessimo per i risultati delle
nostre trattative, essere gestiti da una persona distratta o che taglia
corto arrivando a conclusioni che dimostrano la sua disattenzione nei
nostri confronti?
Ci si può "allenare" all'ascolto, e imparare a concentrarsi
meglio.40 Il conciliatore ha il compito
di accogliere e gestire la confusione emotiva dei clienti, non può
permettersi di aggravarla per incapacità o distrazione. Quando
una persona si rivolge con rabbia anche al conciliatore è perché,
con tutta probabilità, sente la necessità di trovare qualcuno
che si premuri di ascoltare veramente, qualcuno che non dia l'impressione
di "lavarsene le mani" o di ricavare conclusioni affrettate.
La fretta può nascere dall'affollamento mentale e, se porta a non
ricordare che cosa è stato fatto o detto in precedenza o a dimenticare
di fare cose ritenute importanti, allora occorrerebbe rallentare e semplificare.
E' un consiglio da seguire non solo per migliorare la qualità della
propria vita, ma soprattutto per migliorare la qualità del proprio
lavoro e per facilitare il rapporto con gli altri.
La fretta e la distrazione del conciliatore vengono lette dai clienti
come cattivo ascolto o scarsa preparazione, questo li induce a dubitare
che abbia ben capito ciò che vogliono o che temono e il risultato
sarà che il loro disagio, invece di diminuire crescerà.
Di conseguenza, riterranno opportuno insistere ancora, incollerirsi, in
pratica cercheranno di riprendere il controllo globale della seduta. Può
accadere dunque che i clienti generino la propria collera nei confronti
del conciliatore e della situazione vissuta in quanto non si sentono affatto
in buone mani.
Il conciliatore, quindi, emette diversi segnali per far capire ai suoi
clienti che li sta ascoltando: cenni sonori di incoraggiamento, contatto
visivo e posizione del corpo (chi ascolta si protende verso chi parla),
domande di approfondimento, parafrasi di quanto appena ascoltato, e soprattutto,
a meno che non sia necessario interrompere una strategia controproducente
per il cliente, lascia che chi parla termini le sue frasi. Ottenere l'attenzione
del conciliatore durante le discussioni è importante per i clienti,
in quanto è il conciliatore ad orchestrare la comunicazione, quindi
il suo ascolto equivale alla sensazione di essere finalmente ascoltati
anche dall'altro. Se chi parla capisce di essere ascoltato e di avere
l'attenzione dei suoi ascoltatori, in genere perde la propria aggressività,
anche se può darsi che in seguito torni ad innervosirsi in relazione
ad argomenti "caldi" delle trattative, ma avrà comunque
già potuto verificare di trovarsi un ambiente in cui potersi esprimere
apertamente.
Un'altra cosa che può aiutare a far scendere il livello di collera
è riconoscere ad ognuno il diritto ad avere la propria opinione.
Nel mezzo di una discussione tra il proprietario di una tintoria e una
cliente il cui abito aveva subito dei danni l'uomo si rivolse al conciliatore
dicendo: "Ma le pare forse giusto che io mi metta a rimborsare il
prezzo pieno di un abito firmato solo perché si è rotto
un bottone?". La risposta del conciliatore fu, giustamente: "Lei
ha ogni diritto di pensare che non sia giusto, ma vede, per riuscire a
risolvere la sua controversia non ha importanza che lei convinca me. Se
non è d'accordo con la richiesta della signora, cerchi di farle
una proposta che dal suo punto di vista sia onesta e che la signora possa
accettare".
A volte si riscontra la tendenza a non voler veramente analizzare le
proprie responsabilità e ad arroccarsi su questioni di principio.
Nelle fasi iniziali di un incontro può quindi darsi che le persone
abbiano bisogno di essere rassicurate e di sapere che il conciliatore
è d'accordo con loro, almeno in linea di principio. Come possiamo
osservare nell'esempio il conciliatore non frustra questo bisogno, ma
lo rinforza e poi spinge il padrone della tintoria a considerare il punto
di vista della sua cliente, solo facendolo sarà in grado di fare
una proposta vantaggiosa per sé, ma che includa anche la soddisfazione
del bisogno espresso dalla signora e che quindi risulti per lei accettabile.
Il conciliatore dimostrandosi calmo, responsabile, lucido e attento, contribuisce
a instaurare quel clima che può consentire ai clienti di essere
più aperti e onesti verso se stessi.
Un cliente al termine delle sedute si confidò: "Sa, avevo
già conosciuto un suo collega, ma non ero rimasto perché
era così nervoso e irascibile che pensai che una persona così
non solo non avesse niente da insegnarmi su come risolvere il mio problema,
ma mi faceva sentire ancora più a disagio. Invece io l'ho interrotta
parecchie volte e lei mi ha sempre lasciato parlare tranquillamente, mi
è piaciuto molto".
Ci sono una serie di strategie che sarebbe meglio evitare in generale
durante le trattative, ma soprattutto quando si ha a che fare con persone
che sono in preda alla collera. La prima e più generale consiste
nell'evitare di polemizzare sui fatti, chi è adirato non considera
i fatti ma li utilizza per motivare la propria posizione, se desidera
essere ascoltato e capito, di fronte ad eccessive puntualizzazioni che
potrebbero sembrare mettere in dubbio la bontà delle affermazioni
fatte, potrebbe risentirsene ulteriormente. Meglio dunque ascoltare pazientemente,
e aspettare che la sua collera sia diminuita prima di esporre un punto
di vista differente. Sarebbe inoltre meglio evitare di chiedere "perché",
in quanto domande di questo tipo sollecitano risposte che esprimono uno
stato emotivo: pescano direttamente nei nostri filtri cognitivi (ad es.
voglio questo... perché è giusto, o perché è
ciò che mi avevano promesso, oppure perché è ciò
che io mi aspettavo, ecc.), e portano troppo bruscamente a dover ammettere
la propria responsabilità. Occorre ricordare che chi si sente accusato,
tende ad arroccarsi nella difesa della propria posizione e che quando
una persona si arrocca nella sua posizione, assumendo un atteggiamento
da congelatore, purtroppo le trattative avranno termine molto presto.
Evitare il discorso delle responsabilità è utile in qualsiasi
momento delle trattative, altrimenti le sedute si potrebbero trasformare
in una disputa su ragioni e torti, su sacrifici e sacrificati. Il vero
conflitto raramente viene affrontato in discussioni di questo tipo (si
ha infatti la sensazione di essere trascinati, senza vie d'uscita, nel
circolo vizioso delle reazioni a catena), infatti il gioco delle colpe
è un modo per evitare di farlo, inoltre il risentimento di chi
si sente ingiustamente "perdente" o vittima del comportamento
altrui può alimentare la conflittualità, e portarlo a vivere
questo processo di ricerca delle responsabilità come una ulteriore
violenza. Nel contesto della conciliazione occorre allontanare dai contendenti
il timore del giudizio, quindi evitare che si lascino andare in strategie
accusatorie, difensive e di potere il cui utilizzo non indirizza le trattative
alla condivisione e alla soluzione dei problemi, ma alla delega o a meccanismi
di ricompensa e punizione. Per lo stesso motivo e quindi anche per arrivare
a soluzioni pacifiche delle controversie occorre evitare di far "perdere
la faccia" ai contendenti. E' suggeribile interrompere sempre dinamiche
di questo tipo.
Il conciliatore può sempre interrompere la seduta e prendere da
parte individualmente il cliente, che sembra seguire strategie assolutamente
controproducenti, o avanzare richieste eccessive, o fare minacce su fondamento
legale fittizio. 41 Inutile sottolineare
che in questi casi è meglio evitare di fare ricorso al sarcasmo,
che sia nelle parole o sottinteso nel tono della voce, in quanto induce
a percepirsi umiliati, insultati o trattati con una mancanza generale
di rispetto. Quando le persone si sentono così le emozioni negative,
come l'irritazione, la frustrazione e l'antipatia, aumentano. Si otterrebbe
una maggior chiusura e difensività, e un aumento della collera
nei propri interlocutori, la strategia del sarcasmo, della denigrazione,
del rilevare gli errori commessi, di sviare il discorso, o dell'uso di
cliché (del tipo: "Chi è causa del suo mal.."),
sono tutte da evitarsi. Sono stratagemmi che in genere mettono in atto
quanti temono il conflitto e spesso sono legati alle dinamiche di potere
e di controllo.
Per finire altre due sono le strategie da evitarsi: evitare di saltare
subito alle conclusioni e utilizzare gergo tecnico. Nel primo caso è
sempre utile ricordarsi che occorre rispettare il timing delle trattative.
Conseguentemente all'aver tratto conclusioni affrettate potremo osservare
che i nostri interlocutori metteranno in dubbio la sincerità del
nostro interessamento e quindi finiremo con l'alienarceli, in più
impediremo loro di esprimersi apertamente. Come conseguenza, anziché
utilizzare le sedute per far emergere e gestire il conflitto vero e proprio,
si resterà sempre al livello formale delle trattative e la conflittualità,
non essendo stata affrontata e gestita, emergerà in un altro versante
della relazione. Un ulteriore motivo per arrivare a conclusioni affrettate
è che se la conclusione da noi tratta non fosse corretta, perderemo
credibilità. Per terminare ricordiamoci che un'altra fonte di imbarazzo
e quindi di frustrazione può nascere a causa dell'utilizzo di termini
eccessivamente ricercati o di gergo tecnico. A volte è possibile
esprimere concetti anche molto complessi con parole semplici, il saperlo
fare è la vera abilità di un buon negoziatore.
Concludendo la presente relazione, ricorderemo che è sempre utile
indirizzare le persone che stanno conducendo una trattativa a riflettere
sul loro vero interesse, e, in senso più generale, aiutarle ad
affrontare e gestire il conflitto vero e proprio, alla ricerca di una
soluzione che tenga in considerazione anche i bisogni dell'altro. Si segnala
inoltre che per approfondimenti sulle tecniche e le fasi della gestione
delle trattative di conciliazione, oltre a risultare utile la lettura
di testi specifici o del volume da cui è stato estratto il presente
intervento, è opportuna e consigliabile, sia per la tutela del
conciliatore, che per la buona riuscita degli interventi, la frequenza
ad appositi corsi di formazione professionale.
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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in G. Fisk (a cura di), The Frontiers of Management, New York Harper &
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e applicazione della gestione mediata dei conflitti aziendali e commerciali,
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Spaltro E. & Gabassi P.G. (a cura di): L'ordine, il disordine, la
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Spaltro E.: Pluralità. Psicologia dei piccoli gruppi, Pàtron
Ed., Bologna, II ed. 1993, pagg. 124-129.
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Note
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(1) La presente relazione è estratta dal volume
in pubblicazione presso la Casa Editrice Giuffré: "Introduzione
alla figura del conciliatore. Principi fondamentali e applicazione della
gestione mediata dei conflitti aziendali e commerciali".
Per approfondimenti personali sul tema è possibile consultare,
oltre ai testi nelle note:
Argytis C., Skilled incompetence, Arvard Busines Review, Sep-Oct, 1986,
74-79
Boulding K., "A Pure Theory of Conflict Applied to Organizations",
in G. Fisk (a cura di), The Frontiers of Management, New York Harper &
Row, 1964.
Costantino C.A. e Merchant C.S., Designing Conflict Management Systems,
San Francisco: Jossey Bass, 1996
De Bono E., Conflitti, Milano, Sperling & Kumpfler Ed., 1993
Fisher R., Beyond Macchiavelli. Tools for Coping with Conflict, Harvard
University Press, Cambridge, Mass, 1994
Kolb D.M. e Bartunek J.M. , Hidden conflict in organizations, Sage, Newbury
PArk, California, 1992
(2) Stefano Carta, La vita familiare. Struture, processi,
conflitti, Giufrè Ed. 1996, pag. 201
(3) Si riportano i risultati di una ricerca pilota svolta
per il Centro di Psicologia Giuririca dell'Università Cattolica
di Milano.
(4) Una bella trattazione sull'argomento, anche piuttosto
recente, è nel volume di Enzo Spaltro e Pier Giorgio Gabassi (a
cura di): L'ordine, il disordine, la guerra, la pace, Pàtron Ed.
Bologna, 1997.
(5) Per una trattazione esaustiva è interessante
il volume di Collins R., Conflict Sociology, New York Academic Press,
1975.
(6) Sigmund Freud, Opere, Boringhieri, Torino, 1967-1980.
(7) Debora Kolb e Linda Putnam: "Introduction: The
Dialectics od Disputing", in D.M. Kolb e J.M. Bartunek (a cura di),
Hidden Conflict in Organizations. Uncovering Behind-the-Scenes Disputes,
Sage Focus Ed., United States, 1992,pagg. 1-31.
(8) Pondy L.: "Reflections on Organizational Conflict".
Journal of Organizational, Change Management, 2, 1989, pagg. 94-98.
(9) Sarat A.: "The new formalism in disputing and dispute
processing". Law and Society, 21, 1987, pagg. 695-717.
(10) La reattazione completa si trova in Spaltro E.:
Pluralità. Psicologia dei piccoli gruppi, Pàtron Ed., Bologna, II ed.
1993, pagg. 124-129.
(11) Tratto e tradotto da: Fisher R., Kopelman E.,
Kupfer Schneider A., Beyond Machiavelli, Harvard University Press, United
States, 1994, pag. 84.
(12) Un particolare caso di dipendenza è rappresentato
dalla controdipendenza, quando cioé A dice a B di fare qualcosa e B fa
tutto tranne quello che gli ha detto di fare A, non perché non gli interessi
fare quella cosa lì, ma perché è stato A a chiederglielo e quindi anche
se ne avrebbe voglia non può farlo perché darebbe ragione ad A.
(13) Costantino C.A. e Merchant C.S.: Designing Conflict
Management Systems. A Guide to Creating Productive and Healthy Organizations,
Jossey-Bass Pub., San Francisco, 1996.
(14) Una buona trattazione sui meccanismi sociali,
i rapporti intergruppo e il nemico è possibile travarla in Castelli C.,
Quadrio A., Venini L. (a cura di),Psicologia sociale e dello sviluppo
, vol. 1, F. Angeli, Milano, 1994.
(15) Edelman J. e Crain M.B.: The Tao of Negotiation,
Piatkus, Harper Colling Pub. Inc., New York, 1993.
(16) I nomi sono stati modificati per rispettare l'anonimato
delle persone di cui si parla nell'esempio.
(17) Il feed-back, altrimenti definito anche come "informazioni
di ritorno", è un termine molto utilizzato nella psicologia dell'apprendimento
di gruppo e consiste nella reazione a quanto uno fa, esprime o dice, emessa
e ricevuta da altri allscopo di un apprendimento e di un miglioramento
individuale e di gruppo (n.b. perché il feed-back di chi ha ricevuto la
comunicazione sia buono, occorre apertura da parte di chi ha comunicato).
(18) I nomi sono stati modificati per rispettare l'anonimato
delle persone di cui si parla nell'esempio. Michela, che nell'esempio
si chiamerà così, conosceva lo Studio T.d.L. dell'autrice del presente
volume per aver già mediato la propria separazione coniugale.
(19) Edelman J. e Crain M.B.: The Tao of Negotiation,
Piatkus, Harper Colling Pub. Inc., New York, 1993.
(20) Quella che segue è una categorizzazione adottata
assai frequentemente nei corsi americani di formazione pratica per conciliatori,
la cui paternità è di difficile individuazione.
(21) E' verificazionista chi tende a cercare dati a
conferma della propria opinione di partenza per dimostrare che è vera,
ad esempio: "Se trovo le prove a dimostrazione che il nemico è malvagio,
il nemico è malvagio"; si distingue dal falsificazionista, che è invece
chi accetta che una cosa sia vera, solo dopo che non è riuscito a dimostrare
che è falsa, ad esempio: "Se non riesco in nessun modo a dimostrare che
il nemico è benevolo, allora è malvagio".
(22) Il materiale per la realizzazione della figura
è stato tratto da Dinaro C. e Novaga M.: Fondamenti di psicologia del
lavoro, Ed. Cortina, Milano, 1976.
(23) Buzzi I.: Tantra e sessualità, Ed. Atanòr, Roma,
1999.
(24) Il nome è stato modificato per rispettare l'anonimato
delle persone di cui si parla nell'esempio. L'autrice del presente volume
fu consultata in qualità di consulente.
(25) Il nome è stato modificato per rispettare l'anonimato
della persona di cui si parla nell'esempio.
(26) V. Kast: Processo di lutto e rituali di separazione,
relazione presentata al convegno annuale BAFM di Fruburgo il 19 marzo
1999.
(27) I nomi sono stati modificati per rispettare l'anonimato
delle persone di cui si parla nell'esempio. La figlia di Enza ha saputo
della conciliazione e, stanca delle telefonate serali tra la madre e Mariella,
ha chiesto alla madre di convincere Mariella a provare la conciliazione.
(28) Occorre distinguere due termini che spesso vengono
ritenuti interscambiabili. Un conto è la simpatia, ovverosia l'attrazione
istintiva verso persone, animali o cose, che porta a sentire pietà o dispiacere
per loro; altro è l'empatia, ovverosia la capacità di capire, sentire
e condividere i pensieri e le emozioni di un altro essere vivente o persona
in una determinata situazione, che consiste nel mettersi nei panni altrui.
(29) Per chiarimenti sulle teorie psicologiche relativamentie
alle emozioni un testo breve che fa una buona analisi è quello
di Nico H. Frijda: "Les theories des emotions: un bilan", in
B. Rimé e K.R. Scherer (a cura di), Les Emotions, Delachaux et
Nistle, Neuchâtel, CH, 2° ed., 1993, pagg. 21-72.
(30) Riportiamo quelle che Daniel Goleman, in Emotional
intelligence, della Bantam Books di New York (1995, pagg. 289-290, trad.
dell'autrice), ritiene universalmente note come emozioni fondamentali
e affini:
- collera, che raccoglie in sé: furia, furore, stizza, oltraggio,
risentimento, ira, esasperazione, indignazione, vessazione, acrimonia,
fastidio, irritabilità, ostilità e, all'estremo patologico,
odio e violenza
- tristezza, che raccoglie in sé: afflizione, pena, cordoglio,
dispiacere, sconforto, desolazione, umor nero, malinconia, compassione
di sé, solitudine, abbattimento, disperazione e, all'estremo patologico,
depressione grave
- paura, che raccoglie in sé: ansietà, apprensione, nervosismo,
preoccupazione, costernazione, diffidenza, dubbio, sospetto, cautela,
circospezione, patema, scrupolo, timore, soavento, orrore, terrore e,
all'espremo patologico, fobia e panico
- disgusto: disprezzo, sdegno, disdegno, scorno, scherno, orrore, avversione,
ripugnanza, antipatia, repulsione, revulsione
- vergogna onta, ignominia, onta, pudore, disonore, colpa, imbarazzo,
angoscia, rimorso, umiliazione, pentimento, mortificazione, contrizione
- sorpresa: stupore, shock, sbalordimento, meraviglia, ammirazione
- gioia: godimento, divertimento, felicità, sollievo, conforto,
contentezza, beatitudine, diletto, entusiasmo, divertimento, orgoglio,
fierezza, piacere sensuale, emozione, fremito, rapimento, gratificazione,
soddisfazione, euforia, scherzosità, estasi, e all'estremità
più lontana mania
- amore: accettazione, amicizia, fiducia, gentilezza, affinità,
devozione, adorazione, infatuazione, affetto.
(31) Buzzi I.: Tantra e sessualità, Ed. Atanòr, Roma,
1999; pag. 26.
(32) Il nome è stato modificato per rispettare l'anonimato
della persona di cui si parla nell'esempio.
(33) Tutti i nomi sono stati modificati per rispettare
l'anonimato delle persone di cui si parla nell'esempio. Si è trattato
di un caso di consulenza.
(34) Il processo vero e proprio di conciliazione è
effettuabile solo se tutte le parti incluse nella controversia accettano
di parteciparvi. Se uno dei confliggenti non accetta la conciliazione,
allora il conciliatore, se agisce privatamente, può offrire la propria
consulenza.
(35) Basta tornare a riflettere sugli stili conflittuali,
pur senza sovrapporre le due categorizzazioni, in quanto qui, nel comportamento
collerico, si vuole distinguere modi diversi di esprimere la propria collera
e non strategie conflittuali.
(36)Il testo più classico di riferimento è: Deutsch
M., The Resolution of Conflict:, Yale University Press, New Haven, 1956.
(37) Si tratta della conciliazione applicata alle controversie
legate alla separazione e al divorzio o alle controversie in ambito familiare.
Per approfondimenti: Haynes J.M. e Buzzi I., Introduzione alla mediazione
familiare. Principi fondamentali e sua applicazione, Giuffrè, Milano,
1996.
(38) La mediazione familiare è stata condotta in otto
sedute, alle quali è seguito un accordo parziale riguardante la cura e
l'educazione del figlio minorenne. I nomi sono stati modificati per conservare
l'anonimato delle persone citate ad esempio.
(39) Buona parte della formazione del conciliatore
viene infatti dedicata allo sviluppo di questa preziosa abilità.
(40) Gli orientali dedicano moltissima attenzione all'educazione
della mente e una delle tecniche più utilizzate a questo scopo è la meditazione.
La concentrazione meditativa permette per periodi sempre più lunghi di
tempo di mantenere la mente attenta e concentrata su un solo oggetto.
(41) Ad esempio può essere utile porre domande come:
"Scusi, ho la sensazione che ci sia qualcosa che io non capisco o che
io non so. Mi vuol chiarire questa sua richiesta?", oppure: "Forse lei
non ha ancora avuto modo di consultarsi con un legale per avere una visione
chiara dei suoi diritti e dei suoi doveri in questa situazione, che cosa
ne dice se aggiorniamo la seduta, dandole il tempo di farlo?", oppure
ancora: "Capisco quali siano i suoi bisogni e le sue paure in questa situazione,
ma la prego di non perdere di vista la realtà e il suo obiettivo. Se per
lei ottenere questa cosa è di fondamentale importanza, non si lasci distrarre
dalle emozioni".
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