Introduzione

3 WMF ITALIA 2000

IL MEDIATORE AVVOCATO

Annunziata Calfapietro

Relazione

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Country:
Italy

Language:
Italian


Innanzi tutto ringrazio per la amabile precettazione alla quale non poteva non far riscontro una pronta disponibilità, seppur preoccupata di deludere le aspet-tative degli organizzatori e dell'uditorio, dato che il mio intervento può trarre materia esclusivamente dalle esperienze da me fin qui maturate.

Non m'azzardo, infatti, a dissertare di mediazione: per apprezzarne significa-to e valore, a parer mio, bisognerebbe entrare nella stanza di mediazione. Rife-rirò, invece, del vissuto di un giovane avvocato che, alcuni anni fa, ha superato uno stato di insoddisfazione professionale, ritrovando, poi, stabilità proprio grazie alla mediazione.
Occupandomi a tempo pieno di separazioni consensuali, mi venne fatto di constatare che, a distanza di poco tempo dalla omologazione, le condizioni su cui i coniugi si erano accordati venivano da costoro del tutto contestate e disat-tese, pur senza che alcunchè fosse cambiato dal momento della presentazione del ricorso; sicchè i separati ne invocavano la modifica, ritenendole ingiuste, incongrue, addirittura inique, senza che, però - e la cosa mi provocò sconcerto - sapessero proporne di alternative.

All'inizio ricollegai il fatto alla "ingovernabilità" della tipologia di clientela: i coniugi che si separano non sanno essi stessi quello che vogliono e scaricano sul professionista la fisiologica indecisione, pretendendo che sia lui a vincerla per loro. In seguito, però, presi ad avvertire una certa mia "inadeguatezza"; era come se il revirement di pensiero contenesse una sopita indistinta richiesta che io non ero in grado di cogliere.

L'amicizia con la dott.ssa Anna Coppola De Vanna, mediatrice, oltreché psi-cologa e giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bari, mi sug-gerì di seguire un ciclo di seminari sulla mediazione che ella stessa aveva or-ganizzato per gli avvocati del Foro di Bari presso quella Corte di Appello e che s'intitolava: "Dlin, Dlon: avvocato, mi voglio separare". Cominciò, allora, la esplorazione di un'isola sconosciuta, incuriosita dapprima, poi sospinta da cre-scente interesse ed, alla fine, trascinata dall'entusiasmo, attraverso i seminari, i corsi di sensibilizzazione, gli stages di formazione, conseguendo all'esito il ti-tolo di mediatore, nel rispetto degli standards di formazione fissati dalla Carta Europea alla quale è subentrata il Forum Europeo. Opero attualmente all'interno della cooperativa C.R.I.S.I. di Bari che si occupa di mediazione, di formazione, di progetti sulla mediazione, anche a livello europeo, e che ha dato vita all'Ufficio di Mediazione Civile e Penale presso il Tribunale per i Mino-renni di Bari.

La convivenza con l'universo della mediazione mi ha condotto a riflettere sul significato della parola "Consenso". Etimologicamente essa deriva dal verbo latino consentire= sentire cum, ed indica l'essere d'accordo; nel suo significato letterale vuol dire "provare con altri lo stesso sentimento". Il consenso, quindi, è il portato di un processo interno e cosciente che si esteriorizza attraverso la manifestazione di un sentimento condiviso dall'altro in quanto protagonista, nel proprio intimo, dello stesso processo. Può proprio dirsi, allora, che la sepa-razione consensuale, quale oggi viene praticata, nasca da un CONSENSO delle parti? Via, dobbiamo riconoscere che, il più delle volte, la separazione consen-suale prende vita da un accordo che parte da noi avvocati o che i separandi co-struiscono con noi, dato che è l'avvocato a prospettare una ipotesi conciliativa o a tracciare il percorso da seguire per realizzare una intesa.

Difficilmente i co-niugi arrivano dal legale con un accordo "consapevole": a volte, stanchi di guerreggiare, delegano ad un terzo, l'avvocato appunto, la risoluzione del loro conflitto ed accettano una soluzione bonaria, qualunque essa sia; altre volte l'uno subisce supinamente, come è già accaduto durante il matrimonio, le deci-sioni dell'altro, il più forte, e finge di condividerle nell'optare per un ricorso congiunto; altre volte ancora si assiste ad una sorprendente intesa, che, in real-tà, cela la incapacità di entrambi di individuare una soluzione alternativa; altrettanto spesso, capita che l'avvocato, nel lodevole intento di evitare una guerra giudiziaria - lacerante per le persone coinvolte e, soprattutto, per i figli - scoraggia il cliente dal promuovere una lite prospettandogli tempi lunghi, costi ingenti e risultati aleatori: ed allora il costo economico sorpassa quello emotivo, l'ansia di porre fine ad una situazione dolorosa induce il coniuge ad accettare di concedere, di rinunciare a qualcosa purchè l'altro faccia altrettanto, senza preoccuparsi di valutarne la opportunità o la congruità, a tutela dei figli prima che nell'interesse di se stesso.
La verità è: può mai ristabilirsi un ordine (l'accordo), se non si è prima indi-viduata la causa del disordine (crisi coniugale) ?

La separazione è un momento di grave conflitto, con alta potenzialità distrut-tiva dei rapporti affettivi; è la disgregazione della famiglia, il fallimento di un progetto di vita. Le problematiche che accompagnano tale evento sono inevita-bilmente complesse e delicate perché coinvolgono "l'individuo", la sua storia, cioè i suoi bisogni, le sue emozioni, i suoi sentimenti. Orbene, l'avvocato non ha titolo per prendere in carico tutto questo, da un lato perché l'apparato giudi-ziario in cui egli agisce si occupa essenzialmente di diritti e di doveri utilizzan-do la regola del vincitore-soccumbente - regola inconciliabile con il bisogno di tutela delle "voci di dentro" - dall'altro perché il "dramma", "l'essenza emoti-va" della separazione non gli appartiene, per il che egli non è abilitato a gestire l'altrui sofferenza.

Se allora il consenso passa attraverso la elaborazione emotiva dell'evento se-parativo, l'accordo appartiene al "SENTIRE" dei coniugi; deve essere il frutto di un processo di responsabilizzazione, di un cammino nel corso del quale i se-parandi "hanno sentito insieme" che era possibile riconoscersi ancora recipro-camente nelle qualità genitoriali. Posso, allora, presumere di aver compiuta-mente evaso il mandato ricevuto allorquando, pur senza volerlo, ostacolo, in-terrompo questo percorso a due o, addirittura, ne anticipo il compimento pro-ponendo una soluzione che appartiene al "mio sentire" o, caldeggiando un ac-cordo senza preoccuparmi se esso trovi una adesione "consapevole" da parte dei soggetti direttamente interessati ? Ciò che è giusto, conveniente, equo per me, lo è anche per l'altro, tenendo presente, oltretutto, che si tratta della riorga-nizzazione della vita di lui e non della mia ?

L'interrogativo si fa più serio se si pensa, tra l'altro, che il consenso, una vol-ta prestato è non più revocabile, come da ultimo ha confermato la Cassazione al cui orientamento molti Tribunali hanno aderito, e che, se non vi è un muta-mento della situazione di fatto, l'accordo omologato non è suscettibile di modi-fica.
Consegue, dunque, che si rifletta sul ruolo dell'avvocato, su come deve e-sprimersi la sua professionalità nella gestione di controversie per il cui governo la rigidità della norma, sovente, non si concilia con l'esigenza di tutela della famiglia e dell'individuo.

Se è vero, come è vero, che il compito primario di costui non è quello di fo-mentare le liti, bensì di prevenirle al fine di promuovere la pace privata e, con questa, la pace pubblica, allora egli ha l'arduo compito di restituire ai separan-di la responsabilità del loro conflitto, accompagnandoli fino alle soglie di quel percorso comune - nel quale si sostanzia l'esperienza di mediazione - perché possano riscoprire la pregnanza del legame genitoriale e del rapporto umano, a garanzia di un futuro che assicuri rispetto reciproco e tutela della prole.

Nel contesto mediativo, accogliendo il bisogno di riconoscimento delle diffi-coltà, delle incertezze, della sofferenza, i coniugi giungono a condividere la normatività nel senso del rispetto delle regole, così realizzando una negozia-zione consapevole in un momento in cui la coniugalità viene meno, ma la geni-torialità rimane. Certo, la mediazione non è la panacea e, addirittura, in alcuni casi essa non è consigliabile. Spesso però, anche se non sortisce il consegui-mento di un accordo, determina un cambiamento nelle persone, nel loro atteg-giarsi sul problema, ed apre canali di comunicazione che, all'insorgere della crisi, sembravano non più praticabili; occasione preziosa, questa, che l'avvocato ha il dovere di cogliere, rifuggendo dalla pretesa di gestirla, ma af-fidandola al mediatore, seguendone l'evolversi ma dietro le quinte, per poi cu-rarne l'esito con il vestire giuridicamente un accordo finalmente "condiviso, consensuale", congruamente rispetto alla norma e all'interesse dei figli.

E' stato edificante, per me avvocato, aver apprezzato l'utilità della mediazio-ne e ciò in quanto:
1) è convinzione diffusa che la separazione sia un fatto legale, prima che per-sonale e sociale, donde l'espressione ricorrente: " mi voglio separare, vado dall'avvocato". Orbene, ho constatato che la mediazione ha maggiori possibili-tà di successo laddove preceda la istanza giudiziale di separazione, dato che la logica del vincitore-soccumbente determina inevitabilmente un confliggente forte ed uno debole, classificando un genitore di serie A e l'altro di serie B; e la lamentata violazione di diritti o la invocata osservanza di doveri emarginano gli stati d'animo, avviliscono i sentimenti i quali, perciò, condannati a non esse-re espressi, si incancreniscono provocando una guerra giudiziaria senza fine. Il professionista ha allora il privilegio di intervenire in via preventiva dirottando i coniugi verso uno spazio ancora neutrale e privo di potere quale quello media-tivo.

2) Con il legale si instaura un rapporto fiduciario e, di frequente, egli diventa più che un confessore; in forza di che egli può efficacemente suggerire al suo assistito la esperienza di mediazione, stornando nel contempo da sé il pericolo di alleanze o di giochi vendicativi per la cui realizzazione il cliente, non di ra-do, tenta di strumentalizzare il professionista.

3) La mediazione consente il conseguimento dell'effettivo interesse del sogget-to, che non è vincere a tutti i costi la causa con il negare alla controparte il qua-dro di valore o la villa in campagna, oppure ottenere per sè un assegno strato-sferico, bensì acquisire contezza di cosa davvero è bene per lui; il che presup-pone un recupero relazionale, umano, emozionale, essenziale per chi sta viven-do una delle vicende più penose della propria esistenza; in mancanza di che, qualsiasi risultato l'avvocato consegua sarà una vittoria senza vincitore; e scon-fitta sicuramente ne risulterà la di lui professionalità.

4) La mediazione, infine, agevola il lavoro del legale perché gli consente di in-dirizzare più efficacemente le sue energie verso il vero obiettivo del suo man-dato, risparmiandosi, tra l'altro, inseguimenti telefonici o ricorrenti sortite allo studio, per essere messo a partito di litigi, dispetti ed insulti, del coniuge e dei parenti, e così via, con la aggiuntiva pretesa di una risposta, se non di un im-mediato rimedio; "espressività", queste, che pur debbono trovare ascolto ed ac-coglienza, ma dal mediatore che ne ha compito, e possiede gli strumenti, anzi, per far evolvere emotivamente la situazione di conflitto sino a condurre i sog-getti dallo scontro al confronto-incontro, e di poi ad un comune progetto geni-toriale che l'avvocato vestirà offrendolo al magistrato.

Opportunamente e correttamente qualcuno ha detto che il mediatore "è un dif-ficile connubio tra etica ed arte, capace di suscitare un progresso nelle persone senza esercitare la benchè minima pressione su di loro"; comprendere esatta-mente siffatta affermazione facendo tacere interessi personali o di categoria, sconfiggendo diffidenze e pregiudizi, rifuggendo da iniziative fuorvianti da parte di mass media, consente in coscienza di constatare che il mediatore non è l'avvocato.

Mediatore si diventa attraverso corsi di formazione specializzati; costui ha tecniche e strategie proprie e deve tener fede ad un preciso codice deontologi-co. L'avvocato può diventarlo se decide di formarsi alla mediazione, e comun-que, non può essere mediatore in un conflitto che gestisce come legale. L'effetto sarebbe una confusione di ruoli. Quando sono nella stanza di media-zione, sono mediatore e non altro. Sono intervenuta in qualità di esperto avvo-cato-mediatore allorquando, nel corso dell'attività mediativa, condotta da altri, la mediazione familiare, così detta globale, coinvolgeva anche i rapporti patri-moniali. La presenza di un esperto del settore in tal caso è, spesso, opportuna, ma, versandosi in un contesto mediativo, dissonante sarebbe la voce di un professionista non mediatore.
La esperienza di mediazione consente all'avvocato anche di mettere a frutto una sensibilità che egli già possiede, ma che, a volte, dismette come un abito ormai fuori moda. Fa d'uopo reindossarlo: l'ascolto "attivo" della storia, la let-tura attenta delle istanze - quante separazioni "dichiarate" sono, in realtà, sepa-razioni "richiamo" e, quindi, non dovrebbero essere incoraggiate ! - la com-prensione del "non detto", l'attenzione anche al linguaggio gestuale, permette al professionista la composizione del puzzle …..o gli fa prendere consapevo-lezza che non può completarlo da solo!
In qualche occasione ho chiesto ad un mediatore più esperto di me di assistere all'incontro col cliente: la sua presenza mi ha aiutata ad individuare le chiavi di lettura utili per decidere come muovermi professionalmente.

Si fa sempre più pressante, ormai, la esigenza di specializzazione delle cate-gorie professionali. In Francia, i laureati in giurisprudenza che intendono opta-re per la carriera forense, indirizzandosi al diritto di famiglia, frequentano ob-bligatoriamente corsi di mediazione, essendosi constatato che essi costituisco-no non solo un ampliamento delle conoscenze, un miglioramento della profes-sionalità, ma forniscono strumenti assai utili ai fini di un più proficuo rapporto con la clientela.

Ho difeso una donna che, separandosi dal marito infedele, e rivendicando l'affidamento dei due figli, rinunciava, però, nonostante le pressioni dei paren-ti, al godimento della casa coniugale, di proprietà comune; la assecondai, per-ché sentii, pur non essendomi stato palesato, che ogni angolo di quella casa era per lei la testimonianza costante di ricordi spiacevoli; aveva bisogno di spazi nuovi per ricostruire la propria vita. Ebbene, un collega me ne rimproverò, os-servando che la cliente avrebbe potuto affittarla, ma che era importante sottrar-la al godimento del marito. Ecco l'attenzione al "non detto". Infatti, dopo la sottoscrizione dell'accordo, la signora mi espresse gratitudine rivelandomi: "fuori da quella casa mi sento pronta a ricominciare, ho sentito di aver fatto la cosa giusta per me e per i miei figli".

Non nego che la esperienza mediativa richieda a me maggiore impegno, con-dito di sofferenza, nel gestire una separazione o un divorzio; a volte, infatti, parlare al proprio cliente della mediazione o incoraggiarlo a sperimentarla può pregiudicare il rapporto fiduciario, rischiando di apparire non adeguatamente attrezzata ad affrontare un giudizio; sicchè occorre inventare strategie alterna-tive a quella di un approccio diretto. Quando, poi, il tentativo fallisce, forte è il senso di frustrazione, profonda la insoddisfazione. Per non dire di quando, ad opporre ostacoli ad un percorso mediativo, è il mio contraddittore, timoroso di perdere il suo ruolo ed il cliente, spaventato dall'ingresso dell'"intruso". Di-fendo un trentenne abbandonato, insieme alla figlia di tre anni, dalla moglie in-fedele. Il giudice istruttore ha modificato il provvedimento del Presidente che aveva affidato la minore al padre, trasferendolo alla madre con la semplice, o semplicistica, motivazione che la bimba è troppo piccola per stare con il padre. Il giudizio è in corso. La mamma, costantemente assente, non vede quasi mai la bambina, una zia, perciò, la accudisce. La genitrice, ora, rifiuta qualsiasi co-municazione con il coniuge, dal quale pretende rigorosa osservanza di orari e giorni di visita. Allora mi angustiano laceranti interrogativi: se il marito riu-scisse a far sentire alla moglie la sofferenza per la perdita della figlia; se egli fosse rassicurato dalla consorte sul fatto che "un papà che dura un giorno" non è poi un genitore di serie B; se la signora a sua volta sapesse esprimere il suo terrore di perdere la figlia una volta che l'ha riavuta con sé; se poi potesse esse-re accolto dal marito il suo senso di colpa……. Se tutto ciò avesse uno spazio ed un tempo per essere rappresentato, condiviso…….Entrambi sarebbero geni-tori migliori e, forse, Rossana, così si chiama la bimba, non continuerebbe a ri-petere che vuole rimanere con il papà, e tornerebbe a sorridere. Purtroppo non ho collaborazione dal collega avversario per abbattere questo muro; è amaro constatare che egli è "professionalmente", tra virgolette, soddisfatto di aver ot-tenuto per la sua cliente l'affidamento della minore: è il suo trofeo di guerra. La causa va avanti e le iniziative giudiziarie si moltiplicheranno: ci sarà mai un vincitore, mi chiedo, allora ?

Se non si acquisisce, in definitiva - questa è la mia opinione - la cultura della mediazione, continueremo a parlare di progetti di legge sulla mediazione e sull'interesse del minore; magari li vedremo realizzati con la riforma del diritto di famiglia, ma sarà come ammirare una bella casa nella quale non ci abita nessuno.
Presso l'apposito Ufficio del Tribunale per i Minorenni di Bari ho realizzato mediazioni a conclusione delle quali, effettuata una sorta di follow up, vale a dire l'esame della ricaduta che il percorso mediativo ha avuto nella vita dei soggetti e nel contesto sociale, mi sento di affermare che ne risulta un bilancio senza dubbio positivo sotto il profilo della tutela dell'individuo e della rico-struzione dei legami sociali.

L'esperienza che vivo mi ha cambiata anche come donna, come moglie, come persona, oltrechè, come professionista, aiutandomi oltretutto nel miglior go-verno delle emozioni e delle relazioni. Auspico che il mio racconto offra a voi spunti di riflessione.
Calamandrei diceva degli avvocati: "Bisogna che lavorino disperatamente, vogliano o non vogliano, fino all'ultimo respiro, per servire gli altri, per aprire la strada agli altri, e arrivino alla morte senza aver potuto fare quello che li ri-guarda personalmente e che, per tutta la vita, hanno dovuto rimandare a doma-ni". Consentitemi di concludere col richiamare il pensiero di un grande avvoca-to, Franzo Grande Stevens, il quale così ammoniva un giovane praticante: " Non scegliere questa professione se non bruci di curiosità intellettuale, se al tuo talento non unirai un grande spirito di sacrificio".

Mi congedo da voi affidandovi una confessione: di quando in quando mi ri-trovo ad interrogarmi sulla vera essenza dell'uomo e su quale sia il mio ruolo nella società.


 

 

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